Monthly Archives: giugno 2017

…ricomporre un collettivo di persone unite da idee, partigiani coraggiosi che non solo denuncino ma propongano. La lotta per qualcosa che vada oltre la propria persona ha una bellezza alla quale né i giovani né i meno giovani sono insensibili.

SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» DEMOCRAZIA
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L’età dell’indifferenza
di NADIA URBINATI, Libertà e Giustizia.
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«Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile». Libertà e Giustizia online, 11 giugno 2017 (c.m.c.)

L’età dell’indifferenza: questo il titolo che possiamo dare alle ricerche demoscopiche più recenti sullo stato della coscienza politica dei cittadini italiani. Indifferenza, soprattutto nel caso dei giovani tra i 18 e i 34 anni, per le tradizionali divisioni tra destra e sinistra. Lo conferma il Rapporto Giovani 2017 dell’Istituto Toniolo, realizzato in collaborazione con Fim Cisl. I giovani non sono indifferenti alle questioni di giustizia (e di ingiustizia) sociale – alla crescita della diseguaglianza, al declino delle eguali opportunità, al valore tradito del merito personale: insomma agli ideali che dal Settecento in poi sono stati rubricati sotto le bandiere delle varie sinistre. E dunque, in questo senso, non vi è indifferenza per quella divisione antica.

L’indifferenza (comprensibile) è verso i partiti che si sono fin qui incaricati di rappresentare quelle idee di giustizia, e che oggi sono giudicati (giustamente) come misere macchine elettorali, finalizzati a favorire coloro (i pochi) che più sono attratti dall’esercizio del potere e dai privilegi ad esso associati. Sono le élite politiche, il cosiddetto establishment, a generare la “politica politicata” e, insieme, ad affossare i valori della politica, le ragioni delle politiche di giustizia. Questo è il senso dell’analisi dell’ Istituto Toniolo e delle impressioni che ciascuno di noi si fa navigando online o praticando la quotidiana comunicazione casuale e non premeditata. Osserva Alessandro Rosina, a commento del Rapporto Giovani, come quello dei ragazzi sia «l’elettorato più difficile da intercettare » perché critico della retorica politica e, aggiungiamo, del monopolio del potere della voce che chi è dentro le istituzioni ha e difende.

L’esclusione dalla partecipazione alla formazione delle opinioni, non solo alle decisioni, ha effetti devastanti, perché dimostra come ad essere irrilevante non è solo il voto ma anche la voce dei cittadini.

Avere un blog, postare messaggi, commentare su Twitter: tutto questo partecipare è poco soddisfacente perché non produce effetti. Anche partecipare con le sole opinioni si rivela dispendioso perché senza un ritorno. Che il web serva a darci democrazia diretta è un’illusione. Senza partiti le voci del web restano inefficaci.

E i cittadini lo capiscono. Soprattutto i giovani, abituati ad avere “ritorni” immediati alle loro esternazioni sul web.

E invece la politica resta un muro di gomma, nonostante la facilità delle comunicazioni. Inarrivabile. Anzi, si potrebbe pensare che fino a quando l’arma della partecipazione erano i rapporti faccia a faccia, anche la parola aveva più forza. Oggi, che siamo tutti connessi e illusi di avere radar tentacolari e altoparlanti potenti, abbiamo l’impressione, fondata, di essere inascoltati – il rumore resta un brusio indecifrabile. È questa impotenza a generare demoralizzazione, un malanno grave nella democrazia che è per antonomasia un fenomeno di fiducia nel potere della volontà politica, individuale e associata.

Eugenio Scalfari suggerisce spesso nei suoi editoriali di rileggere Alexis de Tocqueville. In effetti, sembra di un’attualità disarmante: la società come una grande audience, interpellata ad ogni soffio di vento per assicurarsi consenso, eppure senza effetti visibili, testabili. Una grande melassa nella quale la politica – che è invece distinzione di posizioni, partigianeria e schieramento, anche a costo di essere (o sembrare) perdenti – si scioglie in chiacchiericcio poco credibile. È questa l’indifferenza di cui si parla oggi, tra i giovani soprattutto: prevedibilmente, poiché se non c’è più spazio per il bricolage dei collettivi, allora ci si scaglia contro chi sta dentro le istituzioni. I giovani (e meno giovani) scrive Rosina, «si chiudono» alle grandi idee propositive e «si avvicinano ai partiti anti-sistema come M5S e Lega, che sono quelli che urlano di più». Nella politica audience-melassa è l’urlo che fora il muro di niente. Non crea, ma si fa sentire.

L’anti-establishment, che l’indifferenza per i partiti e i loro leader hanno partorito e alimentano nel corso degli ultimi anni, è la porta spalancata a quel che con un termine poco preciso viene chiamato populismo, e che sarebbe meglio chiamare anti-partitismo, uomoqualunquismo arrabbiato. A chi vuole arrivare in fretta al potere, questi sondaggi indicano che per cavalcare l’indifferenza occorre imitare la retorica demagogica e qualunquista. A chi vuole riannodare i fili di un desiderio della politica degli ideali, questi sondaggi possono indicare una strada, forse più impervia ma che potrebbe pagare domani: ricomporre un collettivo di persone unite da idee, partigiani coraggiosi che non solo denuncino ma propongano. La lotta per qualcosa che vada oltre la propria persona ha una bellezza alla quale né i giovani né i meno giovani sono insensibili.
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Oggi lunedì 12 giugno 2017

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. MA VIENE UN TEMPO ED E’ QUESTO.
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alieddyburgSOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» SINISTRA
L’identità prima delle alleanze nell’assemblea della sinistra.
di LIVIO PEPINO, su il manifesto, ripreso da eddyburg.
Le quattro condizioni perché la proposta Falcone.Montanari sia capace di mobilitare il popolo che vinse nel referendum del 4 dicembre. il manifesto, 10 giugno 2017 (c.m.c.)
—————————————————- da DOMANI—————————————
asce-logoLe bugie sull’Africa. La Sardegna incontra il giornalista Silvestro Montanaro .
L’Asce Sardegna, associazione sarda contro l’emarginazione organizza una rassegna di quattro confronti pubblici in Sardegna con il giornalista Silvestro Montanaro dal titolo “Le bugie sull’Africa, racconti e storia su Africa, migrazioni, colonialismo e razzismo”. Gli incontri si svolgeranno a partire da domani a Cagliari, martedì 13 giugno alle ore 17.00 a Cagliari nell’Aula Baffi, ex aula magna economia in Viale Sant’Ignazio n°74. Introduce e coordina Nicola Melis, docente dell’Università di Cagliari; A Nuoro mercoledì 14 giugno alle ore 18.30 presso i locali dell’associazione IBIS Nuoro in Piazza Sebastiano Satta. Introduce e coordina l’avvocato ed esperto in diritto dell’immigrazione Stefano Mannironi; a Sassari giovedì 15 giugno alle ore 17.00 nella Facoltà di scienze della comunicazione e ingegneria dell’informazione (aula rossa) Viale Mancini N°5 e a Sinnai Venerdì 16 giugno dalle ore 17:30 nella Biblioteca di Sinnai in Piazza Municipio n. 2. Parteciperanno Ahmadou Gadiaga, presidente associazione Yakaar; Kilap Gueye, presidente associazione Sunugaal e Antonello Pabis, presidente associazione ASCE.
- segue -

Oggi domenica 11 giugno 2017

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labsusc9915f8a4131fc143e6eeecd2c3d1dc5_w250_h_mw_mh_cs_cx_cyLABSUS CULTURA RECENSIONI RICERCHE
Recensione del volume Italia civile. Associazionismo, partecipazione e politica
Maria Cristina Marchetti – 1 giugno 2017, su LabSus.
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democraziaoggiLaconi fondatore della Repubblica e della storiografia sarda
11 Giugno 2017 Su Democraziaoggi.
Continuiamo il ricordo di Renzo Laconi nel 70° dalla morte
Proponiamo perciò uno stralcio della relazione tenuta da Gianni Fresu al Convegno “Centenario di Renzo Laconi”, CID, Rettorato dell’Università di Cagliari (2/3 marzo 2016), dal titolo
“Renzo Laconi, storia ed emancipazione della Sardegna”
[…] Quella della Sardegna non poteva essere intesa come storia indistinta del […]

Trasporti: i Vescovi sardi denunciano la disastrosa situazione della Sardegna

img_3225Conferenza
Episcopale
Sarda

Problema trasporti in Sardegna
In vista del G7 sui Trasporti che si terrà a Cagliari il prossimo 21- 22 giugno, la Conferenza Episcopale Sarda intende offrire una propria riflessione su alcuni dei più vistosi e preoccupanti problemi che investono la nostra Isola in questo delicato e determinante settore, perché possano trovare risposte adeguate nell’importante summit.
La Sardegna è il territorio insulare europeo geograficamente più isolato rispetto al continente; ha un mercato interno molto ridotto (un milione e 680mila residenti) e disperso (68 abitanti per chilometro quadrato).
L’insularità determina non solo un incremento dei costi, ma crea anche discontinuità, ritardi e debolezza nelle connessioni e nei processi di diffusione spaziale dello sviluppo.
In questa debolezza strutturale il trasporto svolge un ruolo fondamentale, perché i limiti e le carenze del sistema trasporti fanno aumentare i costi di produzione, quindi il prezzo delle merci e dei servizi venduti.
In Sardegna – è stato calcolato dalla Regione – le merci viaggiano con un extra-tempo di 16 ore 6 minuti in inverno e 5 ore e 39 minuti in estate rispetto a una regione continentale. Per i passeggeri, invece, l’extra-tempo è di 17,34 ore in inverno e 6,67 in estate. Ciò vuol dire, considerando il volume di traffici, un costo aggiuntivo di 286 milioni di euro per le merci e di 374 milioni per le persone, pari a una spesa totale di 600 milioni nel solo trasporto marittimo.
Sempre sui trasporti, emerge il problema della rete ferroviaria interna su cui la Sardegna ha un indice di infrastrutturazione del 17,4 (su 100). Il dato è stato ricavato misurando il tracciato sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e rapportandolo alla superficie totale dell’Isola e al numero di abitanti. -segue-

MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO

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ranierolavalle-fbLA LEZIONE DI TORINO
C’è una decisione da prendere perché il terrorismo globale possa essere vinto e la storia possa riprendere: e tocca alle Nazioni Unite e a Stati Uniti, Russia, Cina, Inghilterra e Francia
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di Raniero La Valle*

Sabato 3 giugno la vigilia di Pentecoste sono successe diverse cose che ci parlano del presente e del futuro del mondo: la decisione di Trump di tradire gli obblighi assunti dagli Stati Uniti col trattato di Parigi sul clima, il nuovo attentato terroristico sul ponte di Londra, le bombe dei kamikaze contro un funerale eccellente nel cimitero di Kabul, la città di Marawi nelle Filippine occupata dai jihadisti islamici mentre si contano i morti della strage di Manila, a Torino, in una giornata di perfetta pace, un bambino in coma e 1527 feriti, in una folla in fuga che per la paura si è fatta male da sola. Quando poi si ascoltano le letture bibliche di Pentecoste, mentre tutte queste cose accadono insieme, sembra come se quel tempo nuovo che vi era annunciato non fosse mai cominciato.
Degli eventi di quel sabato 3 giugno la lezione più importante è quella di Torino. I cittadini e tifosi lì riuniti non avrebbero avuto nessuna ragione di fuggire, perfino se si fosse udito un petardo o qualche sconsiderato avesse gridato a una bomba. Ma avevano tutte le ragioni di aver paura per tutto ciò che era successo fino ad allora e per quello che stava succedendo a Londra, a Kabul, nelle Filippine, a Washington, in Africa e in Medio Oriente. In effetti a parte le vittime del clima, non quantificabili, quegli eventi in quelle ore hanno provocato centinaia di morti e migliaia di feriti in diverse parti del mondo.

Qualcuno sui giornali, sconsideratamente, ha scritto che ormai la gente si è abituata alle stragi, che c’è una specie di assuefazione, e non si sa se lo ha detto per rammaricarsene o per rallegrarsi del fatto che, nonostante salga il conto delle vittime, tutto, anche gli affari, continui come prima.
Invece è proprio l’assuefazione, la rassegnazione, il “non c’è niente da fare”, “la vita continua” e i concerti pure, che non sono ammissibili, occorre non rassegnarsi, non abbozzare, non fare come se niente fosse, occorre dire di no e fermare la discesa nel precipizio. E se la novità è che, a differenza di quanto avveniva con l’IRA (Irlanda), con le Brigate Rosse (Italia), con l’ETA (Paesi Baschi), con i Tupamaros (Uruguay), che avevano ciascuno le proprie ragioni, oggi il terrorismo è globale ed ha una centrale mondiale, vuol dire che va combattuto e interdetto a livello globale. E ci vorranno pure le armi, ma per mettere fine alla minaccia globale c’è un solo mezzo, ed è il solo mezzo che oggi non c’è, non c’è più, né si vuole che ci sia, e questo mezzo è la politica. E se la politica non provvede, e se il terrorismo globale non finisce, il tempo è bloccato, e la storia non può ricominciare.
C’è stato un altro momento in cui il mondo era totalmente preda della violenza e, se ciò non finiva, la storia non poteva ricominciare.
Fu nel 1945 quando la seconda guerra mondiale aveva già prodotto e stava ancora producendo immani dolori, e si decise di voltare pagina. Le Nazioni si unirono a San Francisco per organizzare un mondo “dopo la guerra”, cioè un’epoca senza più guerre, e ci furono cinque Nazioni che si assunsero il compito di vegliare e operare perché la pace fosse preservata e la storia potesse cominciare; i loro nomi erano Stati Uniti, Russia, Inghilterra, Francia e Cina. Erano di lingue, culture e religioni diverse, nessuno avrebbe potuto accusarli di essere crociati di una parte sola. Ma questo collettivo dei “5 Grandi” ha poi tradito il suo compito, si sono divisi e combattuti tra loro, e la guerra è tornata.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il terrorismo globale va combattuto ma, come si è visto, se lo combattono Stati Uniti o Francia o l’Occidente intero da soli, invece di diminuire, aumenta. Anche perché prima di combatterlo l’hanno generato e forse addirittura finanziato ed armato, in ogni caso l’hanno usato, ciascuno cercando di volgerlo a favore della propria ragion di Stato.
E così la storia di nuovo si è fermata. Quei Cinque insieme devono ora tornare ai giorni della decisione comune. C’è il capitolo VII della Carta dell’ONU che dice che cosa devono fare. Devono creare un Comitato di Stato Maggiore formato dai Capi di Stato Maggiore dei loro cinque eserciti, devono formare un corpo di polizia internazionale comandato congiuntamente da loro e, invece di bombardare e massacrare inutilmente “terroristi” e civili innocenti, con gli aerei o coi droni, mandare un corpo di spedizione integrato a liberare Raqqa e Mosul, restituire secondo il diritto i loro territori strappati alla Siria di Assad e all’Iraq di Fuad Masum, e togliere all’ISIS o Daesh di Abu Bakr al-Baghdadi l’usurpata qualifica di soggetto internazionale e la struttura politica militare e territoriale di uno Stato. Ciò vuol dire, in un mondo dove tutto si privatizza ed è sottratto al pubblico, privatizzare e escludere da una dimensione pubblica la centrale terrorista, toglierle gli strumenti pubblici della comunicazione e del potere, impedirle di convocare, accogliere e addestrare terroristi kamikaze e foreign fighters per tutto il mondo, e insomma tagliare la testa del serpente.
È una guerra? Ebbene sì, ma è la guerra già in corso, finalmente convertita in un uso legittimo di una forza internazionale, regolata e organizzata da una Costituzione mondiale da tutti sottoscritta, insospettabile di mire imperiali o coloniali, spoglia di ogni connotazione ideologica o religiosa, aliena dalla totalità distruttiva e indiscriminata che è propria della guerra destinata alla distruzione del nemico, e mirante all’unico scopo di rimuovere il macigno che oggi incombe sul mondo e permettere che la storia del mondo di nuovo cominci.
Se questo non si vuole fare, se non lo si può fare (non tutto è possibile alla politica), se si vuole che il terrorismo resti globale, c’è la lezione di Torino: la gente non dovrà più temere solo gli altri, dovrà temere se stessa. E qui c’è un inconcepibile, pauroso rimedio: trasporre dal locale al globale quelle che in certe situazioni furono misure di emergenza di poteri totalitari: stabilire un coprifuoco mondiale, vietare assembramenti di più di tre persone, finirla con stadi, partite, concerti, comizi processioni e cortei. Forse si morirebbe in meno, ma la civiltà, e la vita stessa, sarebbero finite.
Perciò occorre tornare alla politica, quella grande, esercitare l’azione internazionale, fino all’uso della forza (proibito invece ai singoli Stati) contro le minacce alla pace, le violazioni della pace e gli atti di aggressione, a norma degli artt. 39 – 42 della Carta dell’ONU, e riprendere una cooperazione globale di tutti i membri della comunità giuridica mondiale.
Questa sarebbe una politica all’altezza dei problemi di oggi. Certo, si può continuare così, che ognuno pensi solo a se stesso, che la Carta dell’ONU resti inattuata, che il terrorismo prosperi e la gente sia sempre più impaurita, che gli stranieri anneghino e che aumentino gli scartati e gli esclusi. Ma che senso avrebbe lasciare che tutto vada secondo questo verso, l’inquinamento non meno del terrorismo, la strage di migranti e di profughi non meno che l’ingiustizia globale?
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* Raniero La Valle, lunedì 5 giugno 2017 sul suo blog.
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Perché la svolta profetica di Papa Francesco metta radici
lampadadialadmicromicro13Riceviamo da Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, e volentieri diffondiamo.
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Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco

Di fronte al pontificato di Francesco c’è chi esulta ma c’è anche chi non vede l’ora che passi. Chi esulta si riconosce nella “chiesa in uscita” e nell’attenzione ai poveri e condivide non solo lo stile dell’annuncio con parresìa ma anche il coraggio della denuncia verso il sistema economico-politico che genera la miseria e le nuove forme di schiavitù. Chi storce la bocca contesta la mancanza di uno spessore teologico nell’insegnamento del Papa e un improprio superamento della dottrina secolare della chiesa. Sotto il fuoco incrociato c’è sicuramente il documento Amoris Laetitia frutto della discussione sinodale ma anche l’insistenza sul magistero sociale. Noi riteniamo che la vera rivoluzione non stia tanto nella riforma della Curia e dello IOR, pur importanti per rendere più spedito e trasparente il cammino e la presenza nella storia di una Chiesa secondo il Vangelo e il Concilio, ma soprattutto nell’immagine di Dio. Una riproposizione teologica che pone al cuore della fede il Dio della misericordia di cui i credenti sono chiamati ad essere eco e presenza nel mondo. Si tratta di una vera e propria svolta in un “cambiamento d’epoca” come quello che stiamo vivendo. Per queste ragioni la Pro Civitate Christiana, fedele alla propria storia che l’ha vista protagonista di dialogo, riflessioni e incontri, propone ad associazioni, gruppi, movimenti e singoli, credenti e non credenti, di riflettere e avanzare progetti tanto alle chiese locali, quanto alla chiesa e alla società italiane, perché la svolta in atto metta radici. Si tratta cioè di tradurre in scelte concrete e durature la proposta di cambiamento che sgorga profetica dal magistero di Francesco per non correre minimamente il rischio di voltare disinvoltamente pagina dopo questo pontificato. E allora per incarnare “la Chiesa in uscita” chiediamo di iniziare un percorso di riflessione sino ad elaborare proposte di cambiamento da avanzare innanzitutto alla chiesa italiana ma anche alle istituzioni civili sui seguenti temi:
- il modello teologico che emerge dal pontificato di Papa Francesco, ovvero quale immagine di Dio;
- la chiesa povera per i poveri;
- l’ecologia integrale;
- il dialogo ecumenico e interreligioso;
- le nuove schiavitù.
Ciascuno, a partire dalle proprie competenze ed esperienze sul tema, cercherà di elaborare riflessioni e proposte che farà confluire ad Assisi dal 24 al 28 agosto in occasione della 75ma edizione del Corso di Studi Cristiani dove anche con l’aiuto di esperti si potranno consegnare alla chiesa e alla società italiana alcune linee guida o una proposta articolata che ci aiutino a trasformare in scelte concrete, in prassi, in itinerari formativi…, la ricchezza e la profondità dell’insegnamento di Francesco. Perché dobbiamo riconoscere che in questo siamo stati alquanto carenti e che l’adesione e l’entusiasmo da soli non bastano. Con buona pace dei denigratori del Papa a suon di manifesti anonimi e di edizioni falsificate de L’Osservatore Romano, di dubbi sollevati apertamente e di mormorazioni nascoste, c’è un popolo vasto che non si rassegna al tentativo di frenare il vento del Concilio e ritiene maturo il tempo per una sua completa applicazione sotto l’egida dell’aggiornamento necessario per questo tempo inedito. Per rispondere soprattutto al grido dei poveri che poi è lo stesso del Vangelo di Cristo.
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martedì 30 maggio 2017
MA VIENE UN TEMPO ED È QUESTO
“Chiesa di tutti Chiesa dei poveri” mette a tema il cambiamento d’epoca in atto proponendo un percorso di riflessione che culminerà in un’Assemblea nazionale convocata a Roma per il prossimo 2 dicembre
di Raniero La Valle
Cari Amici,
a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, una rete di associazioni e di cristiani qualunque volle richiamare in vita quell’evento e rilanciarne la ricezione nella Chiesa, in quattro successive assemblee annuali che si tennero a Roma dal 2012 al 2015. Quella vasta iniziativa di base, in controtendenza rispetto al clima ecclesiale di allora, si chiamò “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”. Essa concluse il suo ciclo con l’Assemblea del 9 maggio 2015 che, richiamando la “Gaudium et Spes”, aveva come tema: “Gioia e speranza, misericordia e lotta”. Quel titolo già risentiva di una novità: era successo infatti che nella sede di Pietro avesse fatto irruzione papa Francesco, che proprio dal Concilio aveva preso le mosse per rimettere in cammino la Chiesa e riaprire, nel cuore di una modernità che la stava archiviando, la questione di Dio.
Proprio all’inizio del pontificato, dinanzi a una platea che non poteva essere più universale, essendo formata dai 6000 giornalisti che avevano seguito il Conclave, il papa svelò il suo programma dicendo: “Come vorrei una Chiesa povera per i poveri!”.

Sembra naturale che quanti come lui volevano e vorrebbero una Chiesa così, continuino a lavorare per questo scopo. Perciò dopo una pausa di parecchi mesi, dal 7 marzo di quest’anno abbiamo rinnovato e rilanciato il sito intitolato alla “Chiesadituttichiesadeipoveri”, l’abbiamo alimentato ogni settimana e abbiamo intrapreso l’ invio regolare di una newsletter che giunge a tutti i richiedenti come notizie@dachiesadituttichiesadeipoveri. Stabilita tale base operativa, abbiamo ora convenuto di aprire una riflessione che ci conduca fino al prossimo incontro. Il tema che intendiamo proporre è: “Ma viene un tempo ed è questo”, tema che vorremmo portare a un primo confronto pubblico il 2 dicembre prossimo a Roma in un’Assemblea promossa dai gruppi già partecipi delle precedenti iniziative e aperta a tutte le persone interessate (a cominciare dai teologi, ma anche da quei teologi che sono i semplici cristiani, fino a quanti non si ritengono o non sono né teologi né cristiani).
Naturalmente sotto questa proposta di riflessione e di Assemblea c’è un’idea, o se si vuole un’ipotesi, che appunto si tratta di valutare; un’ipotesi abbastanza importante da apparire meritevole di essere esplorata, perfino se fosse infondata.
L’idea, o l’ipotesi, è che il tempo non si è fermato, che il progresso storico non è ricacciato indietro dalla tempesta della crisi e che, nonostante tutto, viene un tempo nuovo ed è questo (sempre se gli lasciamo aperto anche un piccolo varco per il quale possa entrare).
C’è un simbolo, di grande impatto popolare, di questo nuovo tempo che viene, ed è il pontificato di papa Francesco. Non si tratta di fare paragoni incresciosi tra questo e altri pontificati; il fatto è che questo pontefice ha rimesso nel cuore della Chiesa il tema messianico. Aprendo ogni giorno il vangelo al popolo, egli ha ristabilito un continuo rimando, che si era perduto, dal Messia al Padre, ha scrostato dal volto di Dio la patina di errate dottrine onde si credeva di rendergli onore, ha annunciato un Dio non violento ed è arrivato a proporre la non violenza come stile radicale di vita agli uomini e agli ordinamenti. In tal modo egli si è ricongiunto al grande tema messianico di Isaia e di Michea delle lanci trasformate in falci, oltrepassando i confini della Chiesa istituita e mettendo la misericordia, contro i falsi messianismi, al centro della storia del mondo e della salvaguardia del creato.
Ma se questo è il simbolo e forse il volano che introduce all’epoca nuova, molti altri segni ci sono che un tempo è finito e un altro preme alle porte.
Non era mai successo che il mondo fosse materialmente unito come è adesso, quando tutte le cose dell’esistenza ormai sono globali e comuni, denaro e debito, armi e materie prime, ponti e muri, onde elettromagnetiche e blackout, inquinamento ed energia; ed anche la guerra è globale e comune, sparsa dovunque, oltremare e sulle soglie di casa.
Non era mai successo che popoli interi, famiglie con bambini e bambini non accompagnati, a migliaia e a milioni, migrassero e si muovessero da una patria all’altra, non per conquistare nuove terre ma per andare ad abitarle, e ne fossero ricacciati e affogati.
Non era mai successo che ognuno, in tempo reale, potesse avere notizia e fare esperienza di tutto.
Ciò che non è globale, ciò che non si è messo in comune è invece lo spirito di cui vive il mondo; non sono patrimonio comune la giustizia e il diritto, la condiscendenza e l’accoglienza, i saperi e gli aneliti, l’amore di Dio e l’amore del prossimo.
In questa contraddizione c’è l’alternativa tra l’epoca nuova e la catastrofe.
Nel decidersi di questa alternativa l’unica cosa che non si può dire è che la religione non c’entri. L’artificio cristiano su cui si è costruita la modernità, “facciamo come se Dio non ci fosse e il mondo lo costruiamo lo stesso”, oggi non è più possibile. Sono gli altri che non ci stanno. Si può decidere che Dio non c’è, e promuovere una società che gli sia indifferente, come è nel segreto pensiero dell’Occidente, ma non si può immaginare che sia così per tutti, che se ne spenga il fuoco sulla terra, e che perfino le religioni facciano a meno di Dio, quando invece è proprio in suo nome che anche oggi vengono perpetrati i peggiori delitti o scattano i più alti antidoti per la salvezza del mondo. In altre parole il retaggio religioso è troppo potente per non avere impatto, nel bene o nel male, sulla crisi epocale in atto. E perché questo impatto non sia per il male (come si teme dal fanatismo islamista e non solo), ma sia per la pace e per il bene, non basta che la conversione sia del cristianesimo (dove pure recalcitra), occorre che sia di tutte le religioni. Non si tratta solo di dialogo, ma di una nuova creazione. Il Dio nonviolento non è solo il Dio inedito ora annunciato dalla Chiesa, è il Dio nascosto da portare alla luce in ogni religione o fede teista; la lettura storico-critica e sapienziale delle Scritture non deve essere solo della Bibbia, ma deve esserlo del Corano e di ogni testo sacro; il discernimento tra il Dio dell’ira e della vendetta e il Dio della misericordia e del perdono deve essere non solo dei battezzati, ma dei confessanti di ogni fede, pur ciascuno restando un tassello del poliedro.
Questo sembra il tempo nuovo che la Chiesa ripartita dal Concilio e fatta scendere in strada da Francesco ha oggi il compito di annunciare e di far accadere. Sì, le cose del mondo vanno male: Ma…. Sì, i tempi sembrano brutti: Ne viene un altro. Sì, ma quando mai sarà questo tempo? È questo. Come dice Gesù alla donna samaritana, indicando il momento e la sostanza della svolta: “Ma è venuto il tempo, ed è questo, in cui i veri adoratori non lo faranno su questo monte o a Gerusalemme ma adoreranno il Padre in spirito e verità”.
Che cosa voglia dire questo, da quali Gerusalemme o santuari si debba uscire per dare avvio al tempo nuovo, e come il suo avvento possa essere il programma del terzo millennio non sappiamo. Questo è tuttavia l’oggetto della riflessione cui sono chiamati oggi i discepoli di Gesù, e questo è pure il tema dell’assemblea del 2 dicembre. Il sito chiesadituttichiesadeipoveri è al servizio di questa impresa.
Con cordiali saluti

Per “Chiesa di tutti Chiesa dei poveri”: Vittorio Bellavite, Monica Cantiani, Emma Cavallaro, Giovanni Cereti, Franco Ferrari, Valerio Gigante, Raniero La Valle, Serena Noceti, Enrico Peyretti, Stefano Toppi, Renato Sacco, Rosa Siciliano, Rosanna Virgili.

Roma 30 maggio 2017

Oggi sabato 10 giugno 2017

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sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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linkiesta logoAutomazione: tra 120 anni i robot ci avranno portato via tutti i lavori
Non solo i lavori di fatica: anche quelli creativi saranno presto nel mirino dell’intelligenza artificiale. Secondo una ricerca che coinvolge 1.600 ricercatori, manca poco che un programma riesca a scrivere un best-seller.
di LinkPop su Linkiesta.
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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» POLITICA
Quei partiti cartello vuoti di idee
di NADIA URBINATI, su Left, ripreso da eddyburg.
«Gli attori politici di questa fase storica sono mediocri e deludenti, e la causa non è l’esito del referendum del 4 dicembre». Left, 9 giugno 2017 (c.m.c.)
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democraziaoggi Nei territori la Costituzione materiale è terribile.
10 Giugno 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Partecipando alla campagna elettorale in un piccolo paese ne vedi meglio le dinamiche interne. Anzitutto avverti lo scasso prodotto dalla scomparsa dei partiti. Con essi è scomparsa la comunità. Non esistono più i luoghi del dibattito e del confronto. Le liste vengono formate in segreto e sono fondate essenzialmente sulla consistenza dei diversi clan […]

Perché non prevalga la rassegnazione

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ranierolavalle-fbLA LEZIONE DI TORINO
C’è una decisione da prendere perché il terrorismo globale possa essere vinto e la storia possa riprendere: e tocca alle Nazioni Unite e a Stati Uniti, Russia, Cina, Inghilterra e Francia
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di Raniero La Valle*

Sabato 3 giugno la vigilia di Pentecoste sono successe diverse cose che ci parlano del presente e del futuro del mondo: la decisione di Trump di tradire gli obblighi assunti dagli Stati Uniti col trattato di Parigi sul clima, il nuovo attentato terroristico sul ponte di Londra, le bombe dei kamikaze contro un funerale eccellente nel cimitero di Kabul, la città di Marawi nelle Filippine occupata dai jihadisti islamici mentre si contano i morti della strage di Manila, a Torino, in una giornata di perfetta pace, un bambino in coma e 1527 feriti, in una folla in fuga che per la paura si è fatta male da sola. Quando poi si ascoltano le letture bibliche di Pentecoste, mentre tutte queste cose accadono insieme, sembra come se quel tempo nuovo che vi era annunciato non fosse mai cominciato.
Degli eventi di quel sabato 3 giugno la lezione più importante è quella di Torino. I cittadini e tifosi lì riuniti non avrebbero avuto nessuna ragione di fuggire, perfino se si fosse udito un petardo o qualche sconsiderato avesse gridato a una bomba. Ma avevano tutte le ragioni di aver paura per tutto ciò che era successo fino ad allora e per quello che stava succedendo a Londra, a Kabul, nelle Filippine, a Washington, in Africa e in Medio Oriente. In effetti a parte le vittime del clima, non quantificabili, quegli eventi in quelle ore hanno provocato centinaia di morti e migliaia di feriti in diverse parti del mondo.

Qualcuno sui giornali, sconsideratamente, ha scritto che ormai la gente si è abituata alle stragi, che c’è una specie di assuefazione, e non si sa se lo ha detto per rammaricarsene o per rallegrarsi del fatto che, nonostante salga il conto delle vittime, tutto, anche gli affari, continui come prima.
Invece è proprio l’assuefazione, la rassegnazione, il “non c’è niente da fare”, “la vita continua” e i concerti pure, che non sono ammissibili, occorre non rassegnarsi, non abbozzare, non fare come se niente fosse, occorre dire di no e fermare la discesa nel precipizio. E se la novità è che, a differenza di quanto avveniva con l’IRA (Irlanda), con le Brigate Rosse (Italia), con l’ETA (Paesi Baschi), con i Tupamaros (Uruguay), che avevano ciascuno le proprie ragioni, oggi il terrorismo è globale ed ha una centrale mondiale, vuol dire che va combattuto e interdetto a livello globale. E ci vorranno pure le armi, ma per mettere fine alla minaccia globale c’è un solo mezzo, ed è il solo mezzo che oggi non c’è, non c’è più, né si vuole che ci sia, e questo mezzo è la politica. E se la politica non provvede, e se il terrorismo globale non finisce, il tempo è bloccato, e la storia non può ricominciare.
C’è stato un altro momento in cui il mondo era totalmente preda della violenza e, se ciò non finiva, la storia non poteva ricominciare.
Fu nel 1945 quando la seconda guerra mondiale aveva già prodotto e stava ancora producendo immani dolori, e si decise di voltare pagina. Le Nazioni si unirono a San Francisco per organizzare un mondo “dopo la guerra”, cioè un’epoca senza più guerre, e ci furono cinque Nazioni che si assunsero il compito di vegliare e operare perché la pace fosse preservata e la storia potesse cominciare; i loro nomi erano Stati Uniti, Russia, Inghilterra, Francia e Cina. Erano di lingue, culture e religioni diverse, nessuno avrebbe potuto accusarli di essere crociati di una parte sola. Ma questo collettivo dei “5 Grandi” ha poi tradito il suo compito, si sono divisi e combattuti tra loro, e la guerra è tornata.
Oggi siamo in una situazione analoga. Il terrorismo globale va combattuto ma, come si è visto, se lo combattono Stati Uniti o Francia o l’Occidente intero da soli, invece di diminuire, aumenta. Anche perché prima di combatterlo l’hanno generato e forse addirittura finanziato ed armato, in ogni caso l’hanno usato, ciascuno cercando di volgerlo a favore della propria ragion di Stato.
E così la storia di nuovo si è fermata. Quei Cinque insieme devono ora tornare ai giorni della decisione comune. C’è il capitolo VII della Carta dell’ONU che dice che cosa devono fare. Devono creare un Comitato di Stato Maggiore formato dai Capi di Stato Maggiore dei loro cinque eserciti, devono formare un corpo di polizia internazionale comandato congiuntamente da loro e, invece di bombardare e massacrare inutilmente “terroristi” e civili innocenti, con gli aerei o coi droni, mandare un corpo di spedizione integrato a liberare Raqqa e Mosul, restituire secondo il diritto i loro territori strappati alla Siria di Assad e all’Iraq di Fuad Masum, e togliere all’ISIS o Daesh di Abu Bakr al-Baghdadi l’usurpata qualifica di soggetto internazionale e la struttura politica militare e territoriale di uno Stato. Ciò vuol dire, in un mondo dove tutto si privatizza ed è sottratto al pubblico, privatizzare e escludere da una dimensione pubblica la centrale terrorista, toglierle gli strumenti pubblici della comunicazione e del potere, impedirle di convocare, accogliere e addestrare terroristi kamikaze e foreign fighters per tutto il mondo, e insomma tagliare la testa del serpente.
È una guerra? Ebbene sì, ma è la guerra già in corso, finalmente convertita in un uso legittimo di una forza internazionale, regolata e organizzata da una Costituzione mondiale da tutti sottoscritta, insospettabile di mire imperiali o coloniali, spoglia di ogni connotazione ideologica o religiosa, aliena dalla totalità distruttiva e indiscriminata che è propria della guerra destinata alla distruzione del nemico, e mirante all’unico scopo di rimuovere il macigno che oggi incombe sul mondo e permettere che la storia del mondo di nuovo cominci.
Se questo non si vuole fare, se non lo si può fare (non tutto è possibile alla politica), se si vuole che il terrorismo resti globale, c’è la lezione di Torino: la gente non dovrà più temere solo gli altri, dovrà temere se stessa. E qui c’è un inconcepibile, pauroso rimedio: trasporre dal locale al globale quelle che in certe situazioni furono misure di emergenza di poteri totalitari: stabilire un coprifuoco mondiale, vietare assembramenti di più di tre persone, finirla con stadi, partite, concerti, comizi processioni e cortei. Forse si morirebbe in meno, ma la civiltà, e la vita stessa, sarebbero finite.
Perciò occorre tornare alla politica, quella grande, esercitare l’azione internazionale, fino all’uso della forza (proibito invece ai singoli Stati) contro le minacce alla pace, le violazioni della pace e gli atti di aggressione, a norma degli artt. 39 – 42 della Carta dell’ONU, e riprendere una cooperazione globale di tutti i membri della comunità giuridica mondiale.
Questa sarebbe una politica all’altezza dei problemi di oggi. Certo, si può continuare così, che ognuno pensi solo a se stesso, che la Carta dell’ONU resti inattuata, che il terrorismo prosperi e la gente sia sempre più impaurita, che gli stranieri anneghino e che aumentino gli scartati e gli esclusi. Ma che senso avrebbe lasciare che tutto vada secondo questo verso, l’inquinamento non meno del terrorismo, la strage di migranti e di profughi non meno che l’ingiustizia globale?
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* Raniero La Valle, lunedì 5 giugno 2017 sul suo blog.
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Perché la svolta profetica di Papa Francesco metta radici
lampadadialadmicromicro13Riceviamo da Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, e volentieri diffondiamo.
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pro-civitate-christiana-logo
Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco

Di fronte al pontificato di Francesco c’è chi esulta ma c’è anche chi non vede l’ora che passi. Chi esulta si riconosce nella “chiesa in uscita” e nell’attenzione ai poveri e condivide non solo lo stile dell’annuncio con parresìa ma anche il coraggio della denuncia verso il sistema economico-politico che genera la miseria e le nuove forme di schiavitù. Chi storce la bocca contesta la mancanza di uno spessore teologico nell’insegnamento del Papa e un improprio superamento della dottrina secolare della chiesa. Sotto il fuoco incrociato c’è sicuramente il documento Amoris Laetitia frutto della discussione sinodale ma anche l’insistenza sul magistero sociale. Noi riteniamo che la vera rivoluzione non stia tanto nella riforma della Curia e dello IOR, pur importanti per rendere più spedito e trasparente il cammino e la presenza nella storia di una Chiesa secondo il Vangelo e il Concilio, ma soprattutto nell’immagine di Dio. Una riproposizione teologica che pone al cuore della fede il Dio della misericordia di cui i credenti sono chiamati ad essere eco e presenza nel mondo. Si tratta di una vera e propria svolta in un “cambiamento d’epoca” come quello che stiamo vivendo. Per queste ragioni la Pro Civitate Christiana, fedele alla propria storia che l’ha vista protagonista di dialogo, riflessioni e incontri, propone ad associazioni, gruppi, movimenti e singoli, credenti e non credenti, di riflettere e avanzare progetti tanto alle chiese locali, quanto alla chiesa e alla società italiane, perché la svolta in atto metta radici. Si tratta cioè di tradurre in scelte concrete e durature la proposta di cambiamento che sgorga profetica dal magistero di Francesco per non correre minimamente il rischio di voltare disinvoltamente pagina dopo questo pontificato. E allora per incarnare “la Chiesa in uscita” chiediamo di iniziare un percorso di riflessione sino ad elaborare proposte di cambiamento da avanzare innanzitutto alla chiesa italiana ma anche alle istituzioni civili sui seguenti temi:
- il modello teologico che emerge dal pontificato di Papa Francesco, ovvero quale immagine di Dio;
- la chiesa povera per i poveri;
- l’ecologia integrale;
- il dialogo ecumenico e interreligioso;
- le nuove schiavitù.
Ciascuno, a partire dalle proprie competenze ed esperienze sul tema, cercherà di elaborare riflessioni e proposte che farà confluire ad Assisi dal 24 al 28 agosto in occasione della 75ma edizione del Corso di Studi Cristiani dove anche con l’aiuto di esperti si potranno consegnare alla chiesa e alla società italiana alcune linee guida o una proposta articolata che ci aiutino a trasformare in scelte concrete, in prassi, in itinerari formativi…, la ricchezza e la profondità dell’insegnamento di Francesco. Perché dobbiamo riconoscere che in questo siamo stati alquanto carenti e che l’adesione e l’entusiasmo da soli non bastano. Con buona pace dei denigratori del Papa a suon di manifesti anonimi e di edizioni falsificate de L’Osservatore Romano, di dubbi sollevati apertamente e di mormorazioni nascoste, c’è un popolo vasto che non si rassegna al tentativo di frenare il vento del Concilio e ritiene maturo il tempo per una sua completa applicazione sotto l’egida dell’aggiornamento necessario per questo tempo inedito. Per rispondere soprattutto al grido dei poveri che poi è lo stesso del Vangelo di Cristo.
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Oggi venerdì 9 giugno 2017

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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democraziaoggiVillone sulla legge elettorale
Legge elettorale, il giurista Villone: “Senza voto disgiunto, verrà premiato il simbolo a danno della libertà degli elettori”
Il costituzionalista: “Rispetto al Porcellum però è un bel passo in avanti”

di Luca De Carolis, su Il fatto quotidiano, ripreso da Democraziaoggi.
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pedditzi-10-giu-17

I tavoli di Ero straniero – L’umanità che fa bene

ero-oggiOggi, venerdì 9 giugno a #Cagliari
- Magistero via Is Mirrionis 1 ore 16:00 dibattiti sulla legalizzazione delle droghe leggere
#Cagliari – scalette Magistero dalle 18:00 ad oltranza per la festa di unica 2.0
#Cagliari- piazza Costituzione 18:15 – 20:15
#Cagliari Farmacia Politica h 19:00 – 21:00 via Carloforte 64 evento ” libertà, dignità, testamento biologico ed InFine vita”
Sabato 10 giugno
#Cagliari via s. Domenico 10 (quartiere Villanova) h 19:00
Martedì 13 giugno
#Cagliari alle ore 17.00 a Cagliari nell’Aula Baffi, ex aula magna economia in Viale Sant’Ignazio n°74. conferenza con Silvestro Montanaro su Le bugie sull’Africa
Giovedì 15 giugno
#SanGavinoMonreale Giornata mondiale del rifugiato
presso Sala Civis Comune San Gavino Monreale Via Roma
#Cagliari circolo Me-Ti via Mandrolisai 60 h 18:30 – 21:00
Evento: l’interazione con i migranti
Venerdì 16 giugno
#Sinnai: evento le bugie sull’Africa h 17:30 biblioteca civica piazza municipio 2
#Serdiana: Comunità La Collina (località s’otta) ore 18:30 Giornata mondiale del rifugiato.
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eddyburgSOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015-ESODOXXI
Il muro incrinato. Migranti e regole Ue, parere-svolta
di PAOLO LAMBRUSCHI, su Avvenire, ripreso da eddyburg.
Finalmente una buona notizia dal fronte più dolorante del mondo di oggi. Ma «non ci si illuda che bastino pareri e future sentenze come grimaldello per scardinare l’ideologia neonazionalista della Fortezza Europa, trasformandola in una casa dalla cui porta entra chi ha diritto». l’Avvenire, 9 giugno

Perché la svolta profetica di Papa Francesco metta radici

lampadadialadmicromicro13Riceviamo da Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi, e volentieri diffondiamo.
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Diamo futuro alla svolta profetica di Francesco
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Di fronte al pontificato di Francesco c’è chi esulta ma c’è anche chi non vede l’ora che passi. Chi esulta si riconosce nella “chiesa in uscita” e nell’attenzione ai poveri e condivide non solo lo stile dell’annuncio con parresìa ma anche il coraggio della denuncia verso il sistema economico-politico che genera la miseria e le nuove forme di schiavitù. Chi storce la bocca contesta la mancanza di uno spessore teologico nell’insegnamento del Papa e un improprio superamento della dottrina secolare della chiesa. Sotto il fuoco incrociato c’è sicuramente il documento Amoris Laetitia frutto della discussione sinodale ma anche l’insistenza sul magistero sociale. Noi riteniamo che la vera rivoluzione non stia tanto nella riforma della Curia e dello IOR, pur importanti per rendere più spedito e trasparente il cammino e la presenza nella storia di una Chiesa secondo il Vangelo e il Concilio, ma soprattutto nell’immagine di Dio. Una riproposizione teologica che pone al cuore della fede il Dio della misericordia di cui i credenti sono chiamati ad essere eco e presenza nel mondo. Si tratta di una vera e propria svolta in un “cambiamento d’epoca” come quello che stiamo vivendo. Per queste ragioni la Pro Civitate Christiana, fedele alla propria storia che l’ha vista protagonista di dialogo, riflessioni e incontri, propone ad associazioni, gruppi, movimenti e singoli, credenti e non credenti, di riflettere e avanzare progetti tanto alle chiese locali, quanto alla chiesa e alla società italiane, perché la svolta in atto metta radici. Si tratta cioè di tradurre in scelte concrete e durature la proposta di cambiamento che sgorga profetica dal magistero di Francesco per non correre minimamente il rischio di voltare disinvoltamente pagina dopo questo pontificato. E allora per incarnare “la Chiesa in uscita” chiediamo di iniziare un percorso di riflessione sino ad elaborare proposte di cambiamento da avanzare innanzitutto alla chiesa italiana ma anche alle istituzioni civili sui seguenti temi:
- il modello teologico che emerge dal pontificato di Papa Francesco, ovvero quale immagine di Dio;
- la chiesa povera per i poveri;
- l’ecologia integrale;
- il dialogo ecumenico e interreligioso;
- le nuove schiavitù.
Ciascuno, a partire dalle proprie competenze ed esperienze sul tema, cercherà di elaborare riflessioni e proposte che farà confluire ad Assisi dal 24 al 28 agosto in occasione della 75ma edizione del Corso di Studi Cristiani dove anche con l’aiuto di esperti si potranno consegnare alla chiesa e alla società italiana alcune linee guida o una proposta articolata che ci aiutino a trasformare in scelte concrete, in prassi, in itinerari formativi…, la ricchezza e la profondità dell’insegnamento di Francesco. Perché dobbiamo riconoscere che in questo siamo stati alquanto carenti e che l’adesione e l’entusiasmo da soli non bastano. Con buona pace dei denigratori del Papa a suon di manifesti anonimi e di edizioni falsificate de L’Osservatore Romano, di dubbi sollevati apertamente e di mormorazioni nascoste, c’è un popolo vasto che non si rassegna al tentativo di frenare il vento del Concilio e ritiene maturo il tempo per una sua completa applicazione sotto l’egida dell’aggiornamento necessario per questo tempo inedito. Per rispondere soprattutto al grido dei poveri che poi è lo stesso del Vangelo di Cristo.
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Oggi giovedì 8 giugno 2017

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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SOCIETÀ E POLITICA »GIORNALI DEL GIORNO»
eddyburgUn’alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza
di ANNA FALCONE E TOMASO MONTANARI, su il manifesto, ripreso da eddyburg.
Mentre altrove si agitano gusci del passato, che sarebbe bene lasciare agli archeologi, qui ascoltiamo un appello cui non si può rimanere sordi. «È necessario uno spazio politico nuovo, ci vuole una sinistra unita e una sola, grande lista di cittadinanza aperta a tutti: partiti, movimenti, associazioni, comitati». il manifesto, 6 giugno 2017
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democraziaoggiElezioni anticipate? No grazie, meglio l’approvazione di leggi importanti
Carlo Smuraglia, Presidente ANPI.
Nell’ultimo numero del periodico online dell’ANPI, il presidente Carlo Smuraglia formula delle notazioni sull’attualità politico-istituzionale, come sempre, intrise di saggezza e buon senso. Eccole (riprese da Democraziaoggi).
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prossimita-624x256labsusAl via a Bologna la seconda edizione della Biennale della Prossimità. Presente anche Labsus
Federica Gogosi – 7 giugno 2017, su LabSus.
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. lavoroxlavoro
di John Maynard Keynes
Economic Possibilities for our Grandchildren.
Prospettive economiche per i nostri nipoti
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gruppo-inter-giurid-caTreni, tubi e assessori.
Gruppo d’Intervento Giuridico
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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» DEMOCRAZIA
La crisi dei partiti e il colpo dei leader soli al comando
di ALBERTO ASOR ROSA , su il manifesto, ripreso da eddyburg.
«La posta in gioco. Distrutti i partiti, i leader Berlusconi, Grillo, Salvini e Renzi marciano uniti, interpreti del nuovo regime siglato dalla legge elettorale. A sinistra ci vorrebbe una Costituente». il manifesto, 8 giugno 2017, con postilla

Domani

Sul Fronte del Mare
venerdì 9 giugno 2017, ore 18:00
Cineteca Sarda Società Umanitaria
Viale Trieste 118 – Cagliari
Ingresso libero e gratuito
Evento Facebook ‘Sul Fronte del Mare’
fronte-mare

Prospettive economiche per i nostri nipoti

lavoroxlavoro
di John Maynard Keynes
Economic Possibilities for our Grandchildren.
Prospettive economiche per i nostri nipoti
Conferenza tenuta da Keynes a Madrid nel giugno del 1930. Ora nel nono volume dei suoi Collected Writings intitolato Essays in Persuasion, tradotta in Italia da Bollati Boringhieri (La fine del laissez faire ed altri scritti, Torino 1991).
I
In questo momento siamo affetti da un grave attacco di pessimismo economico. È cosa comune sentir dire dalla gente che è ormai conclusa l’epoca dell’enorme progresso economico che ha caratterizzato il secolo XIX; che adesso il rapido miglioramento del tenore di vita dovrà rallentare, per lo meno in Gran Bretagna; che nel prossimo decennio è più probabile un declino anziché un fiorire della prosperità.
Ritengo che questa sia un’interpretazione estremamente errata di quanto sta accadendo. Quello di cui soffriamo non sono acciacchi della vecchiaia, ma disturbi di una crescita fatta di mutamenti troppo rapidi, e dolori di riassestamento da un periodo economico a un altro. L’efficienza tecnica è andata intensificandosi con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a risolvere il problema dell’assorbimento della manodopera; il miglioramento del livello di vita è stato un po’ troppo rapido; il sistema bancario e monetario del mondo ha impedito che il tasso d’interesse cadesse con la velocità necessaria al riequilibrio.
Ciò nonostante lo spreco e la confusione che ne conseguono investono non più del 7,5 per cento del reddito nazionale; buttiamo via uno scellino e 6 pence per ogni sterlina, e rimaniamo con 18 scellini e 6 pence dove, se fossimo più intelligenti, potremmo avere una sterlina intera; con tutto ciò i 18 scellini e 6 pence valgono quanto valeva una sterlina cinque o sei anni fa. Noi dimentichiamo che nel 1929 il volume della produzione dell’industria britannica era superiore a quello di qualsiasi momento precedente e che lo scorso anno l’attivo netto della bilancia dei pagamenti, disponibile per nuovi investimenti all’estero, dopo aver pagato tutte le importazioni, era superiore a quello di tutti gli altri paesi, superando perfino del 50 per cento l’attivo corrispettivo degli Stati Uniti.
Ovvero, se si vuole farne una questione di raffronti, supponiamo di dover ridurre a metà i nostri salari, denunciare quattro quinti del debito nazionale, e accumulare l’eccedenza in oro puro anziché darla a prestito al 6 o più per cento: ci troveremmo in posizione simile alla tanto invidiata Francia. Ma migliorerebbe qualche cosa?
La depressione che domina nel mondo, l’atroce anomalia della disoccupazione in un mondo pieno di bisogni, i disastrosi errori che abbiamo commesso ci rendono ciechi di fronte a quanto sta accadendo sotto il pelo dell’acqua, cioè di fronte al significato delle tendenze autentiche del processo. Voglio affermare, infatti, che entrambi i contrapposti errori di pessimismo, che sollevano oggi tanto rumore nel mondo, si dimostreranno errati nel corso della nostra stessa generazione: il pessimismo dei rivoluzionari, i quali pensano che le cose vadano tanto male che nulla possa salvarci se non il rovesciamento violento; e il pessimismo dei reazionari i quali ritengono che l’equilibrio della nostra vita economica e sociale sia troppo precario per permetterci di rischiare nuovi esperimenti.
In questo saggio, tuttavia, mio scopo non è di esaminare il presente o il futuro immediato, ma di sbarazzarmi delle prospettive a breve termine e di librarmi nel futuro.
Quale livello di vita economica possiamo ragionevolmente attenderci fra un centinaio d’anni?
Quali sono le prospettive economiche per i nostri nipoti?
Dai tempi più remoti di cui abbiamo conoscenza (diciamo duemila anni prima di Cristo) fino all’inizio del secolo XVIII, il livello di vita dell’uomo medio, che vivesse nei centri civili del mondo, non ha subito grandi mutamenti. Alti e bassi sicuramente. Comparse di epidemie, carestie e guerre. Intervalli aurei. Ma nessun balzo in avanti, nessun cambiamento violento. Nei quattromila anni, conclusisi all’incirca nell’anno di grazia 1700, alcuni periodi hanno fatto registrare un miglioramento del 50 per cento (nel migliore del casi del 100 per cento) rispetto ad altri.
Questo lento tasso di progresso, ovvero questa mancanza di progresso, era dovuto a due motivi: l’assenza vistosa di miglioramenti tecnici di rilievo, e la mancata accumulazione di capitale.
L’assenza di grandi invenzioni tecniche fra l’era preistorica e i tempi relativamente moderni è davvero degna di nota. Quasi tutto ciò che, di sostanziale importanza, il mondo
possedeva all’inizio dell’età moderna, era già noto all’uomo agli albori della storia. Il linguaggio, il fuoco, gli stessi animali domestici che abbiamo oggi, il grano, l’orzo, la vite e l’olivo, l’aratro. la ruota, il remo, la vela, le pelli, la tela e il panno, i mattoni e le terrecotte, l’oro e l’argento, il rame, lo stagno e il piombo (e il ferro vi si aggiunse prima del 1000 a C.), il sistema bancario, l’arte del governo, la matematica, l’astronomia e la religione: non sappiamo quando l’uomo abbia avuto per la prima volta in mano queste cose.
In una certa epoca, anteriore all’inizio della storia, forse durante uno di quei favorevoli intervalli che hanno preceduto l’ultima epoca glaciale, deve essere esistita un’era di progresso e di invenzioni paragonabile a quella in cui viviamo oggi. Ma per la maggior parte della storia vera e propria non si è avuto nulla del genere. L’età moderna si è aperta, ritengo, con l’accumulazione di capitale iniziata nel secolo XVI. Io credo che ciò, per ragioni con cui non devo gravare questa trattazione, sia stato dovuto inizialmente all’aumento del prezzi (e ai profitti conseguenti) determinato dal tesori d’oro e d’argento che la Spagna portò dal Nuovo Mondo in quello Vecchio. Da allora a oggi il processo di accumulazione secondo l’interesse composto, che sembrava in letargo da tante generazioni, ebbe nuova vita e assunse nuove forze. E la portata di un interesse composto per un periodo di più di due secoli è tale da far vacillare la fantasia.
Permettetemi di citare un esempio, da me elaborato, a illustrazione dell’entità di questa capitalizzazione. Il valore degli investimenti all’estero della Gran Bretagna è stimato, oggi, circa 4 miliardi di sterline, e fornisce un reddito annuo al tasso di circa 116,5 per cento. Questo reddito per metà lo facciamo rimpatriare e lo godiamo; l’altra metà, vale a dire il 3,25 per cento, lasciamo che si accumuli all’estero con l’interesse composto. Qualche cosa del genere è accaduto ininterrottamente per circa 250 anni.
Io, infatti, riconduco l’inizio degli investimenti inglesi all’estero al tesoro che Drake sottrasse alla Spagna nel 1580, anno appunto in cui rientrò in Inghilterra portando con sé le spoglie meravigliose del Golden Hind. La regina Elisabetta era una forte azionista del gruppo che aveva finanziato la spedizione. Con la sua quota del tesoro la regina pagò tutto il debito estero del paese, riportò in pari il bilancio e si ritrovò in mano ancora 40mila sterline. Questa fu appunto la somma che investì nella Levant Company, la quale prosperò. Con i profitti della Levant Company fu fondata la East India Company, e i profitti di questa grande impresa costituiscono la base dei successivi investimenti all’estero della Gran Bretagna. Ora, si dà il caso che la capitalizzazione di 40mila sterline al tasso di interesse composto del 3,25 per cento corrisponda approssimativamente al volume reale degli investimenti all’estero della Gran Bretagna in date diverse, e ammonterebbe effettivamente alla somma complessiva di 4 miliardi di sterline che ho già citata come volume attuale dei nostri investimenti all’estero. Pertanto, ciascuna delle sterline che Drake portò in patria nel 1580 si è trasformata in 100mila sterline. Tanta è la potenza dell’interesse composto!
Dal secolo XVI è incominciata, proseguendo con crescendo ininterrotto nel XVIII secolo, la grande era delle invenzioni scientifiche e tecniche che, dall’inizio del secolo XIX, ha avuto sviluppi incredibili: carbone, vapore, elettricità, petrolio, acciaio, gomma, cotone, industrie chimiche, macchine automatiche e sistemi di produzione di massa, telegrafo, stampa, Newton, Darwin, Einstein e migliaia di altre cose e uomini troppo famosi e troppo noti per essere ricordati.
Quale il risultato? Nonostante l’enorme sviluppo della popolazione del mondo, che è stato necessario dotare di case e di macchine, il tenore medio di vita in Europa e negli Stati Uniti è aumentato, devo ritenere di quattro volte. Lo sviluppo del capitale è avvenuto su una scala di gran lunga superiore a cento volte quella conosciuta da qualsiasi altra epoca. E d’ora in avanti non dobbiamo attenderci un incremento demografico tanto forte.
Se il capitale aumenta, diciamo, del 2 per cento l’anno, in vent’anni l’attrezzatura produttiva del mondo sarà aumentata del 50 per cento e in cent’anni di sette volte e mezzo. Pensate a questo in termini di beni capitali: case, trasporti e simili.
Al tempo stesso i miglioramenti tecnici nei settori manifatturiero e dei trasporti sono proceduti negli ultimi dieci anni con tassi molto superiori a quelli registrati precedentemente dalla Storia.
Negli Stati Uniti la produzione pro capite dell’industria, nel 1925, superava del 40 per cento quella del 1919. In Europa ostacoli contingenti ci hanno intralciato il cammino; pur tuttavia è lecito dire che il rendimento tecnico sta aumentando con ritmo superiore al tasso composto dell’1 per cento l’anno.
Vi sono buoni elementi per ritenere che le rivoluzionarie trasformazioni tecniche, che finora hanno interessato soprattutto l’industria, si applicheranno presto all’agricoltura. Può ben darsi che ci troviamo alla vigilia di un’evoluzione del rendimento della produzione agricola di portata analoga a quella verificatasi nell’estrazione mineraria, nell’industria manifatturiera, nel trasporti. Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le operazioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi.
Per il momento, la rapidità stessa di questa evoluzione ci mette a disagio e ci propone problemi di difficile soluzione. I paesi che non sono all’avanguardia del progresso ne risentono in misura relativa. Noi, invece, siamo colpiti da una nuova malattia di cui alcuni lettori possono non conoscere ancora il nome, ma di cui sentiranno molto parlare nei
prossimi anni: vale a dire la disoccupazione tecnologica. Il che significa che la disoccupazione dovuta alla scoperta di strumenti economizzatori di manodopera procede con ritmo più rapido di quello con cui riusciamo a trovare nuovi impieghi per la stessa manodopera.
Ma questa è solo una fase di squilibrio transitoria. Visto in prospettiva, infatti, ciò significa che l’umanità sta procedendo alla soluzione del suo problema economico. Mi sentirei di affermare che di qui a cent’anni il livello di vita dei paesi in progresso sarà da quattro a otto volte superiore a quello odierno. Né vi sarebbe nulla di sorprendente, alla luce delle nostre conoscenze attuali. Non sarebbe fuori luogo prendere in considerazione la possibilità di progressi anche superiori.
II
Ammettiamo, a titolo di ipotesi, che di qui a cent’anni la situazione economica di tutti noi sia in media di otto volte superiore a quella odierna. Cosa di cui, in verità, non dovremmo affatto stupirci.
È ben vero che i bisogni degli esseri umani possono apparire inesauribili. Essi, tuttavia, rientrano in due categorie: i bisogni assoluti, nel senso che li sentiamo quali che siano le condizioni degli esseri umani nostri simili, e quelli relativi, nel senso che esistono solo in quanto la soddisfazione di essi ci eleva, ci fa sentire superiori ai nostri simili. I bisogni della seconda categoria, quelli che soddisfano il desiderio di superiorità, possono davvero essere inesauribili poiché quanto più alto è il livello generale, tanto maggiori diventano. Il che non è altrettanto vero dei bisogni assoluti: qui potremmo raggiungere presto, forse molto più presto di quanto crediamo, il momento in cui questi bisogni risultano soddisfatti nel senso che preferiamo dedicare le restanti energie a scopi non economici.
Veniamo ora alla mia conclusione che credo riterrete sconcertante, anzi quanto più ci ripenserete, tanto più la troverete sconcertante.
Giungo alla conclusione che, scartando l’eventualità di guerra e di incrementi demografici eccezionali, il problema economico può essere risolto, o per lo meno giungere in vista di soluzione, nel giro di un secolo. Ciò significa che il problema economico non è se guardiamo al futuro, il problema permanente della razza umana.
Perché mai, potrete chiedere, è cosa tanto sconcertante? È sconcertante perché, se invece di guardare al futuro ci rivolgiamo al passato, vediamo che il problema economico, la lotta per la sussistenza, è sempre stato, fino a questo momento il problema principale, il più
pressante per la razza umana: anzi, non solo per la razza umana, ma per tutto il regno biologico dalle origini della vita nelle sue forme primitive. Pertanto la nostra evoluzione naturale, con tutti i nostri impulsi e i nostri istinti più profondi, è avvenuta al fine di risolvere il problema economico. Ove questo fosse risolto, l’umanità rimarrebbe priva del suo scopo tradizionale.
Sarà un bene? Se crediamo almeno un poco nei valori della vita, si apre per lo meno una possibilità che diventi un bene. Eppure io penso con terrore al ridimensionamento di abitudini e istinti nell’uomo comune, abitudini e istinti concresciuti in lui per innumerevoli generazioni e che gli sarà chiesto di scartare nel giro di pochi decenni.
Per adoperare il linguaggio moderno, non dobbiamo forse attenderci un “collasso nervoso” generale? Abbiamo già avuto una piccola esperienza di quello che intendo, cioè un collasso nervoso simile al fenomeno già piuttosto comune in Gran Bretagna e negli Stati Uniti fra le donne sposate delle classi agiate, sventurate donne in gran parte, che la ricchezza ha privato dei compiti e delle occupazioni tradizionali: donne che non riescono a trovare sufficiente interesse nel cucinare, pulire, rammendare quando vi manchi la spinta della necessità economica: e che tuttavia sono assolutamente incapaci di inventare qualche cosa di più divertente.
Per chi suda il pane quotidiano il tempo libero è un piacere agognato: fino momento in cui l’ottiene.
Ricordiamo l’epitaffio che scrisse per la sua tomba quella vecchia donna di servizio:
Non portate il lutto, amici, non piangere per me che farò finalmente niente, niente per l’eternità.
Questo era il suo paradiso. Come altri che aspirano al tempo libero, la donna di servizio immaginava solo quanto sarebbe stato bello passare il tempo a far da spettatore.
C’erano, infatti, altri due versi nell’epitaffio:
Il paradiso risuonerà di salmi e di dolci musiche ma io non farò la fatica di cantare.
Eppure la vita sarà tollerabile solo per quelli che partecipano al canto: e quanto pochi di noi sanno cantare!
Pertanto, per la prima volta dalla sua creazione, l’uomo si troverà di fronte al suo vero, costante problema: come impiegare la sua libertà dalle cure economiche più pressanti,
come impiegare il tempo libero che la scienza e l’interesse composto gli avranno guadagnato, per vivere bene, piacevolmente e con saggezza.
Gli indefessi, decisi creatori di ricchezza potranno portarvi tutti, al loro seguito, in seno all’abbondanza economica. Ma saranno solo coloro che sanno tenere viva, e portare a perfezione l’arte stessa della vita, e che non si vendono in cambio dei mezzi di vita, a poter godere dell’abbondanza, quando verrà.
Eppure non esiste paese o popolo, a mio avviso che possa guardare senza terrore all’era del tempo libero e dell’abbondanza. Per troppo tempo, infatti, siamo stati allenati a faticare anziché godere. Per l’uomo comune, privo di particolari talenti, il problema di darsi un’occupazione è pauroso, specie se non ha più radici nella terra e nel costume o nelle convenzioni predilette di una società tradizionale.
A giudicare dalla condotta e dal risultati delle classi ricche di oggi, in qualsiasi regione del mondo, la prospettiva è davvero deprimente. Queste classi, infatti, sono per così dire la nostra avanguardia, coloro che esplorano per noi la terra promessa e che vi piantano le tende. E per la maggior parte costoro, che hanno un reddito indipendente ma nessun obbligo o legame o associazione, hanno subito una sconfitta disastrosa, così mi sembra, nel tentativo di risolvere il problema che era in gioco.
Sono certo che, con un po’ più di esperienza, noi ci serviremo del nuovo generoso dono della natura in modo completamente diverso da quello dei ricchi di oggi e tracceremo per noi un piano di vita completamente diverso che non ha nulla a che fare con il loro.
Per ancora molte generazioni l’istinto del vecchio Adamo rimarrà così forte in noi che avremo bisogno di un qualche lavoro per essere soddisfatti. Faremo, per servire noi stessi, più cose di quante ne facciano di solito i ricchi d’oggi, e saremo fin troppo felici di avere limitati doveri, compiti, routines. Ma oltre a ciò dovremo adoperarci a far parti accurate di questo “pane” affinché il poco lavoro che ancora rimane sia distribuito fra quanta più gente possibile.
Turni di tre ore e settimana lavorativa di quindici ore possono tenere a bada il problema per un buon periodo di tempo. Tre ore di lavoro al giorno, infatti, sono più che sufficienti per soddisfare il vecchio Adamo che è in ciascuno di noi.
Dovremo attenderci cambiamenti anche in altri campi. Quando l’accumulazione di ricchezza non rivestirà più un significato sociale importante, interverranno profondi mutamenti nel codice morale. Dovremo saperci liberare di molti dei principi pseudomorali che ci hanno superstiziosamente angosciati per due secoli, e per i quali abbiamo esaltato
come massime virtù le qualità umane più spiacevoli. Dovremo avere il coraggio di assegnare alla motivazione “denaro” il suo vero valore. L’amore per il denaro come possesso, e distinto dall’amore per il denaro come mezzo per godere i piaceri della vita sarà riconosciuto per quello che è: una passione morbosa, un po’ ripugnante, una di quelle propensioni a metà criminali e a metà patologiche che di solito si consegnano con un brivido allo specialista di malattie mentali.
Saremo, infine, liberi di lasciar cadere tutte quelle abitudini sociali e quelle pratiche economiche relative alla distribuzione della ricchezza e alle ricompense e penalità economiche, che adesso conserviamo a tutti i costi, per quanto di per se sgradevoli e ingiuste, per la loro incredibile utilità a sollecitare l’accumulazione del capitale.
Naturalmente continueranno ad esistere molte persone dotate di attivismo e di senso dell’impegno intensi e insoddisfatti, che perseguiranno ciecamente la ricchezza a meno che non riescano a trovarvi un sostituto plausibile. Ma non saremo più tenuti all’obbligo di lodarle e di incoraggiarle perché sapremo penetrare, più a fondo di quanto sia lecito oggi, il significato vero di questo “impegno” di cui la natura ha dotato in varia misura quasi tutti noi. “Impegno” infatti, significa preoccuparsi dei risultati futuri delle proprie azioni più che della loro qualità o del loro effetto immediato nel nostro ambiente. L’uomo “impegnato” tenta sempre di assicurare alle sue azioni un’immortalità spuria e illusoria, proiettando nel futuro l’interesse che vi ripone. Non ama il suo gatto, ma ne ama i gattini, o per la verità neppure i gattini, ma i figli di quei gattini e tutta la loro generazione fino a che esisterà la stirpe dei gatti. Per costui la marmellata non è marmellata a meno che non si tratti della marmellata di domani, mai della marmellata di oggi. E così proiettando nel futuro la sua marmellata tenta di assicurate l’immortalità al lavoro con cui la prepara.
Permettetemi di ricordare qui il professore di Sylvie and Bruno:
“È solo il sarto, sir, con il suo conticino” disse una voce querula fuori dell’uscio.
“Oh, bene” disse il professore ai bambini. “Risolverò subito questa sua faccenda, se vorrete aspettare un momento. Quant’è quest’anno buonuomo?” Mentre parlava il sarto era entrato.
“Vedete, è stato raddoppiato per tanti anni” replicò il sarto un po’ brusco “che adesso penso proprio di volere i quattrini. Sono duemila sterline, sono!”
“Roba da nulla”, osservò noncurante il professore frugandosi nelle tasche come se si portasse sempre dietro quella cifra come minimo. “Ma non preferireste aspettare ancora un anno e farle diventare quattromila sterline? Pensate solo a quanto diventereste ricco! Pensate, potreste diventare un re, se lo voleste!”
“Non so se mi interessi diventare un re” commentò pensieroso l’uomo. “Ma sembra davvero un mucchio di quattrini… Beh, credo che aspetterò….”
“Certo che aspetterete” incalzò il professore. “Vedo che avete cervello. Buongiorno, buonuomo!”

Non appena la porta si richiuse alle spalle del creditore Sylvie chiese: “Gliele pagherete mai quelle quattromila sterline?”
“Mai ragazza mia” replicò enfatico il professore. “Preferirà raddoppiare fino al giorno della morte. Vedete, vale sempre la pena di aspettare ancora un anno per avere il doppio!”
Forse non è un caso che la razza che più ha fatto per radicare la promessa di immortalità nel cuore e nella natura delle nostre religioni, è anche quella che più di ogni altra ha fatto per il principio dell’interesse composto e che predilige in particolare questa che è la più impegnata delle istituzioni umane.
Vedo quindi gli uomini liberi tornare ad alcuni del principi più solidi e autentici della religione e della virtù tradizionali: che l’avarizia è un vizio, l’esazione dell’usura una colpa, l’amore per il denaro spregevole, e che chi meno s’affanna per il domani cammina veramente sul sentiero della virtù e della profonda saggezza. Rivaluteremo di nuovo i fini sui mezzi e preferiremo il bene all’utile. Renderemo onore a chi saprà insegnarci a cogliere l’ora e il giorno con virtù, alla gente meravigliosa capace di trarre un piacere diretto dalle cose, i gigli del campo che non seminano e non filano.
Ma attenzione! Il momento non è ancora giunto. Per almeno altri cent’anni dovremo fingere con noi stessi e con tutti gli altri che il giusto è sbagliato e che lo sbagliato è giusto, perché quel che è sbagliato è utile e quel che è giusto no. Avarizia, usura, prudenza devono essere il nostro dio ancora per un poco, perché solo questi principi possono trarci dal cunicolo del bisogno economico alla luce del giorno.
Attendo, quindi, in giorni non troppo lontani, la più grande trasformazione che mai sì sia verificata nell’ambiente fisico in cui si muove la vita degli esseri umani come aggregato. Ma, naturalmente, tutto avverrà per gradi, non come una catastrofe. Tutto, anzi, è già incominciato. Le cose andranno semplicemente così: sempre più vaste diventeranno le categorie e i gruppi di persone che in pratica non conoscono i problemi della necessità economica. Ci si renderà conto della differenza critica quando questa condizione si sarà a tal punto generalizzata da mutare la natura del dovere dell’uomo verso il suo simile: infatti l’impegno del fare verso gli altri continuerà ad avere una ragione anche quando avrà cessato di averla il fare a nostro vantaggio.
Il ritmo con cui possiamo raggiungere la nostra destinazione di beatitudine economica, dipenderà da quattro fattori: la nostra capacità di controllo demografico, la nostra determinazione nell’evitare guerre e conflitti civili, la nostra volontà di affidare alla scienza la direzione delle questioni che sono di sua stretta pertinenza, e il tasso di accumulazione in quanto determinato dal margine fra produzione e consumo. Una volta conseguiti i primi tre punti il quarto verrà da sé.
In questo frattempo non sarà male por mano a qualche modesto preparativo per quello che è il nostro destino, incoraggiando e sperimentando le arti della vita non meno delle attività che definiamo oggi “impegnate”.
Ma, soprattutto, guardiamoci dal sopravvalutare l’importanza del problema economico o di sacrificare alle sue attuali necessità altre questioni di maggiore e più duratura importanza. Dovrebbe essere un problema da specialisti, come la cura dei denti. Se gli economisti riuscissero a farsi considerare gente umile, di competenza specifica, sui piano del dentisti, sarebbe meraviglioso.
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Oggi mercoledì 7 giugno 2017

sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413filippo-figari-sardegna-industre-2
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democraziaoggiLegge alla tedesca: quali criticità nel bel Paese?
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Il sistema proporzionale, da che mondo e mondo, pone un problema di governabilità, anche se i premi di maggioranza, sperimentati in questi anni in Italia, non l’hanno accresciuta. Basta l’esempio sardo: iperpremio alla lista Pigliaru, ma governabilità quasi nulla. Elettrocefalogramma piatto o quasi, pur in presenza di una giunta di prof. […]
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lavoroxlavorolampada aladin micromicroGli editoriali di Aladinews. IL LAVORO CHE VOGLIAMO: LIBERO, CREATIVO, PARTECIPATIVO E SOLIDALE

Immigrazione. Si prepara il Rapporto IDOS 2017

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Avviata la redazione del Dossier Statistico Immigrazione: 27a edizione e 265mila copie distribuite
(Comunicato stampa, 6 giugno 2017) Con l’incontro di ieri a Roma tra i redattori regionali del Centro Studi e Ricerche IDOS è stata avviata la redazione del nuovo Dossier Statistico Immigrazione, che come di consueto verrà presentato in autunno. L’incontro è avvenuto presso la sede del Centro Studi Confronti che collaborerà alla cura redazionale del rapporto. Alla Tavola Valdese – Unione delle Chiese Valdesi e Metodiste, per il terzo anno consecutivo è stato chiesto di sostenere questa impegnativa iniziativa.
IDOS (acronimo di “Immigrazione Dossier Statistico”) ha calcolato che, a partire dalla prima edizione del 1991 (3.000 copie) fino a quella attuale (10.000), il numero totale dei volumi destinati alla distribuzione arriva a 265.000: un livello che dà un’idea dell’ampiezza della campagna di sensibilizzazione attuata nel corso degli anni.
Le copie del “Dossier”, infatti, vengono utilizzate per promuovere un dibattito informato sul fenomeno migratorio. Vengono organizzate annualmente oltre 100 presentazioni, ricorrendo alla collaborazione degli enti locali, del terzo settore, dei sindacati delle organizzazioni professionali e delle associazioni degli immigrati, chiamati a intervenire direttamente, quest’anno anche con il supporto del progetto “Voci di confine”, promosso dall’Agenzia per la Cooperazione allo Sviluppo e portato avanti da strutture direttamente impegnate con gli immigrati.
Un fattore che da diversi anni perfeziona questa strategia di comunicazione è la presentazione del “Dossier” in contemporanea a Roma e in tutti i capoluoghi regionali: una sfida vinta grazie alla collaborazione della rete IDOS (a sua volta affiancata da una rete provinciale).
Questa strategia prevede la distribuzione gratuita del rapporto a ciascun partecipante alle presentazioni che vengono organizzate. Alla base di questa impostazione sta la convinzione che la diffusione di un sussidio sull’immigrazione, periodicamente aggiornato con dati puntuali e attendibili, rappresenti un servizio da assicurare in tutte le province italiane.
Il rapporto si caratterizza anche nella completezza dei dati presentati. Non è agevole raccogliere in maniera organica statistiche che provengono da differenti fonti e riuscire a presentarne il significato con chiarezza e brevità. A questa esigenza si riesce a rispondere con l’apporto di oltre 100 autori dei capitoli provenienti dai più diversi ambiti: pubblica amministrazione, università, centri studio, sindacati, associazionismo e mondo dell’immigrazione. Questa coralità di contributi dà corpo alle 480 pagine del volume e assicura un equilibrio di giudizio ispirato all’oggettività e attento anche ai diversi contesti regionali. - segue -