Monthly Archives: maggio 2017
Oggi giovedì 4 maggio 2017
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Germania tra nazionalismo, xenofobia e neoliberismo.
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA » OSTILLE»
L’Unesco comprende le ragioni dei palestinesi e della storia. Gli italiani no.Su eddyburg.
Gli italiani, e gli altri amici dell’oppressore dei palestinesi (e della verità storica9 non hanno prevalso. Ma i giornali italiani tifano per Renzi, oppure non leggono i documenti. la Repubblica, il Fatto quotidiano, 2 e 3 maggio 2017, con postilla
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A Lucca il Festival Italiano del Volontariato, per un’Italia Solidale.
Redazione Labsus – 4 maggio 2017, su LabSus.
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E’ nata l’associazione Amici della Cittadella Memoria e Profezia.
Tutte le informazioni su Aladinwe agorà – Amici sardi della Cittadella di Assisi.
La casa come “bene pubblico”
SOCIETÀ E POLITICA » MAESTRI » su eddyburg
Grazie, Valentino
La scomparsa di Valentino Parlato ci induce a riprendere dall’archivio di eddyburg un suo saggio, che consideriamo di decisiva importanza, ancora oggi, per chiunque voglia comprendere le ragioni sociale della drammatica condizione dell’abitare in Italia, l’utilità del metodo marxiano nell’analisi sociale, e quindi nella comprensione del mondo in cui viviamo. In calce il testo del suo saggio scaricabile in .pdf
Valentino Parlato
IL BLOCCO EDILIZIO
(il manifesto, 1970)
Questo saggio, dimenticato e, fino al gennaio 2006, assente dalla rete, è apparso originariamente sulla rivista Il Manifesto, l n. 3-4 del 1970; è stato ripubblicato nel volume collettaneo Lo spreco edilizio, a cura di F. Indovina, Marsilio, Venezia 1972.
E’ di grande interesse per almeno due ragioni.
1. Perché è un esempio, mai più raggiunto, di compiuta analisi economico-sociale di una realtà sociale (il “blocco edilizio”) che ha ostacolato, e continua a ostacolare, i tentativi di governare efficacemente l’ambiente della vita dell’uomo e della società. Purtroppo il metodo dell’analisi marxista non è stato negli anni successivi né superato, né applicato al campo indagato dall’Autore.
2.Perché le realtà economica e sociale che il saggio descrive sopravvive in larga misura alle trasformazioni intervenute negli ultimi decenni nell’economia, nella società, nella politica e nella cultura. Per incidens mi limito a ricordare la finanziarizzazione dell’economia e il rafforzato intreccio tra rendite finanziarie e rendite immobiliare a scapito del salario e del profitti; la crescente prevalenza dei “valori” individuali, la frammentazione dei corpi sociali, la graduale emarginazione dei beni comuni; la scomparsa di un’egemonia di sinistra nello schieramento di opposizione, l’accodamento al potere delle posizioni culturali una volta d’avanguardia, limpidamente testimoniato dalle posizioni assunte dell’Istituto nazionale di urbanistica. (A quest’ultimo proposito rinvio al mio [Edoardo Salzano] Commiato dall’INU, i cui argomenti gettano forse qualche luce sull’atteggiamento attuale del gruppo dirigente dell’INU) (eddyburg, 1° gennaio 2006).
IL BLOCCO EDILIZIO
di Valentino Parlato
Può anche apparire singolare, ma in Italia – dove la parte di ispirazione marxista ha tanto discusso e discute di processi di formazione di un nuovo blocco storico – manca, quasi del tutto, un’analisi del blocco storico esistente, quello dominante, che sarebbe necessario conoscere e disaggregare. Questa considerazione, non priva di significato culturale e politico, vale anche per la complessiva questione delle abitazioni, rispetto alla quale solo di recente, e di passaggio, a un convegno del PCI è stato detto che intorno ad essa “si cementa un blocco sociale, che è una delle cerniere essenziali del blocco di potere dominante”. Questa analisi però continua a mancare, nonostante che già un secolo fa Engels – schematicamente quanto si vuole – avesse individuato proprio questa capacità aggregante della questione, quando – in polemica con la rivendicazione proudhoniana di trasformare il canone di fitto in canone di riscatto – sosteneva che “gli esponenti più accorti delle classi dominanti hanno i sempre indirizzato i loro sforzi ad accrescere il numero dei piccoli proprietari, allo scopo di allevarsi un esercito contro il proletariato”. Al riguardo si può aggiungere che nello stesso arco della nostra esperienza (pensiamo alla secca liquidazione della legge Sullo) non ci sono mancate prove della potenza d’urto di questo esercito.
Fatte queste constatazioni di assenza, resta tuttavia da aggiungere qui – per difficoltà oggettive e soggettive – non si intende offrire lettore una compiuta analisi di quel che si potrebbe definire “il complesso edilizio”, ma solo un avvio di questa analisi, nella forma di una serie di schematiche osservazioni relative alle stratificazioni che fanno parte, o sono in qualche modo subordinate, a questo “complesso” e ai legami, anche sovrastrutturali, che sono condizione della sua conservazione. Ma prima di addentrarci in queste osservazioni appaiono utili alcune sommarie informazioni sulla entità e le caratterizzazioni dell’“affare casa”.
Nel 1968 il prodotto lordo al costo dei fattori del settore costruzioni (fondamentalmente a uso residenziale) è stato pari a 3.341 miliardi di correnti, cioè di non molto inferiore al prodotto dell’agricoltura (4.096 lordi) e sensibilmente superiore a quello dell’industria meccanica (2.790 miliardi ). Se poi al prodotto lordo dell’industria delle costruzioni aggiungiamo quello del settore fabbricati residenziali (cioè l’ammontare dei fitti pagati per l’uso del patrimonio edilizio esistente), che ammonta a ben 2.310 miliardi di lire, arriviamo a una somma complessiva di 5.651 miliardi, largamente superiore a quella del prodotto dell’agricoltura e pari a un po’ più del 15% del prodotto nazionale lordo complessivo. Tale rilevanza economica del settore viene confermata e sottolineata dalla sua incidenza (30% circa nella media degli ultimi dieci anni) sul totale degli investimenti fissi lordi e sul totale delle spese per consumi finali (quasi il 10% nel 1968). Si può ancora aggiungere che dall’edilizia dipendono totalmente produzioni non trascurabili come quelle del cemento, dei laterizi, del legno e dei mobili, e dipendono in larga misura molte produzioni del settore meccanico. Per ultimo si può considerare economicamente significativo anche l’elevatissimo indice di gradimento che, a livello locale e nazionale, hanno assessorati e ministero ai lavori pubblici. La consistenza economica e le ramificazioni del complesso fondiario industriale-finanziario dell’edilizia appaiono evidenti.
Nonostante le profonde interrelazioni tra pubblico e privato, il segno di questo settore è tuttavia nettamente privatistico. Il settore dell’edilizia, proprio dal punto di vista della produzione e della proprietà, è tra i più privatizzati della nostra economia. Il patrimonio edilizio esistente è quasi integralmente privato e, quanto alla produzione, si ricordi che mentre nell’industria gli investimenti fissi lordi si ripartivano tra imprese private e pubbliche rispettivamente nella misura del 64,6% e del 35,4%, nel settore delle costruzioni, invece, l’incidenza degli investimenti pubblici, in tutto il periodo che va dal 1962 al 1968, si è aggirata tra un minimo del 4,1% a un massimo del 7,4%. Tale carattere privato del settore risulta ancora più evidente dal confronto con gli altri paesi nei quali la incidenza dell’intervento pubblico è di gran lunga superiore. Questa assoluta prevalenza privata non deve però indurre nell’errore di credere che l’intreccio tra pubblico e privato sia di scarsa rilevanza: esso si realizza, ed è fonte di grandi affari e di spostamenti di convenienze, attraverso l’intervento normativo, i piani regolatori e particolareggiati, la predisposizione dei servizi pubblici, le grandi opere pubbliche, la politica fiscale e creditizia ecc. Dopo avere sommariamente indicato dimensioni economiche, ramificazioni e carattere privatistico del complesso edilizio, si tratta di individuare le aggregazioni sociali e le articolazioni economiche e culturali che compongono il blocco. Secondo rapporti di maggiore o minore o subordinazione, in questo blocco si raccoglie un coacervo di forze che fa pensare ad alcune pagine del “18 brumaio di Luigi Bonaparte”.
Ci sono tutti: residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali incatenati al riscatto di una casa che sta già deperendo, funzionari e uomini politici corrotti e piccoli risparmiatori che cercano nella casa quella sicurezza che non riescono ad avere dalla pensione, oppure che ritengono di risparmiare in avvenire sul fitto pagando intanto elevati tassi di interesse, grandi imprese e capimastri, cottimisti ecc. Un mondo nel quale, all’infuori di poche sicure coordinate (quelle di sempre, della potenza economica e del potere politico) vasta è l’area magmatica delle improvvise fortune e della prigione, del triste esproprio (pensiamo solo alla sorte di molti piccoli proprietari di case a fitto bloccato). Un mondo, però, che si tiene saldamente insieme strumentalizzando – per rafforzare i più solidi legami di interesse economico – il fanatismo dell’ideologia della casa, la drammatica necessità di ottenere una casa anche a costo di sacrifici, la necessità di avere un lavoro: il contadino fattosi edile, di fronte alla minaccia di non lavorare, è naturalmente portato a considerare inutili e dannose sottigliezze tutti i perfezionamenti democratici dei regolamenti edilizi. Il fatto che questo sistema non sia in grado di dare la casa a tutti finisce con l’essere la condizione di forza del “complesso edilizio”.
1. Fino a oggi i contingenti decisivi dell’esercito conservatore, che i capitalisti si allevano contro il proletariato sono stati sostituiti dalla vasta massa dei proprietari di abitazioni. Nel più recente rapporto del CENSIS sulla situazione sociale del paese si legge:
«solo una parte dell’offerta di abitazioni è collocata, in proprietà o in affitto, presso gli utilizzatori finali del bene abitazione: una quota rilevante, pari, secondo stime relative agli ultimi anni, a circa un terzo viene invece acquistata da piccoli e grandi risparmiatori a scopo di investimento».
Si può quindi calcolare che quasi centomila abitazioni all’anno siano andate ad accrescere il patrimonio di questi “risparmiatori”, che sono le truppe scelte dell’esercito conservatore e il cui numero, per proporzionalità alle centinaia di migliaia di case che compongono questo monte, va certamente oltre l’ordine delle decine di migliaia. Vi è poi la sterminata fanteria di coloro i quali sono proprietari degli appartamenti nei quali abitano (tra questi rientrano anche coloro che posseggono qualche o molti altri appartamenti oltre quello in cui abitano). Si tratta di una massa in continua e rapida crescita: 4.301.000 nel 1951 5.972.000 nel 1961, 7.562.000 il 20 gennaio del 1966; dall’andamento degli impieghi bancari e degli istituti speciali risulta che la crescita si è ancora accelerata nel 1967 e nel 1968.
La concentrazione delle case in proprietà è, comprensibilmente, maggiore nei comuni non capoluoghi che in quelli capoluoghi, nel Mezzogiorno più che nel triangolo industriale. Questo dato richiama inevitabilmente la questione del rapporto città-campagna (che è chiave rispetto al problema abitazioni) sulla quale occorrerà ritornare.
Le statistiche non dicono nulla sulla figura sociale degli oltre 7,5 milioni di proprietari di case; si limitano a darci le percentuali della distribuzione degli oltre 6 milioni di case in fitto a seconda della condizione professionale o non professionale del capofamiglia. Relativamente al 1966 dati, nell’ordine, sono i seguenti: imprenditore 0,5%; liberi professionisti 0,9%; dirigenti 1,3%; lavoratori in proprio 13,9%; impiegati 12,0%; lavoratori dipendenti 46,1%; coadiuvanti 0,5%; pensionati 20, 2,%; benestanti 0,3%; altri 4,3%.
Questi soli dati sono insufficienti a conclusioni socialmente qualificate, tuttavia se ne possono trarre almeno due indicazioni: la prima è la conferma che il problema dell’affitto interessa fondamentalmente (quasi nella misura dell’80%) i percettori di reddito fisso, lavoratori dipendenti, impiegati e pensionati; la seconda – alla quale si giunge anche attraverso un confronto tra la distribuzione percento e delle case in affitto e la distribuzione percentuale della popolazione totale secondo la condizione professionale e non professionale – conferma anch’essa ciò che si può facilmente intuire, e cioè che la massa prevalente dei proprietari è costituita da imprenditori, liberi professionisti, dirigenti, lavoratori in proprio e impiegati. Questa conclusione – che conferma quella derivante dalla scarsa incidenza dell’edilizia pubblica – contribuisce a dare una qualificazione sociale a quella che è stata qui definita come la fanteria del “complesso edilizio”: la massa rilevante dei proprietari di appartamenti (in generale di un solo appartamento o al massimo di due), più intensa nel centro-sud e nei comuni minori, è costituita fondamentalmente da ceti medi – e medio-alti – professionali, commerciali, imprenditoriali e impiegatizi, venuti in possesso di uno o più appartamenti o per precedente accumulazione familiare, o per aver varcato una soglia di reddito (o di sicurezza di reddito) che ha consentito l’acquisto in contanti o il versamento di una prima quota (aggirantesi grosso modo intorno al milione di lire) e quindi l’impegno di continuare a pagare per quindici o venticinque anni.
Va poi osservato che, in generale, la possibilità di acquisto di un appartamento si accompagna a uno status che consenta accesso o agevolazioni al credito. In sostanza la possibilità di acquisto presuppone condizioni di privilegio anche minimo, ma precluse alle masse lavoratrici: la proprietà della casa diventa, cioè, nell’attuale contesto, per un verso un elemento di distinzione sociale e per l’altro un aggregante, in senso conservatore, di quel complesso di stratificazioni, che – in modo piuttosto indeterminato – va sotto la definizione di ceto medio, al punto che si potrebbe concludere che è impossibile fare una politica di segno progressivo nei confronti del ceto medio senza sciogliere il nodo della casa, e che è impossibile affrontare il problema della casa senza – quanto meno – neutralizzare il ceto medio.
2. Al di sopra di questo schieramento di massa, vi è il gruppo dominante in verità eterogeneo e non fortemente coeso, almeno nelle sue pur consistenti frange marginali.
Ci sono i proprietari di grossi patrimoni immobiliari e gli speculatori, i padroni di piccoli orti suburbani, gli imprenditori che non sono sempre imprenditori soltanto, i gruppi finanziari privati e pubblici. La categoria dei puri proprietari di aree, non numerosa ma decisiva, grosso modo dalle prime fasi del boom edilizio fino al 1964, viene ora perdendo di peso in rapporto all’ingresso nel campo edilizio dei maggiori gruppi industriali del paese.
Il nucleo determinante di questo raggruppamento è sempre più nettamente costituito dalle società immobiliari, e più di recente, da società specificamente commerciali. Nelle società immobiliari la accumulazione di veri e propri demani di aree si unisce all’attività di costruzione e a quella finanziaria, sia per la raccolta di fondi di investimento, sia per il credito (a carissimo prezzo) praticato agli acquirenti a riscatto. Attorno a questo nucleo centrale si può calcolare vi siano un po’ meno di 50.000 imprese di costruzione e di installazione che assolvono, per una loro larga parte, il ruolo di imprese marginali e costituiscono una vera e propria fascia di copertura, destinata a essere sacrificata nei periodi di cattiva congiuntura. Vi è poi una massa consistente di piccoli speculatori, di intermediari, di procacciatori di favori ecc. Un mondo che non ha riscontri nell’industria vera e propria e che è specifico della persistente condizione di arretratezza e parassitismo del settore. (Il meccanismo di realizzazione della rendita continua a trascinarsi appresso forme di impronta feudale, ma si tratta pur sempre di un mondo esistente, niente affatto disposto a perire silenziosamente, da solo).
Descrivere e quantizzare il gruppo dominante richiederebbe, quanto meno, alcune ricerche dirette che mancano, ma in via di approssimazione possono avanzarsi due osservazioni.
A. Nel nucleo dominante del “complesso edilizio” si realizza uno dei collegamenti centrali tra le varie componenti dell’attuale potere borghese. Le dimensioni dell’“affare casa” sono tali da far superare ogni pregiudizio di modernità, e nel campo edilizio giocano tutti: per le grandi società assicurative l’investimento immobiliare risponde addirittura a un canone di buona amministrazione, ma intervengono anche i maggiori gruppi industriali e ci sono arrivate ormai, e con grande ampiezza di vedute (dalla tangenziale, al prefabbricato, alla società immobiliare), anche le imprese a partecipazione statale.
La saldatura-collusione con i pubblici poteri si realizza attraverso i piani di opere pubbliche, che sono uno degli esempi più realistici della concentrazione programmata: dato socialmente oggettivo rispetto al quale la proposta di un “buon governo” è solo illusione di resuscitare miti. Basterebbe soffermarsi su due o tre delle maggiori società immobiliari permettere in evidenza questi collegamenti e offrire al lettore anche qualche dato interessante, ma si tratta in generale di fenomeni noti.
Quel che qui si vuole sottolineare è che ci troviamo oramai di fronte a un intreccio di interessi e di forze, consolidato sulla realizzazione di un dato surplus, nel quale si intrecciano, e si confondono in verità, forme diverse di rendita con interesse e profitti industriali e commerciali. Questo surplus viene realizzato in una generalizzata situazione di monopolio rispetto a un bene, la casa, il cui mercato, per le specifiche caratteristiche de1 bene (dove c’è una casa non può essercene un’altra, non trasportabilità ecc.), è tipicamente monopolistico e si svolge secondo le più dispendiose forme di concorrenza monopolistica (differenziazione del prodotto nelle sue infinite possibilità: dal tipo di casa, alla sua localizzazione in quartieri socialmente differenziati ecc.). In questa situazione di mercato monopolistico, e nella quale la rendita (nelle sue varie forme) non è più appropriazione esclusiva del proprietario fondiario, il solo esproprio generalizzato può non essere sufficiente (anzi è assai improbabile che lo sia) a ridurre radicalmente (o nella misura oggi attribuita all’incidenza della rendita) il prezzo di uso della casa. Se non si spezza l’aggregato di potere che si esprime nel “complesso edilizio” anche l’esproprio generalizzato rischia di pervenire allo stesso risultato cui è pervenuta l’accresciuta offerta di aree fabbricabili da parte dei comuni emiliani. Come ha scritto Giuseppe Campos Venuti:
«Lungi dall’abbassare il costo dei suoli edificabili, l’abbondanza di aree sul mercato vuol dire soltanto portarle tutte al massimo costo sopportabile dagli utenti, costretti a cedere al ricatto della insopprimibile fame di case che si crea in una società caratterizzata dal fenomeno dell’urbanesimo accelerato».
Del resto, nella nota situazione di penuria di case esistente a Roma non vi sono forse 30.000 abitazioni non utilizzate?
B. Questo blocco, specie con l’ingresso recente nel settore dei maggiori gruppi industriali, si prepara ad attraversare una fase di tensioni sia all’interno di quello che si definisce il nucleo dominante sia nei rapporti tra questo e la sua base di massa. Le categorie come rendita o profitto non sono quantità rispetto alle quali si possono fare sottrazioni o addizioni, ma concreti rapporti sociali che vanno sciolti con uno scontro; per questo occorre guardare ai nuovi elementi di tensione che possono favorire una disgregazione del blocco centrale, se non si vuole correre il rischio di finire con l’attaccare quel guerriero, di cui dice il poeta, che continuava a combattere ed era già morto. Questo è infatti il rischio che si corre quando si pensa di concentrare i propri colpi sulla rendita, e su coloro che si appropriano della sola rendita, nell’illusione di potere restaurare un mercato libero-concorrenziale delle abitazioni, è il rischio che si corre quando si sottovalutano le caratteristiche monopolistiche del mercato delle case e l’incidenza diretta che su questo carattere monopolistico ha, e avrà ancora in futuro, la determinazione storica del bene casa e del suo uso.
3. Rispetto al complessivo “blocco edilizio”, una posizione a sé stante, fondamentalmente antagonistica, ma col pericolo di essere a volte subordinata, ha la massa degli edili, tra le più sfruttate, ma anche tra le più coinvolte. Nel settore delle costruzioni lavorano circa due milioni di persone, nella grande maggioranza edili; questi lavoratori, in buona parte di recente provenienza meridionale o agricola, sono distribuiti in una miriade di aziende di varia dimensione e tra loro diversamente collegate (subappalto dell’impresa maggiore alla minore o, addirittura, semplice fornitura di forza-lavoro da parte di quest’ultima). All’interno della stessa organizza-zione del lavoro esiste una forte gerarchizzazione di fatto (la catena del cottimo), che è causa di divisione interna della categoria; la sicurezza della continuità del lavoro è fortemente soggetta ai cicli stagionali e congiunturali e ai casi della legislazione (legge-ponte per esempio).
Tutte queste cause di debolezza oggettiva e soggettiva comportano che le condizioni di lavoro siano subcontrattuali per moltissimi lavoratori (nella provincia di Milano, che non è certo tra le più arretrate, si calcola che il 30-40% degli edili subisca, in forme diverse, “gravi evasioni” alle norme regolanti il rapporto di lavoro). Una seconda conseguenza delle indicate ragioni di debolezza è costituita dalla permanente minaccia di subordinazione e strumentalizzazione: i casi di utilizzazione della massa degli edili come strumento di copertura o di pressione per deroghe ai regolamenti edilizi o ai piani regolatori, o contro leggi che possono ledere gli interessi del “complesso edilizio” fanno parte delle cronache del nostro paese.
Si aggiunga che proprio: a. la bassa composizione organica del capitale, b. la relativa brevità del ciclo produttivo; c. la coincidenza delle funzioni di speculatore, costruttore e commerciante nella stessa persona o gruppo, consentono ai boss dell’edilizia una elasticità di manovra nei confronti dei lavoratori assai maggiore di quella degli industriali veri e propri. Nel tenace e soffocante sistema di ricatto che tiene unito il vasto ed eterogeneo aggregato del “complesso edilizio” si realizza una pressione continua alla corporativizzazione coatta della categoria degli edili. Anche in questo caso però deve osservarsi che le trasformazioni produttive, che ormai si annunciano nel settore, insieme a prospettive di difficoltà e di tensione, prospettano anche la possibilità di accentuare e rendere più netto il contrasto di classe tra proletario e capitalista, che è specifico al rapporto di lavoro dell’edile.
L’obiettivo politico, proprio in rapporto al problema della casa non ci pare sia tanto quello di impegnare gli edili in lotte per la riforma, quanto piuttosto di rafforzarne il potere contrattuale e quello relativo ai modi di organizzazione del lavoro, in modo da impedirne l’uso strumentale da parte del padronato.
Queste componenti sociali del cosiddetto blocco edilizio, oltre che da ragioni immediatamente economiche, sono tenute insieme anche da legami che possono considerarsi sovrastrutturali: la famiglia, i modelli culturali e il consumo
L’attuale modo di abitare sarebbe certo del tutto diverso ove l’attuale famiglia fosse stata superata e, per converso, si può anche sostenere che una soluzione sociale del problema delle abitazioni non è possibile fino a quando la famiglia imporrà un certo uso della casa. La famiglia è ancora un centro di rapporti di riproduzione, storicamente determinati, e di produzione di servizi; è un centro di. consumi individuali; un rifugio di fronte alle difficoltà e alle durezze della vita nella società. Queste funzioni famigliari si rispecchiano nettamente nelle forme assunte dal bisogno (in origine naturale) di abitare; è un punto questo sul quale ha esattamente ragione Adorno quando dice: «A che punto siamo con la vita privata si vede dalla sede in cui dovrebbe svolgersi».
Ma non si non si tratta solo di questo. Come la famiglia non si è ancora liberata del tutto da funzioni di produzione e di accumulazione, così la casa non è ancora soltanto un bene di consumo, resta ancora un bene capitale, occasione di investimento privato (anche forzato o poco conveniente come per gli acquisti a riscatto) che continua a mantenere sostenuto il mercato, salda la difesa della rendita, tenace la resistenza alla socializzazione della casa.
Le funzioni di rifugio privato e di centro di consumi privati hanno nell’attuale abitazione privata la loro massima esaltazione e, nella misura in cui, trasformandosi in bene di consumo, la stessa abitazione diventa un esaltazione di consumo socialmente improduttivo. L’abitazione si imbottisce di beni di consumo sempre più costosi e sempre più scarsamente utilizzati; diventa – alle varie scale – momento di raffinamento continuo dei bisogni privati da un lato e quindi, dall’altro (in un sistema capitalistico) momento coattivo di imbarbarimento e di astratta semplificazione dei bisogni. Il risvolto di questa abitazione, bene e centro di consumo, momento di progressivo raffinamento del bisogno privato è quello, sia pur con iperbole giovanile, lucidamente indicato da Marx:
«Lo stesso bisogno dell’aria aperta cessa di essere un bisogno nell’operaio; l’uomo ritorna ad abitare nelle caverne, la cui aria è però viziata dal mefitico alito pestilenziale della civiltà, e ove egli abita ormai soltanto a titolo precario, rappresentando essa per lui un’estranea potenza che può essergli sottratta ogni giorno e da cui ogni giorno può essere cacciato se non paga. Perché egli questo sepolcro lo deve pagare. La casa luminosa, che, in Eschilo Prometeo addita come uno dei grandi doni con cui ha trasformato i selvaggi in uomini, non esiste più per l’operaio [... ] e parimenti il povero apprende che la sua dimora è qualitativamente opposta alla dimora umana che ha sede nell’al di là, nel cielo della ricchezza».
In questo senso spingono le forze di natura del capitalismo: negli Stati Uniti, insieme al proliferare degli slums accade che non i miliardari, ma anche la middle class si costruisca casette unifamiliari negli stili più inutilmente bizzarri. La struttura del monopolio e l’ideologia della fase monopolistica spingono in questo senso: da una parte la differenziazione del prodotto, dall’altra il principio di distinzione sociale; congiuntamente la distribuzione di surplus e la creazione di sacche di miseria, di fasce di marginali.
La citazione di Marx è solo una indicazione e l’Italia, per varie ragioni, è ancora diversa dagli USA, ma pure nel nostro paese le indagini sulle condizioni abitative non solo dei marginali ma anche di larga parte dei ceti operai non offrono quadri luminosi, e gli esempi di differenziazione di prodotto in rapporto al bene e ai beni di consumo domestico diventano sempre più frequenti.
Del tutto al di fuori del blocco del cosiddetto “complesso edilizio” sono gli inquilini e i cittadini senza casa, i baraccati, gli abitanti alloggi impropri. I primi – come tutti sanno – numerosissimi, da un punto di vista sociale non sono niente: sono soltanto un disaggregato sociale. Non solo va respinta la facile assimilazione del rapporto tra inquilino e padrone di casa a quello tra proletario e capitalista, ma ancora va chiarito – nonostante l’elevato livello del fitto solleciti iniziative più generali – che l’unificazione di base tra inquilini (per contrattare il fitto o altre condizioni di locazione) può realizzarsi soltanto tra persone che abbiano l’elemento aggregante non solo nel contratto di fitto, ma anche nel rapporto di lavoro e nella condizione sociale, cioè in una specificità effettiva, tale che la lotta per la riduzione del fitto non muova da un rapporto mercantile fondamentalmente astratto (padrone di casa-inquilino), ma dal rapporto di lavoro concreto che qualifica socialmente la lotta. Va però sottolineato che il livello raggiunto dai fitti consente, nell’immediato, una serie di iniziative da parte di inquilini abitanti in quartieri anche socialmente eterogenei.
I cittadini senza casa che sono tanti e concentrati soprattutto nelle grandi città, sono quello che negli Stati Uniti si definisce il “proletariato urbano” (o i negri), sono un analogo dei contadini senza terra nelle campagne e, proprio in quanto testimonianza vivente della incapacità di tutti i capitalismi di risolvere il problema, sono il ferro di lancia nella lotta anticapitalistica per la casa. Sono le forze che lottando per conquistarsi la casa, oggettivamente (e con un livello di coscienza certamente più elevato di chi può acquistarsi l’uso della casa sul mercato capitalistico) negano l’assetto capitalistico della società e pertanto portano in germe (nonostante la degradazione culturale e le alterazioni di valori intrinseche alla miseria in una società di ricchi) forme e modi di uso della casa di segno non capitalistico, che comunque vanno oltre l’orizzonte borghese dell’uso individualistico e privatistico della casa. Del resto nelle baracche e nelle coabitazioni il capitale fa ogni giorno giustizia sommaria degli ideali di “focolare”, e di “nido”, e anche di “famiglia”. Ma le forze dei “baraccati”, dei soli cittadini senza casa non bastano a vincere in questa lotta anticapitalistica.
Come la lotta dei contadini senza terra raramente ha superato la soglia della jacquerie, così le impetuose occupazioni di questi mesi rischiano di diventare una guerra contadina, di esaurirsi in una serie di scontri, o nella precaria conquista di alcuni edifici. L’articolazione e la forza del “complesso edilizio”, il peso delle sue componenti, la tenacia e profondità dei suoi leganti, economici e non economici, e soprattutto l’indissolubile dipendenza della penuria di case dall’esistenza del sistema capitalistico comportano che l’offensiva dei cittadini senza casa, per essere efficace, debba iscriversi in una più vasta articolazione di lotte, che investano tutti i gangli dell’attuale equilibrio capitalistico e abbiano obiettivi al livello delle trasformazioni e delle contraddizioni in atto.
Ora, l’attuale situazione si caratterizza da una parte per la persistente esasperazione e offensiva di una importante avanguardia, costituita dai cittadini senza casa, e dall’altra dalla prospettiva di tensioni all’interno del nucleo dominante il “complesso edilizio”, quanto meno per l’ingresso in campo di nuove forze imprenditoriali, private e del capitalismo di stato. Questo ingresso provocherà tensioni all’interno delle forze attualmente dominanti il mercato edilizio e investirà necessariamente la massa degli edili, che dovrà ridiscutere i suoi rapporti col padronato e quindi sarà impegnata in lotte di grande peso. Contemporaneamente è registrabile in alcune sfere di comando della nostra economia (discorsi di Petrilli, di Carli, di Agnelli) la coscienza che l’elevato costo delle case (che aumenta necessariamente il prezzo della forza lavoro), dato l’attuale livello del potere rivendicativo della classe operaia, incide negativamente sulla redditività e competitività della industria. Nell’ipotesi quindi che la classe operaia non subisca, nel breve periodo, gravi sconfitte, è assai probabile che l’intervento pubblico e privato nel settore edile provochi un arresto o anche una lieve flessione nella dinamica ascendente dei fitti e della valorizzazione delle abitazioni di livello medio-basso. In questa ipotesi (che non sarebbe diversa dalle cicliche espropriazioni dei risparmiatori che hanno investito in case), la potente fanteria dei piccolo-medi proprietari di casa avrebbe fa talmente degli ondeggiamenti (basterebbe uno spostamento del risparmio verso gli investimenti in obbligazioni, in molti casi già oggi più convenienti) e il gruppo di potere sarebbe indebolito proprio nella sua decisiva base di massa.
Queste affrettate ipotesi non vogliono delineare una illusoria prospettiva di automatico crollo del “complesso edilizio”, ma la prospettiva di un allentamento della sua coesione e la possibilità di riaggregare in un blocco alternativo parte delle forze che oggi lo compongono, e che le politiche per la casa fin qui fatte (emerge così anche l’inefficacia della politica nei confronti dei ceti medi e delle città meridionali) hanno invece consolidato, o ingrossato.
La possibilità di disaggregazioni e riaggregazioni sottolinea la necessità e l’urgenza di elaborare e costruire una linea efficace, e quindi alternativa a quella riformista, fallita. Una linea alternativa non si inventa: viene prendendo forma, nel corso del tempo, attraverso le esperienze del movimento, la riflessione, il confronto polemico, anche. Nel numero 3-4 del “ Manifesto”, dalle schede, dagli articoli, dall’esame della forma della rendita, emerge già un primo abbozzo di linea alternativa, del quale cerchiamo qui di isolare i tratti essenziali. E va ricordato che a rendere alternativa una linea non basta, né è necessario, l’attribuzione di un obiettivo “più avanzato”. Non occorre essere strutturalisti per capire che il segno di una linea dipende dalla organizzazione dei suoi obiettivi e dai rapporti intercorrenti tra obiettivi e forze sociali. Così una linea che non si fondi su una analisi (e su una organizzazione) delle forze sociali e non consideri l’obiettivo come momento di aggregazione e potenziamento di uno schieramento socialmente qualificato, ma punti invece, sostanzialmente, a sommare rivendicazioni (quando non addirittura proposte) con un riferimento socialmente indeterminato (programmi d’opinione pubblica o programmi genericamente antimonopolisticì) potrà forse essere utile in una fase di difesa, ma sarà sempre una linea verticistica (con netta separazione tra momento sociale e momento politico) e riformista.
Schematizzando al massimo, questa linea si caratterizza per cinque qualificazioni: A. essere anticapitalistica; B. avere come sua avanguardia i lavoratori privi di abitazione e gli inquilini poveri aggregati in base alla loro qualificazione sociale; C. fondarsi su un movimento di vertenze sociali autogestite; D. avere l’obiettivo della casa come servizio sociale, rompendo quindi l’attuale tipizzazione privatistica del prodotto casa e del suo uso; E. avere l’obiettivo della nazionalizzazione del settore edile, oltre all’esproprio generalizzato delle aree.
Di questi punti, esaminati anche negli altri articoli, qui si considerano rapidamente solo il primo e gli ultimi due:
A. Caratterizzare come anticapitalistica la lotta per la casa consegue alla constatazione che il capitalismo in nessun paese è stato finora in grado di assicurare una abitazione abitabile a tutti, e quindi che il problema non si risolve attraverso riforme, ma solo attraverso il rovesciamento del sistema. Le prevedibili obiezioni di nullismo appaiono concretisticamente miopi e avvocatesche. La risposta più facile sarebbe nel dire che il più grosso concentrato di nullismo politico si trova nelle opere di Marx, o che ripubblicare la Questione delle abitazioni di Engels senza una prefazione che spieghi come con la GESCAL o con l’attesa legge urbanistica sia cominciata o comincerà una nuova fase del capitalismo, sarebbe prova di massimalismo intellettualista. E a voler rimanere sempre ai primi elementi di marxismo si potrebbe ancora ricordare che in Salario, prezzo e profitto, Marx – che pure aveva particolarmente insistito sul fatto che il proletariato si sarebbe liberato solo attraverso la distruzione del capitalismo – non ritenesse tutto ciò incompatibile con la lotta operaia per migliorare i salari reali. Dire che questa lotta deve essere anticapitalistica se vuole avere un senso, significa avere chiarezza del problema e quindi della necessità di condurla in connessione con le altre lotte (che debbono essere anch’esse di segno anticapitalistico), quelle operaie e quelle per la conquista di alcuni strati di ceto medio (gli statali per esempio), quelle contadine e quelle meridionali. Significa che questa lotta deve avere, per essere efficace, un respiro ideale e culturale comunista, che deve alimentare – traendone forza essa stessa – un contropotere di classe. Proprio nel caso delle abitazioni vale ripetere che «l’opposizione tra la mancanza di proprietà e la proprietà, sino a che non è intesa come l’opposizione tra il lavoro e il capitale, resta ancora una opposizione indifferente».
D. Fare della casa un servizio sociale comporta assicurare a tutti l’abitazione in base ai bisogni di ciascuno: è un obiettivo comunista, ma raggiungibile, e già oggi può consentire di migliorare le condizioni di abitazione degli strati inferiori della società. Le esperienze del boom e le decine di migliaia di case vuote dimostrano che non ci troviamo di fronte ad impossibilità per carenza di capacità produttive in astratto, ma ad impossibilità derivanti dai modi di operare di queste capacità, dai profitti o sovraprofitti e sprechi da eliminare. L’ingresso nel settore edilizio di grandi gruppi imprenditoriali annuncia una industrializzazione e una più spinta tipizzazione della produzione; la rivendicazione della casa come servizio sociale può consentire di intervenire su questa tipizzazione e sulla sua graduazione contrastando, sulla base di una impostazione egualitaria, una differenziazione del prodotto in base ai livelli di reddito e cercando di ottenere che la stessa necessaria tipizzazione corrisponda a scelte autonomamente elaborate dagli utenti delle case e dagli architetti. Non si tratta qui di definire modelli di case per il futuro, ma di tornare a ribadire che, in quanto consumo sociale, l’abitare si deprivatizzerà e casa e città dovranno assicurare ricchezza di libertà individuale e intensità di rapporti sociali nel senso di Marx, quando scrive del “comunismo come soppressione positiva della proprietà privata” e dei modi privatistici di vita a quella conseguenti. L’abitare inteso come consumo sociale comporta che la tipologia delle nuove abitazioni, e quindi delle città, si liberi dalla rigidità che ha dominato per secoli e che ancora oggi crea frizioni costose tra modi di costruzione e modi di abitare, di studiare, di curarsi, ecc. Al di fuori della futurologia si vuole solo affermare che casa e città dovranno essere tra l’altro adattabili al variare delle esigenze sociali.
E. Per nazionalizzazione del settore edile deve intendersi che le abitazioni avranno un regime analogo a quello delle scuole, che sono un bene pubblico. Non si tratta, neppure in questo caso, di definire i particolari del futuro, ma di limitarsi ad alcune indicazioni, per esempio che non appare utile estendere la nazionalizzazione al patrimonio edilizio esistente (che col passare del tempo dovrebbe esaurirsi) limitandola invece alle nuove costruzioni. La nazionalizzazione delle cose di nuova fabbricazione è, da una parte una logica conseguenza della rivendicazione, ormai diffusa, che si esprime nella formula “casa come servizio sociale”, e, dall’altra, è una condizione necessaria perché l’agganciamento del canone di fitto alle possibilità di pagamento dell’utente (e anche questa è una rivendicazione diffusa) non dia luogo alla creazione di una serie di ghetti rigidamente distinti a seconda dei livelli di reddito. Vi sono evidentemente una serie di problemi, da quello dell’assegnazione (che potrebbe avvenire anche attraverso simulazioni di mercato) a quello del finanziamento (che potrebbe ricadere sugli utenti o sulla società nel suo complesso), ma si tratta di questioni che troveranno soluzione soltanto nel corso della lotta per la casa e delle altre lotte, nella misura in cui quella e queste andranno avanti. Ma se si vuole che chi non ha abitazione possa conquistarsela e chi la ha possa riappropriarsi di un uso “umano, cioè sociale” della abitazione, crediamo proprio che la via da seguire sia quella, nella quale il cambiamento del modo di produzione si accompagni al cambiamento della natura del prodotto.
Cliccate qui sotto per scaricare il testo integrale:
Valentino Parlato, Il Blocco edilizio, 1970
Efis
Online altri servizi fotografici di Renato d’Ascanio Ticca, sulla sua pagina fb:
- Sa ramadura e passaggio in via Roma, primo album;
- Sa ramadura e passaggio in via Roma,secondo album.
Oggi mercoledì 3 maggio 2017
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BUONE PRATICHE- PATTI DI COLLABORAZIONE PATTI E BENI COMUNI VIVIBILITÀ URBANA
Ragusa, un patto di collaborazione per la rigenerazione di Palazzo Zacco
Luciana Farinato – 2 maggio 2017 su LabSus
A Ragusa è stato avviato un patto di collaborazione con l’associazione culturale Aurea Phoenix con l’obiettivo di promuovere la cultura e la tradizione del territorio ibleo attraverso la rigenerazione di Palazzo Zacco, storico edificio della città.
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Sinistra svegliati! C’è un disperato bisogno di te (soprattutto ora che Renzi è tornato)
Archiviate le primarie la sinistra ha le carte in mano per unirsi. Una sinistra vera, smarcata dal renzismo, c’è, o almeno ce ne è il disperato bisogno. Riusciranno i nostri eroi?
di Giulio Cavalli su LinKiesta-
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TERZA MISSIONE, UNICA PROMOSSA NELLA COMUNICAZIONE
Sergio Nuvoli su Unica.it
L’Università di Cagliari è tra i pochi atenei italiani ad avere sulla homepage del proprio sito un’apposita sezione che riguarda lo scopo e lo spirito della terza missione delle Università. Lo certifica uno studio dell’Osservatorio Socialis.
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PUNTA DE BILLETE. A Nuoro si parlerà di foreste, spopolamento e occupazione
Settimana sociale. Giovedì 4 maggio il quarto seminario dell’itinerario di preparazione promosso dai vescovi sardi
Si terrà giovedì 4 maggio, a Nuoro, il quarto seminario del cammino di preparazione alla 48esima Settimana sociale promosso dalla Conferenza episcopale sarda (su Il Portico).
Valentino Parlato
La scomparsa di Valentino Parlato
Loris Campetti su Sbilanciamoci
3 maggio 2017 | Sezione: Alter, Italie
“Queste sono le mie idee – diceva con provocatoria convinzione – ma sono disposto a cambiarle”. Mai scontato, mai banale. Era leale ma odiava la fedeltà (“fedeli sono i cani”), generoso e gentile come un signore d’altri tempi
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Ciao Vale: ti schieravi dalla parte del torto e avevi ragione. Su Democraziaoggi.
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- Il signore di bric a brac: ritratto di Valentino Parlato.
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Valentino Parlato
di Simonetta Fiori su Eddyburg.
Articoli di Filippo Ceccarelli, Simonetta Fiori, Rossana Rossanda, Luciana Castellina. la Repubblica e il manifesto 3 aprile 2017
E’ morto Valentino Parlato
Ciao Valentino
2 maggio 2017
1972, Valentino Parlato all’Università di Macerata; foto di Renato Pasqualetti
Red su il manifesto sardo
E’ morto Valentino Parlato, tra i fondatori del manifesto, di cui è stato più volte direttore e presidente della cooperativa editrice »Continua»
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Valentino Parlato
di Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Efis
Online i servizi fotografici di Renato d’Ascanio Ticca, sulla sua pagina fb:
- primo blocco;
- secondo blocco;
- Is traccas;
- La notte del primo in piazza del Carmine.
LAVOROxIL LAVORO DIBATTITO. Lavorare gratis: un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
Il tema del lavoro è fondamentale per ogni ipotesi di sviluppo in generale e – per quanto ci riguarda e considerato il nostro specifico ambito di intervento – con particolare riferimento alla Sardegna. Aladinews ne ha fatto un argomento di interesse prioritario e in tale direzione supporta il Gruppo di Lavoro per il Lavoro (Lavoro al Quadrato) costituitosi di recente nell’ambito del Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale e Statutaria. Lo facciamo pubblicando documenti prodotti dallo stesso Gruppo e altra documentazione pertinente, prevalentemente reperita in rete e, ancora, dando tribuna sull’argomento a esperti e cittadini interessati, e pubblicizzando iniziative convegnistiche, seminariali e comunque di dibattito.
LAVORO
un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
di Roberta Carlini, su Rocca
Gratis. È questa la parola, contenuta nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – «Lavorare gratis, lavorare tutti» – che più disturba e che più attrae. Lavorare gratis? «Bella novità», potrebbero rispondere irritati in molti, pensando a se stessi: quante volte, soprattutto ai più giovani, e in particolare nei lavori intellettuali e/o creativi, è stato chiesto di lavorare senza stipendio né compenso alcuno, come stagista, come cultore della materia, come biglietto d’ingresso e modo per farsi conoscere? La parte dei lettori che ha queste esperienze, o le ha ascoltate da figli, amici, fratelli e sorelle, può reagire male, e pensare: qui c’è un sociologo che ci propone di farci piacere quello che già succede e non ci piace per niente. Un’altra parte dei lettori può invece essere più attratta, o addolcita, dal «lavorare tutti», esaltando il ritorno di una visione ottimista, utopica, programmatica del futuro, contro la rassegnazione all’andazzo delle cose.
La piena occupazione è stata un obbiettivo della politica economica per larga parte del ’900, che poi è andato in soffitta insieme ai tanti attrezzi della cassetta degli economisti che l’avevano studiata: finalmente torna in primo piano, e per di più ad opera di un intellettuale che è molto ascoltato da un partito – il M5S – che, a stare ai sondaggi, è il primo partito italiano e potrebbe trovarsi al governo in un futuro non lontano.
provocazione visione possibilità
L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le riflessioni e le proposte del saggio, che ovviamente dà sostanza a quel doppio slogan che ricorda l’antico (sempre per tornare al Novecento) «lavorare meno, lavorare tutti». In realtà, De Masi avrebbe potuto riprendere anche, semplicemente, quello slogan degli anni Settanta: in fondo, il nocciolo della sua tesi è che «c’è sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare». E dunque che il poco lavoro che c’è si deve redistribuire tra i tanti che lo vorrebbero, attraverso la riduzione dell’orario: esattamente quello che si teorizzava e proponeva negli anni ’70 e che fu alla base della legge francese sulle 35 ore settimanali, ma anche dell’esperimento della Volkswagen che addirittura ridusse la settimana lavorativa a ventotto ore.
Ma se De Masi non ha scelto il glorioso e polveroso «lavorare meno, lavorare tutti», non è solo per distanziarsi da un immaginario di conflittualità novecentesca; né solo perché il «gratis», nell’era di internet, è un pilastro, una condizione diffusa, un grimaldello passpartout; ma anche, e soprattutto, perché la redistribuzione dell’orario di lavoro, nella sua proposta, si dovrebbe realizzare tecnicamente non già per un’imposizione dall’alto, di contratto o di legge, ma in virtù della rivolta degli esclusi, cioè i disoccupati, e della loro irruzione sul mercato del lavoro: milioni di disoccupati che offrono gratis la propria prestazione, per «costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha». Una provocazione, una visione, una possibilità?
in discussione il «lavorare per vivere»
Prima di arrivare alle conclusioni – la riduzione dell’orario di lavoro, nel contesto di un programma con altri dieci punti più o meno imponenti, che vanno dall’armonizzazione dei dati sul lavoro alla creazione di una piattaforma per mettere in contatto chi cerca lavoro e chi lo dà e – chiediamoci: sono vere le premesse, ossia che non c’è e non ci sarà mai più lavoro per
tutti?
La discussione è molto accesa e approfondita, nel mondo dell’economia e della tecnologia, dai pensatoi della Silicon Valley alla Banca d’Inghilterra, dalla ricerca accademica al mondo degli affari. Di recente ha fatto molto rumore un saggio di due dei più ottimisti tra gli esperti, Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, nel quale hanno corretto in senso molto meno roseo le loro previsioni sulla «corsa delle macchine». Ci sono prove del fatto che la sostituzione degli umani con i robot e l’intelligenza artificiale distrugga più lavori di quanti non ne crei, hanno scritto di recente i due in un lavoro accademico.
I numeri girano vorticosamente in questi studi e le forchette sono ampissime: ma più che calcolare effettivamente quanti lavoratori perderanno il loro posto o quanti giovani non ne troveranno uno, le varie ricerche si concentrano sulle singole figure professionali a rischio: vuoi perché proprio non servono più, vuoi perché l’affiancamento della tecnologia permette di svolgere lo stesso lavoro con una produttività enormemente più alta, e dunque alla fine servono meno persone per produrre lo stesso output. Naturalmente, ci sono anche lavori nuovi che nascono: quelli necessari per produrre le stesse macchine che «mangiano» gli altri lavori, e quelli corrispondenti ai nuovi bisogni che emergono. E lo stesso De Masi nel suo libro ammette che «l’introduzione delle macchine, soprattutto di quelle digitali, è solo una delle cause che possono rendere superfluo il lavoro umano» (ci sono altre potenti cause, dalla riduzione dei consumi alla carenza di capitali d’investimento, dalla ritirata degli Stati dai rischi dell’investimento ai difetti e alle scelte sbagliate dei manager).
Ma poi la descrive come talmente potente da ricordare l’Holomodor staliniano, il genocidio di 5 milioni di contadini ucraini. In poche pagine questa terribile catastrofe si trasforma in una grande opportunità, nientemeno che nella possibilità di realizzare quell’utopia che nei secoli ha accompagnato la storia umana, ma che mette in discussione le basi del capitalismo degli ultimi duecento anni: la necessità di lavorare per vivere. In discussione, per riprendere l’espressione di Keynes e delle sue «prospettive economiche per i nostri nipoti», c’è «il superamento della questione economica».
il reddito di base universale
Una prospettiva del genere implica un totale ribaltamento delle nostre attuali prospettive e inevitabilmente si presta all’accusa di essere visionari o utopisti o pazzi; eppure, negli ultimi tempi ha acquistato una certa dose di buon senso, dato che la tendenza naturale delle forze dell’economia e dei sistemi che fin qui abbiamo inventato per gestirla o migliorarla ci porta dritti verso una crescente disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze e l’insopportabilità sociale. «Utopie per realisti», è il titolo di un altro libro (ancora non pubblicato in Italia), stavolta con una sostanziosa prospettiva storica, dello storico e giornalista olandese Rutger Bregman. Mentre alcuni governi cominciano a sperimentare, in piccolissime dosi, una delle ricette per redistribuire il lavoro – il reddito di base universale e incondizionato –, che anche secondo De Masi dovrebbe essere uno degli ingredienti del nuovo menu economico. Nel quale, per tutti questi motivi, il lavoro non è più il valore fondante della nostra partecipazio- ne alla società.
un rischioso ideale di liberazione
In questo contesto, il «lavorare gratis» può essere visto come la provocazione fondamentale e come il modo per far irrompere i disoccupati sul pianeta del lavoro. Analizzata alla lettera, però, la provocazione avrebbe un solo impatto economico: mettere in concorrenza l’esercito di riserva dei disoccupati con gli altri, e dunque far scendere – ancora – il loro salario, più che il loro orario. Cosa che in effetti già avviene, dai fattorini di Foodora agli stagisti nelle redazioni dei giornali. Letta nel contesto più ampio delle undici proposte del libro, e della generale ripresa di discussione sul tema della redistribuzione del lavoro, la «provocazione» assume un altro senso. In un mondo nel quale siamo riusciti a sganciare il lavoro dalle necessità di sopravvivenza, e redistribuirlo insieme al dividendo sociale che la ricchezza delle nuove tecnologie ci consegna, in effetti il lavoro gratuito diventa uno dei valori della società (e in parte già lo è, quando scelto liberamente e non per costrizione o mancanza di alternative).
Ma nella transizione, può succedere anche che alcune utopie avanzate per un ideale di liberazione si trasformino nel loro opposto. Nella storia, purtroppo, si contano diversi episodi del genere.
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Sussidarietà per una nuova socialità che metta al centro la persona e porti al ridisegno delle Istituzioni
di Franco Meloni (prima parte di un articolo scritto per la rivista Nuovo Cammino della Diocesi di Ales-Terralba)
Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente del Comitato scientifico della Settimana sociale dei cattolici italiani (a Cagliari dal 26 al 29 ottobre sul tema, suggerito da Papa Francesco, “Il lavoro che vogliamo libero, creativo, partecipativo, solidale”), ha spiegato che il filo conduttore del Convegno sarà “il principio di sussidiarietà, che richiama un’esigenza di raccordo degli ordini civili articolandoli in modo che nessuno possa avanzare la pretesa di possedere il monopolio degli interventi sulla società”.
Sul concetto di sussidiarietà ci sembra utile fornire sintetici elementi di chiarificazione. In un secondo intervento cercheremo di ragionare sulle sue implicazioni nella gestione dei beni comuni, rispetto alla creazione di lavoro e della sua valorizzazione nei termini esplicitati dal tema convegnistico.
La sussidiarietà come principio di organizzazione sociale trova accoglimento e sistematizzazione teorica nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Il primo documento che la contiene è l’enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII. Successivamente la Chiesa ha ulteriormente elaborato il concetto attraverso le encicliche di altri Papi: Pio XI Quadragesimo Anno (1931); Giovanni XXIII Mater et magistra (1961); Giovanni Paolo II Centesimus annus (emanata nel 1991 nel centenario della “Rerum Novarum”), la quale ultima riafferma e attualizza le precedenti elaborazioni: «Disfunzioni e difetti dello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».
Ma veniamo alla definizione giuridica accolta nel nostro ordinamento (giova anche ricordare che il principio di sussidiarietà è posto alla base dei rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati aderenti) e, soprattutto alle conseguenze della pratica della sussidiarietà orizzontale, attingendo a tal fine alle elaborazioni del prof. Gregorio Arena e del suo Laboratorio per la Sussidarietà (www.labsus.org).
Il principio di sussidiarietà è regolato dall’articolo 118 della Costituzione italiana: “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. Ne consegue che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.
Il principio di sussidiarietà si esplica in due dimensioni:
- verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e ai bisogni del territorio;
- orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
Con riferimento alla sussidiarietà orizzontale, la Costituzione legittima la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, prevedendo che le amministrazioni pubbliche la favoriscano, con conseguenze positive per le persone e per la collettività in termini di benessere spirituale e materiale. L’applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di cambiamento positivo delle amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva concorre a migliorarne la capacità di rispondere ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali. In questa direzione sono ormai numerose le amministrazioni pubbliche che hanno intrapreso iniziative per favorire la sussidiarietà orizzontale – ad esempio i Comuni attraverso appositi regolamenti per la gestione con i cittadini, singoli e associati, dei beni comuni urbani – e dall’altro le entità della società civile si sono mosse con azioni concrete, anche sostenute da attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di ricerca e di documentazione.
I cittadini attivi, applicando il principio di sussidiarietà orizzontale, si prendono cura dei beni comuni. In tema appare convincente la distinzione operata da LabSus tra “cittadini attivi” e “volontari”. Entrambi sono “disinteressati”, in quanto esercitano una forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell’interesse generale. I cittadini attivi, custodi e non proprietari dei beni comuni, esercitano sugli stessi un diritto di cura fondato sull’interesse generale. In sostanza: i volontari sono “disinteressati” in quanto vanno oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei; i cittadini attivi sono “disinteressati” in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per prendersi cura di beni che sono di tutti.
L’applicazione pratica del concetto di sussidiarietà dovrebbe comportare un ridisegno totale degli ordinamenti istituzionali, con un alleggerimento delle burocrazie e una semplificazione istituzionale e con l’apertura di ampi spazi per l’esercizio della democrazia partecipativa. La Sardegna dovrebbe giovarsene anche nella riforma del proprio assetto istituzionale che l’esito del Referendum costituzionale del 4 dicembre comporta differente rispetto a quello attualmente vigente.
(prima parte)
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Oggi martedì 2 maggio 2017
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Gramsci, una vita e un pensiero in movimento
Gianna Lai su Democraziaoggi.
E’ online il manifesto sardo duecentotrentasette
Il numero 237
Il sommario
Renzi ha stravinto le primarie Pd. E se fosse una grande illusione? (Ottavio Olita), La voce dei morti di Buggerru (Francesco Cocco), Testamento biologico e autodeterminazione (Gianfranca Fois), Il lavoro aggredito (Amedeo Spagnuolo), L’abusivismo edilizio prospera perché i Comuni e la Regione Sardegna dormono (Stefano Deliperi), Le piaghe sociali che hanno ispirato la svolta dell’intervento pubblico in economia (Gianfranco Sabattini), Primarie Pd. In Sardegna vince il centralismo (Massimo Dadea), Le radici e le ali (Marino Canzoneri), Un milione di Italiani senza diritti: approviamo subito la legge sulla cittadinanza (Ilham Mounssif), 25 Aprile. Polemiche e nuova resistenza (Roberto Mirasola), Il nostro 28 aprile. Sa Die de sa Sardinia (Giacomo Meloni), Il Compagno T. a Sassari (Red), Il lugubre voto in Francia (Rossana Rossanda), Ong nel mirino, il sottofondo oscuro del teorema Zuccaro (Luigi Manconi), La sconfitta dello Stato alla manifestazione del 28 a Quirra (Claudia Zuncheddu).
Il popolo sardo con sant’Elisio
Foto di Renato d’Ascanio Ticca.
Sa Die de S. Efis.
Fuori dalla politica, da oltre trecentocinquant’anni, per i Sardi Sa Die de sa Sardigna in realtà è oggi, a Cagliari, col popolo nei suoi costumi, venuto da ogni contrada dell’Isola sulle traccas, a cavallo, con ogni altro mezzo, per onorare un soldato asiatico, martire cristiano e per chiedergli protezione mentre attraversa la folla imponente sul suo cocchio trainato da buoi monumentali, accudito dalle confraternite della Città e dei suoi quartieri storici, accompagnato dalla musica delle launeddas e dai gosus cantati dai fedeli: “Protettori poderosu, de Sardigna ispetziali, liberanosi de mali, Efis, martiri gloriosu”.
[Tonino Dessì su fb]
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Scalzi alla meta… Cosa non si fa per Sant’Efis!
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Sant’Efisio e la devozione laica. Un mistero lungo quattro secoli.
Francesca Mulas su SardiniaPost.
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Protettori poderosu,
De Sardigna speziali
Liberanosi de mali,
EFIS martiri gloriosu
…
De Casteddu appassionau,
Sempri sias difensori,
Sighei a essiri intercessori
EFIS martiri sagrau< /a>
La priorità del Lavoro
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IL LAVORO CHE VOGLIAMO
LIBERO, CREATIVO,
PARTECIPATIVO E SOLIDALE
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Il Primo Maggio di Giuseppe Di Vittorio
Il Primo maggio e la priorità del lavoro in un discorso ancora attuale di Giuseppe Di Vittorio
(dal numero 17 del «Lavoro» pubblicato il 26 aprile 1953)
Se la celebrazione del Primo maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo. Il Primo maggio, infatti, esalta la potenza del lavoro e le priorità e la nobiltà della sua funzione nella vita d’ogni società umana. In pari tempo, questa giusta esaltazione pone in maggior luce l’ingiustizia rivoltante del fatto che, in tanta parte del mondo, il lavoro non è libero, essendo sottoposto al giogo del capitale e subordinato alla legge barbarica del profitto di pochi, a detrimento di tutti. Non essendo libero, il lavoro non può espandersi, secondo i crescenti bisogni dell’uomo; non può utilizzare tutta la sua potenza creatrice, per soddisfare le incessanti esigenze di vita e di progresso dell’umanità. Ogni possibilità di lavoro e di produzione è condizionata e limitata dalla convenienza o meno dei detentori del capitale, dei loro trust, dei loro monopoli.
Di qui, le mostruosità inumane del sistema capitalistico: immense estensioni di terre incolte o malcoltivate e masse enormi di braccianti disoccupati; fabbriche che si chiudono e milioni di famiglie prive dei prodotti più necessari; tonnellate di grano buttate a mare – per mantenere elevati i prezzi – e milioni di uomini e di donne e di bambini che scarseggiano o mancano del pane.Da questo sistema di predominio del capitale, da questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sorgono le crisi, la disoccupazione, la miseria, di cui soffrono le popolazioni.
Da questo sistema d’ingiustizia e di sopraffazione, sorgono le cupidigie e le brame di rapina dei grandi monopoli su altri Paesi, su altri mercati, su altre fonti di materie prime. Di qui, sorgono le guerre imperialistiche, coi loro inseparabili e terribili cortei di massacri, di distruzioni, di lutto, di carestia. Il Primo maggio, pertanto, i lavoratori del mondo intero, celebrando la potenza invincibile del lavoro, rivendicando il loro diritto alla conquista di migliori condizioni di vita riaffermano la loro volontà collettiva di accelerare la marcia verso l’emancipazione del lavoro, che libererà tutta l’umanità dal timore delle crisi, dalla paura della fame, dall’incubo della guerra, ed aprirà ad essa la via radiosa del benessere crescente e d’un più alto livello di civiltà.
Il lavoro è creatore di beni; il lavoro eleva gli uomini, li rende migliori e li affratella; il lavoro è pace. Il Primo maggio, i lavoratori d’Italia e del mondo, esaltando il lavoro, ribadiscono la loro volontà di pace e riconfermano solennemente il Patto della loro solidarietà internazionale al disopra d’ogni frontiera di nazioni, di sistemi politici e sociali di razze e di religioni. Tutti fratelli gli uomini e le donne del lavoro.
All’alba di Maggio sorridono, quest’anno, fondate speranze di distensione internazionale e di costruzione d’una pace stabile. Ma i grandi monopoli, profittatori di guerra, non disarmano. Essi confessano d’aver paura della pace, avendo fondato le loro fortune sulla guerra. Di fronte a questi vampiri, che vogliono dividere ad ogni costo il mondo in blocchi nemici, per fomentare l’odio e la guerra, i lavoratori d’Italia manifestano il Primo maggio la loro volontà di difendere ad ogni costo la pace e di rinsaldare la loro fraternità coi lavoratori dell’Unione Sovietica e di tutti i Paesi del mondo.
Il Primo maggio è anche una giornata di rassegna delle forze organizzate del lavoro, di bilancio dei risultati conseguiti dalle loro lotte, di precisazione delle prospettive della loro marcia in avanti. ue fatti positivi sono da registrare: le forze della grande CGIL sono intatte e in pieno sviluppo; nuovi miglioramenti, anche se lievi, sono stati strappati, in favore dei lavoratori.
Ma è troppo poco. Le condizioni di vita dei lavoratori italiani sono tuttora misere, intollerabili. Bassi salari, insufficienti prestazioni previdenziali e il flagello della disoccupazione, sono tuttora i principali fattori delle privazioni e della miseria di cui soffrono i lavoratori, e che continuano a restringere il mercato interno, a ripercuotersi negativamente sulla produzione, ad intristire l’economia nazionale.
I ceti privilegiati e il Governo, lungi dall’accogliere le proposte concrete avanzate dal Congresso confederale di Napoli, dirette a promuovere un grande sviluppo della produzione e la piena occupazione, si sono posti sulla via del loro predominio assolutista sulla vita del Paese, sulla via della reazione e della guerra.
L’attacco sferrato dal grande padronato e dal Governo contro il diritto di sciopero e contro tutte le libertà democratiche del popolo; la disciplina terrorista imposta ai lavoratori in numerose fabbriche, hanno lo scopo di curvare i lavoratori e di sottoporli ad uno sfruttamento sempre più intenso, per addossare loro le crescenti spese improduttive del riarmo e della crisi economica.
Ma su questa via, il Governo e le classi dirigenti non potranno che aggravare la situazione economica e politica, e acutizzare i contrasti, esporsi ad amare delusioni. I lavoratori italiani non si piegano.
Mentre tutte le bandiere dei nostri sindacati unitari sventolano al sole di maggio, i lavoratori dei settori decisivi del lavoro italiano – dell’industria, dell’agricoltura, del pubblico impiego, ecc. – sono in agitazione, per una serie di rivendicazioni economiche, urgenti e improrogabili. A queste, sono intimamente legate la difesa del diritto di sciopero e di tutte le libertà democratiche garantite dalla Costituzione.
Il Primo maggio, ribadendo le proprie rivendicazioni più urgenti, una parola d’ordine si leverà da tutte le piazze: Avanti, sempre più avanti, sulla via della conquista di migliori condizioni di vita e della difesa vigorosa e inflessibile del diritto di sciopero, del lavoro, della libertà, della pace, verso la conquista d’un avvenire migliore, per il popolo e per l’Italia!
Un’occasione non frequente si presenta prossimamente ai lavoratori italiani per sconfiggere la reazione e la guerra: le elezioni politiche del 7 giugno. Il Comitato direttivo della CGIL ha fissato la sua posizione, sulle prossime elezioni. Fate che una copia della nostra risoluzione giunga in ogni casa. La posta in giuoco è grossa.
Nella misura in cui i lavoratori d’ogni opinione politica e fede religiosa comprenderanno il significato di queste elezioni, voteranno con noi, contro i partiti della coalizione governativa e contro i partiti neo fascisti e monarchici che rappresentano la coalizione del grande padronato, schierata contro le rivendicazioni più sentite e le aspirazioni più profonde del popolo. Tutti i lavoratori voteranno con noi, coi partiti del lavoro, della libertà e della pace.
La festa del lavoro sia la festa dell’unità, dell’amicizia, della fiducia. L’avvenire è del lavoro e dei lavoratori. L’umanità vuoi vivere e progredire nella pace, nella libertà, nella fraternità. Solamente il trionfo delle forze del lavoro potrà soddisfare appieno queste esigenze imperiose dell’umanità.
Da tutte le piazze d’Italia parta, il Primo maggio, il saluto fraterno dell’Italia che lavora ai lavoratori del mondo intero, quale pegno di solidarietà e di pace!
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LAVOROxIL LAVORO DIBATTITO. Lavorare gratis: un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
Il tema del lavoro è fondamentale per ogni ipotesi di sviluppo in generale e – per quanto ci riguarda e considerato il nostro specifico ambito di intervento – con particolare riferimento alla Sardegna. Aladinews ne ha fatto un argomento di interesse prioritario e in tale direzione supporta il Gruppo di Lavoro per il Lavoro (Lavoro al Quadrato) costituitosi di recente nell’ambito del Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale e Statutaria. Lo facciamo pubblicando documenti prodotti dallo stesso Gruppo e altra documentazione pertinente, prevalentemente reperita in rete e, ancora, dando tribuna sull’argomento a esperti e cittadini interessati, e pubblicizzando iniziative convegnistiche, seminariali e comunque di dibattito.
LAVORO
un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
di Roberta Carlini, su Rocca
Gratis. È questa la parola, contenuta nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – «Lavorare gratis, lavorare tutti» – che più disturba e che più attrae. Lavorare gratis? «Bella novità», potrebbero rispondere irritati in molti, pensando a se stessi: quante volte, soprattutto ai più giovani, e in particolare nei lavori intellettuali e/o creativi, è stato chiesto di lavorare senza stipendio né compenso alcuno, come stagista, come cultore della materia, come biglietto d’ingresso e modo per farsi conoscere? La parte dei lettori che ha queste esperienze, o le ha ascoltate da figli, amici, fratelli e sorelle, può reagire male, e pensare: qui c’è un sociologo che ci propone di farci piacere quello che già succede e non ci piace per niente. Un’altra parte dei lettori può invece essere più attratta, o addolcita, dal «lavorare tutti», esaltando il ritorno di una visione ottimista, utopica, programmatica del futuro, contro la rassegnazione all’andazzo delle cose.
La piena occupazione è stata un obbiettivo della politica economica per larga parte del ’900, che poi è andato in soffitta insieme ai tanti attrezzi della cassetta degli economisti che l’avevano studiata: finalmente torna in primo piano, e per di più ad opera di un intellettuale che è molto ascoltato da un partito – il M5S – che, a stare ai sondaggi, è il primo partito italiano e potrebbe trovarsi al governo in un futuro non lontano.
provocazione visione possibilità
L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le riflessioni e le proposte del saggio, che ovviamente dà sostanza a quel doppio slogan che ricorda l’antico (sempre per tornare al Novecento) «lavorare meno, lavorare tutti». In realtà, De Masi avrebbe potuto riprendere anche, semplicemente, quello slogan degli anni Settanta: in fondo, il nocciolo della sua tesi è che «c’è sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare». E dunque che il poco lavoro che c’è si deve redistribuire tra i tanti che lo vorrebbero, attraverso la riduzione dell’orario: esattamente quello che si teorizzava e proponeva negli anni ’70 e che fu alla base della legge francese sulle 35 ore settimanali, ma anche dell’esperimento della Volkswagen che addirittura ridusse la settimana lavorativa a ventotto ore.
Ma se De Masi non ha scelto il glorioso e polveroso «lavorare meno, lavorare tutti», non è solo per distanziarsi da un immaginario di conflittualità novecentesca; né solo perché il «gratis», nell’era di internet, è un pilastro, una condizione diffusa, un grimaldello passpartout; ma anche, e soprattutto, perché la redistribuzione dell’orario di lavoro, nella sua proposta, si dovrebbe realizzare tecnicamente non già per un’imposizione dall’alto, di contratto o di legge, ma in virtù della rivolta degli esclusi, cioè i disoccupati, e della loro irruzione sul mercato del lavoro: milioni di disoccupati che offrono gratis la propria prestazione, per «costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha». Una provocazione, una visione, una possibilità?
in discussione il «lavorare per vivere»
Prima di arrivare alle conclusioni – la riduzione dell’orario di lavoro, nel contesto di un programma con altri dieci punti più o meno imponenti, che vanno dall’armonizzazione dei dati sul lavoro alla creazione di una piattaforma per mettere in contatto chi cerca lavoro e chi lo dà e – chiediamoci: sono vere le premesse, ossia che non c’è e non ci sarà mai più lavoro per
tutti?
La discussione è molto accesa e approfondita, nel mondo dell’economia e della tecnologia, dai pensatoi della Silicon Valley alla Banca d’Inghilterra, dalla ricerca accademica al mondo degli affari. Di recente ha fatto molto rumore un saggio di due dei più ottimisti tra gli esperti, Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, nel quale hanno corretto in senso molto meno roseo le loro previsioni sulla «corsa delle macchine». Ci sono prove del fatto che la sostituzione degli umani con i robot e l’intelligenza artificiale distrugga più lavori di quanti non ne crei, hanno scritto di recente i due in un lavoro accademico.
I numeri girano vorticosamente in questi studi e le forchette sono ampissime: ma più che calcolare effettivamente quanti lavoratori perderanno il loro posto o quanti giovani non ne troveranno uno, le varie ricerche si concentrano sulle singole figure professionali a rischio: vuoi perché proprio non servono più, vuoi perché l’affiancamento della tecnologia permette di svolgere lo stesso lavoro con una produttività enormemente più alta, e dunque alla fine servono meno persone per produrre lo stesso output. Naturalmente, ci sono anche lavori nuovi che nascono: quelli necessari per produrre le stesse macchine che «mangiano» gli altri lavori, e quelli corrispondenti ai nuovi bisogni che emergono. E lo stesso De Masi nel suo libro ammette che «l’introduzione delle macchine, soprattutto di quelle digitali, è solo una delle cause che possono rendere superfluo il lavoro umano» (ci sono altre potenti cause, dalla riduzione dei consumi alla carenza di capitali d’investimento, dalla ritirata degli Stati dai rischi dell’investimento ai difetti e alle scelte sbagliate dei manager).
Ma poi la descrive come talmente potente da ricordare l’Holomodor staliniano, il genocidio di 5 milioni di contadini ucraini. In poche pagine questa terribile catastrofe si trasforma in una grande opportunità, nientemeno che nella possibilità di realizzare quell’utopia che nei secoli ha accompagnato la storia umana, ma che mette in discussione le basi del capitalismo degli ultimi duecento anni: la necessità di lavorare per vivere. In discussione, per riprendere l’espressione di Keynes e delle sue «prospettive economiche per i nostri nipoti», c’è «il superamento della questione economica».
il reddito di base universale
Una prospettiva del genere implica un totale ribaltamento delle nostre attuali prospettive e inevitabilmente si presta all’accusa di essere visionari o utopisti o pazzi; eppure, negli ultimi tempi ha acquistato una certa dose di buon senso, dato che la tendenza naturale delle forze dell’economia e dei sistemi che fin qui abbiamo inventato per gestirla o migliorarla ci porta dritti verso una crescente disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze e l’insopportabilità sociale. «Utopie per realisti», è il titolo di un altro libro (ancora non pubblicato in Italia), stavolta con una sostanziosa prospettiva storica, dello storico e giornalista olandese Rutger Bregman. Mentre alcuni governi cominciano a sperimentare, in piccolissime dosi, una delle ricette per redistribuire il lavoro – il reddito di base universale e incondizionato –, che anche secondo De Masi dovrebbe essere uno degli ingredienti del nuovo menu economico. Nel quale, per tutti questi motivi, il lavoro non è più il valore fondante della nostra partecipazio- ne alla società.
un rischioso ideale di liberazione
In questo contesto, il «lavorare gratis» può essere visto come la provocazione fondamentale e come il modo per far irrompere i disoccupati sul pianeta del lavoro. Analizzata alla lettera, però, la provocazione avrebbe un solo impatto economico: mettere in concorrenza l’esercito di riserva dei disoccupati con gli altri, e dunque far scendere – ancora – il loro salario, più che il loro orario. Cosa che in effetti già avviene, dai fattorini di Foodora agli stagisti nelle redazioni dei giornali. Letta nel contesto più ampio delle undici proposte del libro, e della generale ripresa di discussione sul tema della redistribuzione del lavoro, la «provocazione» assume un altro senso. In un mondo nel quale siamo riusciti a sganciare il lavoro dalle necessità di sopravvivenza, e redistribuirlo insieme al dividendo sociale che la ricchezza delle nuove tecnologie ci consegna, in effetti il lavoro gratuito diventa uno dei valori della società (e in parte già lo è, quando scelto liberamente e non per costrizione o mancanza di alternative).
Ma nella transizione, può succedere anche che alcune utopie avanzate per un ideale di liberazione si trasformino nel loro opposto. Nella storia, purtroppo, si contano diversi episodi del genere.
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LAVOROxIL LAVORO DIBATTITO. Lavorare gratis: un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
Il tema del lavoro è fondamentale per ogni ipotesi di sviluppo in generale e – per quanto ci riguarda e considerato il nostro specifico ambito di intervento – con particolare riferimento alla Sardegna. Aladinews ne ha fatto un argomento di interesse prioritario e in tale direzione supporta il Gruppo di Lavoro per il Lavoro (Lavoro al Quadrato) costituitosi di recente nell’ambito del Comitato d’Iniziativa Sociale Costituzionale e Statutaria. Lo facciamo pubblicando documenti prodotti dallo stesso Gruppo e altra documentazione pertinente, prevalentemente reperita in rete e, ancora, dando tribuna sull’argomento a esperti e cittadini interessati, e pubblicizzando iniziative convegnistiche, seminariali e comunque di dibattito.
LAVORO
un nuovo modello di sviluppo e una provocazione
di Roberta Carlini, su Rocca
Gratis. È questa la parola, contenuta nel titolo dell’ultimo libro del sociologo Domenico De Masi – «Lavorare gratis, lavorare tutti» – che più disturba e che più attrae. Lavorare gratis? «Bella novità», potrebbero rispondere irritati in molti, pensando a se stessi: quante volte, soprattutto ai più giovani, e in particolare nei lavori intellettuali e/o creativi, è stato chiesto di lavorare senza stipendio né compenso alcuno, come stagista, come cultore della materia, come biglietto d’ingresso e modo per farsi conoscere? La parte dei lettori che ha queste esperienze, o le ha ascoltate da figli, amici, fratelli e sorelle, può reagire male, e pensare: qui c’è un sociologo che ci propone di farci piacere quello che già succede e non ci piace per niente. Un’altra parte dei lettori può invece essere più attratta, o addolcita, dal «lavorare tutti», esaltando il ritorno di una visione ottimista, utopica, programmatica del futuro, contro la rassegnazione all’andazzo delle cose.
La piena occupazione è stata un obbiettivo della politica economica per larga parte del ’900, che poi è andato in soffitta insieme ai tanti attrezzi della cassetta degli economisti che l’avevano studiata: finalmente torna in primo piano, e per di più ad opera di un intellettuale che è molto ascoltato da un partito – il M5S – che, a stare ai sondaggi, è il primo partito italiano e potrebbe trovarsi al governo in un futuro non lontano.
provocazione visione possibilità
L’intervista di De Masi a Rocca, nel numero 8/2017 [ripresa da Aladinews] , ci consente di andare oltre il titolo e cogliere, nelle parole dell’autore, le intenzioni, le riflessioni e le proposte del saggio, che ovviamente dà sostanza a quel doppio slogan che ricorda l’antico (sempre per tornare al Novecento) «lavorare meno, lavorare tutti». In realtà, De Masi avrebbe potuto riprendere anche, semplicemente, quello slogan degli anni Settanta: in fondo, il nocciolo della sua tesi è che «c’è sempre meno lavoro mentre aumentano quelli che vorrebbero lavorare». E dunque che il poco lavoro che c’è si deve redistribuire tra i tanti che lo vorrebbero, attraverso la riduzione dell’orario: esattamente quello che si teorizzava e proponeva negli anni ’70 e che fu alla base della legge francese sulle 35 ore settimanali, ma anche dell’esperimento della Volkswagen che addirittura ridusse la settimana lavorativa a ventotto ore.
Ma se De Masi non ha scelto il glorioso e polveroso «lavorare meno, lavorare tutti», non è solo per distanziarsi da un immaginario di conflittualità novecentesca; né solo perché il «gratis», nell’era di internet, è un pilastro, una condizione diffusa, un grimaldello passpartout; ma anche, e soprattutto, perché la redistribuzione dell’orario di lavoro, nella sua proposta, si dovrebbe realizzare tecnicamente non già per un’imposizione dall’alto, di contratto o di legge, ma in virtù della rivolta degli esclusi, cioè i disoccupati, e della loro irruzione sul mercato del lavoro: milioni di disoccupati che offrono gratis la propria prestazione, per «costringere i lavoratori che hanno 40 ore a cederne un poco a chi non ne ha». Una provocazione, una visione, una possibilità?
in discussione il «lavorare per vivere»
Prima di arrivare alle conclusioni – la riduzione dell’orario di lavoro, nel contesto di un programma con altri dieci punti più o meno imponenti, che vanno dall’armonizzazione dei dati sul lavoro alla creazione di una piattaforma per mettere in contatto chi cerca lavoro e chi lo dà e – chiediamoci: sono vere le premesse, ossia che non c’è e non ci sarà mai più lavoro per
tutti?
La discussione è molto accesa e approfondita, nel mondo dell’economia e della tecnologia, dai pensatoi della Silicon Valley alla Banca d’Inghilterra, dalla ricerca accademica al mondo degli affari. Di recente ha fatto molto rumore un saggio di due dei più ottimisti tra gli esperti, Daron Acemoglu e Pascual Restrepo, nel quale hanno corretto in senso molto meno roseo le loro previsioni sulla «corsa delle macchine». Ci sono prove del fatto che la sostituzione degli umani con i robot e l’intelligenza artificiale distrugga più lavori di quanti non ne crei, hanno scritto di recente i due in un lavoro accademico.
I numeri girano vorticosamente in questi studi e le forchette sono ampissime: ma più che calcolare effettivamente quanti lavoratori perderanno il loro posto o quanti giovani non ne troveranno uno, le varie ricerche si concentrano sulle singole figure professionali a rischio: vuoi perché proprio non servono più, vuoi perché l’affiancamento della tecnologia permette di svolgere lo stesso lavoro con una produttività enormemente più alta, e dunque alla fine servono meno persone per produrre lo stesso output. Naturalmente, ci sono anche lavori nuovi che nascono: quelli necessari per produrre le stesse macchine che «mangiano» gli altri lavori, e quelli corrispondenti ai nuovi bisogni che emergono. E lo stesso De Masi nel suo libro ammette che «l’introduzione delle macchine, soprattutto di quelle digitali, è solo una delle cause che possono rendere superfluo il lavoro umano» (ci sono altre potenti cause, dalla riduzione dei consumi alla carenza di capitali d’investimento, dalla ritirata degli Stati dai rischi dell’investimento ai difetti e alle scelte sbagliate dei manager).
Ma poi la descrive come talmente potente da ricordare l’Holomodor staliniano, il genocidio di 5 milioni di contadini ucraini. In poche pagine questa terribile catastrofe si trasforma in una grande opportunità, nientemeno che nella possibilità di realizzare quell’utopia che nei secoli ha accompagnato la storia umana, ma che mette in discussione le basi del capitalismo degli ultimi duecento anni: la necessità di lavorare per vivere. In discussione, per riprendere l’espressione di Keynes e delle sue «prospettive economiche per i nostri nipoti», c’è «il superamento della questione economica».
il reddito di base universale
Una prospettiva del genere implica un totale ribaltamento delle nostre attuali prospettive e inevitabilmente si presta all’accusa di essere visionari o utopisti o pazzi; eppure, negli ultimi tempi ha acquistato una certa dose di buon senso, dato che la tendenza naturale delle forze dell’economia e dei sistemi che fin qui abbiamo inventato per gestirla o migliorarla ci porta dritti verso una crescente disoccupazione, l’aumento delle diseguaglianze e l’insopportabilità sociale. «Utopie per realisti», è il titolo di un altro libro (ancora non pubblicato in Italia), stavolta con una sostanziosa prospettiva storica, dello storico e giornalista olandese Rutger Bregman. Mentre alcuni governi cominciano a sperimentare, in piccolissime dosi, una delle ricette per redistribuire il lavoro – il reddito di base universale e incondizionato –, che anche secondo De Masi dovrebbe essere uno degli ingredienti del nuovo menu economico. Nel quale, per tutti questi motivi, il lavoro non è più il valore fondante della nostra partecipazio- ne alla società.
un rischioso ideale di liberazione
In questo contesto, il «lavorare gratis» può essere visto come la provocazione fondamentale e come il modo per far irrompere i disoccupati sul pianeta del lavoro. Analizzata alla lettera, però, la provocazione avrebbe un solo impatto economico: mettere in concorrenza l’esercito di riserva dei disoccupati con gli altri, e dunque far scendere – ancora – il loro salario, più che il loro orario. Cosa che in effetti già avviene, dai fattorini di Foodora agli stagisti nelle redazioni dei giornali. Letta nel contesto più ampio delle undici proposte del libro, e della generale ripresa di discussione sul tema della redistribuzione del lavoro, la «provocazione» assume un altro senso. In un mondo nel quale siamo riusciti a sganciare il lavoro dalle necessità di sopravvivenza, e redistribuirlo insieme al dividendo sociale che la ricchezza delle nuove tecnologie ci consegna, in effetti il lavoro gratuito diventa uno dei valori della società (e in parte già lo è, quando scelto liberamente e non per costrizione o mancanza di alternative).
Ma nella transizione, può succedere anche che alcune utopie avanzate per un ideale di liberazione si trasformino nel loro opposto. Nella storia, purtroppo, si contano diversi episodi del genere.
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Sussidarietà per una nuova socialità che metta al centro la persona e porti al ridisegno delle Istituzioni
di Franco Meloni (prima parte di un articolo scritto per la rivista Nuovo Cammino della Diocesi di Ales-Terralba)
Filippo Santoro, arcivescovo di Taranto e presidente del Comitato scientifico della Settimana sociale dei cattolici italiani (a Cagliari dal 26 al 29 ottobre sul tema, suggerito da Papa Francesco, “Il lavoro che vogliamo libero, creativo, partecipativo, solidale”), ha spiegato che il filo conduttore del Convegno sarà “il principio di sussidiarietà, che richiama un’esigenza di raccordo degli ordini civili articolandoli in modo che nessuno possa avanzare la pretesa di possedere il monopolio degli interventi sulla società”.
Sul concetto di sussidiarietà ci sembra utile fornire sintetici elementi di chiarificazione. In un secondo intervento cercheremo di ragionare sulle sue implicazioni nella gestione dei beni comuni, rispetto alla creazione di lavoro e della sua valorizzazione nei termini esplicitati dal tema convegnistico.
La sussidiarietà come principio di organizzazione sociale trova accoglimento e sistematizzazione teorica nella dottrina sociale della Chiesa cattolica. Il primo documento che la contiene è l’enciclica Rerum Novarum (1891) di papa Leone XIII. Successivamente la Chiesa ha ulteriormente elaborato il concetto attraverso le encicliche di altri Papi: Pio XI Quadragesimo Anno (1931); Giovanni XXIII Mater et magistra (1961); Giovanni Paolo II Centesimus annus (emanata nel 1991 nel centenario della “Rerum Novarum”), la quale ultima riafferma e attualizza le precedenti elaborazioni: «Disfunzioni e difetti dello Stato assistenziale derivano da un’inadeguata comprensione dei compiti propri dello Stato. Anche in questo ambito deve essere rispettato il principio di sussidiarietà: una società di ordine superiore non deve interferire nella vita interna di una società di ordine inferiore, privandola delle sue competenze, ma deve piuttosto sostenerla in caso di necessità ed aiutarla a coordinare la sua azione con quella delle altre componenti sociali, in vista del bene comune».
Ma veniamo alla definizione giuridica accolta nel nostro ordinamento (giova anche ricordare che il principio di sussidiarietà è posto alla base dei rapporti tra l’Unione Europea e gli Stati aderenti) e, soprattutto alle conseguenze della pratica della sussidiarietà orizzontale, attingendo a tal fine alle elaborazioni del prof. Gregorio Arena e del suo Laboratorio per la Sussidarietà (www.labsus.org).
Il principio di sussidiarietà è regolato dall’articolo 118 della Costituzione italiana: “Stato, Regioni, Province, Città Metropolitane e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio della sussidiarietà”. Ne consegue che le diverse istituzioni debbano creare le condizioni per permettere alla persona e alle aggregazioni sociali di agire liberamente nello svolgimento della loro attività. L’intervento dell’entità di livello superiore, qualora fosse necessario, deve essere temporaneo e teso a restituire l’autonomia d’azione all’entità di livello inferiore.
Il principio di sussidiarietà si esplica in due dimensioni:
- verticale: la ripartizione gerarchica delle competenze deve essere spostata verso gli enti più vicini al cittadino e ai bisogni del territorio;
- orizzontale: il cittadino, sia come singolo sia attraverso i corpi intermedi, deve avere la possibilità di cooperare con le istituzioni nel definire gli interventi che incidano sulle realtà sociali a lui più vicine.
Con riferimento alla sussidiarietà orizzontale, la Costituzione legittima la partecipazione dei cittadini alle decisioni e alle azioni che riguardano la cura di interessi aventi rilevanza sociale, prevedendo che le amministrazioni pubbliche la favoriscano, con conseguenze positive per le persone e per la collettività in termini di benessere spirituale e materiale. L’applicazione di questo principio ha un elevato potenziale di cambiamento positivo delle amministrazioni pubbliche in quanto la partecipazione attiva dei cittadini alla vita collettiva concorre a migliorarne la capacità di rispondere ai bisogni delle persone e alla soddisfazione dei diritti sociali. In questa direzione sono ormai numerose le amministrazioni pubbliche che hanno intrapreso iniziative per favorire la sussidiarietà orizzontale – ad esempio i Comuni attraverso appositi regolamenti per la gestione con i cittadini, singoli e associati, dei beni comuni urbani – e dall’altro le entità della società civile si sono mosse con azioni concrete, anche sostenute da attività di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, di ricerca e di documentazione.
I cittadini attivi, applicando il principio di sussidiarietà orizzontale, si prendono cura dei beni comuni. In tema appare convincente la distinzione operata da LabSus tra “cittadini attivi” e “volontari”. Entrambi sono “disinteressati”, in quanto esercitano una forma di libertà, solidale e responsabile, che ha come obiettivo la realizzazione non di interessi privati, per quanto assolutamente rispettabili e legittimi, bensì dell’interesse generale. I cittadini attivi, custodi e non proprietari dei beni comuni, esercitano sugli stessi un diritto di cura fondato sull’interesse generale. In sostanza: i volontari sono “disinteressati” in quanto vanno oltre i legami di sangue per prendersi cura di estranei; i cittadini attivi sono “disinteressati” in quanto vanno oltre il diritto di proprietà per prendersi cura di beni che sono di tutti.
L’applicazione pratica del concetto di sussidiarietà dovrebbe comportare un ridisegno totale degli ordinamenti istituzionali, con un alleggerimento delle burocrazie e una semplificazione istituzionale e con l’apertura di ampi spazi per l’esercizio della democrazia partecipativa. La Sardegna dovrebbe giovarsene anche nella riforma del proprio assetto istituzionale che l’esito del Referendum costituzionale del 4 dicembre comporta differente rispetto a quello attualmente vigente.
(prima parte)
Oggi 1° maggio 2017 lunedì Festa del Lavoro – A Cagliari Sagra di Sant’Efisio
!° maggio a Cagliari.
Oi sa bissira de Efis.
I servizi fotografici per la 361a Sagra di Sant’Efisio saranno curati per la nostra News da Renato d’Ascanio Ticca. La gran parte degli scatti fotografici saranno ospitati dalla sua pagina fb.
Tutte le manifestazioni in programma nel sito web del Comune di Cagliari.
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Aladinews su Sant’Efisio (al 30 aprile 2017)
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Gli editoriali di Aladinews. Dov’è finita la ragione? La follia della guerra.
E’ indispensabile recuperare le ragioni della pace contro le pseudo ragioni della guerra. E’ fondamentale che torni a farsi sentire la voce del movimento pacifista mondiale in tutte le sedi e in tutte le occasioni per arrestare la barbarie dei conflitti, delle persecuzioni e dei massacri di individui inermi. Non basta più limitarsi a pensare la pace, occorre mobilitarsi per imporla, per farla diventare il tema principale nell’agenda dei rappresentanti politici. La guerra deve tornare ad essere, o essere finalmente, un tabù per i popoli del mondo.
di Vanni Tola
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S. Efisio, S. Antioco… Renzi
1 Maggio 2017
Andrea Pubusa
Perché i cagliaritani e i sardi amano Efisio? E perché hanno questo sentimento anche verso Antioco? Perché erano degli intellettuali schierati dalla parte delle classi subalterne e popolari fino al martirio. Efiso veniva dall’esercito, Antioco era un medico di pelle scura. Due storie diverse, due vicende accomunate dall’amore verso il popolo, da una netta […]
[Leggi su Democraziaoggi]
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Il Primo Maggio di Giuseppe Di Vittorio
Il Primo maggio e la priorità del lavoro in un discorso ancora attuale di Giuseppe Di Vittorio.
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Dal numero 17 del «Lavoro» pubblicato il 26 aprile 1953, ripreso oggi da Democraziaoggi
Se la celebrazione del Primo maggio diviene, ogni anno, più grandiosa nel mondo gli è perché il suo significato esprime le aspirazioni più profonde e più vive dell’uomo. Il Primo […]
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Il nostro 28 aprile. Sa Die de sa Sardinia
Giacomo Meloni su il manifesto sardo (online dal primo maggio 2017)
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SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2017 – ACCOGLIENZA ITALIA
Le ONG, lord Jim e i soliti sospetti
di Barbara Spinelli, su Il fatto quotidiano, ripreso da eddyburg.
Nessuna persona sensata che legga con attenzione queste chiarissime informazioni può continuare a pensare che le ONG accusate dal procuratore Zuccaro abbia torto marcio, e con lui quanti si allineano alle posizioni dei grillini italiani, di Matteo Salvini e del governo renziano. il Fatto quotidiano, 30 aprile 2017
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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» LAVORO
Il lavoro oggi, 1° maggio 2017
di Edoardo Salzano su eddyburg.
Più lotti più inaugurazioni e poca strada: così si governa!
La sedia
di Vanni Tola
Il ministro delle infrastrutture Del Rio deve essere stato chiaro quando è stato invitato a venire in Sardegna per parlare di trasporti nell’Isola. “Vengo soltanto se mi fatte inaugurare qualcosa, altrimenti rinuncio”. Prontamente la Regione Sardegna si è attivata per esaudire i desideri dell’illustre visitatore. Il pensiero è andato subito alla strada Sassari-Olbia, da sempre in fase di realizzazione. Ottantaquattro chilometri divisi in otto lotti che, da tempo, la Regione ha fatto inaugurare dal politico di turno con l’escamotage di inaugurarla non tutta intera bensì per lotti. Lo stesso Ministro Del Rio aveva già inaugurato nel mese di giugno dello scorso anno ben quattro lotti, due vicino a Sassari e due vicino ad Olbia. In totale sono già stati inaugurati ben 24 Km sugli ottanta previsti a completamento dell’opera. Non avendo altri lotti pronti da fargli inaugurare, questa volta, hanno fatto inaugurare al Ministro soltanto una parte di un lotto, tre Km, portando cosi i Km della costruenda strada già inaugurati da 24 a 27. Restano ancora da inaugurare in un futuro che speriamo prossimo ben 53 Km. Per cosi pochi Km non è stato neppure necessario accompagnare il Ministro sul luogo dell’inaugurazione, gliela hanno fatta inaugurare per videoconferenza. In cambio, per ricambiare la cortesia, il Ministro con il Presidente della Regione, ha promesso di tutto. Il completamento della Sassari-Olbia entro il 2018, la manutenzione straordinaria della Carlo Felice da Oristano a Sassari, la conclusione dei lavori della Sassari-Alghero, un robusto finanziamento per il rilancio della vetusta rete ferroviaria. Insomma aspettatevi per i prossimi decenni tante altre inaugurazioni.