Monthly Archives: maggio 2017

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Oggi giovedì 18 maggio 2017

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democraziaoggiDoppia preferenza: partecipare ad una rapina non è democratico. Occorre fare una nuova legge
18 Maggio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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labsusBENI COMUNI
Firenze, 20 maggio. Regione Toscana, Lions Club e Labsus insieme per l’amministrazione condivisa.
Redazione Labsus – 17 maggio 2017, su LabSus.
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lampada aladin micromicroGli editoriali di Aladinews. LAVORO Un nuovo modello di sviluppo che si adatti alle persone e non viceversa
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fuori-roma-rai-play-ma-17Tempio o strada? Una Cagliari con lo sguardo corto
di Alessandro Mongili
By sardegnasoprattutto/ 18 maggio 2017/ Società & Politica/

Domani a Ghilarza con Aleida Guevara: “Gramsci e Guevara dalla parte degli ultimi”

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- La pagina fb dell’evento.

Oggi mercoledì 17 maggio 2017

Oggi alla MEM: alcuni scatti di Antonio Medda – alcuni scatti di Renato d’Ascanio Ticca.
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17-mag-17-gramsciOggi “Le città e i territori”
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Diritti, Salute e Istruzione – Viaggio culturale intorno a Cuba17, 18 e 19 maggio: Aleida Guevara in Sardegna.
figlia-che-17-5-17- Approfondimenti su il manifesto sardo.
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La leppa dei sardi e il multiculturalismo
17 Maggio 2017
democraziaoggiAmsicora su Democraziaoggi.
Ma dai! Il coltello non è solo sacro per gli indiani. Volete mettere la leppa per i sardi! Una dotazione necessaria, come la berritta e poi il cappello in testa e su muncadodi per le donne. Non si poteva andare “a conca sciorta“, a capo scoperto, senza nulla in testa, e l’uomo non usciva senza la […]

Domani “Le città e i territori”

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E’ online il manifesto sardo numero duecentotrentotto

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Il numero 238
Il sommario
Le donne nella democratizzazione della legge elettorale sarda (Claudia Zuncheddu), Doppia preferenza di genere e qualità della democrazia (Luisa Sassu), Una legge elettorale sarda più democratica (Massimo Dadea), Per una legge elettorale proporzionale che garantisca la partecipazione popolare (Red), Il presunto declino degli Stati Uniti d’America nel governo dell’equilibrio globale del potere (Gianfranco Sabattini), Ma è possibile realizzare i nuovi ascensori per il Castello di Cagliari con minore impatto ambientale? (Stefano Deliperi), Il compagno T. è un libro che fa domande (Cassandra Casagrande), Cicitu Masala e i partiti italiani in Sardegna (Francesco Casula), Cronistoria dell’89 cagliaritano (Francesco Cocco), Torramus a su Connottu! (Graziano Pintori), Il Centro Servizi Culturali U.N.L.A. di Oristano, uno spazio prezioso (Marcello Marras).

Oggi tutti in piazza!

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Sit-in dei pacifisti davanti al Consiglio regionale: “A fora sas bases de Sardigna”Alle ore 12.11 su L’Unione Sarda online.

Oggi martedì 16 maggio 2017

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democraziaoggiNei paesi il mostro-burocrazia si vede meglio
16 Maggio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Non ho potuto resistere alla richiesta di un gruppo di valorosi giovani di Nuxis, che vogliono cambiare il Paese. Ho accettato la candidatura a sindaco. Dire No mi è sembrato un atto supponente e ingeneroso. Ho sempre avuto il pallino, retaggio della vecchia cultura della sinistra, di tirar sù giovani. E lì ho visto […]

Ernesto Balducci

rocca-11-2017 Il quindicinale della Pro Civitate Christiana ROCCA, ricordando i 25 anni dalla morte di Ernesto Balducci (Santa Fiora, 6 agosto 1922 – Cesena, 25 aprile 1992), ripropone uno degli articoli che lo stesso, con grande lucidità e apertura, scrisse per Rocca n. 23/1988 nel corso della sua lunga collaborazione con la medesima rivista.

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Una laicità di nuovo tipo balducci

di Ernesto Balducci

In un recente articolo, dedicato al tema tipologia variegata, che va dalla fedeltà dell’appartenenza ecclesiale e della identità cristiana, il teologo francese Christian Duquoc coglie nel segno quando riassume la sua analisi parlando di una «chiesa duale», e cioè di due forme di appartenenza: la prima caratterizzata dal riferimento all’istituzione, la seconda totalmente affidata ai moti creativi della comunità di fede. È su questo schema dualistico («schizofrenico», dice in altro luogo il Duquoc) che è possibile tratteggiare una tipologia della presenza dei cattolici nella nostra società. È una tipologia variegata, che va dalla fedeltà a una immagine teocratica della chiesa, che propugna l’unità dei cattolici a tutti i livelli, fino al rigetto di ogni identità che non sia quella derivante dalla fedeltà alla coscienza del Vangelo.
- segue -

Domani tutti in piazza!

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Hibakusha. Perché la “Peace boat” in Sardegna. Il servile voto italiano di NO a un Trattato internazionale che proibisca ed elimini le armi nucleari nel mondo

hibakuscha-a-ca-13-mag-17rocca-11-2017Tonio Dell’Olio su Rocca
Hibakusha è il termine con cui in Giappone si definiscono i sopravvissuti alle bombe atomiche di Hiroshima e Nagasaki dell’agosto 1945. Per molti di loro quell’esperienza è diventata una ragione di vita al punto da dedicare tutte le proprie energie e il proprio tempo a raccontare quella tragedia – un vero e proprio giorno nero dell’umanità – e a sensibilizzare il mondo affinché si smetta definitivamente di progettare, costruire e pensare di poter utilizzare armi nucleari. Alcuni hibakusha da anni solcano i mari del mondo con la «Peace boat», una nave giapponese che viene posta di volta in volta a disposizione di programmi di sensibilizzazione sui temi della pace e che il 13 maggio ha gettato l’ancora nel porto di Cagliari, unica tappa italiana. Sulla nave sono presenti tre hibakusha di prima generazione, due da Hiroshima ed uno da Nagasaki, e due hibakusha di seconda generazione, che condivideranno sia le loro esperienze dirette che quelle delle loro famiglie. Inoltre ci sono due «Giovani Comunicatori per un Mondo Libero dalle Armi Nucleari», designati dal Ministero per gli Affari Esteri giapponese. La tappa italiana è particolarmente significativa perché dal 27 al 31 marzo scorsi presso il Palazzo di vetro delle Nazioni Unite di New York si è dato inizio alla Conferenza finalizzata alla firma di un Trattato internazionale che proibisca ed elimini le armi nucleari nel mondo. Ebbene a quella Conferenza hanno partecipato 132 dei 193 Stati membri dell’Onu e gli Stati che posseggono armi nucleari hanno espresso voto contrario o si sono astenuti nonostante all’appuntamento abbiano partecipato anche 220 realtà della società civile con il sostegno di un documento elaborato e sottoscritto da 3.000 scienziati tra i quali 28 Premi Nobel. Ebbene l’Italia, allineata al dettato della Nato, ha votato contro il percorso iniziato dalla Conferenza.
peace-boat- segue –

Lavoriamo per il Lavoro

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Un nuovo modello di sviluppo che si adatti alle persone e non viceversa

di Fiorella Farinelli su Rocca 11/2017

Nelle riflessioni di De Masi sul lavoro (1) ci sono aspetti che convincono – sollecitando il sempre ottimo esercizio dell’approfondimento – e altri che sembrano invece precipitare nella scorciatoia del poco meditato e argomentato. «Provocazione, visione, possibilità?», è l’appropriata domanda che Roberta Carlini ci pone su Rocca n. 10. Val la pena, comunque, di continuare a discuterne, se non altro per la prossimità di De Masi ai Cinquestelle, un movimento politico che ci potrebbe capitare di avere al governo del paese. Il quale movimento, come si sa, punta parecchie delle sue carte proprio sull’ansia di idee nuove di un’opinione pubblica spaventata dal crescere delle diseguaglianze sociali e dal persistere di una disoccupazione soprattutto giovanile di cui non si viene a capo. Il sociologo, del resto, non è né un economista né un politico, e il suo successo mediatico si è costruito negli anni proprio sull’indubbia capacità di offrire «visioni di futuro». Chi non ricorda i seminari degli anni Novanta, spesso nella cornice delle nostre più affascinanti e perle turistiche, per imprenditori di successo, opinion leaders, politici sulla cresta dell’onda?

la scorciatoia
Ma cosa ci dice oggi De Masi? Il punto centrale della sua riflessione sul lavoro è nella previsione di un rovinoso impatto sulla quantità di lavoro disponibile (quello necessario nell’attuale modello di sviluppo) della cosiddetta rivoluzione robotica. E quindi di un’ormai prossima realtà – tra venti, trent’anni? – strutturalmente connotata dal lavoro di pochi (qualificato, specialistico) e dal non-lavoro di molti. Una riduzione che, secondo alcuni analisti, potrebbe arrivare al 50% del lavoro per il mercato che c’è attualmente, mentre nessuno al momento azzarda ipotesi attendibili su quanto lavoro nuovo e di che tipo (quali nuove figure professionali, quali nuove competenze, quali nuovi percorsi formativi: perché questi sono stati sempre gli effetti delle passate rivoluzioni tecnologiche) potrebbe venire generato dalle caratteristiche tecnologiche dell’organizzazione produttiva e di alcuni servizi.
Di qui, come noto, la scorciatoia. La redistribuzione del lavoro retribuito, supportata (perché 20 ore lavorative settimanali invece che 40 significa anche dimezzare il reddito da lavoro) da un reddito di cittadinanza. Universalistico e incondizionato. Il «lavorare meno lavorare tutti», va detto, non è un tema inedito. È stato dibattuto fin dagli ultimi decenni del secolo scorso con un piede già dentro la rivoluzione informatica, e ne sono state anche fatte sperimentazioni concrete, la più nota quella francese della riduzione dell’orario di lavoro a 35 ore che, per vari motivi, non sembra avere avuto un effetto positivo sull’occupazione ed ha anzi determinato effetti collaterali ritenuti negativi. Ma su questi aspetti, importantissimi da analizzare quando si torni a proporre qualcosa di analogo, De Masi non si sofferma. È un fatto però che oggi sono anche altre, e di diverso segno, le proposte che girano. Tra cui quella all’ordine del giorno anche della Commissione e del Parlamento europeo di una tassazione speciale da imporre ai robot, in parte per rallentarne la produzione e l’impatto, ma soprattutto perché gli Stati possano disporre di risorse economiche aggiuntive con cui retribuire il non lavoro e sviluppare la ricerca. Problematica, anch’essa – va detto – perché sembra assai indigesto oltre che improbabile frenare o vincolare lo sviluppo della ricerca scientifica.

la persona e il lavoro
Uno scenario inquietante, ma anche intessuto di un insieme complesso di cause, visto che in un paese come l’Italia e in altri paesi europei una parte molto consistente della perdita di posti di lavoro più che all’uso delle nuove tecnologie è dovuto al massiccio dislocarsi della produzione in altre aree del mondo, da quella asiatica a quella sudamericana. Alla ricerca di un minor costo del lavoro, si dice, o meglio di maggiori profitti: nel quadro, comunque, di una globalizzazione, e di una corsa all’arricchimento di pochi, che sembra essere irrefrenabile. E che pure deve essere considerato, e magari anche contrastato e corretto, salvo pensare che oggi possa essere un singolo paese a determinare da solo il suo tipo di sviluppo, e i dispositivi per preservarlo dal contesto globale (è qui, si sa, una delle radici del «sovranismo» che tenta non pochi movimenti e organizzazioni politiche in Europa, 5Stelle compreso).
Ma lo scenario è inquietante, per non dire apocalittico, anche da altri punti di vista. Prima fra tutti quello esistenziale ed etico, considerata l’importanza del lavoro come fattore decisivo per l’identità sociale e individuale delle persone. Perché lavorare in cambio di un salario o di un reddito non è solo necessità di sopravvivenza ma, nella storia dell’umanità che conosciamo, è stato ed è anche costruzione di sé, il modo con cui ciascuno guarda se stesso ed è guardato dagli altri, vocazione, talento, un posto nel mondo. Con che cosa si potrebbe sostituire tutto ciò in un mondo in cui una grande quantità del lavoro retribuito – che già oggi non basta al «lavorare tutti» – dovesse davvero diventare superfluo?
Ma le questioni sono anche altre. Su queste pagine (Rocca n. 9) Pietro Greco ne ha richiamate alcune, relative alla sostenibilità economica e a quella ambientale di una diffusa presenza dei robot nell’assetto produttivo, evocando quindi, se si vogliono evitare i rischi di un luddismo da fantascienza – gli uomini contro i robot, o viceversa – anche una nuova politica, capace di trasformare l’attuale modello di sviluppo. Un’aspirazione antica, almeno quanto il capitalismo e la sua dittatura del profitto che hanno prodotto crescita, sviluppo, riduzione della povertà, ma anche contraddizioni ed esclusioni, e che ha quindi sempre avuto sia sostenitori appassionati che appassionati detrattori. Si tratta, in sintesi, di inventare un modello di sviluppo –e di stili di vita – che si adatti alle persone e non viceversa. Si può farlo, chi può farlo?

In termini analitici, c’è comunque anche da allargare lo sguardo, in primo luogo alle tipologie di lavoro di cui si parla quando si propone la sua redistribuzione.

lavoro produttivo e lavoro riproduttivo
Perché il lavoro su cui si basa da secoli il nostro assetto economico-sociale non è solo quello, retribuito, che produce beni e servizi per il mercato, ma anche quello che non è retribuito né riconosciuto e che tuttavia è condizione essenziale perché il primo ci sia, e nelle forme e nei tempi che conosciamo. Di solito non ci si pensa, ma è invece proprio su una grandissima quantità di lavoro «ri-produttivo» – come lo chiamava una parte importante del femminismo del secolo scorso – che si basa la possibilità stessa per una parte della popolazione di dedicarsi a tempo pieno al lavoro «produttivo», quello che oggi si vorrebbe redistribuire, e retribuire con un reddito di cittadinanza.
Si tratta di lavoro in gran parte femminile, di donne occupate, non occupate, pensionate, fare e allevare i figli, gestire casa e famiglia, occuparsi dei soggetti più deboli, integrare i servizi. Ri-produrre, appunto. Un lavoro così impegnativo da impedire frequentemente alle donne di partecipare all’altro lavoro, o da stritolare le loro vite nel doppio/triplo lavoro, produttivo e riproduttivo insieme. Un lavoro che proprio perché considerato intrinseco a uno dei due generi, quindi vocazionale e non retribuito, non genera nei servizi – sanità, scuola, assistenza – i posti di lavoro che potrebbe.
A cui deve aggiungersi il lavoro «volontario», anch’esso «di cura» delle persone, dei beni comuni, del territorio, in ambiti che si stanno facendo sempre più numerosi. Non si tratta, si direbbe, di attività destinate ad essere compresse dall’avvento dei robot come quelle appartenenti al lavoro cosiddetto produttivo, ma di lavoro pur sempre si tratta. Qual è il loro posto, significato, valore nella visione di De Masi? La sua provocazione sul «lavorare gratis lavorare tutti» contempla anche il lavoro ri-produttivo o no? E comunque, si può ipotizzare un nuovo modello di sviluppo economico e sociale, sottratto almeno in parte alla logica del profitto e del mercato, senza farne cenno?

politiche per produrre lavoro
Non basta. In un programma che mette al centro il reddito universalistico di cittadinanza, sembrano non trovare posto tutte le politiche – e sono tante, e urgenti – che potrebbero produrre una gran quantità di lavoro. Perché la questione centrale, in un paese come l’Italia, non si può ridurre solo agli effetti della digitalizzazione e della robotizzazione. Se abbiamo tassi di disoccupazione più alti di altri paesi Ue, è perché la finanziarizzazione dell’economia distoglie grandi quantità di capitali dagli investimenti nelle opere strutturali di cui ha bisogno estremo il nostro territorio, perché uno Stato indebitato non ha risorse per impegnare quello che si dovrebbe nella ricerca scientifica e nell’innovazione tecnologica finalizzata allo sviluppo di nuove produzioni di successo, perché si lesina su servizi essenziali come la sanità, e persino sul welfare che potrebbe alleggerire il lavoro riproduttivo che si scarica in gran parte sulle donne. Perché ci sono vincoli di ogni genere allo sviluppo di un’economia sana e produttiva, capace di utilizzare nel rispetto dell’ambiente le risorse disponibili, e perché spesso mancano anche le competenze e le professionalità per supportare nuove iniziative economico-produttive. Anche De Masi accenna al fatto che la grande disoccupazione non viene prodotta solo dall’impatto delle nuove tecnologie. Ma sono solo accenni che non illuminano la strada delle svolte programmatiche. Eppure è prima di tutto qui, intanto, che bisognerebbe insistere. Non si impara a misurarsi con le rivoluzioni epocali di cui ancora non si sanno le dinamiche e gli effetti, se si soccombe o si declina senza idee e senza iniziative sulle crisi e le difficoltà di cui conosciamo già sia le cause che i rimedi. Se i robot arriveranno davvero, il loro impatto sul lavoro sarà più devastante – c’è da scommetterci – sui paesi che già oggi hanno le economie più deboli.

Fiorella Farinelli
Nota
(1) Lavorare gratis lavorare tutti, Rizzoli, Milano 2017.
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OCCUPAZIONE FEMMINILE
Tutti i rischi del «meno tasse per tutti»

di Roberta Carlini su Rocca 11/2017

Nel suo discorso di reinvestitura alla carica di segretario del Pd, Matteo Renzi ha introdotto tre parole chiave per il prossimo futuro: mamme, lavoro, casa. Al di là delle facili battute sulla politica degli slogan, è il caso di cominciare a guardare alla politica concreta che si intende attuare, visto che un governo, sostenuto dal partito del «ri-segretario», c’è ed è destinato, secondo le parole dello stesso leader, a durare ancora un po’.
Per le prime due parole della triade, in realtà, qualcosa di più approfondito nel Piano nazionale di riforma presentato dal governo Gentiloni c’è, ed è nel fissare un obiettivo, l’aumento dell’occupazione femminile, e dedicare a questo uno strumento specifico: la riduzione delle tasse sul lavoro, in particolare sulle donne e sui giovani.
Si dà per scontato, negli ultimi tempi, che la riduzione delle tasse – che certo piace a tutti – sia uno strumento passpartout, e dunque non si mette in discussione: semmai ci si concentra sulla sua sostenibilità, ossia sui problemi di copertura o di aumento del deficit pubblico che comporterebbe.
Ma il fatto che una politica sia finanziabile, e che sia popolare, non vuol dire che di per sé sia utile all’obiettivo specifico. Il quale, ovviamente, è condivisibile e anzi troppo trascurato finora: con il suo 51% di occupazione femminile, l’Italia è al penultimo posto in Europa, piazzandosi solo davanti alla Grecia. Anche Malta fa meglio dell’Italia, quanto a tasso di occupazione femminile. E la mancata partecipazione delle donne al mercato del lavoro contribuisce a tenere la media italiana dell’occupazione assai lontana dall’obiettivo generale, che è quello di raggiungere il 75% di tasso di occupazione nel 2020. Dunque, ottimo obiettivo; ma lo strumento è quello giusto?

ma la realtà è un’altra
Se lo è chiesto l’Ufficio parlamentare di bilancio, nel suo Rapporto sulla programmazione di bilancio 2017. In tale Rapporto, si ricorda che «c’è un diffuso consenso in letteratura sulla possibilità che modifiche alla tassazione possano influenzare la partecipazione femminile al mercato del lavoro». E si nota che, a questo proposito, possono essere efficaci soprattutto gli strumenti che incidono sul reddito individuale e non su quello familiare: vale a dire, che se si commisura l’intervento al reddito del nucleo familiare – come succede per gli assegni familiari e per le detrazioni per i figli a carico – si ha un impatto minore che non intervenendo direttamente sulla retribuzione netta del singolo individuo, donna o uomo, in particolare con detrazioni di imposta sui redditi da lavoro, soprattutto quelli più bassi. Ma tra la letteratura economica e la realtà spesso c’è una grande distanza, e questa viene misurata dal Rapporto dell’Ufficio parlamentare di bilancio quando si va a vedere la situazione complessiva dei Paesi europei. La distanza tra il nostro tasso di occupazione femminile e quello degli altri Paesi non sembra giustificabile solo con la differenza nel regime di tassazione. È vero che da noi il nucleo fiscale – ossia la somma di tasse e contributi che pesano sul lavoro, e fanno sì che la retribuzione che giunge in tasca a chi lavora sia molto distante da quel che costa alle imprese – è molto pesante. Ma nel confronto internazionale, se si guarda ai redditi più bassi, l’Italia non risulta particolarmente penalizzata. Prendiamo un reddito da 10.220 euro l’anno (pari a un terzo della retribuzione media) per un lavoratore dipendente single senza carichi familiari: il relativo cuneo fiscale, in Italia, è al decimo posto su 22 Paesi europei presi in esame; per redditi più alti (20.530 euro l’anno) il cuneo sale, e l’Italia si porta al quindicesimo posto. Ma anche in questo caso è superata da Paesi che hanno un’occupazione femminile molto più alta: per esempio Francia, Germania e Spagna, nei quali il tasso di occupazione femminile è, rispettivamente, del 66,3, del 74,5 e del 58,1%.
Dunque, la prima conclusione dello studio è che il cuneo fiscale di per sé non pare correlato alla maggiore o minore occupazione femminile. Andando ancora più a fondo, si analizza la struttura dell’imposizione per vedere se ci sono fattori specifici che influenzano la partecipazione femminile al mercato del lavoro. Ne viene fuori che, per un nucleo familiare con due figli e due percettori di reddito, nel quale il primo percettore ha un reddito pari a quello medio e il secondo un reddito pari al 33% della media, il cuneo fiscale addirittura scende un po’, per il «secondo percettore» (di solito la donna). Facendo una classifica sull’effetto di disincentivo operato dal cuneo fiscale, l’Italia si posiziona al settimo posto nella classifica dei Paesi con minori disincentivi al secondo lavoro in famiglia.

aprendo asili nido
In altre parole: non sono le tasse a tenere le donne fuori dall’occupazione. E questo è vero soprattutto per i redditi più bassi. Questo dato va sottolineato: infatti in gran parte la bassa occupazione femminile italiana è dovuta al fatto che le donne con minori qualifiche e titolo di studio restano casalinghe, dunque sono proprio loro che «mancano» dal mercato del lavoro. Naturalmente, può essere il basso livello del reddito in sé a spiegare perché spesso le donne preferiscono stare a casa – e farsi carico della cura familiare – piuttosto che accettare lavori pagati pochissimo: ma c’è da chiedersi se questo dato strutturale possa essere cambiato, o almeno mitigato, da un bonus fiscale. Mentre, se si vanno a guardare altri indicatori, emergono correlazioni molto più forti: come quella tra la presa in carico dei bambini negli asili nido e l’occupazione femminile. Attualmente la copertura nazionale è dell’11,9% (ossia, 11,9 bambini su 100 tra quelli tra zero e due anni vanno al nido), ma molte regioni sono lontanissime dalla media: la Sicilia è al 4,9%, la Puglia al 4,3%, la Campania al 2,2%, la Calabria all’1,4%. Adesso il governo conta di portare la copertura media al 13%, ma la realtà in molte zone d’Italia è che l’adesione al nido addirittura scende, complici non solo la denatalità ma anche l’aumento dei costi delle rette.

il lavoro pubblico alleato delle donne
Studi come quello dell’Ufficio parlamentare di bilancio sono molto utili per demitizzare alcune politiche, e cercare di utilizzare al meglio le scarse risorse che ci sono nella finanza pubblica. E confermano un sospetto che poteva venire in mente anche in base al semplice buon senso: se le donne non lavorano è perché non c’è lavoro, non perché non hanno sufficienti «incentivi» a lavorare. Se le retribuzioni che vengono loro proposte sono basse è perché le imprese pagano poco, a loro volta perché hanno un problema di produttività e/o di domanda dei loro beni e servizi. Se la doppia presenza sul mercato del lavoro retribuito e su quello familiare è sempre più insostenibile è perché il primo dà poco e il secondo chiede molto, anche per la parallela riduzione dell’offerta pubblica e la mancata perequazione dei carichi in famiglia.
Affrontare questi nodi richiederebbe una dose di innovazione e anche di rottamazione non convenzionale – per esempio, incidendo sul lavoro pubblico come principale alleato del lavoro femminile, e dunque pretendendo da questo una radicale svolta in termini di efficienza –, mentre inseguire parole d’ordine vecchie orami trent’anni, come il «meno tasse per tutti», rischia di essere improduttivo oltre che molto costoso.

Roberta Carlini
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Oggi lunedì 15 maggio 2017

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bandierinaSOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» DIFENDERE LA COSTITUZIONE
“Uscire dalla crisi attuando la Costituzione”: iniziativa a Napoli con Paolo Maddalena
di Paolo Maddalena su eddyburg.eddyburg
«Uscire dalla crisi attuando la Costituzione» cambiailmondo, 14 maggio 2017 (c.m.c)
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lampada aladin micromicroGli Editoriali di Aladinews. SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» SINISTRA
Più che un partito serve una rete di esperienze sociali alternative

…rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive

volti quadro Anna cSOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» SINISTRA
Più che un partito serve una rete di esperienze sociali alternative
di Gianandrea Piccioli, su il manifesto, ripreso da
eddyburg
«Sinistre. Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono oggi improponibili. Vanno trovati altri modelli più che dividersi numeri da condominio». il manifesto 13 maggio 2017 (c.m.c.)

«Oggi sinistra è il nome che diamo alle nostre anime belle». Così scriveva Guido Mazzoni dopo l’elezione di Trump, sul sito Le parole e le cose: un lucido saggio, cui affiancherei Populismo 2.0 di Marco Revelli e La lotta di classe dopo la lotta di classe di Luciano Gallino.

Vere e proprie bussole per orientarsi in un mondo in cui la razionalità non è più in grado di comprendere la realtà (altroché l’hegeliano «il proprio tempo compreso con il pensiero»…). “Destra” e “sinistra” in senso lato possono rimandare a due costanti antropologiche diversamente declinate nei secoli: attenzione a conservare le tradizioni versus aspirazione al cambiamento, affermazione di libertà individuale versus realizzazione di rapporti sociali equi.

Nell’accezione politica hanno invece una storia più recente, dall’Illuminismo in poi: il termine stesso “sinistra” nasce con la Rivoluzione francese. Ed è collegato a un’altra idea, nata con la concezione ebraico-cristiana del tempo, cioè l’idea di una storia lineare e progressiva, tuttora prevalente nel senso comune. Per di più capitalisticamente identificata con l’idea di sviluppo.

Però, come diceva Nicola Chiaromonte, «la storia muta ma non cambia» e i ciclici corsi e ricorsi storici, sempre diversi ma sempre uguali, nella fase del declino non salvano dalla barbarie. Nel II secolo Roma contava 1.200.000 abitanti, nel 1527 solo 50.000… Mi sembra che il mondo occidentale sia caduto in una di quelle catastrofi periodiche che segnano il passaggio da un’epoca all’altra: solo che oggi tutto è a livello planetario.

La fantasmagorica crescita della tecnica ci ha fatto smarrire il senso del limite, della realtà e dei rapporti umani. L’unico spazio pubblico rimasto è quello solitario dello schermo del computer e dei narcistici social network, che tutto sono salvo che sociali. I grandi temi della controcultura degli anni Sessanta e Settanta -l’autorealizzazione, l’abolizione dei divieti, l’emancipazione da vincoli secolari quando non millenari, l’appagamento dei desideri come diritto e valore rivoluzionario o comunque politico – negli anni sono diventati la bandiera ideologica e l’alibi dell’élite al potere oggi in Occidente, pantografata da Martin Scorsese in The Wolf of Wall Street.

Ma già Simone Weil ammoniva: «Nella natura delle cose non è possibile alcuno sviluppo illimitato. Il mondo riposa del tutto sulla misura e l’equilibrio. La stessa cosa accade nella città». Cioè nel sociale e nel politico. Ma inutile farsi illusioni: i due campi (che non vanno confusi) sono devastati dalla selvaggia globalizzazione neoliberista, o comunque la si voglia chiamare (per un approfondito chiarimento della questione, che non è solo nominalistica, rinvio a Il rovescio della libertà, di Massimo De Carolis).

Le tradizionali culture politiche, gli stessi storici contenitori politici sono ormai improponibili, e non solo perché il collasso interno li ha resi irriconoscibili: tutta la recente storia del Pd è esemplare e, come anche i vari tentativi di creare un’alternativa a sinistra, denuncia l’esaurimento di quel modello.

Il sociale è frantumato e sfibrato dall’impoverimento crescente, dalla disoccupazione giovanile, dalla crisi, lucidamente perseguita con baldo entusiasmo anche dai partiti sedicenti di sinistra, del sistema di garanzie del Welfare, bollato oggi come “stato assistenziale”. Dall’abolizione di ogni organismo intermedio tra società e Stato. E dall’ immigrazione dei dannati della terra e di chi cerca di salvarsi dalle nostre guerre.

Di questo sfrangiamento è causa anche la chiusura delle grandi fabbriche e la conseguente disseminazione della forza operaia, ormai disgregata, sotto ricatto e senza uno spazio collettivo che non era solo di lavoro ma pure di dibattito, di lotta e di mobilitazione, anche nella sua proiezione nella città.

E forse ancor più angoscia l’anestetizzazione verso la sofferenza degli altri: si comincia da qui e si arriva in fretta, ci stiamo arrivando, in molti paesi europei e della Nato (Turchia, anche coi nostri soldi) ci siamo già arrivati, ai campi di concentramento. Edith Bruck, in una recente intervista, si domanda: «Che cosa deve ancora succedere?». Guardando le foto dei cadaveri galleggianti sul mare non ci dice più nulla la tremenda constatazione di Simone Weil: «C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno»?

Alle svolte epocali della storia non si sfugge. Però, come recita un detto friulano citato spesso da Claudio Magris, morir si deve, morir bisogna, mostrar il cul senza vergogna. Allora forse si può resistere comunque, con approcci nuovi o ripresi dalla tradizione libertaria socialista e anarchica, ma anche dal comunitarismo americano, alla Christopher Lasch, un conservatore di sinistra, autore tra l’altro di un profetico saggio sul narcisismo.

Ma senza andar troppo lontano si potrebbero rileggere Gobetti e Gramsci. Soprattutto avendo sempre come base programmatica l’attuazione della nostra Costituzione. In fin dei conti gli italiani si sono risvegliati in massa dalla loro apparente apatia solo nel 2006 e nel 2016 per rifiutare stravolgimenti della Carta. E lascia esterrefatti che il ceto politico in toto non abbia tenuto conto della formidabile mobilitazione, soprattutto giovanile, del dicembre scorso: un ulteriore sintomo dello stato comatoso dei nostri partiti e del nostro parlamento.

Così ci stiamo giocando le nuove generazioni. Cominciamo allora a rompere l’uniformità con le differenze, a disseminare ovunque sia possibile forme di contropotere organizzato (produttive, distributive, ecologiche, ambientali, di resistenza passiva) e cercare di collegarle tra loro per integrazioni successive.

E soprattutto dovremmo tutti recuperare la dimensione dell’alterità. Ricordandoci che adempiere gli obblighi verso gli altri è socialmente più fecondo che rivendicare un diritto. Come scriveva Anna Maria Ortese «La vita di un paese non è fattibile senza un impegno morale – oh, assai prima che politico».
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SOCIETÀ E POLITICA » GIORNALI DEL GIORNO » ARTICOLI DEL 2017
Un paese senza certezze
di Ilvo Diamanti su La Repubblica online, ripreso da
eddyburg

La consueta, periodica indagine sui prevedibili futuri politici del Palazzo. Ma è difficile prevedere il futuro che si è espresso nei numerosi eventi della politica del popolo, dalla battaglia per l’acqua pubblica a quella per la difesa della Costituzione. Eppure la speranza è lì. la Repubblica, 13 maggio 2017

ALCUNI importanti eventi hanno segnato la politica in Italia, negli ultimi mesi. In particolare, le primarie del Pd, (stra)vinte da Matteo Renzi. Il quale, dopo la bocciatura del referendum costituzionale, si è ripreso il partito. Quanto al governo, si vedrà. Il sondaggio di Demos per l’Atlante Politico pubblicato da Repubblica segnala, comunque, alcuni mutamenti significativi nel clima d’opinione.

Anzitutto, negli orientamenti di voto. Secondo le stime di Demos, infatti, il Pd ha nuovamente superato il M5S. Di poco. Un punto solamente. Sufficiente, però, a cambiare le gerarchie elettorali fra i due soggetti politici principali, dopo il declino di Silvio Berlusconi e del suo partito. I quali, tuttavia, resistono. Forza Italia, infatti, è stimata oltre il 13% e la Lega di Salvini le è vicina. Così si ripropone una triangolazione, per alcuni versi, simile a quella emersa dalle elezioni politiche del 2013. Quando Pd, M5S e Forza Italia – insieme alla Lega – avevano conquistato una quota di elettori molto simile. Intorno al 25%.

Naturalmente, molto è cambiato da allora. Anzitutto, gli equilibri tra Fi e Lega. Nel 2013 la Lega, guidata da Roberto Maroni, superava di poco il 4%, mentre il Pdl intercettava quasi il 22%. Poi, ovviamente, è cambiato il volto del Pd. Proposto, allora, da Bersani, oggi da Renzi. Mentre il M5S ha ancora il profilo di Grillo. Ma ha consolidato la sua presenza nel Paese. Visto che, nel frattempo, ha conquistato, fra l’altro, il governo di Roma e Torino. Due Capitali (anche se in senso diverso).

Questo scenario è confermato dalle stime di voto degli altri partiti. A destra di Fi, come a sinistra del Pd, si osserva un complessivo arretramento. I soggetti politici di Centro, infine, occupano uno spazio quasi residuale. Schiacciati dai tre “poli” maggiori. Che, nel sondaggio, intercettano oltre l’80% dei voti. Questo assetto, però, appare tutt’altro che strutturato. Soprattutto a Centro-destra, dove l’asse tra Fi e Lega è messo in discussione. Dalla Lega di Salvini.

È, tuttavia, chiaro che, se queste stime venissero, almeno, “approssimate”, in caso di elezioni, nessuna maggioranza sarebbe possibile. Perché nessun Polo o Partito riuscirebbe a superare la soglia del 40%, necessaria a conquistare la maggioranza dei seggi. Occorrerebbe, dunque, formare coalizioni più “larghe”. Fra soggetti di famiglie politiche diverse e perfino contrastanti. Ma l’operazione appare difficile. Gli elettori del Pd, infatti, non sembrano gradire un’alleanza con Fi, ancor meno con il M5S. Mentre appare maggiore (ma complicata) l’attrazione reciproca tra M5S, Lega e Fdi.

Per ora, comunque, la prospettiva del voto anticipato interessa una minoranza di elettori (43%). Più ampia nella Lega, nei Fdi e, soprattutto, nel M5S. Ma la maggioranza assoluta degli intervistati auspica che l’attuale governo duri fino a fine legislatura. Prevista l’anno prossimo. Il governo Gentiloni, d’altronde, mantiene un buon livello di gradimento. Intorno al 40%. Come due mesi fa. Insomma, non entusiasma, ma, in tempi come questi, è difficile sollevare passioni, in politica.

La fiducia verso il premier, Paolo Gentiloni, per quanto in calo di qualche punto, resta elevata: 44%. La più elevata fra i leader testati. Matteo Renzi, dopo le Primarie, ha ripreso quota: 39%, 6 punti in più rispetto a due mesi fa. È affiancato da Giorgia Meloni. Molto più apprezzata del proprio partito. Salvini, Di Maio e Pisapia si attestanofra il 32 e il 35%. Gli altri, più sotto. In fondo, con meno del 20%, troviamo Roberto Speranza e Massimo D’Alema. La scissione dal Pd non pare aver giovato loro, sul piano del consenso personale.
Attraversiamo, dunque, una fase instabile. Mentre diverse questioni agitano il dibattito pubblico. Ne segnaliamo alcune.

Anzitutto, l’uso delle armi per legittima difesa, definito dalla legge appena approvata alla Camera. In particolare, a proposito della possibilità di usare un’arma di notte “nel proprio domicilio”. Tuttavia, la maggioranza delle persone ritiene che, in casa nostra, “sparare” all’aggressore sia sempre legittimo. Lo pensano, soprattutto, gli elettori di Centro-destra, ma anche del M5S. Mentre la base del Pd si divide in modo quasi eguale. E solo più a “Sinistra” si vorrebbe limitare al massimo la possibilità di “sparare” in casa propria.

C’è poi la questione dei vaccini, intorno alla quale non c’è proprio discussione, visto che oltre 9 persone su 10 li ritengono indispensabili a garantire la salute dei bambini. Senza se e senza ma.

Infine: le Ong. Le Organizzazioni di Volontariato Internazionale Non Governative. Al centro di numerose polemiche, in seguito alle recenti affermazioni del procuratore di Catania, secondo il quale «alcune Ong potrebbero essere finanziate dai trafficanti». Al fine di «destabilizzare l’economia italiana per trarne dei vantaggi». Senza entrare nel merito, queste parole sembrano aver indebolito la credibilità delle Ong, che ottengono un grado di fiducia (42%) molto inferiore rispetto alle ”Associazioni di volontariato”, tout-court (63%). Quasi a sottolineare come, per la maggioranza degli italiani, le Ong non siano “associazioni di volontari”. Ma, appunto, qualcosa di diverso. E oscuro.

Il dibattito politico, quindi, incrocia e confonde questioni tanto più critiche quanto più riguardano la nostra vita quotidiana. Anche perché non sono chiari i riferimenti politici generali. Intanto, la scadenza del voto si avvicina. Non è chiaro, però, quando sarà. Fra un anno? Prima? È la cronaca di un Paese incerto. Dove l’incertezza politica logora la fiducia della società, nelle istituzioni. E, ovviamente, nell’economia. Ma al ceto politico non sembra interessare troppo.

Oggi domenica 14 maggio 2017

Anche oggi monumenti aperti
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La città ribelle (Luigi De Magistris – ed. Grafica Veneta) è una sorta di vademecum di buone pratiche amministrative nelle città, avendo come stella polare la Costituzione. Ecco sul libro una recensione di Rosamaria Maggio.
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By sardegnasoprattutto/ 13 maggio 2017/ Società & Politica/
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Un giornalista di vero talento, Alberto Statera, inventò per Cagliari un definizione eterna. La chiamò città delle tre Emme. Massoneria, Medici e Mattone. Logge, ospedali e imprese formicolano …(segue su eddyburg)