Monthly Archives: maggio 2017
Città e resto del mondo
CITTÀ E TERRITORIO »CITTÀ OGGI» PERIFERIE
Cosa succede fuori città
«Dalla Brexit ai voti per Trump e Le Pen: radiografia di un mondo diviso tra chi vive nei grandi centri e chi si sente escluso». Articoli di Marc Augé , Marino Niola e Joseph Rykwert, Carlo Olmo, Ross Douthat, Fabrice Lardreau, Marco Belpoliti, Francesco Erbani. la Repubblica, Robinson, 28 maggio 2017 (c.m.c)
NON SENTIRSI AL CENTRO
di Marc Augé
«Il mondo diventa una città globale e l’accesso non è uguale per tutti. Ecco perché la vera divisione non è geografica: è tra i privilegiati e gli esclusi»
Oggi usiamo i termini “CENTRO” E “PERIFERIA” sia per parlare della città che per riferirci al mondo. In entrambi i casi, questi termini sono estremamente problematici. In relazione alla città, nella sua accezione sociale, la periferia può occupare delle parti del “ centro” e, nello stesso tempo, vediamo che, per quanto riguarda il mondo, compaiono dei nuovi “ centri”. Parallelamente, è spesso nelle “ periferie” urbane che si concentrano delle iniziative culturali ed è lì che vanno a risiedere persone che appartengono alla borghesia benestante. Inoltre, bisogna considerare quella forma di privatizzazione degli spazi urbani da parte delle élite che avviene quando queste si chiudono in cittadelle protette o in quartieri separati. E ancora: da un lato aumentano gli spazi di consumo, di circolazione, di comunicazione, dall’altro non tutti possono usufruirne allo stesso modo.
Per questo la definizione di “centro” e “periferia” è sempre più complessa. Politicamente è stata utilizzata in questo ultimo anno per spiegare la vittoria del “Leave” nella Brexit, il successo di Trump e i milioni di voti a Marine Le Pen: siamo colpiti dal fatto che, in questi tre casi, sono le masse popolari quelle che si sono espresse. Proprio per questo si potrebbe ancora fare riferimento allo schema proposto da Paul Virilio tra il globale che rappresenta l’interno del sistema e il locale che è l’esterno: potremmo dire che è l’esterno del sistema a essersi espresso, il locale che protesta contro il sistema globale votando contro le “élite”.
Per tutte queste ragioni oggi sarebbe meglio evitare un linguaggio unicamente “spaziale” o “geografico” e parlare piuttosto di privilegiati ed esclusi, perché sono categorie che si lasciano scomporre: siamo più o meno privilegiati o più o meno esclusi. In questo senso gli esclusi sono poveri in un mondo che celebra la ricchezza: è l’immagine della città nel suo centro glorioso che nutre l’opposizione città/non città.
Non dobbiamo dimenticarci che la grande città è stata il luogo delle utopie ( per esempio, Le Corbusier) e rimane tale nella misura in cui l’intero pianeta si urbanizza. L’ideale però si è scontrato con la realtà e con le incapacità: la crescita demografica ha condannato i progettisti urbani all’improvvisazione e le politiche ( o le non politiche) sociali hanno lasciato che si creassero delle zone di esclusione. Le città europee hanno generalmente un passato urbano monumentale molto ricco e non hanno mai osato liberarsene. I grattacieli parigini non hanno la bellezza e la forza di quelli di New York o Chicago. Gli esperimenti architettonici più innovativi non si realizzano in Europa, ma in Asia o in Medio Oriente.
Tra un secolo o due il mondo sarà diventato come una sola grande città. Per questo ci serve la definizione di città globale: il pianeta si urbanizza molto rapidamente e i pannelli che consultiamo negli aeroporti evocano sempre più quelli delle stazioni ferroviarie o perfino della metropolitana. Per i privilegiati questo è già accaduto: il mondo è un luogo dove si orientano bene e lo considerano come una città in scala planetaria. Ma non tutti hanno lo stesso accesso alle cose. Dunque da un lato si produce omologazione ma dall’altro diversità. Ed è questo a produrre le contraddizioni che stiamo vivendo.
La sfida che dobbiamo affrontare è proprio questa: il mondo si unirà solo se si democratizza nello stesso momento in cui si urbanizza. Ma il mondo si urbanizza riducendo le diseguaglianze. La storia ci mette il suo tempo, ma progressivamente riguarderà tutti gli esseri umani urbanizzati. Il senso della cosa comune non si è perso, ma deve allargarsi. Nel dirlo, so che sto considerando una scala temporale lunga: forse alcuni secoli, ma la storia corre più in fretta!
La METAFORA
DEL GRATTACIELO
di Marino Niola e Joseph Rykwert
«Lloyd Wright ne sognava uno alto un miglio. A Jedda sarà “solo” di mille metri La corsa a costruire i giganti urbani, simbolo dello squilibrio»
Una città non è mai una mera realtà fisica. È sempre una forma simbolica che incarna la visione del mondo di chi l’ha costruita nel tempo e di chi continua incessantemente a ricostruirla. Molte città antiche nascevano a immagine di un ordine celeste che veniva tradotto in disegno politico-religioso. Le metropoli contemporanee, invece, sono l’immagine spaziale della speculazione finanziaria, il business che prende forma urbana. Come dire che gli edifici sparati verso il cielo dalle archistar traducono in edilizia il sogno della crescita infinita.
Già la prima archistar moderna, Frank Lloyd Wright, proponeva nel lontano 1957, un grattacielo alto un miglio, la bellezza di 1600 metri. Il solo disegno era lungo sette metri! Ma c’è voluto più di mezzo secolo perché quest’idea diventasse realtà a opera dei finanziatori sauditi, che hanno deciso di investire a Jedda, punto di sbarco per i pellegrini della Mecca. Gli ingegneri, però, hanno ridimensionato quel sogno, limitando l’altezza della torre che buca il cielo a un solo chilometro. Duecento piani, cinquanta già costruiti. Ma la storia ci insegna che spesso queste ambizioni prometeiche hanno le gambe corte. Come è accaduto nel caso del Burj Khalifa a Dubai, che attualmente guida la hit dell’altezza abitabile. I lavori sono iniziati in un clima di ottimismo ma si sono conclusi in piena crisi finanziaria. E ancora prima il celebre caso dell’Empire State Building e del Chrysler di New York, incappati nel terribile crash del 1929. Viene da chiedersi se la torre di Jedda non finisca come quella di Babele, presagio di un altro disastro.
L’ingombrante struttura di questo colosso ostacola qualsiasi rapporto fisico con l’ambiente circostante. Le stesse presentazioni lo mostrano isolato e circondato, a distanza, da edifici infinitamente più bassi. Il mondo intero è tutto un pullulare di grattacieli ipertrofici: come la Torre Shanghai e il vicinissimo World Financial Centre, o le due torri Petronas a Kuala Lumpur e tante altre. Il risultato di questi enormi investimenti edilizi è una pletora di immensi palazzi di vetro e acciaio che fanno da vetrina lussuosa ed esclusiva ai marchi globali. Un’aura urbana scintillante e noiosamente uguale dappertutto. E nel contempo le politiche di molti Paesi, in particolare quelle cinesi, promuovono un’espansione urbana ipertrofica svuotando le campagne mentre delocalizzano l’agricoltura accaparrandosi immense distese di terra in altri continenti, soprattutto in Africa. Di fatto stiamo assistendo a una nuova forma di colonialismo.
In questo modo le città diventano emblemi di una mondializzazione economica e culturale che ha le sue nuove acropoli nei centri sempre più scintillanti e ostaggio delle multinazionali. Gli scarti vengono nascosti in anomici retrobottega della tarda modernità: che sono le periferie degradate e anche i Paesi-margine, discariche dove si concentra la tossicità planetaria, ecologica e sociologica.
In questo orizzonte oscuro si intravedono però barlumi di speranza. Qualche esempio: in Russia il collasso dell’agricoltura collettiva ha stimolato la crescita di imprese locali, persino familiari, dando vita anche a nuovi sistemi di distribuzione. Nei Paesi dell’Africa orientale, soprattutto in Kenya, cresce un’economia agricola di piccola scala, legata a un efficiente sistema di rifornimento delle città. Mentre in Ghana e in alcuni stati dell’America Latina si stanno affermando movimenti di self- help e di self- build. Sono modelli di sharing life che si diffondono anche in Italia. E vengono insegnati persino in certe scuole di architettura.
Flebili germogli di culture locali, eccezioni in uno scenario caratterizzato da una crescente carenza di risorse alimentari, conseguenza diretta dell’aggiotaggio di terre coltivabili da parte delle superpotenze. Forse l’unico antidoto per scongiurare questa minaccia apocalittica sarebbe di ritrovare, dov’è ancora possibile, un equilibro tra le città e i loro territori, prima che la proliferazione urbana diventi un flagello, una no man’s land dell’umano, una città di Caino. Che, non va mai dimenticato, è stato il primo fondatore di città.
CENTO SFUMATURE
DI PERIFERIA
di Carlo Olmo
«La città non è bipolare: il centro è diventato una scena teatrale allestita per il turismo, ma il resto del tessuto urbano è attraversato da molte identità»
Imbottigliato in un pomeriggio qualunque di un qualunque giorno feriale sul Boulevard Périphérique tra Porte de la Chapelle e Porte de Clignancourt, lo sguardo dal taxi si perde tra sedi di compagnie internazionali, residui di un’edilizia povera e simulacri ancora abbandonati di architettura industriale.
Non c’è in quest’esperienza condivisa con migliaia di parigini neanche la rabbia di Corinne e Richard in uno dei più noti piani sequenza del cinema: quello di Week End di Jean- Luc Godard. C’è solo una rassegnata attesa. In realtà di périphérique quell’anello ha solo il nome. Il paesaggio urbano attorno non porta tracce di quella distanza tra centro e faubourgs che fu la prima matrice di una parola, periferia appunto, ormai diventata un contenitore senza patria e genealogia.
Una parola che è nata in una cultura e a fronte di politiche che disegnavano e raccontavano una metropoli bipolare, costituita da un centro e da quartieri, borghi, faubourgs distanti, unicamente residenziali e quasi autonomi, ha perso quasi di senso. Quella metropoli forse così non è mai esistita, certamente oggi è profondamente diversa.
Convivono fianco a fianco nella stessa periferia parti progettate e realizzate, spesso nei diffamati anni Venti e Trenta, che recuperate e restaurate sono diventate esempi quasi didascalici di gentrification, capannoni un tempo industriali trasformati in loft che ospitano piccole industrie innovative o variegate forme di art publique, nuclei di emarginazione, povertà e segregazione sociale, possibili germi di radicalizzazione religiosa e politica. Oggi gli immaginari e lo stesso statuto scientifico della periferia sono in discussione. Ed è questa profonda diversità che è necessario indagare e rispetto alla quale mobilitare politiche non banali o superate prima ancora di… iniziare.
Si è periferici rispetto a un centro, ma anche il centro ha mutato la sua natura e le sue funzioni. Anne Clerval ha riassunto nel settembre 2013 questa nuova condizione urbana con un titolo brutale: Paris sans le peuple. E la sua analisi può essere, almeno in Europa, estesa a molte città: da Londra a Bruxelles, da Roma a Madrid, da Francoforte a Stoccolma o a Rotterdam. In questo contesto anche alcuni miti della pianificazione degli anni Venti e Trenta del Novecento hanno subìto, nel porto delle nebbie di una trasformazione urbana vagamente indicata come urban sprawl — le Siedlungen a Francoforte, i quartieri funzionalisti di Paul Hedqvist e David Dahl a Stoccolma — un processo di violenza sociale e simbolica.
Collocati volutamente lontani da centri che erano sinonimi di quella possibilità di incontro casuale che è la vera ricchezza della metropoli, negli ultimi quindici- vent’anni questi quartieri, inizialmente in nome di un altro mito delle politiche urbane rifomiste, la mixité sociale e funzionale, hanno subìto una valorizzazione patrimoniale che ha sfruttato il loro ormai acquisito valore simbolico per mutarne funzione e struttura sociale. L’arrivo di popolazioni più ricche, in grado di investire per riabilitare architetture, da espediente per rigenerare quartieri in abbandono è diventato il fine di operazioni non solo immobiliari. Il caso del quartiere Le Corbusieriano di Pessac nell’allora periferia di Bordeaux, testimonia quali conflitti tra associazioni di proprietari si possano attivare sull’appropriazione di architetture simboliche e sul significato stesso della loro originalità.
E questo avviene mentre i centri delle città diventano sempre più scene di rappresentazione ( della storia della città e dei suoi cittadini illustri) per un turismo globalizzato che trasforma la storia in un valore aggiunto di una narrazione necessariamente semplificata e funzionale a un consumismo turistico che ha in Belleville — nella periferia parigina — e in Kreuzberg, a Berlino, due esempi sin troppo iconici. La patrimonializzazione è allora l’ennesima espressione delle Gorgoni dell’urbanistica contemporanea in epoca neoliberale?Oggi in realtà un’altra, storica funzione urbana sta mutando: il processo di continuo filtering che la città opera nei confronti dei ceti sociali più deboli è entrato in crisi, come per altro tutte le forme di mobilità sociale.
La rigidità di questo nuovo funzionalismo di mercato è in realtà reso più estremo dal consumo turistico e di residenza occasionale dei cosiddetti centri storici: oggi persino il Café de Flore, luogo di incontro preferito di Sartre, Camus, Queneau nel Quartiere Latino è entrato nei tour delle più ricercate agenzie turistiche. Tutta l’architettura che ha una storia (antica o novecentesca) entra nell’orbita di una visione mordi e fuggi della città e di una residenza brutalmente distribuita secondo le regole di un mercato tutt’altro che impersonale e che usa simboli, valori storici, persino architetture autoriali, per differenziarne uso e destinazioni.
La periferia che non entra in questo processo di patrimonializzazione esiste: è la periferia che in Francia si chiama pavillonnaire e nei Paesi anglossassoni della residenza back to back.
Quelle strade costruite da case di un piano fuori terra tutte eguali o da case unifamiliari, divise solo da un muro o da un minuscolo cortile. Proprio quell’architettura che era la forma estrema dell’individualismo Hobbesiano o se si vuole una delle figure fondamentali dell’individualità abitativa, con un paradosso quasi blasfemo resta al di fuori dal nuovo funzionalismo di mercato e contemporaneamente offre alle diverse forme di marginalità ospitalità e protezione. Se a Londra esistono quartieri come Enfield e Ponders End, luoghi privilegiati di disordini sociali e etnici sin dal 2011, questi sopravvivono anche perché in quelle architetture si può scomparire come nelle soffitte della Parigi del secondo Settecento raccontate da Daniel Roche in Le peuple de Paris.
Il nuovo funzionalismo ha bisogno di questi spazi in cui le regole informali non creano solo disagio. Studiando Saint- Denis e Aubervilliers (diventati dopo il Bataclan quasi sinonimo di classes étrangères et lieux dangereuses, facendo il verso a un famosissimo testo dello storico francese Louis Chevalier), Marie- Hélène Bacqué e Yves Sintomer avevano offerto, già nel 2001, le chiavi per decifrare quelle che loro chiamavano affiliations et désafilliations: parole che diversamente declinate diventeranno autentiche ossessioni. Quelle che è improprio persino chiamare periferie generano oggi forme di solidarietà e di condivisione, non solo di esclusione: e richiedono, per poter essere raccontate, immaginari molto diversi.
Nel 2015 due studiose di Oxford, Juliet Carpenter e Christina Horvath curano un testo — Regards croisés sur la banlieue — esito di ricerche e di un seminario del 2013. Le tesi che quel libro sostiene riguardano la forza delle narrazioni e l’inesistenza di forme narrative che nascano dagli abitanti delle periferie, in grado di mettere in discussione equazioni ormai quasi ossessive, spesso tradotte in politiche profondamente semplificatrici: periferia e degrado, banlieue e marginalità, suburbia e violenza. Gillian Jein racconta invece l’evoluzione dei quartieri parigini lungo il Canal de l’Ourcq che segna la banlieue nord di Parigi, attraverso i volti delle persone che li hanno abitati dal dopoguerra.
Da dove allora ricominciare per parlare di politiche urbane?
Escono in questi anni libri in ogni lingua su quelle aree urbane che con un’immagine che è restata la più affascinante, Sébastien Mercier già nel 1781 chiamava Jardins du Soubise: quelle aree delle metropoli, residuali e interstiziali in cui le regole sociali che gestivano quegli spazi erano del tutto informali. Oggi con l’ennesimo paradosso quelle aree sono indicate come gli spazi pubblici della città contemporanea da cui ripartire con politiche di ricucitura urbana sociale: le aree del nuovo progetto pubblico, come sottolinea nelle sue conclusioni del recente Spazi che contano Cristina Bianchetti.
Paolo Grossi racconta — vale la pena richiamarlo — già nel 1992 come in realtà privato e pubblico siano una costruzione sociale ottocentesca. Oggi forse ripensare quali siano gli spazi che contano potrebbe almeno evitare di farne un sinonimo di spreco, rischio e spesso di corruzione. La scena della riesumazione delle salme dal vecchio Cimitero Flaminio di Prima Porta in Sacro GRAL forse meglio di tutte aiuta a restituire gli scheletri negli armadi che parole come periferia si portano dietro e a iniziare davvero un’altra narrazione. Su questa base, sulla base cioè di una capacità di non ridurre la realtà a immagini semplici e ovviamente comunicative si possono avviare politiche che valorizzino processi già in atto, come quelli che hanno popolato il porto di Marsiglia e quello di Porto, non più di vent’anni fa impraticabili, di una vita sociale impensata. Quelli che erano luoghi in cui non si poteva entrare, oggi sono laboratori sociali, artistici, scientifici.
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Oggi domenica 28 maggio 2017
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CITTÀ E TERRITORIO »TEMI E PROBLEMI» SPAZIO PUBBLICO
Spazio pubblico e vita civica. Alternative alla comune evanescenza
di Ilaria Agostini su eddyburg.
Riflessioni sull’attualità degli standard urbanistici a partire dalle parole di tre grandi filosofi del novecento. Intervento introduttivo dell’incontro “Gli standard urbanistici cinquant’anni dopo”, organizzato dalla Scuola di eddyburg per la rassegna Leggere la città. Pistoia, 8 aprile 2017. (m.b.)
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Il mondo diviso tra chi vive nei grandi centri urbani e chi ne resta escluso
Robinson dedica la copertina alla città, lo spazio dentro la metropoli e lo spazio che ne resta fuori. Con le firme degli antropologi Marc Augé e Marino Niola, degli storici dell’architettura Joseph Rykwert e Carlo Olmo, dell’editorialista del New York Times Ross Douthat e dello scrittore francese Fabrice Lardreau. Su La Repubblica online.
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La crescente irrilevanza delle politiche sociali della Regione Sardegna .
di Remo Siza su sardegnasoprattutto/ 26 maggio 2017/ Società & Politica /
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Aleida Guevara: il Che e la lotta di Cuba per il socialismo
28 Maggio 2017
Gianna Lai su Democraziaoggi.
Invitata dall’Associazione Italia Cuba e dal Circolo Josè Marti, ‘Diritti salute istruzione, viaggio intorno a Cuba’, il titolo dell’incontro alla Mem, Aleida Guevara ha subito parlato di suo padre, ’sono onorata di essere figlia di un uomo così bello’, e dei rapporti di profonda amicizia tra la sua famiglia e Fidel Castro.[…]
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———————— Ieri, sabato 27 maggio, al Teatro dei Salesiani ———————
La dignità umana è la dignità del lavoro. Lavoro per tutti
VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO A GENOVA
INCONTRO CON IL MONDO DEL LAVORO
DISCORSO DEL SANTO PADRE
Stabilimento Ilva
Sabato, 27 maggio 2017
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CONTRO LA PRECARIETÀ. UNA POLITICA GLOBALE DEL LAVORO
UN’INTERVISTA DI GRANDE ATTUALITA’ AL GRANDE SOCIOLOGO LUCIANO GALLINO, SCOMPARSO DELL’OTTOBRE DEL 2015.
Sul sito www.benecomune.net, a cura di Fabio Cucculelli – 11/11/2015, viene ripubblicata un’intervista a Luciano Gallino, scomparso l’8 novembre 2015, apparsa su Formazione & Lavoro nel 2008. Nella circostanza vogliamo anche noi ricordare così uno dei più grandi sociologi italiani a cui spesso abbiamo fatto riferimento.
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1) Nel suo libro Il lavoro non è una merce. Contro la flessibilità lei afferma che ad un periodo di de-mercificazione del lavoro è seguito, e prosegue tuttora, un periodo di accentuata ri-mercificazione del medesimo. Ma tra la concezione del lavoro come merce e quella che ad essa si oppone ci sono delle differenze sostanziali. Ce le può illustrare? Come mai oggi sembra prevalere una concezione del lavoro come merce e non come dimensione integrante della vita?
Concepire il lavoro come una merce significa concepirlo come una attività separata dalla persona come avviene con qualunque oggetto. Se ci si avvicina invece all’altra concezione il lavoro è da considerare come una parte intima e connaturata alla persona, tale da non potere essere separata da questa. Nel primo caso quindi la forza lavoro viene concepita come una qualsiasi altro oggetto; nel secondo invece il lavoro è elemento integrale ed integrante della persona che lo presta, della sua identità, del senso di autostima, della sua vita familiare, della sua presenza nella comunità locale. Questo processo di mercificazione interessa anche la terra, cioè la natura e non solo il denaro o il lavoro. Si è venuta affermando a partire dagli anni ’30 una concezione del mercato, presente già nell’800, secondo cui la società deve servire al mercato e non viceversa, come sarebbe ragionevole.
Questa concezione che potremmo chiamare del “tutto mercato” ha avuto la meglio sia nelle imprese che nella politica di molti governi, così come nell’ambito delle teorie economiche. Si tratta di una idea che sta producendo disastri in molti ambiti della vita sociale. In particolare vorrei richiamare la crisi finanziaria e soprattutto quella alimentare che dilaga rapida come una pandemia all’aumentare del costo del cibo. In questi ultimi dodici mesi agli 850-900 milioni di affamati già presenti nel mondo, se ne sono aggiunti altri 100 milioni. E secondo le previsioni del Fondo Internazionale per lo Sviluppo Agricolo per ogni punto percentuale in più sul costo del cibo, il numero degli affamati nel mondo salirà di 16 milioni. Di fronte a questa crisi, come ho osservato in un mio articolo apparso di recente su “La Repubblica”, i Paesi occidentali hanno la grossa responsabilità di aver distrutto, con le loro politiche agricole e i sussidi ai propri coltivatori, i sistemi agricoli regionali dei Paesi emergenti.
2) Come ben sa, le Acli qualche anno fa proposero alle forze sociali, politiche e sindacali un Manifesto sulla flessibilità sostenibile per aprire un dibattito nel Paese sulla possibilità di minimizzare i costi della flessibilità, di evitare cioè che diventi precarietà a vita cogliendo le opportunità da essa aperte. Oggi è ancora possibile perseguire questa strada?
Innanzitutto è necessario distinguere tra flessibilità dell’occupazione e flessibilità della prestazione. La prima consiste nella possibilità, da parte dell’impresa, di far variare la quantità di forza lavoro utilizzata, ossia il numero di lavoratori a cui si paga in un dato momento un salario. Questo tipo di flessibilità si traduce prevalentemente in una variegata tipologia di contratti lavorativi, detti atipici, per distinguerli da quelli normali o tipici che hanno una durata indeterminata. In questa accezione di flessibilità rientrano dunque i contratti a temine, quelli a progetto, le collaborazioni coordinate, i contratti di lavoro in affitto, che possono variare dai due mesi fino a due-tre anni. Si tratta spesso di lavori che sono autonomi nella forma ma che poi di fatto sono dei veri e propri lavori alle dipendenze con una data di scadenza.
Il secondo tipo di flessibilità, quella della prestazione, si riferisce alla modulazione da parte delle imprese delle attività e dei tempi di lavoro. In questa accezione di flessibilità rientrano i lavori a turni, quelli distribuiti su 4-5 giorni, i lavori a chiamata. Le persone coinvolte in queste forme di flessibilità sono parecchi milioni e si tratta sia di lavoratori a tempo pieno che di atipici. Bisogna notare inoltre che la flessibilità della prestazione si cumula sovente con quella dell’occupazione e che tra queste due forme di flessibilità vi siano rapporti di scambio. Se si accetta la prima si rischia maggiormente di cadere sotto la seconda.
Entrambe queste due accezioni di flessibilità, ma soprattutto la prima, non sono sostenibili. Quella dell’occupazione non è sostenibile sia per il numero di persone coinvolte (oltre 5 milioni) sia per le condizioni di lavoro, che costringono molte persone a orari eccessivi, sia perché spesso riguarda l’economia sommersa, dominata dalla totale mancanza di sicurezza. La flessibilità della prestazione non è sostenibile, nel nostro paese, prima di tutto perché in genere viene imposta, compromettendo così la vita familiare e la vita di relazione in genere. Andrebbe sostituita con forme avanzate di flexitime, nelle quali le persone scelgono liberamente, secondo le loro esigenze, in quali ore del giorno, e in quali giorni, entrare o uscire dall’azienda, sulla base di un contratto a tempo indeterminato. In alcuni paesi scandinavi il flexitime ha dato risultati positivi per ambedue le parti.
Invece per molte persone il lavoro precario vuol dire 10-15 anni di contratti a termine che non diventano mai un’occupazione stabile. Gli effetti di questa precarietà sono evidenti. Comportano costi elevati per le famiglie, le comunità e le stesse imprese. Alcuni uomini politici e opinion leaders dipingono il mercato italiano come il più flessibile d’Europa tralasciando di notare che abbiamo i salari più bassi d’Europa e la più bassa produttività del continente. Credo che, con tutta evidenza, ci sia una correlazione tra questi tre fattori. Come diceva un grande imprenditore italiano come Adriano Olivetti, la produttività è legata anche alla capacità di investire nella formazione, alla professionalità presente in azienda. Chi, imprenditore o lavoratore che sia, ha un orizzonte di breve raggio non ha interesse né a formare né a formarsi.
3) Affrontare le cause della flessibilità piuttosto che curare gli effetti richiede, a suo avviso, un’azione decisa, quella che lei chiama “una politica del lavoro globale”. Quali misure il governo italiano e l’Unione europea possono adottare per rendere il lavoro più stabile, decente e dignitoso?
La richiesta di lavoro flessibile da parte delle imprese, che significa in buona sostanza maggior facilità di assumere e di licenziare, è un fenomeno globale che non esclude nessun Paese. Le grandi imprese occidentali oggi producono all’estero perché trovano costi del lavoro molto più bassi, vincoli ambientali minori o inesistenti e assenza di attività sindacale. I singoli governi non possono limitarsi a curare gli effetti della flessibilità adottando misure che la rendano sostenibile attraverso l’offerta di maggiore sicurezza sociale (flessicurezza). E’ necessaria un’azione decisa che contrasti la flessibilità intervenendo sulle sue cause. Si tratta di un impegno di lungo periodo, di un compito storico a cui tutti i Paesi occidentali sono chiamati. Siamo di fronte ad una vera e propria sfida da cui dipenderà il futuro di molti lavoratori: quella relativa a come avverrà il pareggiamento, a lungo termine inevitabile, tra i redditi e i diritti delle forze di lavoro oggi più agiate e quelli delle forze di lavoro più povere del mondo. Ad oggi i segnali che abbiamo sono indirizzati ad un pareggiamento spostato verso il basso piuttosto che verso l’alto. Nell’ultimo quarto di secolo abbiamo infatti assistito ad una pressione volta ad abbassare i salari e le condizioni di lavoro, che certo non si può ricondurre al declino americano o a mercati del lavoro troppo ingolfati da lato dell’offerta, quanto piuttosto ad una strategia concertata del capitale, dei governi e della destra politica volta a tagliare i guadagni ottenuti dal movimento dei lavoratori a metà del XX secolo.
La sfida a cui facevo riferimento prima può essere vinta solo attraverso l’adozione di una politica del lavoro globale che da un lato riconosca maggiori diritti ai lavoratori del Sud del mondo, e dall’altro imponga regole ed accordi sindacali che migliorino le condizioni di questi lavoratori. La strada della contrattazione territoriale a livello globale non è un utopia ma una via già sperimentata. L’OIL ha reso noti diversi contratti e accordi che hanno permesso di modificare la situazione lavorativa di parecchi milioni di lavoratori. Per quanto riguarda l’Europa, si potrebbero mettere in campo strategie finanziarie innovative tese a promuovere forme di investimento socialmente responsabili, tese cioè a risolvere il conflitto intorno alle condizioni di lavoro determinatosi tra i lavoratori dei paesi sviluppati e quelli dei Paesi più poveri. Anche accordi bilaterali estesi all’insieme di settori produttivi potrebbe giovare. Purtroppo dobbiamo constatare come oggi la Commissione europea sia integralmente neoliberista e quindi poco sensibile a politiche di questo tipo. Venendo al contesto italiano, ritengo che occorra sfuggire dalla trappola dell’adattamento alla globalizzazione e pensare invece a normative e leggi in grado di recepire i principi ispiratori della nostra carta costituzionale.
4) Nel suo libro, citato precedentemente, lei afferma che “i lavori flessibili sono visti con favore dalle imprese anche perché contribuiscono alla frammentazione delle classi lavoratrici e delle loro forme associative”. Quali sono le implicazioni sociali e sindacali di questo processo?
La rappresentanza sindacale è stata resa molto più problematica dalla frammentazione presente oggi nel mercato del lavoro, quale conseguenza diretta della frammentazione produttiva. Molte componenti di prodotti e servizi provengono da Paesi diversi e lontani, per cui per il sindacato diventa difficile svolgere un’azione di tutela adeguata. Anche se è possibile parlare di rappresentanza di filiera produttiva, tuttavia a fronte della frammentazione intercontinentale del processo produttivo la tutela diventa un questione molto complessa e non facile da realizzare. La legislazione ha fatto la sua parte spingendo verso una accentuata individualizzazione dei contratti di lavoro. Questo apre grosse incognite sull’azione sindacale e sulla sua possibilità presente e futura di promuovere le condizioni di lavoro e tutelare i lavoratori
5) A suo avviso i lavori flessibili sono una forma di erosione di una serie di diritti e di legislazioni sul lavoro che dal 1945 ad oggi hanno tutelato i lavoratori. Quali sono state le tappe di questa erosione? La legge Biagi rappresenta il risultato estremo di questo processo?
La legge 30, come andrebbe chiamata, rappresenta semplicemente una ulteriore tappa di un lungo percorso iniziato negli anni ’80 e che ha avuto uno snodo importante nel protocollo del luglio ’93 e nella legge del 97 (pacchetto Treu), per poi proseguire con le leggi del 2001 e del 2002 sull’orario e il lavoro a termine, introdotte, si è detto, per adeguarsi alle direttive europee, fino ad arrivare al 2003, anno a cui risale la legge 30 e il suo decreto attuativo. Se leggiamo quest’ultimo (composto da oltre 80 articoli) si vede che si tratta di un prolungamento di tutto un corso di leggi che si sono susseguite nel corso di 15-20 anni. La legge 30 è una legge minuscola. Per cui la questione non è se modificarla o meno ma piuttosto come superarla. A mio avviso andrebbe superata da una legge alta che guardi anche alla situazione internazionale e all’Europa. Serve una nuova legge complessiva sul lavoro che riveda l’intera materia e che si richiami ai principi fondamentali della Costituzione, a quell’immagine di persona il cui maggiore scopo è il suo pieno sviluppo umano e che vede la società impegnata a rimuovere gli ostacoli al conseguimento di questo fine (art. 3).
Gran parte della legislazione italiana sul lavoro degli ultimi decenni ha invece, in buona sostanza, ignorato se non violato alcuni articoli fondamentali della nostra Costituzione relativi al lavoro; basti pensare all’articolo 36 e agli articoli 41 e 46. La nuova legge dovrebbe essere fondata in modo chiaro sul recupero dell’assunto che il lavoro non è una merce, ma una dimensione che coinvolge intrinsecamente la persona che lo presta. Un altro cardine della legge dovrebbe consistere nel ristabilire il principio per cui il contratto di lavoro dipendente a tempo indeterminato e a tempo pieno è il tipo di contratto in assoluto predominate e non una possibilità tra tante, come traspare ad esempio dalla legge 30. Altre forme di contratto utili alle aziende e ai lavoratori, come in certi casi il tempo parziale, dovrebbero essere considerate come deroghe a fronte di specifiche necessità.
6) Quale ruolo può giocare la formazione scolastica, universitaria e professionale per evitare che molti lavoratori cadano nella trappola della flessibilità a vita? Quali misure è necessario adottare per rendere i nostri lavoratori più “competitivi” in termini di conoscenza e competenze professionali?
Esiste un ritardo strutturale del nostro Paese che non si recupera certo con leggi che spesso hanno un orizzonte limitato ad uno-due anni. La nostra forza lavoro ha una percentuale elevata di persone con un livello di istruzione medio-basso rispetto a quella della Germania e della Francia. Solo il 40% della forza lavoro compresa tra i 15-16 anni e i 39 anni, arriva alla media inferiore. Il Paese ha bisogno di un grande piano per portare la scolarizzazione, dai 15 ai 18 anni, a riguardare tutti quelli che entrano nei circuiti della formazione tecnica e professionale. Per quanto riguarda la formazione professionale credo che le aziende debbano farne di più. Oggi la formazione realizzata nelle imprese si misura in poche ore per pochi lavoratori dipendenti; si fanno mediamente sei-otto ore di formazione all’anno che riguardano il 20% dei lavoratori. Siamo a livelli assolutamente trascurabili. Le imprese italiane devono assumersi le loro responsabilità e non scaricare le colpe sul mondo della scuola. La Confindustria quando parla di competitività dovrebbe dare l’esempio e stanziare qualche centinaia di milioni di euro per la formazione in azienda, al fine di recuperare in termini di competitività e non perdere le professionalità presenti nelle nostre imprese. In Italia quando si parla di competitività si finisce solo con l’affermare che è necessario lavorare di più. La proposta del governo di detassare gli straordinari si muove in questa logica miope e limitata a chi già lavora. Una logica che non aiuta certo i giovani ad entrare nel mercato del lavoro.
7) Lei osserva come “la correlazione tra innalzamento della flessibilità del lavoro e tasso netto e stabile di creazione di nuovi posti di lavoro, o di riduzione della disoccupazione, spesso richiamata da esponenti politici, accademici e media”, non trovi alcun riscontro. Per uscire da questa narrazione neo-liberista quali strade è possibile percorrere? Quali forme e modalità di lavoro e quali nuove occupazioni possono consentire al nostro Paese di uscire dalla situazione attuale?
Tra il 2001 e il 2006 sono stati apparentemente creati, secondo le rilevazioni campionarie dell’Istat, 1 milione di nuovi occupati. Ma questo milione di occupati in più è derivato in gran parte dalla loro emersione dall’economia sommersa, ossia dalla trasformazione dell’80% di questi lavoratori da irregolari a regolari. Le precedenti rilevazioni trimestrali dell’Istat non li registravano perché, essendo per lo più immigrati, non erano ancora iscritti alle anagrafi comunali.
In due-tre anni quindi un cospicuo numero di lavoratori immigrati è stato iscritto nelle anagrafi e quindi ricompreso nella rilevazioni trimestrali. Inoltre è aumentato il numero di lavori a termine e delle donne tra i 16 e i 18 anni impiegate a part-time, che quindi sono stati registrati dall’Istat. Da questi dati emerge chiaramente come l’aumento degli occupati dichiarati avvenuto in Italia non sia stato il risultato di un aumento delle forme di lavoro flessibile, quanto piuttosto della regolarizzazione di lavoratori immigrati e dell’aumento dei tempi parziali.
Venendo alla questione della creazione di nuove occupazioni credo sia necessario fare un ragionamento complessivo che chiama in causa il ruolo delle imprese e del sistema economico-produttivo italiano. Come dicevo le aziende dovrebbero investire maggiormente in formazione modificando radicalmente l’attuale orientamento di indifferenza al problema. Si dovrebbero realizzare, per dire, almeno 8 ore di formazione al mese per l’80% dei lavoratori, coinvolgendo anche gli atipici. La Confindustria dovrebbe farsi promotrice di questa grande azione, di questo grande investimento formativo necessario per rendere le nostre imprese più competitive.
Il nostro Paese ha urgente bisogno di una seria politica industriale. I tedeschi oggi sono diventati i primi esportatori al mondo di macchine laser, di software e hardware per le automobili. E i francesi vanno molto meglio di noi. Stesso discorso si può far per la Svezia e la Norvegia. Il rilancio di una seria politica industriale italiana, che dovrebbe inserirsi in una politica industriale europea, deve proporre un’idea chiara di ciò che si può produrre, individuando un indirizzo chiaro e autonomo. L’Italia è ferma agli anni 70; da allora in poi è mancata una politica industriale degna di tale nome. Il caso Alitalia, o quello delle Ferrovie, ma ce ne sono molti altri, mostrano come la mancanza di una politica industriale stia costando moltissimo al Paese.
8) Il lavoro flessibile in Italia ed in Europa è una questione che riguarda soprattutto le donne, spesso quelle più giovani. Cosa si può fare per rendere i loro percorsi lavorativi più stabili? Come favorire l’ingresso e il permanere delle donne italiane nel mercato del lavoro?
Siamo di fronte a schemi culturali e politici complessi, difficili da superare. Non è una questione di quote. Certi oneri dovrebbero essere accettati dalle imprese. Invece siamo nella situazione in cui le aziende pagano di meno le donne perché ogni tanto si permettono di andare in maternità. Invece di considerare questa fase della vita come una ricchezza per tutta la società, viene considerata una situazione di inabilità. I responsabili delle risorse umane delle nostre imprese considerano ancora la maternità in questo modo e quindi marginalizzano le donne.
Se guardiamo alla politica il discorso è analogo. In Italia ci sono forse due rettori universitari donna su 77; 4 ministri al femminile su 26; solo un 8% se non meno di donne elette nel Parlamento. Se ci confortiamo con altri Paesi europei ci accorgiamo come in Italia ci sia una fortissima disuguaglianza in termini di acceso al mondo del lavoro, della politica, della cultura. In Svezia ad esempio, il 40-50% dei rettori universitari e dei deputati sono donne.
9) Quali strategie adottare per rilanciare l’occupazione nel Meridione?
La prima cosa è, come già ho detto, adottare una seria politica industriale magari guardando a Paesi come la Germania e la Francia. In questo Paese, ad esempio, esiste una potente agenzia territoriale, la Datar, che ha il compito di razionalizzare gli investimenti sul territorio transalpino. La Datar nel corso di vari decenni – è stata istituita negli anni 60 – ha avuto un ruolo importante per lo sviluppo produttivo francese. L’agenzia è riuscita a facilitare l’insediamento di certe produzioni in alcuni luoghi piuttosto che in altri, favorendo così lo sviluppo di veri e propri poli di competitività. Se in un certo territorio ci sono le migliori fabbriche specializzate, reti informatiche specializzate ed efficienti, terreni attrezzati a prezzo conveniente, e facilitazioni fiscali, è chiaro che gli imprenditori saranno attratti ad investire qui piuttosto che altrove.
Discorso analogo dovrebbe essere fatto per quel che riguarda il nostro Mezzogiorno, valorizzando e sviluppando alcune specificità produttive territoriali in modo da attrarre investimenti. Ma per favorire questi processi è necessario potenziare la rete di infrastrutture di cui oggi dispone il Sud, a partire dalla ferrovie e dalle autostrade. Il settore turistico e quello ambientale hanno sicuramente grandi potenzialità che vanno sfruttate maggiormente, ma senza una politica industriale adeguata il Meridione e il Paese nel suo complesso non riuscirà a uscire dalla sua crisi, ad adeguarsi agli standard degli altri Paesi europei.
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ElettorandoSardegna
Legge elettorale regionale: usciamo da su connottu?
27 Maggio 2017
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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PETIZIONE POPOLARE PER UNA LEGGE ELETTORALE PER LA SARDEGNA
Oggi sabato 27 maggio 2017
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Siete invitati a partecipare e ad intervenire alla presentazione del libro “Fuori dal fango”, che si terrà sabato 27 maggio 2017 nella sala della MEM – Metiateca del Mediterraneo – a Cagliari Via G. Mameli 164, con inizio alle ore 10,00. Saranno presenti le autrici: Rosanna Rutigliano e Cinzia Spriano. Letture di Antonella Tironi – Moderano i lavori: Maria Franca Marceddu e Donatella Pinna.
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- Su Democraziaoggi.
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SOCIETÀ E POLITICA »MAESTRI»
Un disobbediente in direzione ostinata e contraria
di Alessandro Santagata, su il manifesto, ripreso da eddyburg.
«Molte le iniziative sul prete di Barbiana, scomparso da 50 anni, domani ne avrebbe compiuti 94. Carte inedite nel volume “Lettera ai cappellani militari. Lettera ai giudici”, a cura di Sergio Tanzarella». il manifesto, 26 maggio 2017 (c.m.c.)
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DOCUMENTAZIONE
L’economia sociale e solidale come economia della società
Michela Passalacqua – 13 dicembre 2016 su LabSus
- Approfondimenti. Documento RIPESS 2015.
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Potenza, il 27 maggio riflettori accesi sui beni comuni
Giovanni Marco Santini – 25 maggio 2017 su LABSUS
Da tempo il movimento civico We Love Potenza ha acceso i riflettori sui contenitori vuoti di Potenza e sulla possibilità di vederli “rigenerati” attraverso iniziative di urbanistica partecipata, di volontariato e di innovazione sociale. In particolare il Regolamento sui Beni comuni può rappresentare una tappa importante di questo percorso nella definizione di strumenti e compiti da attribuire ai diversi protagonisti in campo che, puntualmente, sono stati coinvolti.
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VALORIZZARE IL TERRITORIO: UNA NUOVA VISIONE DELL’URBANISTICA E DELLA CULTURA
Carla Danani – 13/02/2017 su benecomune.net
Il patrimonio territoriale è una delle coniugazioni del patrimonio culturale. E ‘ un potente medio di educazione alla cittadinanza e di innalzamento umano che non deve essere ridotto alla servitù turistica e al consumo intellettuale da spettacolo
Come si riorganizza la conoscenza, a volte contro o nonostante i “templi accademici” che la vogliono rigidamente controllare
Matteo Merzagora parla con noi giornalisti facendoci partecipi di interessanti esperienze di partecipazione innovativa in ambiti scientifici. Esperienze francesi (a Parigi, Grenoble, Caen…) Qualcosa si fa anche in Italia e perfino in Sardegna (10Lab di Sardegna Ricerche e – dico io – CLab di Unica) ma ancora troppo troppo poco e con scarsa diffusione. Colpa di molti? Certamente in testa per colpevole responsabilità le Istituzioni e, tra queste, soprattutto Stato, Regione, Comuni capoluogo e Università.
“BASTA CON I FASCISMI”: il 27 maggio, in tutta Italia, Giornata antifascista promossa dall’ANPI
- Sabato 27 maggio in occasione della Giornata nazionale Antifascista “Basta con i fascismi!”, promossa dall’ANPI Nazionale, l’Anci provinciale terrà un’iniziativa a Cagliari, presso il salone piano terra della Camera del Lavoro, in Viale Monastir 15. Ore 10-12.30.
Alla Giornata nazionale “Basta con i fascismi!” aderiscono CGIL, ARCI e Libertà e Giustizia.
– segue –
Oggi venerdì 26 maggio 2017
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Gli editoriali di Aladinews. «Il rapporto “Verso un’economia trasformativa” analizza lo stato dell’arte dell’economia sociale e solidale in tutto il mondo. Una rassegna di buone pratiche che creano lavoro e partecipazione»
SOCIETÀ E POLITICA »CAPITALISMO OGGI» PROPOSTA
L’economia che trasforma
di Giacomo Pellini, su Sbilanciamoci, ripreso da eddyburg e da aladinews.
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I populismi italiani nell’analisi di Marco Revelli
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Il populismo è il nuovo fantasma che si aggira per l’Europa; per Marco Revelli (“Populismo 2.0”), esso è “il ‘sintomo’ di un male più profondo, anche se troppo spesso taciuto, della democrazia: la manifestazione esterna di una malattia di quella forma contemporanea della democrazia […] che è la Democrazia rappresentativa”. […]
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L’Italia di domani? Sarà un Paese per badanti, infermieri e camerieri
Secondo gli ultimi dati Istat, sono le professioni “esecutive” del mondo dei servizi a decollare, un mondo enorme in cui si va dal commercio alla finanza, alla consulenza, ma ancora di più, e questo è un importante segno dei tempi, tutte quelle non qualificate, +23,5% in 8 anni.
di Gianni Balduzzi su Linkiesta.
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Teatro Salesiani Via Sant’Ignazio Cagliari,
sabato 27 maggio 2017, ore 20.15
Parte a Cagliari la campagna ‘Ero Straniero’
Una firma per cambiare il racconto sull’immigrazione e superare la Legge Bossi Fini
Partirà domani a Cagliari la raccolta di firme per chi vuole dire ‘Ero straniero’, titolo della campagna volta a superare la legge Bossi-Fini e investire su accoglienza, lavoro e inclusione. Sono cinquantamila le firme di cittadini italiani da raccogliere in sei mesi per sottoporre la legge all’attenzione del Parlamento, a cui si potrà contribuire da domani, Venerdì 26 maggio dalle ore 10.00 alle ore 13.00 presso la Libreria Edumondo in Via Sulis 47 e a Cagliari e Sabato 27 maggio dalle ore 10.00 alle ore 13.00 nel salone della Camera del Lavoro della CGIL in Viale Monastir 15 durante l’iniziativa organizzata dall’ANPI di Cagliari sulla giornata nazionale contro i fascismi.
- segue –
Cavalcata Sarda 2017
- Gli scatti di Renato d’Ascanio Ticca. Prima che iniziasse la sfilata.
Oggi giovedì 25 maggio 2017
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La globalizzazione e la perdita dei diritti
Paolo Maddalena su Democraziaoggi.
Si è svolto a Napoli un convegno dal titolo “Uscire dalla crisi attuando la Costituzione”, indetto da Paolo Maddalena, già vicepresidente della Corte costituzionale, che come componente del Comitato nazionale per il NO, sta svolgendo ora un’azione per l’attuazione della Costituzione nella parte economica. Ecco la parte iniziale della sua relazione, dedicata all’esame dell’orizzonte culturale […]
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Da Sinistra Italiana un fondo per i progetti sociali: 100mila euro per la solidarietà
Pubblicato il bando sul sito del partito. Possono concorrere associazioni, attivisti e start up no profit. I finanziamenti messi a disposizione dai parlamentari che hanno versato il 70% delle loro indennità: “Non imitiamo i grillini, ci autotassiamo da sempre. Ci ispiriamo a Syriza e Podemos”
di Monica Rubino su LaRepubblicaonline.
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SOCIETÀ E POLITICA »CAPITALISMO OGGI » PER FARE
Disapprendimento e pensiero creativo
di Marco Deriu su eddyburg.
«Le diverse crisi in corso costringono ad abbandonare certezze, immaginari, linguaggi e schemi cognitivi, a ripensare l’insieme delle relazioni sociali». comune-info, 22maggio2017 (c.m.c.)