Monthly Archives: marzo 2017
Oggi venerdì 3 marzo 2017
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Oggi
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Sardegna: far crescere l’agroalimentare con l’innovazione
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
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Premio di maggioranza ed elezione diretta del Presidente: l’insostenibilità del modello sardo
Omar Chessa su Democraziaoggi.
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Il lavoro: cos’è e come sarà ai tempi dei robot. Che fare oggi e domani?. Gli Editoriali di Aladinews.
Oggi giovedì 2 marzo 2017
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Punta de billete po crasi
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Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal
di Laura Pennacchi, su eddyburg.
- ripreso da Aladinews.
Il lavoro: cos’è e come sarà ai tempi dei robot. Che fare oggi e domani?
Società 4.0. fine del lavoro umano?
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 27 febbraio 2017/ Economia & Lavoro/
L’innovazione e il progresso tecnologico sono inarrestabili. In quello che chiamiamo convenzionalmente Occidente lo sono da almeno mille anni. Se qualcuno troverà profitto e convenienza in una nuova tecnologia, se essa corrisponde ad un qualche bisogno, anche non espresso, finirà con l’imporsi. I telefoni portatili sono un caso studio. Prima dell’avvento del cellulare solo in pochissimi avevano l’esigenza di essere sempre raggiungibili, è bastata l’innovazione delle carte prepagate per fare in modo che sia presente nelle tasche di ognuno di noi.
Un bisogno e qualcuno che in esso intravveda una occasione di profitto, fanno in modo che l’innovazione si imponga. È già così per l’automazione e la robotica. Siamo dentro una rivoluzione non solo scientifica, ma che già condiziona la nostra esistenza ed in futuro lo farà sempre di più. Il report dell’ONU Robot and Industrialization in Developing Countries, sostiene che il 66% dei lavori svolti nei paesi di nuova industrializzazione già oggi può essere sostituito da robot. Il che comporterà la fine delle delocalizzazioni ed il rientro di molte produzioni in Occidente. Tranne Cina ed India, dove si stanno facendo passi consistenti nel settore.
Secondo la società di consulenza McKinsey, solo il 5% dei lavori attuali non è robotizzabile. Se questo non è ancora avvenuto è perché, allo stato attuale, la robotizzazione comporta una perdita di qualità del lavoro svolto, le macchine non sono ancora in grado di comprendere e processare il linguaggio naturale umano. Più sale la complessità e l’alto valore aggiunto delle attività, minore è il rischio di automazione. Ora siamo ancora dentro la teoria dei colli di bottiglia: certe attività non sono robotizzabili perché il costo della elaborazione degli algoritmi è superiore al beneficio ottenuto, però negli ultimi trent’anni quel costo è diminuito costantemente, di conseguenza tra non molto il collo di bottiglia verrà eliminato.
Per cui un docente universitario robot, un cantante lirico, un sociologo o un scrittore cyborg sono dentro un futuro possibile. McKinsey nello studio citato afferma che negli Usa, già oggi solo il 4% dei lavori ha bisogno di creatività. Siamo dentro la distopia di Norbert Wiener che nel New York Times già nel 1949 aveva profetizzato con il dominio delle macchine una rivoluzione industriale di assoluta crudeltà.
Il sociologo Bruno Manghi che da oltre trent’anni studia l’impatto dell’automazione negli ambienti di lavoro, intervistato da Rai News 24 affermava che l’ottimismo della liberazione dal lavoro per merito delle macchine, tipico dei decenni scorsi, si sta trasformando nel pessimismo della scomparsa del lavoro e confessava la sua impotenza nell’immaginare soluzioni.
Il refrain che ha accompagnato il progresso tecnologico è stato: i lavori persi verranno riguadagnati in lavori di maggior qualità. Di conseguenza basta investire in istruzione, spostare l’asticella insomma, e i lavori non scompariranno. È pur vero che ci sarà bisogno di figure professionali nuove, che sappiano progettare e dialogare con macchine sempre più sofisticate, però quante saranno nel mondo? Visto che già oggi giganti come Google progettano intelligenze artificiali resilienti, che imparano dai propri errori, che si adattano all’ambiente e che tra non poco sapranno progettare intelligenze simili? In un articolo del The Guardian del novembre del ’15 si stimava che nel mercato della robotica in dieci anni è ipotizzabile una crescita dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti.
Già oggi ne vediamo i frutti, quella che viene definita l’uberizzazione del lavoro umano fa passi consistenti: frammentazione delle attività date in appalto, smantellamento dei salari con l’imperversare dei micro pagamenti. Foodora che a Torino paga i suoi fattorini tre euro l’ora è sui giornali in questi giorni, ma i voucher di Renzi vanno in quella direzione.
Fino ad ora, gran parte dei consumatori hanno colto solo l’aspetto positivo della riduzione del prezzo e della comodità, ma tra non poco saremo in fase del Grande Disaccopiamento, secondo Brynjolfsson all’Harvard Business Review: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.
Il che pone problemi seri sulla tenuta delle società contemporanee in termini di PIL, sanità pubblica, previdenza sociale. Nessun settore verrà escluso da questa rivoluzione, neanche quello pubblico che fino ad ora ha risentito poco dell’automazione. Sono scomparse solo le dattilografe o poche altre figure professionali. Non a caso imprenditori di primo piano come Elon Musk di Tesla, Bill Gates ed altri propongono di tassare i robot.
Il Parlamento Europeo con 396 voti a favore, 123 contrari e 85 astensioni vota nelle settimane scorse una risoluzione con cui si propone di dare ai robot personalità giuridica. Lo fa per ragioni etiche. Se un’auto a guida autonoma causa un incidente, di chi è la responsabilità? Del padrone del veicolo? Del costruttore? Di chi ha fatto la manutenzione? È anche però il primo passo verso quello che alcuni definiscono reddito di cittadinanza, altri reddito universale. In Finlandia lo si sta già sperimentando con piccoli numeri.
Matteo Renzi torna dalla California e prospetta un lavoro di cittadinanza. Come spesso gli accade fa la figura dello studente che si presenta all’esame sulla base del sentito dire. Forse il segretario dimissionario del PD non ha chiari i termini del problema e fa confusione. Tutte queste proposte sono la via? Come Bruno Manghi confesso di non saperlo. Di sicuro il lato economico, benché decisivo, non è il solo ad essere importante.
È il concetto stesso di lavoro come autorealizzazione dell’individuo ad essere in crisi. Dalla Riforma Protestante in poi, questo, sia dipendente che autonomo, ha rappresentato l’identificazione dell’individuo rispetto alla rendita vissuta come attività parassitaria. Oggi assistiamo al contrario, la rendita, specie quella finanziaria, viene esaltata ed il lavoro mortificato da tasse e balzelli, da remunerazioni da fame. Un orizzonte che rischia di stravolgere le esistenze di tutti, di provocare rivolte che avranno bandiere luddiste se va bene.
Pensare poi che la nostra Sardegna, in quanto periferica e con attività che si crede non robotizzabili sia indenne, più che ingenuità è incoscienza. Un futuro di pastori cibernetici è dietro l’angolo.
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SOCIETÀ E POLITICA
Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal
di Laura Pennacchi, su eddyburg.
Un prezioso articolo che, cogliendo l’occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d’uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all’economia, dall’ambiente all’esodo. il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito
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Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.
In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].
La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.
L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.
Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?
Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.
Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.
Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.
Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).
Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.
Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».
Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.
E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.
All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).
[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
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Per correlazione: http://comedonchisciotte.org/allarme-onu-i-robot-sostituiranno-il-66-del-lavoro-umano/
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L’illustrazione è tratta dalla copertina della rivista Rocca, n. 10 del mese di maggio 2017
Verso “Sa die de sa Sardigna” 2017. Si muove la Fondazione Sardinia
Lunedì 6 marzo alle ore 17.30 la Fondazione Sardinia, organizza presso la propria sede di piazza San Sepolcro a Cagliari la prima riunione per la Festa de Sa die de Sa Sardignia 2017.
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Dipinto di Filippo Figari, Sardegna Industre, 1925, olio su tela, aula magna dell’Università di Cagliari (Università della Sardegna).
Sardegna Industre simboleggia “il benessere che reca lo studio delle scienze in pro dell’agricoltura e dell’industria della Sardegna. In primo piano, a sinistra un gruppo di donne in costume che significano la prosperità della terra e proteggono la nuova generazione; a destra, lavoratori della terra, del mare, delle officine; al centro la Sardegna Universitaria che regge la bandiera sarda dei quattro mori, ed ha a sinistra l’abbondanza e a destra l’Industria che frena i cavalli” (R. Carta Raspi, 1929).
E’ online “il manifesto sardo” duecentotrentatre
Il numero 233 del 1° marzo 2017
Il sommario
#SardegnaAvvelenata: Portoscuso: soldi pubblici sprecati, inquinamento, salute e paracarri (Stefano Deliperi), #SardegnaAvvelenata: Lavoro e salvaguardia del territorio: obiettivi da non separare (Marco LIgas), Giù le mani da Porto Ferro (Marcello Madau), L’insostenibilità del modello regionale (Omar Chessa), Capitale umano e sviluppo territoriale (Gianfranco Sabattini), Roberto Spano. Permacultura significa cultura permanente (Cristina Ibba) I Sardi? Ladri e delinquenti. Ed anche “negri” (Francesco Casula), I silenzi della Signora (Raffaele Deidda), Fantacronache del PD (Ottavio Olita), Una bella serata per una legge regionale democratica (Roberto Mirasola), Guardiamo la luna, non il dito (Cristiano Sabino), Manifestazione 8 Marzo NON UNA DI MENO a Cagliari (Red).
DIBATTITO. Dobbiamo ancora credere nell’Europa?
La linea degli Europeisti critici ma Europeisti convinti, come Umberto Allegretti.
UNIONE EUROPEA
di Umberto Allegretti, su Rocca
problemi transizioni prospettive
Col nuovo anno, la situazione in seno all’Unione Europea, che si era già così complicata nei due anni precedenti con le reazioni alle migrazioni e con il referendum britannico per l’uscita del Regno Unito dall’Unione (cosiddetta Brexit), si è fatta ulteriormente complessa e delicata. Così da suscitare gravi preoccupazioni in chi, come crediamo si debba, ritiene che questo lascito delle precedenti generazioni – la costruzione di un’Europa unita – sia positivo nonostante alcuni notevoli difetti che la affliggono. La sua creazione dopo i nazionalismi dell’Ottocento e della prima metà del Novecento, che hanno condotto alle due terribili guerre mondiali, ha realizzato la pace nel nostro continente (salvo la brutta vicenda della ex-Jugoslavia). E ha dato ai popoli europei l’unico modo di essere ancora nel mondo portatori di grandi valori e capaci di farli valere autorevolmente con una propria cultura e una propria politica, di fronte alla crescita delle grandi unità – oltre che gli Stati Uniti, la Russia, la Cina e gli altri giganti asiatici – presenti ormai come attori sulla scala mondiale. I singoli Stati europei non sarebbero infatti capaci di far fronte a quei grandi complessi continentali su un piano di parità, promuovendo la democrazia – per carente che sia –, il valore e la libertà della persona umana e la socialità e solidarietà fra tutti gli uomini, anch’esse carenti ma operanti e pregne di possibilità di espansione e di miglioramento.
migrazioni e reazioni
Nel 2015 e 2016 non a caso l’Europa ha rappresentato il maggior polo di attrazione delle grandi migrazioni dall’Africa e anche dall’America Latina, e non solo per l’attrazione della sua economia sviluppata. Purtroppo, a fianco di atteggiamenti complessivamente virtuosi della Germania (con l’accoglienza data a circa un milione di rifugiati), e dell’Italia, che si sta prodigando per salvare nel Mediterraneo le vite umane di tanti africani spinti verso di lei dalle loro guerre e dalla loro fame, sono andati maturando gravi comportamenti egoistici. Come quelli – per vero incredibili, vista la esiguità delle quote di rifugiati loro assegnate dalle decisioni dell’Unione – dei paesi detti di Visegrad e comunque di tutti i paesi dell’Europa centro-orientale usciti dall’esperienza comunista sovietica, a cui corrispondono anche comportamenti di rifiuto dell’immigrazione da parte di fasce e partiti delle nostre società occidentali, la cui influenza si teme possa aggravarsi con gli eventi elettorali previsti in vari paesi membri dell’Unione per il 2017.
Questo del come affrontare le migrazioni rimane uno dei massimi problemi irrisolti nell’Unione. Sembra ora che alcuni progetti in corso o avanzati potrebbero migliorare la situazione. Il piano europeo che prevede investimenti in Africa, soprattutto nella fascia del Sahel da cui provengono i più tra i migranti, dovrebbe aiutare a trattenere nei loro paesi – se gli investimenti saranno adeguati e ben sorvegliati nel loro uso a favore dei popoli e non di governi spesso corrotti – una buona parte di coloro che fuggono per i fattori sopra ricordati. Ma a che punto sia la realizza- zione non è noto. Si è poi proposto, dalla nostra rappresentante Mogherini e da altri membri della Commissione europea, un ulteriore piano di vigilanza sulle immigrazioni attraverso la Libia, che è responsabile, assieme alla traversata del deserto da UNIONE parte degli abitanti del Sahel. Il piano consiste nella diretta sorveglianza europea della costa libica contro i barconi di migranti in cui tanti muoiono; ma purtroppo richiederebbe la collaborazione di quel governo libico con base a Tripoli che l’Onu ha riconosciuto ma che non ha l’effettivo governo del vasto paese. Infatti una seconda ipotesi prevede che la sorveglianza europea – a cui comunque gli stati del centro e nord Europa dovrebbero partecipare più vigorosamente di quanto ancora non facciano, per evitare che tutto il peso ricada sulle forze italiane – si svolga nel mare non territoriale, al largo della Libia, ma sarebbe indubbiamente meno efficace. Che invece l’Europa possa vigilare i confini tra i paesi del Sahel e il Sud libico pare ancora più problematico e comunque richiede anch’esso l’accordo dei vari paesi africani.
l’integrazione e le questioni aperte
Rimane poi il problema di una vera integrazione dei migranti in Europa; e su questo punto l’Italia è ancora indietro, perché tarda ad approvare norme di legge, pur da tempo proposte, che diano la cittadinanza ai nati stranieri nel nostro paese (cosiddetto jus soli) e non dispone ancora di sufficienti mezzi di promozione dei diritti (allo studio, alla casa ecc.) degli stranieri stessi immigrati, in cambio di un lavoro e di un apporto demografico che essi danno al nostro paese.
Un secondo grande problema è quello dei modi di uscita della Gran Bretagna dall’Unione, voluto dal referendum dello scorso giugno. Le questioni aperte riguardano le due parti: la Gran Bretagna e l’Unione. Sul primo versante, la May, primo ministro inglese, comportandosi peggio della Thatcher, si è confermata, dopo incertezze e discussioni, per un’uscita «dura» («non manterremo neanche un pezzo di Ue», che prevede non solo la fuoriuscita dal mercato comune ma anche restrizioni gravi all’ingresso di stranieri anche europei nel paese, per esempio per motivi di studio. La May ha per giunta minacciato di uscire dall’unione doganale (che è cosa diversa dal mercato comune) e di abbassare le tasse sulle società, trasformando così il suo paese in un gigantesco paradiso fiscale! Vorrebbe al tempo stesso stringere con l’Unione accordi di libero scambio che diano alla Gran Bretagna uno status simile nel commercio e sul piano finanziario a quello dell’Unione e altri privilegi, non più giustificati dalla sua uscita.
Non c’è molto da sperare dalla discussione nel Parlamento inglese, di cui pure, con correttezza costituzionale, le corti inglesi hanno imposto al governo l’intervento prima di notificare ufficialmente all’Unione l’uscita stessa, notificazione non ancora avvenuta ma promessa per fine marzo. Anche se il voto parlamentare potrebbe imporre al Governo alcune condizioni più moderate per le trattative con l’Unione.
la Scozia europeista e il fattore Usa
C’è poi il problema della contrarietà all’uscita da parte di porzioni significative del Regno Unito, per prima la Scozia, che nel voto ha negato il suo consenso alla Brexit, e che nel caso potrebbe chiedere la separazione dall’Inghilterra e l’ammissione all’Unione come nuovo partner. Sul secondo versante l’Unione deve negoziare con forza le condizioni di uscita, ma per ora non lo sta facendo a sufficienza.
Poi c’è il fattore americano. Il nuovo (purtroppo!) Presidente Trump è fiero partigiano di un rapporto privilegiato con quel che rimarrà della Gran Bretagna dopo la esecuzione della Brexit, e addirittura vuole favorire la disintegrazione dell’Unione. Riuscirà la sua influenza su questa doppia problematica? Lo si può temere e però anche sperare il contrario: molto dipende dall’atteggiamento dei membri dell’Unione.
in cerca dello spirito europeo
Ci sono infine i problemi più noti. La politica dell’Unione sul terreno economico, imposta soprattutto dalla Germania, ha diviso sempre più l’Unione in due parti: un Nord leader e avvantaggiato, un Sud discriminato. A parte alcune colpe di scarsa avvedutezza imputabili al Sud (come quelle italiane) è l’egoismo del Nord che finora ha escluso una politica di crescita attraverso forti investimenti. Ora alcuni piani di investimento sarebbero pronti, ma ancora non c’è certezza, e tutto dipende da come verranno gestiti.
Insomma, gravi questioni ci aspettano e occorre perciò che in paesi come il nostro si incentivi lo spirito europeo, affinché noi possiamo dare un apporto positivo, come governo e come popolo, per la soluzione dei problemi sul campo.
Umberto Allegretti
oggi mercoledì 1° marzo
“Senza distinzione di sesso” Convegno ANPI – Comitato d’iniziativa sociale Costituzionale e Statutaria.
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Globalizzazione e crisi della democrazia
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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SardegnaCheFare?
Comparto agroalimentare.
Fernando Codonesu su Aladinews.
Oggi mercoledì delle ceneri, 1° marzo 2017
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Memento homo, quia pulvis es et in pulverem reverteris