Monthly Archives: marzo 2017
Sa die de Sa Sardigna 28 aprile 2017
Legge Regionale 14 settembre 1993, n. 44
Istituzione della giornata del popolo sardo “Sa Die de sa Sardinia”.
Il Consiglio Regionale ha approvato
Il Presidente della Giunta Regionale promulga la seguente legge:
Art.1
1. Il 28 aprile è dichiarata giornata del popolo sardo “Sa Die de sa Sardinia”.
2. In occasione della ricorrenza, la Regione Autonoma della Sardegna organizza manifestazioni ed iniziative culturali.
3. A tal fine la Giunta regionale approva annualmente, sentita la competente Commissione consiliare, uno specifico programma, predisposto dall’Assessore della pubblica istruzione anche sulla base delle iniziative indicate dagli enti locali ed associazioni senza scopo di lucro.
4. Detto programma deve mirare a sviluppare la conoscenza della storia e dei valori dell’autonomia, in particolare tra le nuove generazioni.
Art.2
(omissis)
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La presente legge sarà pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione.
E’ fatto obbligo a chiunque spetti di osservarla e di farla osservare come legge della Regione.
Data a Cagliari, addì 14 settembre 1993
Cabras
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COMUNICAZIONI
Lunedì 13 marzo, alle ore 17,30 riunione del Comitato po Sa die de Sa Sardigna, presso la sede della Fondazione Sardinia in piazza San Sepolcro, Cagliari.
Beni Comuni Urbani: perché non si ricupera al quartiere e alla città lo stabile della Scuola Popolare di Is Mirrionis? L’ITI Is Mirrionis-San Michele può prevederlo
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Azione 9.6.6. Interventi di recupero funzionale e riuso di vecchi immobili in collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione collettiva, inclusi interventi per il riuso e la rifunzionalizzazione dei beni confiscati alle mafie
Descrizione della tipologia e degli esempi di azioni da sostenere.
(…) Si intende, quindi, favorire il recupero funzionale e il riuso di vecchi immobili pubblici da destinare a spazi di relazione per il quartiere e l’intera comunità locale, nella piena convinzione che la rifunzionalizzazione di spazi pubblici dismessi o sottoutilizzati in stretto collegamento con attività di animazione sociale e partecipazione attiva, possa rispondere a una duplice finalità: da un lato evitare l’ulteriore degrado dell’area, dall’altro rappresentare una leva di coesione sociale.
Gli interventi infrastrutturali saranno funzionali alle attività di animazione sociale che sul territorio si intenderà promuovere, per diventare dei luoghi fisici di partecipazione attiva dei cittadini, degli spazi in cui sviluppare un lavoro di prossimità. Tali iniziative dovranno fungere da catalizzatore per la costruzione di nuove reti di relazione e rappresentare dei luoghi in cui si potranno intercettare i problemi sociali della famiglia, degli anziani, delle persone inoccupate e disoccupate in cerca di lavoro, e diventare delle vere e proprie “case di quartiere”, in grado di offrire servizi alla collettività (supporto alla genitorialità, sostegno alla legalità, prevenzione di fenomeni di devianza giovanile e/o abbandono scolastico).
(…) – Approfondimenti - SEGUE
Reddito di cittadinanza
Mi successe una sera all’improvviso, mentre lavavo i piatti e guardavo nel giardino attraverso la finestra. Fu allora che mi venne in mente che tutte le cose più importanti che facevo per la mia vita, quella della mia famiglia e degli altri, non erano pagate affatto o erano pagate pochissimo». Philippe Van Parijs, filosofo ed economista belga, fa risalire a quella intuizione l’inizio degli studi e del lavoro sul reddito universale di cittadinanza. Una suggestione, il recupero di un’antichissima utopia sociale, che poi è diventato il suo cavallo di battaglia, l’impegno di una vita e una rete internazionale, il Basic Income Earth Network. Nella costruzione teorica di Van Parijs, il reddito di base è un dividendo sociale, la ricompensa per quello che ciascuno di noi fa, gratuitamente e quotidianamente, per contribuire alla ricchezza sociale.
Quella di Van Parjis è la versione più radicale, estesa e utopistica di un carnet di proposte di sostegno monetario pubblico alle persone o alle famiglie, che in questi mesi molti sono tornati a sfogliare. Dai giganti della tecnologia della Silicon Valley, dove è nata un’impresa per sperimentare il reddito garantito su un piccolissimo numero di 100 persone; al governo finlandese, che dall’inizio del 2017 svolge analoga sperimentazione su un campione di 2000 cittadini; agli elettori svizzeri, che lo scorso anno se ne sono occupati in un referendum – che hanno bocciato; al candidato socialista francese all’Eliseo Benoit Hamon, che ha inserito la proposta di un reddito di base nel suo programma; alla politica italiana, che ha dibattuto (poco) in parlamento su due proposte, di M5S e Sel, intitolate rispettivamente al reddito di cittadinanza e al reddito minimo garantito (in tutti e due i casi, scatterebbe solo al di sotto di una certa soglia di reddito, familiare o individuale), e che è tornata a occuparsene con più clamore dopo il ritorno di Matteo Renzi dal suo mini-viaggio in California. Svuotando il trolley, l’ex premier italiano ha tirato fuori la proposta di reddito di cittadinanza – quella sulla quale, appunto, stanno ragionando alcune teste della Silicon Valley – e l’ha subito scartata per trasformarla in qualcosa di diverso, il «lavoro di cittadinanza». Reddito, lavoro, cittadinanza: attorno a queste parole chiave si articola una gamma di proposte diverse, sulle quali è utile indagare andando oltre gli slogan e gli opportunismi del momento.
perché ora
Dalla fine del Diciottesimo secolo, quando l’utopista americano Thomas Paine diede la prima sistemazione teorica all’idea di un reddito di base per tutti, a oggi, molti fatti e molte teorie sono passate sotto i
ponti. E la formula del reddito garantito, con diverse varianti, ha attraversato destra e sinistra, dal liberismo estremo di Milton Friedman (il teorico dello Stato minimo e l’ispiratore delle politiche di Reagan e Thatcher) al rifiuto del lavoro e al diritto all’ozio degli anni ’70. Non ha mai «sfondato» nel campo dei partiti operai novecenteschi, né tantomeno dei sindacati nei Paesi nei quali le organizzazioni del lavoro erano potenti e in grado di influenzare la politica. Un’etica «lavorista» fortissima, e al contempo la certezza del fatto che il reddito si deve pretendere dal capitalista, non dallo Stato, spiegano la diffidenza verso la formula di un assegno monetario garantito a prescindere da quel che si fa e per chi. Altri erano, in questa cultura, i servizi universali che lo Stato doveva garantire: sanità, istruzione, più servizi sociali di base da dare in natura e non in moneta. Specularmente, i conservatori americani con Friedman volevano un reddito minimo (nella formula tecnica dell’imposta negativa) proprio per cancellare tutto quest’apparato di welfare e sostituirlo solo con una erogazione monetaria limitata ai più poveri, che avrebbero con quei soldi potuto scegliere quale istruzione, sanità, servizi comprare.
Oggi il dibattito torna in un contesto del tutto nuovo: quello della disoccupazione causata da uno dei passaggi di tecnologia più dirompente che ci sia stato dall’invenzione della macchina a vapore. Non passa giorno senza una nuova stima sull’effetto della rivoluzione delle macchine sul lavoro: l’ultimo studio, prodotto da due ricercatori di Oxford (Carl Frey e Michael Osborne) sostiene che quasi la metà dei posti di lavoro negli Stati Uniti sarà automatizzato nei prossimi venti anni. Qualche tempo fa una ricerca McKinsey prevedeva lo stesso scenario, avvertendo però che le cose possono andare molto più rapidamente, o anche molto meno rapidamente, a seconda delle condizioni economiche e sociali esterne. Come dire: tutto può succedere, non sappiamo con precisione quando, ma è certo che succederà. Due tra i più importanti studiosi dell’economia dei robot Eric Brynjolfsson e Andrew McAfee del Mit di Boston, più che quantificare i posti di lavoro «persi» invitano a guardare al gigantesco cambiamento in corso prendendo atto del fatto che quei lavori non torneranno più, ma guar- dando con ottimismo al potenziale di pro- duttività e ricchezza liberato dalla «nuova rivoluzione delle macchine». Ma anche per i robot-ottimisti è innegabile che la transizione non sarà un pranzo di gala, e che lascerà (sta già lasciando) sul terreno milioni e milioni di posti di lavoro.
Già nel 1930 John Maynard Keynes, parlando degli effetti di uno choc tecnologico e dell’aumento di produttività che l’inno- vazione delle macchine avrebbe potuto consentire, si lanciava in una profezia:
«Grazie al progresso tecnologico, ci basterà lavorare quindici ore a settimana. E tra cento anni l’economia smetterà di essere un problema per l’umanità». Al centenario di quella profezia di Keynes manca pochissimo, e se ne è attuata solo metà: in effetti il progresso tecnologico richiede molto meno lavoro per fare un numero crescente di merci. Ma l’economia non ha smesso di essere un problema per l’umanità, ripetendosi invece come un incubo ogni notte peggiore. Oggi i fautori delle varie forme di reddito garantito vorrebbero attuare la seconda parte di quella profezia di Keynes: godiamoci le ore di lavoro liberate dalla tecnologia. Ma l’unico modo per farlo è «sganciare» il reddito dal lavoro, attraverso un sostegno di base garantito, un pavimento sotto il quale non si può cadere. L’alternativa – mantenere l’ideale e l’obiettivo della piena occupazione, attraverso le lotte sociali e l’intervento pubblico – richiederebbe di fermare il progresso tecnologico, ricostituire il potere delle organizzazioni sindacali, ridare linfa e risorse agli Stati nazionali: tre cose difficili, al momento.
soldi, lavoro, cittadinanza
In questo complicato scenario si calano anche il dibattito italiano sul reddito garantito e le relative proposte. Da un lato, è uno slogan al quale si stanno aggrappando qua e là forze politiche o movimenti di base alla disperata ricerca di soluzioni al problema della precarietà del lavoro, e a quello ancora più pressante dei salari bassi e bassissimi. Va precisato però che nessuna delle due proposte parlamentari – quella del Movimento Cinque Stelle e quella di Sel – è un reddito di cittadinanza in senso stretto, cioè un assegno dato a tutti, a prescindere dal loro reddito e dalla loro condizione familiare e occupazionale. Anche se il M5S lo chiama «reddito di cittadinanza», di fatto è, come quello proposto da Sel, un reddito minimo garantito: se si supera una certa soglia di reddito (attorno ai 6-700 euro al mese) se ne perde il diritto. Il che può sembrare giusto in linea di principio, ma pone un grosso problema: si introduce un disincentivo a lavorare, tanto più se si considera che spesso i giovani dovrebbero faticare per ottenere una cifra di poco superiore sul mercato. Il costo delle proposte in esame, secondo i calcoli dell’Istat, oscilla tra i 14,9 miliardi annui della proposta del M5S ai 23,5 di quella di Sel (che eroga il reddito su base individuale e non familiare).
Dall’altro lato, c’è chi vede in queste proposte il rischio di una riproposizione del vecchio assistenzialismo, tanto più pericoloso se si considera la differenza tra Nord e Sud che permane attraverso i secoli e che dirigerebbe gran parte delle risorse per il «nuovo» reddito a Mezzogiorno. Su questo secondo crinale si è posizionato l’ex premier Renzi, quando, tornando da un breve viaggio californiano, ha contrapposto alla formula del «reddito di cittadinanza» quella del «lavoro di cittadinanza»: in sostanza, per meritarsi l’assegno bisognerebbe essere disponibili a lavorare, a fare qualcosa per la società. E questo, per evitare che si approfitti della situazione, restando a grattarsi la pancia «tanto c’è papà-Stato che ci pensa».
Con questa proposta, Renzi fa però un salto nel secolo scorso, tornando a quell’equivalenza tra lavoro e reddito che l’evoluzione in corso sta scardinando. Se i lavori «utili» di cui parla servono, non si vede perché non possano essere forniti dal mercato o (se si tratta di beni e servizi che il mercato non «prezza») dallo Stato, che dunque dovrebbe in questo caso assumere lavoratori e pagare i salari corrispondenti. Se invece si tratta di tener impegnate le persone tanto per evitare i mali dell’ozio, o comportamenti opportunistici, la proposta suona abbastanza paternalistica, oltre che viziata da due preconcetti: che la disoccupazione dipenda dal rifiuto di accettare i lavori e lavoretti esistenti sul mercato, invece che da una strutturale eccedenza di persone rispetto ai posti disponibili; e che la gente, di fondo, non abbia alcuna voglia di lavorare. Il reddito incondizionato – cioè non legato alla verifica della disponibilità a lavorare, che peraltro sarebbe molto costosa dal punto di vista amministrativo – ha moltissimi rischi, ma ha due virtù: non bisogna mettere su un apparato burocratico per verificare chi «se lo merita», e si rafforza la capacità contrattuale dei lavoratori (e aspiranti tali) su un mercato dove al momento i rapporti di forza sono tutti per i datori di lavoro.
Se stiamo tutti insieme transitando da un modello economico a un altro, è un aiuto per chi, nel passaggio, rischia di restare stritolato, non possedendo già le competenze e le forze per il nuovo mondo ma non avendo più nessuna tutela dal vecchio. Con tutte le sue incognite, pare questa la direzione da sperimentare.
Roberta Carlini
Oggi sabato 11 marzo 2017
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DIBATTITO. Europa?
Il problema dell’Unione Europea? Mancano strategia, ambizione e pragmatismo.
Editoriale su Aladinews.
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Innovazione tecnologica e sviluppo
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
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Rassegnatevi! Uber è ovunque, e tornare indietro è impossibile.
Il volume “Uberization” di Antonio Belloni mostra come siano almeno 50 i campi in cui si è applicato il nuovo modello di business di cui l’app più odiata dai tassisti è diventata un simbolo. È bene però smontare i miti: non tutta la disintermediazione porta valore, ai lavoratori ma anche ai clienti.
di Fabrizio Patti su Linkiesta.
“Punta de billete” per martedì 14 marzo 2017
Martedì 14 marzo ore 16-19
LA RAPPRESENTAZIONE DELLA MATERNITÀ NELLE ARTI FIGURATIVE
Licia Lisei.
Approfondimenti.
DIBATTITO. Europa?
Il problema dell’Unione Europea? Mancano strategia, ambizione e pragmatismo
La rassegna stampa europea di questa settimana a cura della News LINKIESTA. In primo piano l’Europa, in crisi esistenziale, a cui mancano strategia e ambizione e poi la questione della tassa sui robot
di EuVisions, Carlo Burelli e Alexander Damiano Ricci.
(9 Marzo 2017 – 14:17)
Il futuro dell’Europa
Al Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Europa mancano strategia e ambizione. L’Europa ha bisogno di pragmatismo perché si trova in una crisi esistenziale
La questione sociale
Al Libro bianco della Commissione sul futuro dell’Europa mancano strategia e ambizione: questo il commento di Judy Dempsey, di Carnegie Europe. La pecca principale sta nel cercare di compiacere ciascuno dei 28 (presto 27) Stati membri. Il Libro bianco illustra 5 possibili scenari: proseguire lungo la strada già intrapresa; concentrarsi esclusivamente sul mercato unico; consentire una maggiore integrazione degli Stati membri, laddove la si voglia; fare meno ma in modo più efficiente; ed infine fare molto di più, tutti insieme. Il rischio sta nel fatto che tutti si sentiranno in diritto di scegliere l’opzione più vantaggiosa tra quelle presenti in questa “lista della spesa”: la Commissione sembra aver perso autorevolezza e capacità di leadership, e rende palese il fatto di non avere una strategia definita per il futuro.
Secondo Juha Sipilä, il Primo ministro della Finlandia, l’Europa in questo momento ha bisogno di pragmatismo. I cittadini non pensano che lo Stato federale sia un obiettivo per cui valga la pena lottare, ma nonostante questo isolarsi sarebbe una scelta sbagliata. Se si vogliono perseguire delle forme di solidarietà tra paesi, occorre ricordare che alla base di tutto c’è la fiducia, e dunque gli Stati membri devono assumersi la propria parte di responsabilità e rispettare le norme comuni. La cooperazione europea è stata costruita nel corso del tempo su tre principi fondamentali – pace, prosperità e valori comuni – quando l’Europa, devastata dal secondo conflitto mondiale, aveva bisogno di stabilità. L’Unione europea deve riconoscere le sue radici, e quindi salvaguardare la stabilità, la prosperità e i valori comuni del continente.
La crisi multiforme che l’UE si trova ad affrontare è diversa dalle precedenti: secondo Claire Courteille-Mulder e Olivier De Schutter (Euractiv) si tratta di una crisi esistenziale, dal momento che tocca la nozione stessa di integrazione, il che rende più che mai necessaria una ridefinizione dell’Europa in uno scenario di crisi che, iniziata nel 2008, ancora fa sentire le sue conseguenze sociali. Nell’immediato, è necessario intraprendere azioni concrete volte a dare maggiore coerenza ai diversi obiettivi nazionali, siano essi di natura fiscale, sociale o economica. Più a lungo termine, si dovrà riaprire il dibattito su come portare l’UE sotto la giurisdizione di organismi sovranazionali che tutelano i diritti della persona, se non altro per far sì che gli Stati membri siano in grado di rispettare gli obblighi derivanti dalla ratifica di trattati internazionali.
L’automazione può ridurre i costi per i consumatori: una tassa sui robot che possa ridurre l’impiego di macchinari nell’assistenza sanitaria e che quindi faccia crescere i costi delle cure mediche potrebbe danneggiare tanti lavoratori quanti ne aiuterebbe
L’Economist prende in esame la tassa sui robot proposta da Bill Gates, sostenendo che ne deriverebbero due vantaggi: maggiori risorse e rallentamento dell’automazione. Di solito gli economisti non amano le imposte sugli investimenti, dal momento che l’acquisto e l’impiego di nuove attrezzature aumentano la produttività e la crescita. Ma se il ritmo dell’automazione è troppo rapido da gestire per la società, rallentare l’automazione potrebbe apportare benefici maggiori degli svantaggi. Tuttavia, ci sono motivi per essere scettici riguardo questo approccio. Non tutti i nuovi robot rimpiazzano il lavoro umano e alcuni rendono maggiormente produttivi i lavoratori esistenti. L’automazione può anche ridurre i costi per i consumatori: una tassa sui robot che portasse a ridurre l’impiego di macchinari nell’assistenza sanitaria e che quindi facesse crescere i costi delle cure mediche potrebbe danneggiare tanti lavoratori quanti ne aiuterebbe. Un ulteriore problema è che almeno per ora la crescita della produttività rimane deludente, e questo suggerisce che semmai l’automazione sta avvenendo troppo lentamente, piuttosto che troppo rapidamente come si teme.
Rutger Bregman propone un ‘modo semplice’ per eliminare la povertà, sostenendo che dovremmo abbandonare l’idea secondo cui i ricchi “meritano” la loro condizione sociale superiore. Un lavoro di Eldar Shafir, docente a Princeton, esamina il caso dei coltivatori di canna da zucchero in India: questi ultimi ricevono circa il 60% del loro reddito annuo in una sola volta, ossia subito dopo la raccolta, il che li rende poveri per una parte dell’anno e ricchi per l’altra. Sorprendentemente, i loro test del QI mostrano che quando sono “poveri” ottengono 14 punti in meno rispetto allo stesso test effettuato quando sono “ricchi”. Ciò si spiega con il fatto che le persone si comportano in maniera diversa quando percepiscono “scarsità”, concentrandosi su una mancanza immediata piuttosto che guardare alla prospettiva di lungo termine. Questo è il motivo per cui così tanti programmi contro la povertà falliscono. Una soluzione semplice sarebbe un reddito di base universale, misura rivelatasi efficace quando è stata sperimentata per 4 anni a Dauphin, a partire dal 1974: l’esperimento ha mostrato che le persone non solo si arricchiscono, ma diventano anche più intelligenti e più sane. Il rendimento scolastico dei bambini è migliorato notevolmente, il tasso di ospedalizzazione si è ridotto dell’8,5%, e anche la violenza domestica è diminuita, così come i problemi di salute mentale. Inoltre, le persone non hanno abbandonato il proprio impiego per ricevere il sussidio. Un reddito di base fungerebbe da capitale di rischio per le persone, e sarebbe conveniente dato che la povertà ha enormi costi occulti.
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Leggi anche:
– Greece: Lenders take unacceptable hard line on worker rights – Euractiv
– Britain may find it hard to escape the European Court of Justice – Economist
– Michael Gove on the Trouble with Experts – Chatham House
– Leaving the EU is the start of a liberal insurgency – The Guardian
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Cinque possibili strade per l’Unione Europea
di Vincenzo Comito su eddyburg.
«Nel Libro Bianco del presidente della Commissione europea per la prima volta viene avanzata l’idea che in tema di costruzione europea l’Unione possa anche fare dei passi indietro». Sbilanciamoci.info, 9 marzo 2017 (c.m.c.)
Che il progetto dell’Unione Europea sia da tempo in una crisi profonda non è certo una questione controversa. I sintomi del male sono chiari: basti ricordare il crescente euroscetticismo che si va diffondendo dovunque e l’attacco quasi quotidiano, da parte dei rappresentati politici di molti paesi, verso Bruxelles.
Per parte nostra, su di un piano politico, ricordiamo come l’Europa si sia intrappolata in una deriva tecnocratica e neo-liberista, con la corsa all’austerità, le svalutazioni “interne” e le cosiddette riforme “strutturali”, i favori ai paradisi fiscali, il taglio dei bilanci comunitari, l’assenza di politiche di sviluppo.Semmai oggi le incertezze planano sul che fare di fronte a tali minacce e a tali problemi.
Alcuni progetti di riforma
Negli ultimi mesi si vanno elaborando da diverse parti dei progetti di riforma su tutta o su una qualche parte della costruzione europea. Meraviglia semmai che esse non siano poi troppo numerosi, né che il dibattito in merito si presenti come molto vivace, o di livello adeguato, sintomi forse anche questi di una crisi profonda del progetto europeo.
Intanto c’è questa proposta della Merkel mirante ad un’Europa a più velocità, idea sufficientemente vaga per dare adito a diverse possibili interpretazioni; sempre in Germania, invece, Schultz, che comunque è d’accordo su questa ipotesi della cancelliera, vuole peraltro chiudere con la politica di austerità, da lui considerata come una delle cause fondamentali della crisi e vuole invece introdurre gli eurobond per migliorare le prospettive delle economie indebitate.
Ad un summit tenutosi a Versailles il 6 marzo, anche Francia, Italia e Spagna si sono dichiarate d’accordo con l’idea della Merkel, anche se temiamo che ogni paese, utilizzando l’espressione, pensi a cose almeno in parte diverse da quelle degli altri.
D’altra parte, si va discutendo di portare avanti la costruzione europea mettendo in comune in tutto o in parte il settore della difesa; ma non ci sembra poi una grande idea quella di rilanciare il progetto cominciando proprio da lì. Eccellono nell’esercizio pan-militare i governi italiano e francese.
Va ancora segnalato che il parlamento olandese sta avviando una commissione di inchiesta per valutare i pro ed i contro del mantenimento del paese nell’eurozona (Barber, 2017). Trattandosi di uno dei sei paesi fondatori della costruzione europea questo non appare certo un bel segnale.
Per quanto riguarda l’Italia, hanno destato un certo clamore le conclusioni a cui è giunta una ricerca della società Macrogeo, una creatura di Carlo De Benedetti, che da per scontata una chiusura dell’esperimento europeo e l’emergere invece di un polo mega-tedesco, cui farebbero capo paesi quali l’Olanda, la Polonia, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, alcune realtà scandinave ed eventualmente il Nord dell’Italia, che così si staccherebbe dal resto del paese.Come si vede il livello di confusione appare piuttosto elevato.
Le dimissioni di Juncker
Juncker aveva già fatto parlare di se qualche settimana fa, quando sembrava che egli fosse sul punto di presentare le dimissioni dalla carica, essendo la Commissione al crocevia di una serie di contraddizioni difficilmente sanabili. Egli ha apparentemente poi cambiato idea. Ricordiamo, a proposito dei problemi che egli può avere incontrato a Bruxelles negli ultimi tempi, solo un episodio che riguarda il nostro paese. La Commissione, ponendo molte speranze nelle promesse di rinnovamento del governo Renzi, aveva allentato le briglie sui conti dell’Italia per ben 19 miliardi di euro; col risultato di ricevere in cambio degli insulti dal capo del governo della penisola, che voleva ottenere ancora di più, ma contemporaneamente anche gli attacchi della Merkel, che gli ricordava come lo stesso Renzi avesse poi utilizzato le concessioni della Commissione per il varo di misure quali l’abolizione dell’Imu sulla prima casa e il versamento di denaro ai giovani per permettere loro di comprare i biglietti per il cinema.
Il libro bianco
In questo clima si colloca il cosiddetto “libro bianco” del presidente della Commissione, reso pubblico ai primi di marzo e presentato come un contributo della stessa Commissione al dibattito sull’avvenire dell’Unione. Il testo dovrebbe essere dibattuto al summit di Roma del 25 sempre di questo mese, quando sarà celebrato il 60° anniversario del trattato di fondazione dell’Unione.
Ricordiamo che il testo sarà completato da qui all’estate da cinque rapporti specifici, che esploreranno “l’avvenire dell’Europa sociale”, “le risposte alla globalizzazione”, “le vie per l’approfondimento dell’unione economica e monetaria”, “la difesa” e “la finanza”.
Le trenta pagine del fascicolo appena pubblicato presentano cinque possibili scenari.
Il primo è quello che l’Unione si limiti al solo mercato unico. Il libro bianco sottolinea i lati negativi dell’ipotesi, quali la perdita della libertà di circolazione, i pericoli per la stabilità finanziaria, la riduzione di status e di peso internazionale dei vari paesi europei e di tutto il continente.
Lo scenario più ambizioso propone invece un’Europa federale. Ma l’ipotesi non appare in sintonia con l’aria del tempo ed essa viene valutata come oggi politicamente non credibile.
Il terzo scenario è quello dello status quo, linea chiaramente aperta a grandi criticità, gran parte delle quali conosciamo bene già adesso, ma che sarebbero presumibilmente destinate ad aggravarsi nel tempo.
Restano i due ultimi scenari.
Il primo rilancia l’idea della Merkel, ormai appoggiata dagli altri grandi paesi dell’Unione, di un’Europa a più velocità. Le politiche comuni attuali e qualcuna di quelle future rimarrebbero per tutti i paesi, ma alcuni di essi potrebbero decidere di andare più avanti, caso per caso, come nella difesa, nella giustizia, nel diritto commerciale, nell’armonizzazione fiscale.
L’ultimo scenario, possibilmente complementare a quello precedente, vedrebbe l’Unione restituire ai singoli Stati alcune competenze oggi collocate a Bruxelles. Si tratterebbe di “fare meno ma meglio”, in tema ad esempio di politiche regionali, nonché di parte delle politiche sociali e dell’occupazione, delineando anche soltanto degli standard minimi su altri soggetti, come ad esempio la protezione dei consumatori e gli standard sanitari.
Va in proposito segnalato che è la prima volta che qualcuno suggerisce il principio che in tema di costruzione europea si può anche arretrare.
Parallelamente, invece, si dovrebbe andare più avanti su alcuni grandi dossier politici ed economici, quali la politica dell’innovazione, il commercio estero, i migranti e il diritto d’asilo, la protezione dei confini, la difesa. Ai maggiori poteri in alcune aree dovrebbe poi anche corrispondere il potere di implementare direttamente da parte di Bruxelles le decisioni collettive una volta prese.
Pur senza avanzare preferenze nette, comunque il documento suggerisce che sarebbero le due ultime opzioni quelle preferite.
Conclusioni
Come capo della Commissione, in presenza dei gravi problemi già prima ricordati, nonché della scadenza del 60° anniversario dell’Unione, della pendenza della Brexit e infine delle supposte minacce che pongono oggi gli Usa di Trump e la Russia di Putin, Juncker non poteva certo mancare di fare il punto sulla situazione e di aprire ufficialmente il dibattito.
Peraltro il suo approccio, pur con qualche spunto positivo, non ci appare complessivamente molto convincente e comunque esso fa intravedere una risposta molto debole di fronte ai problemi che si pongono.
Si può ricordare, tra l’altro, che negli ultimi anni molti studiosi ed operatori hanno elaborato delle idee e pubblicato delle ricerche che affrontano il problema in maniera anche molto approfondita. Di tutte queste analisi nel libro bianco ci sembra che non ci sia sostanzialmente traccia.
E’ vero che come presidente della Commissione Juncker non può imporre ai vari Stati le sue idee, ma comunque uno sforzo maggiore poteva, a nostro parere, essere fatto non solo a livello di analisi, ma anche di proposte.
Al di là di questo, entrando brevemente nel merito di quello che nel documento manca, ci sarebbe, tra l’altro, bisogno di attenzione ad una maggiore giustizia sociale ed economica, di andare inoltre verso la cancellazione delle politiche di austerità, di avviare grandi investimenti pubblici verso l’economia verde, le nuove tecnologie e la riduzione delle diseguaglianze tra paesi, in vista anche della messa a punto di un modello sociale europeo. Per non parlare della necessità di rinnovare la macchina organizzativa di Bruxelles, oggi tra l’altro facile preda di tutte le lobbies, come mostra in questi giorni il caso dei glifosfati e di cambiare alcuni principi di funzionamento, come quello dell’unanimità.
Ma di tutto questo nel documento non c’è traccia. Il progetto europeo, se si baserà sulle sole ipotesi del libro bianco, non sembra presentare motivi di entusiasmo.
Più in dettaglio, ad esempio sul piano sociale Juncker aveva dichiarato nel 2014 «…io vorrei che l’Europa avesse la “tripla A” sociale, altrettanto importante della “tripla A” economica e finanziaria…» (Ducourtieux, 2017). Ma la realtà non appare certo in linea con tali dichiarazioni. Per il vero, l’8 di marzo si è tenuto un “vertice sociale tripartito”, tra i dirigenti dell’Unione, i rappresentanti del padronato e quelli dei sindacati europei. Ma si è trattato, come al solito, di un dialogo tra sordi. La Commissione prepara inoltre per il 26 aprile la pubblicazione di una piattaforma europea dei diritti sociali, ma sono in pochi ad aspettarsi qualcosa da tali sforzi (Ducourtieux, 2017).
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-Barber T., Europe starts to think the untinkable : breaking up, www.ft.com, 2 marzo 2017
-Ducourtieux C., L’Europe a bien du mal à prendre l’accent social, Le Monde, 8 marzo 2017
Oggi, venerdì 10 marzo 2017
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La questione più urgente è «come» sviluppare un processo democratico di riappropriazione del controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una risorsa prodotta e condivisa dalla collettività. Neil Brenner, docente di «Teoria urbana a Harvard».
Autogestioni postmetropolitane
di Benedetto Vecchi su eddyburg, ripreso come editoriale da Aladinews.
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Incontri immaginari: Marx e Keynes a confronto
- Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
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A Helsinki c’è un reddito per tutti. Garantito.
Molti lo vogliono, tutti ne parlano, la Finlandia l’ha fatto. Per due anni verserà 560 euro al mese a duemila disoccupati estratti a sorte. Viaggio tra i fortunati che beneficiano di un esperimento sociale (per ora) unico.
Riccardo Staglianò sul Venerdì di Repubblica.
La questione più urgente è «come»sviluppare un processo democratico di riappropriazione del controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una risorsa prodotta e condivisa dalla collettività.
CITTÀ E TERRITORIO «LIBRI DA LEGGERE PER COMPRENDERE»
Autogestioni postmetropolitane
di Benedetto Vecchi
«Spazi urbani. Un’intervista a Neil Brenner, autore del volume “Stato, spazio, urbanizzazione”. Il nazionalismo economico nutrito da xenofobia e populismo come risposta allo tsunami della crisi. Oggi l’intervento del teorico statunitense all’Università di Roma 3». il manifesto, 8 marzo 2017 (p.d.)
Metropoli ridotte a una triste e desolata successione di case abbandonate e fabbriche ormai color ruggine. Piccoli paesi di campagna diventati nel giro di qualche lustro metropoli illuminate a giorno anche di notte, dove fabbriche scintillanti si alternano a quartieri abitati da «creativi» e punteggiati da centri di design e atelier di moda. E poi città dove il centro e alcune enclave protette da guardie armate sono circondate da immensi slums, regno dell’economia informale.
Sono queste le rappresentazioni dominanti della città. Oggetto di discussioni e di elaborazioni da parte di una schiera di urbanisti, sociologi, geografi e filosofi che provano a definire le traiettorie del possibile futuro delle metropoli.
Tra di loro Neil Brenner occupa un posto a sé. Docente di «Teoria urbana a Harvard» ha condotto inchieste e ricerche sul campo, ma è anche autore di importanti studi sulle metropoli emerse durante il lungo inverno del neoliberismo. Finalmente la casa editrice Guerini&Associati ha tradotto le parti più teoriche del suo libro Stato, spazio urbanizzazione (pp. 190, euro 18.50) che ha come introduzione un saggio di Teresa Pullano che contestualizza l’elaborazione di Neil Brenner all’interno della teoria critica statunitense.
Un saggio, quello dell’autore, dalle molteplici chiavi di lettura. C’è l’uso disincantato e innovatore della filosofia della Scuola di Francoforte sulla totalità, ma anche le tesi del filosofo francese Henry Lefebvre sul «diritto alla città», miniera di argomenti da usare nella critica al neoliberismo. Interessante è, a questo proposito, la parte del volume dove Brenner vede le città come nodi preposti a rimuovere ogni barriera e «punti di resistenza» al flusso di dati, capitali, merci, uomini e donne che caratterizza il capitalismo. Le città dunque come nodi di una rete che ha come «server» lo stato nazione e gli organismi politici sovranazionali – dal Wto all’Unione europea -: istituzioni cioè funzionali al regime di accumulazione. La parola d’ordine del «diritto alla città» – alla mobilità, alla casa, alla formazione all’assistenza sanitaria, alla pensione – va dunque intesa come la traduzione giuridica di forme di autovalorizzazione del lavoro vivo che rende sfumate – se non nulle – le divisioni, care al pensiero liberale e populista «di sinistra», tra diritti civili e diritti sociali. L’«urbano» diventa lo scenario per immaginare, pensare le pratiche sociali e politiche propedeutica al superamento del regime di accumulazione capitalista.
Il libro è stato presentato ieri al Dipartimento di architettura – Ex Mattatoio – Aula Libera dell’Università Roma 3 (Largo Giovanni Battista Marzi 10). L’intervista che segue si è costruita con diversi momenti e incontri. Dallo scambio estemporaneo su Internet alle pazienti spiegazioni e chiarimenti dell’autore.
Con la svolta neoliberale, le metropoli diventano le piattaforme produttiva che non distingue più tra vita e lavoro. È nelle città che sono governati i flussi di capitale, conoscenza, uomini e donne. La finanza diviene inoltre centrale nella ristrutturazione urbana. Non come rendita, ma come momento di governo del regime di accumulazione. Alcuni studiosi hanno scritto espressamente che, con il neoliberismo, l’uso capitalistico del territorio raggiunge il suo acme. Cosa pensa di questa tendenza?
È ormai diffusa la consapevolezza che il progetto neoliberale di società abbia radicalizzato le disuguaglianze sociali, il crollo e degrado delle infrastrutture pubbliche, la frammentazione sociale, la crisi della sanità pubblica. Questo non significa che il neoliberismo sia una unica forma politica omogenea. Ne esistono diverse forme politiche. Questo fino al 2007. Con la crisi, abbiamo visto però una intensificazione di processi autoritari nel governo delle società. La Brexit e l’elezione di Donald Trump sono stati gli ultimi, in ordine di tempo, momenti topici di questa tendenza autoritaria del neoliberismo che promuove aggressive politiche di nazionalismo economico, un comunitarismo nutrito da un violento lessico xenofobo, razzista e misogino. Un mutamento che non ha certo messo in discussione, anzi ha intensificato i dispositivi istituzionali funzionali all’accumulazione capitalistica, favorendo le norme per consolidare la disciplina di mercato sulla società. La questione più urgente è «come» sviluppare un processo democratico di riappropriazione del controllo sullo sviluppo delle città, intese come un bene comune, cioè una risorsa prodotta e condivisa dalla collettività.
La parola d’ordine del «diritto alla città» dei movimenti sociali ha svolto e svolge un ruolo importante nelle pratiche di resistenza al neoliberismo. Come giudica questa rinascita e ripresa delle tesi del filosofo francese Henry Lefebvre?
Le sue tesi costituiscono, assieme al concetto di autogestione, un punto di riferimento essenziale dei progetti di riappropriazione degli spazi urbani intesi come commons. Lefebvre, va ricordato, fu fortemente critico verso la cultura politica del partito comunista francese e, allo stesso tempo, fu scettico verso le esperienze di autogestione sviluppate negli anni Settanta in Jugoslavia. Individuava una contraddizione tra il diritto alla città e l’autogestione: il diritto alla città ha un orizzonte non localistico, circoscritto come accade invece nell’autogestione. Ma al pari dell’autogestione vede un protagonismo dei movimenti sociali situati spazialmente in un determinano luogo. Entrambi cioè sono incardinati in processi politici «dal basso». Possiamo dire che tanto il diritto alla città che l’autogestione hanno bisogno di frameworks, di cornici istituzionali che regolano la relazione tra locale e globale, tra autonomia delle sperimentazioni e gestioni delle risorse economiche. L’autogestione, infatti, non può esistere senza una cornice istituzionale che ne garantisca e rafforzi le condizioni di sostenibilità urbana e territoriale. Non c’è quindi contraddizione insanabile tra diritto alla città e autogestione. Entrambe fanno leva sulle politiche sviluppate dal «basso», entrambe hanno bisogno dello stato nazionale per essere tutelate. Inoltre, il diritto alla città e l’autogestione sono pratiche sociali e politiche che attivano trasformazioni della forma stato. Con realismo, sono due movimenti che potrebbero rendere meno misteriosa e indeterminata la suggestione della «estinzione dello Stato». Sono cioè due momenti interconnessi di quell’Aneigung teorizzato dal giovane Karl Marx, nel quale l’essere sociale trasforma il mondo attraverso una prassi e, nel fare questo, trasforma se stesso, le forme di vita e i dispositivi istituzionali esistenti.
Con la crisi del 2007, assistiamo a uno tsunami a livello globale. La città, nuovamente, è il luogo dove si manifesta. E se ci sono studiosi che parlano dell’esistenza di metropoli globali come piattaforme dell’economia mondiale, altri focalizzano l’attenzione sul «pianeta degli slums». Più prosaicamente assistiamo alla crescita di nuove metropoli e al declino di altre…. ?
Nel mio lavoro, colloco la discussione sul futuro della città nel contesto di un processo di urbanizzazione planetaria che vede venir meno la divisione tra città e zone rurali. Le ricerche e le inchieste che ho condotto suggeriscono l’idea che i territori non cittadini siano fondamentali nel garantire una molteplicità di risorse, materiali e immateriali, alla vita urbana. Questo non riguarda solo le tradizionali spazi dell’hinterland, che sono serviti in epoca industriale alla produzione di merci come carbone, alimenti, ma anche luoghi lontani, remoti rispetto i «centri» dell’economia mondiale. Mi riferisco agli spazi dove si concentra la logistica, lo smaltimento e il riciclaggio dei rifiuti, le enclave del turismo. Ho chiamato questi luoghi ecosystem service, siti preposti alla tenuta e riproduzione dell’ecosistema urbano. Questo non significa negare il fatto che stiamo assistendo a una epocale migrazione di persone verso la città che tendono a diventare megalopoli. La questione teorica rilevante riguarda semmai i processi di urbanizzazione che investono le zone rurali. È quanto avviene in America Latina, Asia e Africa. Prendiamo ad esempio lo sviluppo del settore agro-alimentare e il land-grabbing, cioè la privatizzazione violenta di ampie zone del territorio da parte delle imprese. È il territorio che viene investito da processi di urbanizzazione, attraverso la crescita di siti per lo stoccaggio e la distruzione delle merci. La logistica, così come lo sviluppo di linee di trasporto – autostrade, aeroporti e ferrovie – sono essenziali. E questo mondo interamente urbanizzato che ci viene consegnato. È qui che si gioca il futuro delle città. Sta a noi capire quali strategie usare per non essere sconfitti.
OGGI giovedì 9 marzo 2017
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Marianna Bussalai, “Signorina Mariannedda de sos Battor Moros”
Editoriale di Francesco Casula dell’8 marzo 2017 su Aladinews.
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Spopolamento dei piccoli centri: con i soliti schemi non si va da nessuna parte.
Vito Biolchini su vitobiolchini.it blog
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Calo demografico. La mancanza di politiche di contrasto forse non spiega tutto.
Nicolò Migheli su SardegnaSoprattutto.
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La trincea dello spopolamento .
Franco Mannoni su SardegnaSoprattutto.
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Cari Pigliaru ed Erriu, la provincia di Carbonia ha sede a Cagliari! Che follia, senza vergogna!
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Come progettare. La comunità al centro delle perferie.
Carlo Ratti su La Stampa di oggi, giovedì 9 marzo.
- Articolo ripreso dalla pagina fb della Scuola Popolare di Is Mirrionis.
- segue -
Bonas noas per La Collina e per le altre organizzazioni. Che però ancora perdurano nell’incertezza del sostegno finanziario regionale
In un filmato di Dino Biggio don Ettore Cannavera comunica le novità per La Collina e per le organizzazioni che perseguono le medesime finalità: https://www.youtube.com/watch?v=x_hPk-W7sOY
ITI San Michele – Is Mirrionis
A che punto siamo? Lo chiediamo al Sindaco di Cagliari.
Ieri presso la parrocchia di S.Eusebio si è svolto un incontro del “Comitato Is Mirrionis Scuola Popolare”. Uno degli argomenti è stato proprio l’ITI. Nessuno dei presenti conosceva lo “stato dell’arte” e non si va oltre la documentazione (in certa parte ermetica, da tradurre in italiano comprensibile per tutti) presente nei siti web. Sarebbe il caso che il Comune procedesse a superare questo deserto informativo, cosa che peraltro è un suo obbligo, anche espressamente previsto dal progetto.
Per l’omissione di informazioni e di coinvolgimento dei cittadini, il Comune meriterebbe l’apertura di una “procedura di infrazione” da parte dell’Unione Europea.
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Il piano finanziario sul sito della Ras: http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_46_20160531150616.pdf
- ITI San Michele Is Mirrionis, la documentazione su Aladinews.
8 marzo
8 marzo, non una di meno
di LEA MELANDRI
«Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi».Articoli di Geraldina Colotti, Lea Melandri, Alberto Leiss. il manifesto. 7 marzo 2017 (c.m.c.)
– Su eddyburg.
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8 Marzo: donne ancora in cammino per l’uguaglianza
8 Marzo 2017
di Gianna Lai su Democraziaoggi.
Oggi mercoledì 8 marzo 2017
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- Tutte le informazioni sul sito della RAS.
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DIBATTITO. Questa Europa è in crisi e la Sinistra non riesce a trovare proposte convincenti per un’altra Europa
Editoriale di Aladinews.