Monthly Archives: marzo 2017
Punta de billete per martedì 4 aprile 2017: Giuseppe Toniolo
Impegnati per il lavoro nel nome di Giuseppe Toniolo
Martedì 4 aprile 2017, Chiesa Santa Restituta, piazzetta Santa Restituta, Cagliari. Approfondimenti.
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- Giuseppe Toniolo (1845-1918), un economista fuori dagli schemi.
Con Papa Francesco, perché il vento del Concilio non venga frenato
Dare ali e radici alla svolta. Lettera di Tonio Dell’Olio, presidente della Pro Civitate Christiana di Assisi-
Sucania
IX Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale
Essere madri nel mondo globalizzato
Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare
Domani 28 marzo 2017, alle ore 16, nell’aula Capitini, Facoltà di Studi umanistici a Sa Duchessa, si svolgerà il seminario conclusivo del IX Corso di educazione alla solidarietà internazionale, organizzato dall’associazione Sucania in collaborazione con la Fondazione di Sardegna, l’Università di Cagliari e la Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Il tema dell’ultimo seminario,
LA MATERNITÀ NEL CRISTIANESIMO
sarà introdotto dalle relazioni di due teologhe, Marinella Perroni, prof.ssa ordinaria nel Pontificio Ateneo S.Anselmo di Roma, ed Elizabeth Green, pastora protestante e teologa femminista, autrici di numerose opere teologiche. Il seminario sarà coordinato dalla prof.ssa Margherita Zaccagnini.
Durante i lavori, le attrici Lia Careddu e Cristina Maccioni, reciteranno alcuni brani letterari e teologici ispirati al tema del seminario.
La partecipazione al seminario è libera.
Con quest’ultima iniziativa, si chiude il Corso organizzato dall’Associazione Sucania onlus che si è sviluppato per 8 settimane, trattando il tema della maternità sotto differenti profili, con la partecipazione di autorevoli esperti della materia.
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OGGI lunedì 27 marzo 2017
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Editoriali di Aladinews.
SardegnaCheFare? EuropaCheFare?
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Lavoro e territorio: partire dalle vocazioni locali.
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
Democrazia partecipata: che bella parola… tutta da praticare, ma attenzione alla mistificazione della «partecipazione»
OPINIONI »OPINIONISTI»
La benedetta partecipazione
di Enzo Scandurra
Dietro questo concetto – partecipazione – si nascondono molte insidie e molte ambiguità. Come già nello sviluppo sostenibile…
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Dietro questo concetto – partecipazione – si nascondono molte insidie e molte ambiguità. Come già nello sviluppo sostenibile, questa parola-grimaldello evoca qualcosa di assolutamente positivo, non confutabile, una vera e propria ontologia: “ma come non vorresti uno sviluppo sostenibile?”. Lo stesso si può dire della partecipazione: “ma come non vuoi che gli abitanti partecipino alle decisioni riguardanti la loro vita quotidiana?”. Partecipare è un po’ come fumare la sigaretta elettronica: un dispositivo complicato con il quale cerchiamo di risolvere un problema più semplice: quello di non fumare. Un tempo questo verbo – partecipare – si esprimeva facendo politica, occupandosi di politica. Si girava nei quartieri come attivisti dei partiti della sinistra, si attaccavano manifesti, si facevano riunioni nelle sezioni dei partiti, si scendeva in strada per protestare o per propagandare qualche idea condivisa. Le periferie romane, ad esempio, erano le roccaforti del pensiero rosso. Non solo si partecipava a tutti gli eventi che vi accadevano, ma anche ad eventi che travalicavano la scala del quartiere. Poi i Partiti, soprattutto quelli di sinistra, hanno abbandonato le periferie: sono… partiti. Hanno trovato più efficace lavorare dentro il Palazzo, rompendo il loro cordone ombelicale con il “popolo”.
«come esistono quelli specializzati nel piastrellare un pavimento, così esistono i partecipatori. Questi vengono adoperati da amministrazioni, autorità locali ma anche grosse imprese di progettazione per mediare il rapporto tra progetto ed utenti. Diventano facilitatori del consenso, o comunque negoziatori tra le richieste della popolazione e le decisioni dei pianificatori» [1]
La loro vocazione (un tantino tenuta nascosta) è quella di eliminare il conflitto tra i rappresentanti e i rappresentati, tra l’amministrazione e gli abitanti, in ordine a un qualche progetto o a una qualche opera controversa. Dunque, semplificando, prima i rappresentati (cittadini) votano i loro rappresentanti politici (amministratori), poi, una volta eletti questi ultimi, si organizzano gruppi di pressione per far valere quelli che ritengono i propri diritti. Tutto questo laborioso progetto maschera la crisi della politica, il vuoto politico tra eletti ed elettori. Ma siamo sicuri che il conflitto (parola di questi tempi oscurata) vada eliminato o comunque ridotto?
«Si tratta, in sostanza, di riflettere sulle trasformazioni della rappresentanza in un’epoca in cui il popolo non si sente più rappresentato dalle istituzioni e i cittadini non concorrono più a determinare la politica nazionale (o locale, nda) associandosi in partiti, ma, eventualmente, in altro modo. Potremmo deprecare o meno entrambi i fatti, tuttavia questo è il dato di realtà dal quale partire. E allora delle due l’una: o si ritiene si possa fare a meno del parlamento e dei partiti, rinunciando in tal modo all’idea stessa di democrazia così come definita dalla modernità giuridica (in fondo le pulsioni populiste che sono oggi egemoni operano in tal senso) oppure diventa necessario ricollegare le istituzioni e gli strumenti della democrazia rappresentativa alle diverse espressioni in cui si manifesta la volontà popolare. Se si vuole rafforzare la democrazia costituzionale è necessario ripensare oltre alle forme della rappresentanza anche le forme della partecipazione»[2]
Ma c’è un secondo aspetto della questione che è dirimente: chi partecipa alla partecipazione? Non tutti gli abitanti della città, ovviamente, ma un limitatissimo gruppo di loro esponenti, quelli che se lo possono permettere, mentre la gran parte della popolazione, una volta esaurita la fase elettorale, è occupata a procurarsi quanto necessario per vivere o, più spesso, per sopravvivere. Il gruppo dei partecipanti diventerà ben presto un gruppo di pressione che, a sua volta, pretenderà di aver ricevuto una delega dagli abitanti esclusi e di rappresentarli di fronte agli amministratori.
«Una specie di professione cuscinetto tra interessi diversi. Il problema è che in questa funzione filtro specializzata tutto si ricompone in maniera tale che poco cambia nella passività degli abitanti e nella vecchiezza dell’impostazione progettuale».[3]
Ma nel lungo periodo il rischio è che tale pratica tecnica aumenti ancora di più il distacco tra popolazione e suoi rappresentanti, anzi che ne sancisca definitivamente il distacco, che è crisi della politica, crisi della rappresentanza, crisi della democrazia. E anziché affrontare questa crisi, si preferisce aggirarla, sterilizzarla. E come sempre è la tecnica ad assolvere questa funzione. Perché, spiegano i cosiddetti facilitatori, la partecipazione ha delle regole ferree che bisogna conoscere e rispettare, pena la sua perdita di efficacia. Quella del “facilitatore” è diventata dunque una professione a parte che si avvale di un linguaggio e di tecniche che solo uno specialista può conoscere. Così che all’opacità dei progetti di una amministrazione si aggiunge quella, ancora più opaca, della partecipazione, con buona pace del conflitto e della cittadinanza attiva. Se applicassimo questo concetto alla malattia, sarebbe come dire che trovando oscure le parole del medico cui ci si affida e altrettanto incomprensibili le cure da lui prescritte, si decidesse di far nascere una figura professionale (il facilitatore) che fa da cuscinetto tra il paziente e il medico.
Quì la crisi dell’urbanistica, in quanto sapere specializzato, si fa più evidente. Sappiamo bene che un abitante che volesse leggere il piano regolatore del proprio paese per conoscere la destinazione d’uso di una qualche area e le norme tecniche che ad esso si riferiscono, troverebbe assai difficile comprendere quelle mappe e ancor più difficile destreggiarsi tra quelle norme. Sorge allora la domanda: quand’è che l’urbanistica si è così specializzata tanto da diventare incomprensibile agli abitanti al servizio degli interessi dei quali essa è nata, a tal punto specializzata che occorre una figura professionale ad hoc per decifrarne il senso e le insidie? Questa sua specializzazione, come la lingua latina usata da don Abbondio per abbindolare Renzo e Lucia, sembra costruita ad arte per essere di volta in volta, interpretata in funzione delle esigenze dei privati, delle agenzie immobiliari. Il piano regolatore, ad esempio, detta delle regole precise in tema di edificazione e uso dei suoli. Ma poi poteri forti sono sempre capaci di derogare quelle norme, o attraverso nuove norme o attraverso varianti al piano. Alla fin fine lo strumento di piano finisce sempre col favorire l’interesse privato rispetto a quello pubblico.
In che modo la cittadinanza può difendere l’interesse pubblico in una condizione di svuotamento della democrazia rappresentativa? Non sempre una democrazia pluralista e conflittuale può supplire questa carenza. La complessità sociale con la quale si manifesta oggi la cittadinanza difficilmente si presta ad essere interpretata e men che mai ad essere rappresentata. Così che anche «il rappresentato dovrà convincersi – in tempi di crisi della rappresentanza e di liquefazione del rappresentante – che la lotta per le istituzioni democratiche gli appartiene»[4]
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[1] F. La Cecla, Contro l’urbanistica, Einaudi, Torino, 2014, p.79
[2] Così Gaetano Azzariti, riassume il senso dell’attuale crisi della rappresentanza; da: I tre cardini del rinnovamento istituzionale, Il manifesto, 15 marzo, 2017
[3] Ivi
[4] Ivi
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L’urbanistica è una disciplina sempre piú inadeguata alla realtà delle città e del loro quotidiano farsi e disfarsi. I processi umani, economici, etnici e ambientali che si manifestano nei centri urbani sfuggono sistematicamente a piani e progetti, a mappe e logiche immobiliari. L’urbanistica continua a essere anacronisticamente legata all’architettura, con le sue ossessioni formalistiche e spettacolari. Le città, nel frattempo, crescono per spinte interne, non solo in slums e favelas, ma attraverso la richiesta di spazio pubblico che si manifesta nei grandi eventi di piazza, da Gezi Park a Occupy Wall Street. Mai come oggi la democrazia si gioca nello spazio pubblico, nelle strade, sui marciapiedi. Urbanistica e pianificazione sono invece ancora prigioniere di una visione obsoleta, che mitizza la passività a scapito delle esigenze del reale. Serve una nuova scienza delle città, capace di garantire, in primo luogo, una vita dignitosa e decorosa per tutti. Un’urbanistica da rifondare, per rispondere al diritto a una quotidianità ancora del tutto ignorata.
(…)
Oggi sono proprio le «grandi città» e spesso i loro «non luoghi», che urbanisti, sociologi e antropologi pensano essere il luogo assoluto dell’anonimato, a manifestare un modo politico diverso di esserci. Nell’immaginario dei nuovi tiranni c’è una città vuota e gestita dalla paranoia di un’urbanistica che si occupa di separare, zonizzare, controllare, chiudere dietro cancelli i ricchi e le classi medie e dietro paraventi di lamiera gli slums. Dall’altra parte i poveri urbani ma anche la «piccola borghesia» e le classi medie sanno che mai come adesso la città è una risorsa irrinunciabile, proprio perché è nella quotidianità dei suoi spazi, privati o pubblici, che si esercita la capacità di migliorare le proprie condizioni di vita.
È interessante che l’urbanistica oggi riveli la sua povertà concettuale di fronte a questi cambiamenti. Essa è incapace, molto piú delle scienze umane, abituate a fare i conti con i propri paradigmi, di rinnovarsi. È incapace perché ha perso «epistemologicamente» il senso della realtà. Si barrica e si difende dietro statistiche, mappe, trend e flussi ed è incapace invece di entrare nella vita fisica delle persone rispetto ai luoghi fisici della città. C’è in questa caduta di strumenti, in questa povertà intellettuale, la fine di una disciplina che si è arroccata dietro a un tecnicismo miope e che non ha mai voluto diventare una «scienza umana». Sono passati venticinque anni da quando ho scritto su «Urbanistica» un saggio che si intitolava: L’urbanistica è una scienza umana? 8), in cui ne dimostravo la profon- da disumanità. L’urbanistica è incapace di conoscere quello che avviene nelle città perché è chiusa dentro parametri numerici e «liste», perché ha creduto che la realtà sociale sia qualcosa di trasferibile in mappature e percentuali e calcolo delle probabilità. È ovvio che le sfuggano i reali movimenti e le reali motivazioni, quello che la gente che vive in una città pensa e sente di essa e le motivazioni che si dà per viverci. Se non si capiscono le componenti vissute della cittadinanza a ogni livello, dai poveri alle classi medie, ai ricchi ur- bani, se non si capiscono le logiche di appartenenza ai luoghi, non si afferra cosa in essi avvenga o stia avve- nendo. L’antropologia è uno strumento essenziale solo se ovviamente opera su di sé quella critica che Unni Wikan auspica e che ha a che fare con la lettura non della cultura (termine caro all’antropologia ma che ha finito per nascondere l’immanenza dell’umano) delle persone, ma dell’esperienza vissuta dell’urbano. È questa dimensione, quella dell’esperienza vissuta che ho definito altrove «mente locale» 9), un intrecciarsi di vissuto e di luoghi in una reciproca costruzione quotidiana di identità. L’antropologia può aiutare l’urbanistica a rinnovarsi, ma prima occorre che questa desueta e inutile disciplina venga radicalmente rasa al suolo per essere rimessa in sesto. Il problema è che essa continua a essere il luogo di privilegi, si strofina con troppo godimento ai palazzi del potere, siano essi tirannelli o organizzazioni internazionali. Fin quando l’urbanistica somiglierà a una disciplina di policies di polizie per la città, fin quando essa avrà un carattere prescrittivo, allora sarà impossibile che assuma orecchie e occhi nuovi e che sia una disciplina anzitutto di ascolto delle città.
8) franco la cecla, L’urbanistica è una scienza umana?, in «Urbanistica», 1996, n. 106.
9) id., Mente Locale, Eleuthera, Milano 2008 (con una prefazione di P. K. Feyerabend).
SardegnaCheFare?
Renzi, il Qatar e la Sardegna
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 21 marzo 2017/Società & Politica/
Quel sasso ad ovest di Civitavecchia chiamato Sardegna ha un posto di rilievo negli interessi italiani. Vittorio Malagutti sull’Espresso di questa settimana racconta di un breve viaggio di Matteo Renzi il 19 gennaio in Qatar. Renzi in questo momento è solo un ex presidente del Consiglio, l’ex segretario del PD in attesa di riconferma; libero quindi di andare e venire dall’emirato arabico o dove gli pare e piace.
Però, se vogliamo, un suo viaggio anzi questo suo viaggio del quale nulla si sa, qualche interrogativo lo pone. Renzi è privato cittadino, ma ancora non lo è del tutto, visto che sul suo partito, sul gruppo parlamentare, sul governo, mantiene la sua influenza politica essendo un leader in attività.
Nell’articolo si raccontano i molteplici interessi reciproci tra Italia e la monarchia assoluta di Al-Thani. Il Qatar paese grande quanto l’Abruzzo, con una popolazione di 2,6 milioni di abitanti, di cui il 60% immigrati senza diritti, è una delle potenze finanziarie mondiali con un fondo di investimento che muove svariate decine di miliardi di euro. Uno dei paesi più ricchi del mondo. Renzi non fa altro che proseguire una politica italiana nei confronti del Qatar, cominciata con Berlusconi nel 2010, è di quell’anno la firma di un contratto di collaborazione con la difesa emiratina, proseguito con Monti, Letta e rafforzata con Matteo Renzi.
Il Qatar in Italia ha investito a piene mani. Ha acquistato alberghi di lusso, stabili importanti. L’Italia con quel paese ha fatto ottimi affari specie nel campo della difesa, togliendo agli amici-rivali francesi un mercato che tradizionalmente era loro. La marina emiratina ha firmato un contratto con Fincantieri e Leonardo-Finmeccanica per la produzione di 4 corvette, 2 pattugliatori, una nave appoggio, più le dotazioni di bordo, artiglierie, sensori, sistemi di combattimento, missili, per un valore di 5 miliardi di euro, compreso l’addestramento del personale.
La Marina Italiana e quella del Qatar nelle scorse settimane hanno firmato un accordo di collaborazione, i marinai arabi saranno ospitati nelle navi italiane. Fin dal 2010 le forze speciali italiane garantiscono l’addestramento della scorta dell’emiro, forse anche l’ultima linea di protezione del monarca. In tempi di ritorno a Westfalia, non ci si dovrebbe scandalizzare, la realpolitik fa premio su qualsiasi sensibilità rispetto ai diritti umani.
E’ così con il Qatar come con la Cina o altri paesi come la Turchia, che nonostante facciano strame delle opposizioni, e quindi infrequentabili per un paese democratico, sono utili nelle strategie geopolitiche e come sbocco di mercato. Da che mondo è mondo, politica estera e quella di penetrazione nei mercati coincidano. E chie istat male chi si acontzet, recita un nostro proverbio.
In questi accordi la Sardegna come bene da vendere gioca un ruolo importante. Il Qatar sta per acquistare il 49% di Meridiana, che vorrebbe rilanciare. Potenza degli affari, i qatarioti, sunniti, fautori dell’Islam intransigente dei Fratelli Musulmani, non hanno difficoltà a trattare con l’Aga Kan, capo spirituale degli ismaeliti, confessione religiosa ramo dello sciitismo, considerata dagli integralisti al pari degli apostati.
Non solo Meridiana, ma l’ospedale Mater Olbia, rilevato dal fallito San Raffaele, che dovrà diventare un centro sanitario di eccellenza mondiale. Ospedale imposto da Roma alla Sardegna, tanto che sono stati concessi 250 posti letto in deroga. Non sarà però un regalo, quella struttura peserà sul bilancio della sanità sarda per circa 50 milioni di euro all’anno. Questo mentre si chiudono gli ospedali di prossimità nelle aree interne, i centri nascita di La Maddalena e Sorgono; si limitano i tempi di ospedalizzazione nel resto dell’isola per mancanza di posti letto.
Altro aspetto le forniture di gas per l’isola. Fallito il gasdotto con l’Algeria, mai fatto il collegamento con la penisola italiana, la regione ha scelto di realizzare un impianto un rigassificatore per la produzione di gas liquefatto, nel porto canale di Cagliari. Un affare milionario che potrebbe essere l’ulteriore tassello della qatarizzazione della Sardegna. L’emirato è il secondo produttore di gas al mondo, la loro società la RasGas Company Limited, aveva già dichiarato che stavano lavorando ad un progetto sul Mediterraneo che aveva nella Sardegna il punto centrale.
E poi la Costa Smeralda, rilevata da Tom Barrak, nei progetti dei fondi sovrani di Al-Thani una delle pedine importanti per diventare uno dei protagonisti mondiali del turismo di lusso. I qatarioti però sono impazienti, le regole del PPR Sardegna non permettono di realizzare allargamenti delle strutture che sono presenti in quel compendio turistico.
Quello che non è riuscito all’Aga Kan, a Tom Barrak, riuscirà ai nostri decisori poltici?
Nel DDL della Giunta regionale, all’art 31, si dà la possibilità di incrementi volumetrici del 25% nella ristrutturazione di stabili che insistano dentro i 300 metri dalla battigia e i 150 nelle isole minori. Articolo pro loro? Nessuno lo ammetterà mai, ma se non altro ci sia consentito il sospetto.
Il PPR già oggi permette la ristrutturazione degli stabili entro la fascia protetta, ma non certo l’allargamento. Il PPR è legge costituzionale, per cui è molto difficile che quell’articolo venga mai applicato. L’ultima sentenza del Consiglio di Stato su Tuvixeddu, pubblicata integralmente in questa rivista, ha ribadito che nessun interesse privato può essere superiore ai beni culturali pubblici. Il contrario è anticostituzionale.
È triste constatare che l’eterno comportamento delle èlite dominanti in Sardegna, abbia una continuità plurisecolare: unico fattore di sviluppo l’allineamento agli interessi altrui e la svendita della Sardegna. Ancora una volta la sola carta da giocare è il destino personale? Unica possibilità per mantenere il potere, una volta feudale e oggi neofeudale.
Non possiamo immaginare che un presidente di Regione che nella vita è professore universitario non sia consapevole che il governo può impugnare quanto ha decretato o è certo che non accadrà? Ma sa anche che può ricorrere qualsiasi soggetto organizzato o espressione degli interessi diffusi.
Sic est, e non ci piace per nulla il DDL sulla legge urbanistica. Contiamo sulla massima assemblea sarda. L’esito e il cospicuo assenteismo nelle ultime tornate elettorali e il recente risultato del Referendum ci fanno sperare molto nei cittadini, nei comitati, nei sindaci sempre più sensibili alla sostenibilità, in ultima analisi, nelle comunità della Sardegna.
Ci fanno sperare gli esempi luminosi di Tuerredda, Gonnosfanadiga, Tuvixeddu, figli dell’opinione pubblica che esiste, e, perchè no, anche quei politici ed intellettuali che furono protagonisti di una stagione in cui il paesaggio della Sardegna era il centro del mondo.
Auguri a noi tutti e soprattutto a nostra madre Sardegna che sì è nostra ma soprattutto di coloro che verranno dopo di noi. Ce l’hanno solo prestata e a loro renderemo tutti conto.
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EuropaCheFare?
SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015-ALTRA EUROPA
L’Europa per salvarsi deve ritrovare la democrazia
di Luciana Castellina, su il manifesto
«Il problema dell’Unione europea non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia». il manifesto, 25 marzo 2017 (c.m.c.)
Al momento delle sue ultime elezioni l’Olanda è stata irrisa da tutti perché si è saputo che concorrevano ben 28 partiti. In realtà non c’era niente da ridere: grazie al privilegio di una legge rigorosamente proporzionalista, senza trucchi maggioritari, gli olandesi, con quei loro 28 partiti, hanno potuto rendere esplicita la crisi di rappresentanza che ormai percorre l’Europa, sconvolgendo antiche e storiche costellazioni politiche, producendo una varietà di fenomeni sbrigativamente catalogati col termine di populismo. La crisi del sistema democratico appare ormai in tutta la sua evidenza.
Di questo sarebbe bene che i rappresentanti dei 28 stati europei riflettessero oggi a Roma. Perché larga parte delle responsabilità di questa ormai profonda crisi di fiducia stanno proprio nel modo come è stata gestita l’Unione in questi sessant’anni che oggi invece si festeggiano.
Non lo faranno, ne sono certa: ricorreranno, come sempre, alla più insipida retorica.
Nel parlare di questo anniversario ci sarebbero mille cose da dire. L’elenco dei problemi all’ordine del giorno è lungo e drammatico. Non vi accenno, perché sono noti a tutti e tutti i giorni ne parliamo.
Temo che dal vertice celebrativo di Roma non uscirà nulla di serio, casomai solo qualcosa di preoccupante, come la già sbandierata proposta di rafforzare la nostra comune potenza militare (peraltro già ragguardevole, contrariamente a quanto si pensa), come se il possesso di un numero maggiore di cannoni potesse darci maggiore sicurezza contro il pericolo terrorista. O più autonomia dagli Stati uniti.
In realtà per riavviare qualche interesse per l’Unione europea, in un momento in cui più scarso non potrebbe essere, ci vorrebbe proprio una riflessione sul perché le tradizionali forze europeiste – di sinistra ma anche di destra – hanno a tal punto perduto la fiducia dei loro elettori.
E’ accaduto per molte ragioni ma essenzialmente perché si è andato sempre più confondendo il progetto europeo con quello della globalizzazione: l’Europa anziché smarcarsene, riaffermando la sua positiva specificità (a cominciare dal welfare ma soprattutto dalla sua storica maggiore distanza dalla mercificazione di ogni aspetto della vita), vi si è piattamente sempre più allineata.
E allora, perché l’Europa? Che senso ha, se resta niente altro che un pezzetto anonimo del mercato mondiale?
Costruire una nuova entità supernazionale, dotata di una qualche omogeneità culturale, sociale, economica e dunque politica, non è obiettivo facile. Tanto più se si pensa che la storia dell’Europa è storia delle sue nazioni, diverse in tantissime cose, a cominciare dalla lingua che vi si parla. Ma proprio per questo bisognava aver cura della società e non impegnarsi tecnocraticamente a costruire una pletorica macchina burocratica totalmente anti-democratica.
Senza un soggetto europeo, un popolo europeo in grado di diventare protagonista, dotato di quei corpi intermedi che danno forza all’opinione pubblica – sindacati, partiti, media, associazioni – come si può pensare di chiedere redistribuzione di risorse, solidarietà anziché competizione, comune sentire? Il problema dell’Unione europea, insomma, non è il recupero della sovranità nazionale, ormai puramente mitica, ma il recupero della democrazia.
Torno a richiamare la riflessione su un ultimo esempio: un mese fa la Bayer ha comprato la Monsanto, un puro accordo commerciale privato internazionale. Che avrà però per tutti noi conseguenze pesantissime, molto più rilevanti di qualsiasi altra deliberazione parlamentare.
Crediamo davvero che un’ Italietta che riacquista la propria totale sovranità nazionale potrebbe esercitare un controllo su simili decisioni? Se c’è una speranza di recuperare qualche forma di de-privatizzazione delle decisioni ormai assunte dai colossi operanti sul mercato internazionale l’abbiamo se daremo più forza a una delle entità in cui la globalizzazione potrebbe articolarsi, l’Europa, per l’appunto. Ma non una Europa qualsiasi, non l’attuale, bensì solo a una entità politica che abbia ridisegnato un modello di vera democrazia adeguato alla nostra epoca. Che ha come premessa il diritto-potere del popolo di contribuire alla determinazione delle scelte che lo riguardano.
Un tempo si chiamava “sovranità popolare” ed era intesa come “nazionale”; ora dobbiamo coniugarla come “europea”, ma senza, per questo, perdere la sostanza del termine sovranità e popolare.
Per questo è importante l’iniziativa delle tante associazioni, a cominciare dalla “mia” Arci, che, con il titolo “La nostra Europa”, ha promosso seminari e incontri in questi due giorni e oggi la marcia che parte alle 11 da piazza Vittorio.
E’ diversa da tutte le altre in programma: perché vuole dire sì all’Europa ma insieme che deve cambiare profondamente. E anche che per dare consistenza a questo obiettivo bisogna cominciare a dare protagonismo ai cittadini europei, non come individui, ma come soggetto collettivo. “La nostra Europa” ne è l’embrione.
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Oggi domenica 26 marzo 2017
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Editoriali di Aladinews
Europa?
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RIFLESSIONI PIU’ O MENO CONVINCENTI…
Houellebecq: “Sono populista, voglio che il popolo decida su tutto”.
L’intervista di Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera, ripresa da Democraziaoggi.
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L’azienda dove nessuno comanda. «Il capo? Qui è inutile»
La società Crisp di consulenza informatica è senza Ceo da 9 anni. L’organizzazione è orizzontale, improntata alla trasparenza totale e su tempi di reazione rapidi. Il fatturato è di 6 milioni di euro ed è in crescita.
Sul Corriere della Sera/Esteri online.
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Il sociologo De Masi: “Per battere la disoccupazione, bisogna lavorare gratis”. Su
ripreso da ALADINEWS/Fomento impresa (con un commento di Lilli Pruna).
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UE. La Dichiarazione di Roma
Istruzioni per la lettura
Equilibrismo, allusioni e ambiguità. Il documento firmato ieri nella capitale italiana spiegato al di là della diplomazia. «Abbiamo ritrovato la fiducia in un progetto comune», ha commentato il presidente del Consiglio Gentiloni. Di Paolo Valentino sul Corriere della Sera online.
Dichiarazione dei leader dei 27 Stati membri e del Consiglio europeo, del Parlamento europeo e della Commissione europea La dichiarazione di Roma (25 marzo 2017)
Su FondazioneSardinia.
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60° Anniversario del Trattato di Roma. Il saluto del sindaco di Roma Virginia Raggi censurato dalla RAI
Su CagliariPost.
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SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015-ALTRA EUROPA
Nani sulle spalle di giganti
di Norma Rangeri su il manifesto
«Il cuore della presenza popolare ieri non era nella Roma blindata che ospitava i leader europei, ma era nella Milano dove centinaia di migliaia di persone accoglievano la visita di papa Bergoglio nel suo viaggio pastorale tra le periferie». il manifesto, 26 marzo 2017
Europa?
SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015 – ALTRA EUROPA
Europa, l’inganno delle celebrazioni
di Barbara Spinelli
«Una oligarchia sovranazionale sempre più lontana dalla vita reale della gente cerca una nuova legittimità presentandosi come protettrice necessaria e benefica, a prescindere dai contenuti e dagli effetti delle sue politiche». il Fatto quotidiano, 23 marzo 2017
L’Unione europea si appresta a celebrare il 60esimo anniversario dei Trattati di Roma manifestandosi sotto forma di un immenso accumulo di spettacoli. Come nelle analisi di Guy Debord, tutto ciò che è direttamente vissuto dai cittadini è allontanato in una rappresentazione.
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Oggi sabato 25 marzo 2017
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SETTIMANE SOCIALI dei CATTOLICI ITALIANI – Presentate le “Linee di preparazione” verso Cagliari.
DOCUMENTO.
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Editoriali di Aladinews. La Chiesa italiana in attesa di rinnovamento
- Imboccare vie nuove.
di Brunetto Salvarani su Rocca
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Europa?
L‘Europa ha 60 anni, ma non esiste.
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L’egemonia in Gramsci
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Oggi venerdì 24 marzo 2017
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Oggi a Cagliari: Maurizio Sacripanti Architetto. Alla Fondazione di Sardegna dalle ore 18.
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- La pagina fb dell’evento.
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Dal 4 dicembre all’alternativa di governo
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
La Chiesa italiana in attesa di rinnovamento
imboccare vie nuove
di Brunetto Salvarani su Rocca
Dal 13 marzo 2013 qualcosa di profondo è cambiato, nella chiesa cattolica. Con l’avvento al soglio pontificio di un papa venuto «quasi dalla fine del mondo», è l’idea stessa di cambiamento a essere stata sdoganata, dopo una lunga stagione in cui la diffidenza verso di essa era trasparente.
Soprattutto in ambito italiano, in cui la transizione dall’uno all’altro millennio era stata assicurata alla presidenza della Cei dalla guida certo autorevole, e talora autoritaria, del cardinale Camillo Ruini. Uno dei prezzi da pagare, peraltro, come da diversi anni ci stanno mostrando le ricerche specializzate al riguardo, è stato il relativo appeal di quanti – a partire dai vescovi diocesani – garantiscono la presenza ecclesiale nella società. Per fare un esempio, in un’indagine ampia e approfondita guidata da uno specialista come il sociologo Franco Garelli nel 2011 e poi sfociata nel volume Religione all’italiana del Mulino, il grado di fiducia minore, dopo parrocchie, papa, clero e suore, spettava ai vescovi, avvertiti come vicini da non più del 31,1% della popolazione. Secondo l’autore, il sentimento di lontananza che la grande maggioranza dei nostri connazionali prova nei confronti dei vescovi – considerati nel loro insieme, come categoria – sembrerebbe suggerire l’idea a che il loro impegno e il loro pensiero nel Paese non siano in grado di suscitare passione e identificazione, a dispetto della grande risonanza pubblica di cui (almeno alcuni fra loro) godono. Non pochi li avvertono piuttosto distanti dalle proprie condizioni di vita. In quello stesso quadro, spicca invece l’attenzione che la gente comune, verrebbe proprio da dire: nonostante tutto, nonostante decenni di martellamento mediatico sulla centralità dei movimenti ecclesiali, riserva alla parrocchia, ancor oggi considerata da una quota consistente di popolazione come una struttura utile, un punto di riferimento sul territorio, al di là dei preti che la abitano, la gestiscono e si avvicendano. Nel frattempo, le ultime rilevazioni nazionali tendono ad allargare la forbice del livello di fiducia popolare nei confronti del papa (Francesco, dopo Benedetto XVI), in genere altissimo, e quello complessivo sulla chiesa cattolica (tendenzialmente assai basso).
il ricambio dei vescovi
Molte, dunque, sono state da subito le attese suscitate dal pontefice argentino. Attese, comunque, di un cambio di passo: evidenti, quelle relative allo stile di papato, al suo vissuto e alla sua predicazione (meno teologica e più pastorale, per dirla in estrema sintesi); meno appagate, almeno sinora, quelle riferibili alle trasformazioni strutturali della curia e degli altri organismi di governo vaticano. Un atteggiamento quanto mai distante rispetto al passato più o meno recente è senz’altro quello che Bergoglio ha scelto di adottare nelle scelte dei vescovi locali, non meno che nei concistori, dedicati a formare i cardinali che prenderebbero parte a un eventuale futuro conclave (per intenderci, a oggi i vescovi nominati da Francesco a capo delle 226 diocesi italiane sono poco meno di 100, e presto il ricambio toccherà diocesi fondamentali quali Roma e Milano). Pur senza prestarsi al gioco sin troppo facile delle contrapposizioni frontali, così care alla vulgata giornalistica, appare indubbio che – ad esempio – le successioni avvenute all’interno della Conferenza episcopale emiliano-romagnola siano di per se stesse eloquenti: dopo il cardinal Caffarra (uno dei quattro che hanno firmato la richiesta di chiarimenti al papa sull’Amoris laetitia resa nota lo scorso novembre), a Bologna è sbarcato don Matteo, come si fa chiamare di regola Zuppi, proveniente da un’esperienza consolidata presso i poveri nella Comunità di Sant’Egidio; dopo l’arcivescovo Luigi Negri, cresciuto nelle fila di Comunione e Liberazione e noto alle cronache nazionali per le posizioni conservatrici, a Ferrara-Comacchio, il cremonese Gian Carlo Perego, reduce dalla direzione della Fondazione Migrantes; mentre a Modena-Nonantola è giunto don Erio Castellucci, prete forlivese, parroco, teologo aperto e molto vicino al mondo giovanile, che da Forlì ha portato con sé nella residenza episcopale una famiglia albanese che già abitava con lui in parrocchia. Quest’ultima particolarità, la provenienza da esperienze pastorali significative, caratterizza altre nomine episcopali degli ultimi tempi: il nuovo vescovo di Padova, Carlo Cipolla, era parroco e vicario per la pastorale; don Gero Marino, prima di diventare vescovo a Savona, era da parecchi anni parroco a Chiavari; don Daniele Gianotti, della diocesi di Reggio Emilia, era a guida della parrocchia di Bagnolo in Piano prima di essere eletto, poche settimane fa, vescovo di Crema. Ma anche al sud alcune scelte sono apparse controcorrente rispetto al passato, basti pensare all’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, anch’egli parroco e studioso. L’elenco potrebbe proseguire, senza peral- tro cambiare la sostanza di ciò che risulta evidente. Nonché perfettamente in linea con quanto lo stesso Francesco sosteneva, il 27 febbraio 2014, in occasione di un’udienza straordinaria alla Congregazione per i vescovi, in merito alle caratteristiche che questi ultimi dovrebbero possedere per essere dei buoni vescovi. Non tanto «apologeti delle proprie cause né crociati delle proprie battaglie», né scelti in base a «eventuali scuderie, consorterie o egemonie», facendo leva piuttosto sulla sovranità di Dio in base a due atteggiamenti fondamentali: il tribunale della propria coscienza davanti a Dio e la collegialità. Dovrebbero rimanere in diocesi senza recarsi troppo in giro per «incontri e convegni», e mostrarsi capaci di agire non «per sé» ma «per la Chiesa, per il gregge, per gli altri, soprattutto per quelli che secondo il mondo sono da scartare». Abbiano «relazioni sane», «solidità cristiana», «comportamento retto», «capacità di governare con paterna fermezza» e «distacco nell’amministrare i beni della comunità». E siano costantemente «vicini alla gente», in linea con l’ormai celebre esortazione suggerita ai presbiteri durante la sua prima messa crismale, il 28 marzo 2013, «siate pastori con l’odore delle pecore, non gestori o intermediari».
da troppo tempo puri spettatori
Sia chiaro. Credo sia un errore esagerare nelle attese e nelle responsabilizzazioni affidate in esclusiva alla figura del vescovo di Roma, chiunque ricopra questo compito; e pericoloso farsi contagiare dall’ansia da prestazione che caratterizza il nostro tempo affollato di passioni tristi, nel quadro di quel bisogno di gratificazione istantanea di cui ha parlato, fra i primi, Zygmunt Bauman. Personalmente, anzi, ritengo, inoltre, che non poche corresponsabilità della profonda crisi istituzionale in cui si sta dibattendo da tempo la chiesa cattolica siano da condividersi all’interno della chiesa stessa, a partire da noi cristiani feriali e da noi teologi, spesso autoridotti a essere pura eco del magistero di turno… Da troppo tempo ci siamo assopiti, per dir così, siamo rimasti troppo spesso puri spettatori silenziosi del naufragio in corso, coltivando semmai le arti perverse della maldicenza e del mugugno; e non abbiamo avuto coraggio di parlare con parresìa (spesso, abbiamo agito di conseguenza e ci siamo occupati dei problemi meno spinosi, senza affrontare, ad esempio, la questione cruciale dell’odierno pluralismo religioso, letteralmente silenziata nel di- battito pubblico infraecclesiale). Con eccezioni, benemerite, ma isolate e non di rado eroiche, evidentemente. Ciò detto, è sicuramente lecito, anzi, doveroso, sperare che, grazie soprattutto alla caratura evangelica e alla buona volontà dell’attua- le papa, si stia mettendo in moto qualcosa di nuovo, e che stia in effetti crescendo la consapevolezza dell’enormità della posta in gioco: ma ci sarà bisogno di tempo, di pazienza, di educarci al dialogo all’interno e all’esterno, e di una gran dose di coraggio da parte di tutti gli attori coinvolti. Certo, è impossibile sottovalutare gli effetti purtroppo consolidati della drammatica mondanizzazione degli stili ecclesiastici: con esiti disastrosi in termini di mancata testimonianza evangelica, fra l’altro, soprattutto verso quella che don Armando Matteo ha definito la prima generazione incredula… i giovani attuali, i primi a crescere dopo l’esaurimento del regime di cristianità e nel contesto di un irreversibile pluralismo culturale e religioso, che sono giustamente i più sensibili alla coerenza fra il dire e il fare!
una testimonianza gioiosa
Da parte sua, Jorge Mario Bergoglio ha da poco compiuto quattro volte vent’anni, ma riesce a vivificare la sua età avanzata con una fede, un entusiasmo e una capacità di sognare a occhi aperti che lo rendono più giovane e fresco di tanti che lo sono anagraficamente. Egli si trova a governare, lo sappiamo, una chiesa attraversata da una gravissima crisi di credibilità, ma anche da un vistoso deficit di motivazioni, soprattutto nei paesi di antica cristianità, in cui la stanchezza troppo spesso diventa tri- stezza e dunque sconfessione dell’allegria evangelica, di quella testimonianza gioiosa che dovrebbe sgorgare dall’adesione al Signore. È necessario dunque, prima ancora di ascoltare i suoi discorsi o valutare le sue riforme strutturali, guardare al suo esempio: a come vive, si muove, abbraccia le persone, parla, presso chi si ferma durante le udienze pubbliche, e a come esce, per riprendere un verbo a lui caro. Così, mi pare che Francesco stia proponendo l’unica strada credibile per la sua Chiesa, chiedendole di imboccare la via dell’autenticità, della semplicità e dell’es- senzialità, senza soffermarsi sulla moltiplicazione delle strutture e delle opere. Que- sta è la sua prima riforma, mi auguro pienamente riuscita. Riforma, infatti, è ablatio, togliere via, non aumentare né complicare, ma semplificare: un’operazione analoga a quella dello scultore che deve togliere dalla pietra nuda per far emergere la nobilis forma che vi è contenuta. Il profumo del vangelo (Evangelii gaudium 34) si diffonde esclusivamente grazie all’essenzialità, alla sobrietà, alla povertà. E unico criterio di semplicità e di essenzialità è il vangelo, nulla di più. Se si opera una scissione con l’essenziale del vangelo, «l’edificio morale della chiesa corre il rischio di diventare un castello di carte, e questo è il nostro maggiore pericolo. Perché allora non sarà propriamente il vangelo che si annuncia, ma alcuni accenti dottrinali o morali che procedono da determinate opzioni ideologiche» (Eg 39). Difficile sbilanciarsi, in ogni caso, su se e quanto la scomposizione di ogni ipotesi di restaurazione cattolica avviata da Bergoglio influirà sulla situazione ecclesiale italiana: ecco perché comincia a crescere, comprensibilmente, l’attesa per l’assemblea della Cei prevista per il 22-25 maggio prossimi, quando per la prima volta i vescovi saranno chiamati a votare una terna di candidati alla loro presidenza, da sottoporre poi al papa perché ne scelga uno. Sta per avviarsi, dunque, il dopo-Bagnasco, e in molti ritengono si tratterà di una svolta decisiva per la cattolicità nazionale. Perché rimane la domanda: quanto e come essa si mostra in grado di vivere, in termini di pastorale, linguaggi, stili ecclesiali accoglienti ed ecumenici, sulla linea chiaramente tracciata dal primo papa gesuita? Non è facile rispondere; e un esperto conoscitore di cose ecclesiali come Alberto Melloni, di recente, ha evidenziato il paradosso che, a dispetto del terzo di vescovi nominati da Francesco, la Cei sinora «sembra rimasta al palo», quasi scioccata dalla novità apportata da questo papa fuori dalla norma… Fermo restando che non bisognerebbe mai dimenticare che, come amava sottolineare il vescovo don Tonino Bello, un vescovo che l’odore delle pecore se lo portava continuamente addosso, «una Chiesa che non sogna non è una Chiesa, è solo un apparato: non può recare lieti annunzi chi non viene dal futuro».
Oggi giovedì 23 marzo 2017
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Domani a Cagliari: Maurizio Sacripanti Architetto. Alla Fondazione di Sardegna dalle ore 18.
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- La pagina fb dell’evento.
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Rocca è online.
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Bella mossa Bersani! Col M5S l’alternativa a PD/FI
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Domani. giovedì 23 marzo: presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani»
(CONFERENZA STAMPA) Presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani», promossa dall’Ucid di Cagliari
Domani, giovedì 23 marzo 2017 alle ore 10.30, presso la Sala Benedetto XVI della curia diocesana (Cagliari – Via mons. G. Cogoni 9) si terrà una conferenza stampa per la presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani» promossa dall’Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Cagliari.
La proposta formativa, interamente gratuita, intende coinvolgere giovani tra i 20 e i 30 anni interessati a sviluppare motivazioni, consapevolezze e competenze per un orientamento all’imprenditorialità.
Interverranno:
- Mons. Arrigo Miglio, Arcivescovo di Cagliari: Saluti e introduzione
- Dott. Enrico Orrù, Presidente Ucid Cagliari: Presentazione dell’identità e della mission dell’Ucid
- Dott. Nicola Calace Salvemini, Responsabile formativo: Presentazione della Scuola di formazione
- Dott. Raffaele Pontis, Responsabile organizzativo: Indicazioni logistiche per le iscrizioni