Monthly Archives: marzo 2017
SardegnaCheFare?
Una tassa sui robot?
Dalla meccanizzazione alla cibernetica, dai mainframe all’informatica distribuita e alle reti, dal silicio alle reti neurali e ai computer quantici, dall’intelligenza artificiale alla robotica nel tempo di internet degli oggetti.
II intervento (il primo è stato pubblicato il 30 marzo 2017)
di Fernando Codonesu*
La realtà che vediamo oggi, caratterizzata da un uso sistematico delle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni in ogni ambito della vita economica e sociale, con i riflessi ampiamente osservabili nell’organizzazione del lavoro che conduce milioni di persone al di fuori dei processi produttivi, solo in parte rimpiazzati dai nuovi lavori creati dalle medesime tecnologie e dai nuovi bisogni indotti, era stata ampiamente prevista fin dai primi anni ’60 del secolo scorso, quando erano già evidenti alcuni passaggi epocali giunti in questi ultimi anni pienamente a compimento.
Ci si riferisce qui ad un documento di gruppo di lavoro creato dall’Amministrazione americana di J.F. Kennedy noto come “Ad Hoc Committee” che aveva il compito di valutare gli effetti delle tre rivoluzioni allora in atto, nell’ordine: la rivoluzione cibernetica, la rivoluzione degli armamenti atomici e quella dei diritti umani.
A proposito della rivoluzione cibernetica, i firmatari del documento presentato nel 1964 al presidente Lyndon Johnson, subentrato a Kennedy a seguito del suo omicidio a Dallas, coscienti che la ricchezza creata dal lavoro delle macchine è ricchezza alla pari di quella generata dal lavoro umano, suggerivano all’Amministrazione statunitense alcune azioni da compiere nel periodo transitorio per evitare gli effetti più tragici rilevabili nel corso del tempo. Tra le varie azioni suggerite per incrementare l’occupazione se ne riportano alcune perché le ritengo più attuali che mai: una sorta di “reddito di cittadinanza” (1) per tutti coloro che erano rimasti o avrebbero potuto rimanere fuori dai cicli di produzione per poter beneficiare del benessere creato dalle macchine; un grande intervento nel settore educativo per colmare lo svantaggio di competenze delle persone che non conoscevano il funzionamento dei computer; un piano di opere pubbliche finalizzato alla realizzazione di infrastrutture; un grande programma di edilizia popolare per i meno abbienti; lo sviluppo e finanziamento di efficienti sistemi di mobilità urbana a causa dei fenomeni di inurbamento; una revisione del sistema fiscale con un prelievo progressivo in base al reddito per poter finanziare i bisogni dei più disagiati, ecc.
Sembra un programma di stampo socialista, ma quelli non erano socialisti, erano scienziati (1b), giornalisti, scrittori, imprenditori, ecc., rappresentativi della società americana del tempo.
Ma torniamo ai progressi dei dispositivi elettronici e dei loro settori applicativi a partire dall’industria dei computer. Ben presto dai transistor si ottennero varie famiglie di porte logiche con i primi circuiti integrati e da qui si passò rapidamente dalla logica cablata alla logica programmata.
Infatti dal gruppo guidato da Shockley verso la fine degli anni ’50 si staccò un gruppo costituito da 8 ingegneri che costruirono il primo circuito integrato e fondarono la Fairchild Semiconductors, un’impresa notevole in quegli anni che ebbe anche il ruolo di incubatore per altre imprese come la Intel fondata nel 1968 da Gordon Moore.
Si osserva in questa sede che uno dei fisici protagonisti dello sviluppo della microelettronica e dell’informatica è stato Federico Faggin (2), giovane fisico padovano che emigrò negli USA e fece parte di un gruppo della Intel diretto da Ted Hoff che costruì il primo microprocessore nel 1971, il 4004, un chip programmabile in un’unica piastrina di silicio che faceva tutte le operazioni di un computer.
Tra i tanti da ricordare, qui si fa cenno ad alcune figure di primo piano, vere e proprie pietre miliari dello sviluppo del settore/settori di cui ci occupiamo in questi interventi, come Norbert Wiener che nel 1948 pubblica Cybernetics presso la MIT press, Claude Shannon che nello stesso anno pubblica A Mathematical Theory of Communication, John von Neumann e il suo The Computer and the Brain e successivamente John R. Pierce con il suo Signals, Symbols and Noise, Harper Modern Science Series, 1961, che sistematizza la ormai matura teoria dell’informazione. Si tratta di protagonisti che nel giro di poco tempo, con le loro opere, hanno sviluppato la cibernetica, la scienza dell’informazione e quindi l’informatica e l’ingegneria dell’informazione, con le variegate articolazioni degli studi nelle università ed enti di ricerca di tutto il mondo.
Con i fondamenti della cibernetica mirabilmente proposti da Wiener si sono poste le basi per la comunicazione uomo-macchina a partire dal paradigma della retroazione negativa come regola aurea nello studio della stabilità dei sistemi nel dominio del tempo e della frequenza, diffusi in poco tempo in ogni campo del sapere. Con Shannon si hanno le basi per la trasformazione in digitale di ogni tipo di funzione e in ultimo con la teoria dell’informazione si è compreso ancora meglio il concetto di entropia, si sono aperte le porte ad altri strumenti di comprensione della teoria delle comunicazioni, teoria dei sistemi, dei controlli automatici, della fisica, ancora della cibernetica, dell’arte, della musica, ecc.
In appena un decennio o poco più si è capito che ogni fenomeno, parte del mondo reale o del tutto (inteso come dominio conosciuto in cui agiscono diverse entità reali) è informazione e può essere studiato, modellizzato e gestito in termini di informazione, simboli e numeri. In quanto tale può essere manipolata e gestita da una macchina, un automa derivante dalle macchine regolari (3), un computer, un robot.
Dal 1971 i progressi furono continui e strabilianti al punto che si cita spesso un’osservazione sul trend di sviluppo dell’industria elettronica e dei computer nota come “legge di Moore” per cui ogni anno poteva essere sviluppato un microprocessore con una potenza di calcolo doppia e un costo di produzione pari alla metà del precedente: nessun settore produttivo ha conosciuto uno sviluppo di tale portata. In effetti la cosiddetta legge di Moore consente ampie verifiche in un arco di tempo che va dal 1970 al 2015 in diversi ambiti valutativi del settore, come il costo degli hard disk in termini di gigabyte per dollaro, la capacità di download dai server centrali in Kilobytes al secondo, l’efficienza energetica dei supercomputer espressa in FLOPS4 su watt e ancora in termini di velocità dei supercomputer espressa in numero di FLOPS (4), ad oggi pari a circa un milione di miliardi di operazioni in virgola mobile per secondo.
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Note
(1) “… We urge, therefore, that society, through its appropriate legal and governmental institutions, undertake an unqualified commitment to provide every individual and every family with an adequate income as a matter of right. … We regard it as the only policy by which the quarter of the nation now dispossessed and soon-to-be dispossessed by lack of employment can be brought within the abundant society. The unqualified right to an income would take the place of the patchwork of welfare measures – from unemployment insurance to relief – designed to ensure that no citizen or resident of the United States actually starves.”.
La primogenitura di tale proposta, come si vede, non appartiene a nessuna delle forze politiche oggi in campo in Italia.
(1b) Tra i firmatari c’erano i premi Nobel Linus Pauling e Gunnar Myrdal.
(2) In Italia pochi sanno chi sia.
(3) Le macchine regolari sono strette parenti delle grammatiche generative di Noam Chomsky.
(4) Floating Point Operations per Second (Operazioni in Virgola Mobile per Secondo).
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*Con l’articolo sopra pubblicato proseguono le analisi e le proposte che Fernando Codonesu consegna al DIBATTITO sulla grande e impegnativa tematica del SardegnaCheFare?. Il primo contributo è pubblicato su Aladinews del 24 u.s; il secondo su Aladinews del 26 febbraio; il terzo (che però è il I dell’argomento “Tassa sui robot? Dalla meccanizzazione alla cibernetica…”) su Aladinews del 30 marzo 2017. L’odierno è dunque il quarto (secondo dell’argomento Robot e dintorni). Gli articoli per un accordo tra Editori e Autore vengono pubblicati – in contemporanea o in date diverse – anche su Democraziaoggi.
Oggi venerdì 31 marzo 2017
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Giovani e lavoro: quale futuro vogliamo?
Per un job generativo
di Alberto Ratti, Componente del Centro Studi dell’Azione Cattolica Italiana.
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Bullismo: torniamo alla pedagogia dei padri?
Amsicora su Democraziaoggi.
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Editoriali di Aladinews. SardegnaCheFare? Una tassa sui robot?
Sa die de Sa Sardigna 2017 dedicata a Giorgio Asproni
“Per il 2017 abbiamo scelto di ricordare la figura di Giorgio Asproni – ha detto l’assessore Dessena – che oltre a essere stato sostenitore dell’autonomia sarda, si occupò delle problematiche dell’isola portandole all’attenzione della classe politica nazionale. Le scuole e i giovani studenti potranno occuparsi del tema e approfondire il senso dell’istituzione della giornata con lavori storici, rispondendo inoltre alle sollecitazioni dei temi più d’attualità e contemporanei”.
CAGLIARI, 29 MARZO 2017 – Sa Die de Sa Sardigna quest’anno sarà dedicata a uno dei primi e più convinti sostenitori dell’autonomia sarda, Giorgio Asproni. Su proposta di delibera dell’assessore della Cultura e Pubblica Istruzione Giuseppe Dessena, la Giunta ha stanziato in via preliminare per la giornata del 28 aprile 150mila euro. Cinquanta mila euro saranno destinati alla programmazione di iniziative promosse direttamente dall’Amministrazione regionale, 100mila euro invece saranno risorse rivolte alle istituzioni scolastiche.
- Approfondimenti su Giorgio Asproni. La legge regionale: approfondimenti su Aladinews.
Alla ricerca di armonia
SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» DE HOMINE
Le parole del futuro
di Gustavo Zagrebelsky
«I greci avevano “paidéia”, i romani “pietas”, gli illuministi “diritti”: è sempre il linguaggio la culla del cambiamento. Nel linguaggio resiste la culla del cambiamento e l’antidoto a Babele. Da “armonia” a “silenzio” così guariremo da Babele». la Repubblica, 29 marzo 2017 (c.m.c.)
Le parole possono essere tante cose: parole di verità o di menzogna; parole che accendono o che spengono; di assoluzione e di condanna; parole che vivificano o che uccidono; che aprono o che chiudono; lievi come carezze o pesanti come pietre. Mai come in questo tempo l’umanità ha parlato: chiacchiere, giornali, radio e televisione, cellulari, web. La parola è il mezzo non unico ma certamente principale della comunicazione. Che cosa dobbiamo intendere per comunicazione? Non voglio fare dell’etimologia, se non per sottolineare che essa ha significato il passaggio da uno a un altro non di parole, ma di cose, per farle diventare “comuni”. Comunicazione significa fare comunanza di oggetti, proprietà, pensieri, informazioni, esperienze, sentimenti, conoscenze del più vario genere.
Con le parole non solo si comunica, ma anche ci si scomunica; non solo si passano verità, ma anche inganni; non solo ci si gratifica l’uno con l’altro, ma ci si denigra anche. Munifico è colui che è prodigo di doni, doni che possono essere buoni e cattivi, come i doni avvelenati. Ma il munus che sta nella comunicazione è anche compito, responsabilità. La società è un insieme di munera reciproci. A tutto questo servono le parole, quando non sono vuote parole. Teniamo dunque ben fermo questo concetto: le parole della comunicazione sono parole di reciprocità, reciprocità di doni e di responsabilità.
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Auguri a Paolo Fadda: forever young!
Per fare gli auguri sinceri e affettuosi al nostro amico Paolo Fadda – il commendatore, economista e scrittore – non troviamo di meglio che riprendere quanto lui stesso ha scritto nella sua pagina fb, regalandoci perle di ricordi belli e brutti, comunque pieni di sana nostalgia, per come lui insieme a molti altri suoi coetanei affrontarono la vita dei loro tempi. Valori e slanci che si ripropongono, oggi, positivamente contagiosi, nella sostanza con immutata validità. In questo clima che non cede al ripiego e che invece è intriso di speranza, nonostante tutto, ci sta bene, crediamo, un regalo che proviene dall’America che Paolo Fadda ha tanto amato e che continua ad amare, nonostante tutto, nonostante (tanto per fare un nome e un cognome) Donald Trump: Forever Young di Bob Dylan, premio Nobel per la Letteratura del 2016 (su Youtube). Auguri Paolo carissimo!
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Possa Dio benedirti e proteggerti sempre
possano tutti i tuoi desideri diventare realtà
possa tu sempre fare qualcosa per gli altri
e lasciare che gli altri facciano qualcosa per te
possa tu costruire una scala verso le stelle
e salirne ogni gradino
possa tu restare per sempre giovane
per sempre giovane per sempre giovane
possa tu restare per sempre giovane.
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Il 30 di marzo – questo giovedì – è il mio compleanno, perché sono nato a Cagliari proprio in questo giorno di primavera in quell’anno – 1930 – quando nei cinema si proiettava il Charlot di “Luci della città” ed alla radio s’ascoltavano le canzonette di Narciso Parigi. Ma la canzone più in voga, forse più per obbligo che per scelta, era “Giovinezza, giovinezza primavera di bellezza…”.
Questo mio compleanno lo voglio festeggiare con un ricordo che affido ai miei amici di Facebook.
Eccolo:
SardegnaCheFare?
Una tassa sui robot?
Dalla meccanizzazione alla cibernetica, dai mainframe all’informatica distribuita e alle reti, dal silicio alle reti neurali e ai computer quantici, dall’intelligenza artificiale alla robotica nel tempo di internet degli oggetti.
I intervento
di Fernando Codonesu*
La proposta alquanto bizzarra di mettere una tassa sui robot in quanto causa di espulsione di migliaia di lavoratori dai processi produttivi formulata recentemente da Bill Gates, proprietario di Microsoft e ancora uomo più ricco del mondo anche nel 2016 secondo le rilevazioni di Forbes, ha suscitato un ampio dibattito a diverse latitudini del mondo, non solo tra gli addetti ai lavori.
Eppure, nonostante arrivi da una personalità di così grande rilevanza per il ruolo avuto negli ultimi 40 anni di storia dello sviluppo tecnologico, produttivo e socio economico dell’intero pianeta, alla luce proprio della storia e di una lettura attenta dei diversi fatti accaduti prima nella ricerca e quindi nella scienza applicata e nella tecnologia, non si può che ritenere tale proposta del tutto sballata e fuori luogo: poco più di una boutade!
La controprova è perfino banale: quanti lavoratori sono stati espulsi dall’agricoltura a seguito della sua meccanizzazione? Al riguardo a qualcuno è mai venuto in mente di tassare i trattori che non solo hanno eliminato buoi e cavalli dai lavori agricoli, ma anche milioni di contadini e braccianti dal lavoro della terra?
Lorenzo Pinna, nel suo libro Uomini e macchine pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, ci ricorda che solo nell’Inghilterra a metà dell’Ottocento vi erano 3,5 milioni di cavalli da lavoro, ridotti a poco più di un milione agli inizi del Novecento per ridursi nel periodo post prima guerra mondiale ad appena 30.000.
I cavalli, e i buoi ad altre latitudini, sono stati sostituiti dalle macchine semplicemente perché dallo stesso terreno era possibile ottenere maggiori raccolti lavorando di meno e a costi molto più bassi.
Il noto economista Wassily Leontief parlando di quel tempo in uno scritto del 1983 ci ricorda “Siamo all’inizio di un processo che porterà in trenta-quarant’anni molte persone a rimanere senza lavoro, creando gravi problemi di disoccupazione” (1).
Ma torniamo per un momento alle trasformazioni occorse nell’organizzazione del lavoro agricolo negli Stati Uniti nel periodo 1860-1960, quando la popolazione occupata nelle campagne passò da oltre il 50% a meno del 2%. La tabella seguente, tratta dall’opera di Pinna già citata, esemplifica meglio di qualunque descrizione la manodopera necessaria per la produzione di grano negli USA negli anni venti del Novecento in funzione della varie tecniche agricole.
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Tecnica di produzione agricola e Lavoratori necessari
Zappa 6.000.000
Aratro trainato da buoi 1.000.000
Aratro tecnicamente avanzato del 1855 500.000
Aratro a dischi trainato dal trattore, 1920 4.000
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Numeri terribili, come possiamo notare, ma nessuno ha contestato questo trend di sviluppo per ritornare indietro nel tempo!
Certo conosciamo ciò che successe in Inghilterra nel periodo dell’introduzione del telaio Jacquard nel settore tessile, con l’ostilità che ne seguì fino a sfociare in un vero e proprio movimento di opposizione e sabotaggio noto come Luddismo, dal nome del suo principale esponente (2). Ma quelli erano altri tempi e, comunque, niente a che vedere con la statura imprenditoriale e qualità dell’intervento nell’innovazione ricoperta da Gates prima con il sistema operativo MS/DOS che equipaggiava il primo personal computer IBM del 1981 e successivamente con il sistema Windows.
Oggi i sistemi Windows nel mondo rappresentano oltre il 90% del mercato, il sistema MAC OS di Apple rappresenta appena il 7% e il sistema Linux è utilizzato nell’1,5% dei computer e server di rete. Insomma la gigantesca ricchezza personale di Gates, ben 70 miliardi di euro nel 2016 secondo Forbes, deriva da queste quote di mercato: come mai non ha proposto una tassa su ogni computer Windows diffuso nel mondo e si è lanciato contro i robot?
Semplicemente perché non è la sua Microsoft a costruirli!
Per comprendere appieno la rivoluzione in atto provocata dall’informatica, dall’elettronica e dalla robotica nei processi produttivi, vale la pena ricordare per sommi capi alcune pietre miliari della produzione scientifica e tecnologica che ci ha permesso di arrivare al livello sperimentato e conosciuto dell’attuale sviluppo tecnologico per comprendere quali siano state e dove potranno arrivare nel giro di due o tre decenni le influenze indotte nell’organizzazione del lavoro dalla tecnologia ICT (Information and Communication Technology) e indicare qualche possibile proposta al riguardo.
Limitandoci all’immediato dopoguerra si ricorda che con la costruzione del primo transistor alla fine del 1947 presso i laboratori della Bell, da parte del gruppo composto da Shockley, Bardeen e Brattain, che per questo risultato guadagneranno il premio Nobel nel 1956, non solo viene rivoluzionata la telefonia, ma tutta l’elettronica. L’industria nascente dell’informatica riprogetta e ricostruisce i grandi computer del tempo, i cosiddetti mainframe, a partire dall’ENIAC costruito nel 1946, un gigante elettronico che occupava uno stanzone di 150 mq, costituito da 18.000 valvole termoioniche, decine di migliaia di componenti come resistenze, condensatori e induttori, con una dotazione di cavi che arrivavano fino al soffitto. Grazie al transistor vengono sostituite le ingombranti valvole termoioniche, riducendo drasticamente le dimensioni di tutti gli apparati elettronici e migliorando vertiginosamente tutte le prestazioni di calcolo. In effetti l’ENIAC fu messo in crisi anche dal genio di John von Newmann, grande matematico di quel periodo e scienziato noto in tutto il mondo. In effetti egli osservò che il punto debole dell’ENIAC era che risultava privo di uno “schema logico universale”. Infatti esso doveva essere ricablato mediante nuovi e diversi contatti dei cavi di collegamento a seconda delle prestazioni di calcolo richieste, mentre con i suoi suggerimenti si arrivò subito all’individuazione della memoria come luogo dove scrivere le istruzioni di funzionamento. Da qui ci fu la nascita dell’attuale modello dei calcolatori e lo sviluppo dei linguaggi di programmazione, così come li conosciamo ancora oggi, ma su questo si tornerà ancora negli interventi che seguono.
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1. Wassily Leontief e Faye Duchin, The Impacts of Automation on Employment, 1963-2000. New York University, New York, 1983.
2. Dal nome dell’operaio Ned Ludd che nel 1779 avrebbe sabotato un telaio.
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* Articolo pubblicato anche su Democraziaoggi
Oggi giovedì 30 marzo 2017
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Editoriali di Aladinews. EuropaCheFare?
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SOCIETÀ E POLITICA »TEMI E PRINCIPI» DIFENDERE LA COSTITUZIONE
Schiavitù, le promesse mancate
di Stefano Rodotà
«Articolo 36 della Costituzione “Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”». la Repubblica, 29 marzo 2017 (c.m.c.)
“Negli ultimi anni, una rinnovata produzione culturale, letteraria, di pari passo con una potente risorgiva di orgoglio isolano mai scemato, ripropone i temi della sardità e della colonizzazione. In questo, Francesco Casula si è distinto con un’opera grandiosa, «Letteratura e civiltà della Sardegna». E oggi con il libro su Carlo Felice e i suoi sanguinari parenti”.
Pino Aprile recensisce il libro “Carlo Felice e i tiranni sabaudi” di Francesco Casula
Pino Aprile, già vicedirettore di Oggi e direttore di Gente, ha lavorato in televisione con Sergio Zavoli nell’inchiesta a puntate Viaggio nel sud e a Tv7, settimanale di approfondimento del TG1. È autore di libri tradotti in più lingue. Nel marzo 2010 ha pubblicato il libro Terroni, un saggio giornalistico che descrive gli eventi che hanno penalizzato economicamente il meridione, dal Risorgimento ai giorni nostri. L’opera è divenuta un bestseller, con 250.000 copie vendute.
A maggio 2016 pubblica Carnefici, un saggio storico che documenta, in maniera ancor più approfondita di Terroni, per via delle ricerche più recenti condotte dallo stesso giornalista in cinque anni, le stragi commesse al Sud durante l’unificazione.
Gli ultimi suoi saggi sono Terroni ‘ndernescional. E fecero terra bruciata, Milano, Piemme, 2014 (on interi capitoli dedicati alla Sardegna in cui cita abbondantemente gli storici sardi e in particolare i due Casula, Francesco e Francesco Cesare) e Carnefici, Milano, Piemme, 2016.
All’origine della Questione Sarda. COME I SAVOIA DEPREDARONO LA SARDEGNA
E CREARONO LA PRIMA QUESTIONE MERIDIONALE
di Pino Aprile
Perché vi parlo di “Carlo Felice e i tiranni sabaudi”, del professor Francesco Casùla (edizioni Grafica del Parteolla)? Quando mi chiesi dove fosse la Sardegna, nella storia d’Italia, volli cercare una risposta veloce e mi trovai impelagato (tanto per cambiare) in una montagna di libri antichi e moderni (più gli uni che gli altri). E scoprii che la Questione Meridionale (sorta con l’invasione del Regno delle Due Sicilie da parte dell’esercito piemontese, prima nascostamente, con i 22 mila soldati ufficialmente disertori al seguito di Garibaldi; poi ufficialmente, con l’esercito calato a prendere possesso della refurtiva), aveva un antenato: la Questione Sarda.
Quando, a inizio del 1700, i Savoia ottengono l’isola, con un trattato internazionale, iniziano a spogliarla di ogni risorsa, escludendo i sardi da ogni possibilità di intraprendere o dirigere, salvo quei possidenti che si metteranno al servizio del nuovo padrone, per aiutarlo nel saccheggio e intascare le briciole. Le proteste, le rivolte, vengono soffocate nel sangue, con la ferocia e l’arbitrio. E giustificate con l’inciviltà della popolazione che i sabaudi, ovviamente, trattenendo eroicamente il ribrezzo, tentavano di dirozzare.
Seppi, così, che tutto quel che i Savoia fecero in Sardegna, fu solo replicato, più in grande, nel Regno delle Due Sicilie (i sardi erano circa 600mila, al momento dell’Unità, i duosiciliani quindici volte tanto). Da questa osservazione e dalla scoperta che, pur senza paesi rasi al suolo e lo sterminio della popolazione, le stesse tecniche erano state adottate dalla Germania Ovest in quella Est, dal giorno della riunificazione, nacque il mio “Terroni ‘ndernescional”. – segue -
EuropaCheFare?
L’Europa è in crisi perenne: ecco cinque punti (necessari) per uscirne
Perché i documenti e i proclami di unità non vengano disattesi dai fatti e dalla storia è necessario che alcuni punti del patto che unisce i paesi europei siano rivisti: dall’idea di EU a più velocità, alle politiche di difesa
di Francesco Grillo
«L’Europa sarà forgiata dalle sue crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per risolvere tali crisi»: Jean Monnet, primo presidente della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio e padre del progetto di cui si sono appena celebrati i sessanta anni, spiegò – meglio di chiunque altro – che la forza dell’Unione Europea era nella sua precarietà. E nel fatto di non avere alternative.
Ma quali sono oggi le soluzioni disponibili all’Europa alle prese con la sua crisi più acuta? Quali soluzioni concrete riusciamo a intravedere dietro la valanga di parole, comprese quelle di una dichiarazione firmata a Roma che rassicura che “l’Europa è indivisa ed indivisibile” proprio quattro giorni prima che all’Europa arrivi ufficialmente, per la prima volta, la richiesta di uno dei propri membri di separarsi dagli altri? Io credo che siano tre gli elementi che stanno emergendo e che, forse, fanno una proposta sulla quale cominciare a costruire un progetto politico transnazionale. Rinunciando ad una retorica – priva di risultati – che è, forse, il nemico peggiore di un sogno che appartiene a tutti.
Anche tra i paesi fondatori dell’Unione Europea esistono vere e proprie faglie, come quelle che hanno messo l’Italia contro la Germania sulle politiche di austerità, e focolai di dissenso nei confronti dell’Europa (come quelli che in Francia fanno del Fronte Nazionale il primo partito)
Più che a “multi velocità”, l’Europa del futuro sarà a “piani”. A ciascuno, però, dovrà corrispondere una condivisione di poteri piena e senza più ambiguità. L’idea delle “diverse velocità” è, in effetti, sbagliata in partenza. Sbagliata perché fa pensare che tutti si dirigono verso lo stesso obiettivo, distinguendo però tra Soci “d’oro” ed altri di caratura più bassa. E gettando, quindi, basi solide per ulteriori liti nel club. Ma sbagliata anche perché ipotizza che tra quelli di Serie A, ci siano, necessariamente, tutti e sei i Paesi fondatori (come ha precisato Gisgard D’Estaing) trascurando che, invece, anche tra i fondatori esistono vere e proprie faglie (come quelle che hanno messo l’Italia contro la Germania sulle politiche di austerità) e focolai di dissenso nei confronti dell’Europa (come quelli che in Francia fanno del Fronte Nazionale il primo partito).
Più interessante, invece, è ipotizzare (come fa l’Economist) che l’Europa accentui quella che è già una sua caratteristica: a diverse tipologie di politiche da condividere, corrispondono diverse aggregazioni. Succede già con l’Unione che è a 27 membri, ma che nel “mercato comune” arriva a 32 e scende a 19 con l’Euro. La differenza, però, è che, da questo momento, le scelte volontarie, dovranno essere chiare e non ambigue.
Far parte di una Schengen riformata, non potrà che comportare – per ragioni logiche e valoriali – l’accettazione di una frontiera comune, con un’unica polizia doganale e, ovviamente, un unico diritto d’asilo. Continuare a far parte dell’Euro non potrà che significare, mettere insieme le politiche fiscali ed economiche ed avere un unico Ministro responsabile di fronte ai contribuenti. Lo stesso varrà per le politiche di sicurezza o di difesa che sono tecnicamente impossibili se non rispondono ad un unico comando e ad apparati che condividono informazioni. Un’Europa fatta di scelte serie ma a geometria variabile; capace di superare i limiti dell’idea stessa hegeliana) di Stato moderno (indivisibile); ma anche di estendersi ulteriormente a chi non ne fa parte (ad Israele o alla Tunisia che, forse, sarebbero più forti se più vicini).
Continuare a far parte dell’Euro non potrà che significare, mettere insieme le politiche fiscali ed economiche ed avere un unico Ministro responsabile di fronte ai contribuenti. Lo stesso varrà per le politiche di sicurezza o di difesa che sono tecnicamente impossibili se non rispondono ad un unico comando
La scelta di far parte dell’Europa (in una delle sue configurazioni) dovrà, però, essere anche pienamente democratica. È impensabile pensare di continuare ad andare avanti con gli sherpa. Così come è impensabile costruire una qualsiasi delle integrazioni che abbiamo appena citato, senza fare la fatica di coinvolgere i cittadini. Sono loro i beneficiari, il motore e i difensori di ultima istanza di un progetto che non può più appartenere ad élite che hanno fallito. È, dunque, velleitaria qualsiasi ulteriore ipotesi di integrazione se non ci porremo – subito – il problema di incoraggiare lo sviluppo di un’opinione pubblica capace di aggregarsi sui grandi temi in movimenti transnazionali (come proverà a fare Varoufakis). Di istituire per il Parlamento Europeo collegi elettorali non più su basi nazionali (e con un forte utilizzo di voto elettronico). Di investire in un demos europeo, a partire dalle generazioni più giovani per le quali occorre rendere ERASMUS immediatamente disponibile a tutti.
Infine, poi, a ciascun matrimonio dovrà corrispondere una realistica possibilità di divorzio. Le unioni peggiori sono, proprio, quelle che non si possono sciogliere. Perché trasformano l’amore in una spirale di ricatti. Come è successo con la Grecia. L’Unione del futuro dovrà avere anche questa forma di flessibilità. Proprio per rendere meno traumatiche le crisi e le scelte iniziali; più liberi i suoi contraenti e più capaci di reinventare le ragioni per stare insieme senza litigare. Ovviamente non è pensabile che – all’improvviso – si possa sciogliere una politica di difesa comune. E, tuttavia, deve essere ipotizzabile che – dopo un certo periodo di tempo, più o meno lungo a seconda della politica – gli alleati abbiano la possibilità di verificare i termini dell’accordo e, eventualmente, uscire secondo regole pre-definite.
L’Europa attuale ovviamente non si butta domani. Ma va studiato un percorso per arrivare ad una configurazione molto più flessibile e concreta. E, dunque, capace nei fatti di traghettare nel ventunesimo secolo un sogno che cominciò mettendo insieme le industrie del carbone e dell’acciaio. Più del populismo, il nemico è l’inerzia: rischia di portarci, all’improvviso, in quella dimensione che stanno sperimentando milioni di giovani inglesi ed europei che studiano e lavorano a Londra e che si sono trovati in una situazione che non avevano, mai, seriamente preso in considerazione.
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Il vero argine ai populisti si chiama papa Francesco
Nessuno a Roma a marciare contro o a favore dell’Europa. Tutti a Milano per il pontefice, che si scaglia contro l’Europa della paura. Il successo di folla del Papa “pop” mostra il disorientamento in cui sono caduti sia il populismo, sia la politica “tradizionale”, sia il sistema dell’informazione
di Flavia Perina
C’è una durissima lezione per la politica e per i media nel week end appena trascorso, una lezione data dal confronto – che tutti hanno notato – tra le colossali folle mobilitate dal Papa nella sua giornata milanese e la risibile partecipazione popolare alle manifestazioni anti-europee indette a Roma, che pure erano state preannunciate come temibili, enormi, probabilmente violente e avevano beneficiato di un battage pubblicitario intensissimo.
Non è la prima volta che succede. Da molto tempo le persone, le folle – le masse, si sarebbe detto una volta – si muovono all’improvviso per eventi imprevedibili e imprevisti, del tutto fuori dall’agenda dei partiti e del sistema della comunicazione. Secondo questa agenda, al centro della preoccupazione e quindi della mobilitazione popolare, dovrebbero esserci in questa fare i temi dettati dal populismo e dal cosiddetto sovranismo, di destra e di sinistra: insicurezza, immigrazione, ma soprattutto critica all’Europa, e talvolta odio per l’Europa. Un sentimento che si rappresenta come travolgente e diffuso fino al punto che persino i leader di partiti di governo, da Matteo Renzi a Silvio Berlusconi, hanno giudicato indispensabile negli ultimi anni inseguirlo, farsene partecipi talvolta con proposte strampalate pur di recuperare consenso.
Da molto tempo le persone, le folle – le masse, si sarebbe detto una volta – si muovono all’improvviso per eventi imprevedibili e imprevisti, del tutto fuori dall’agenda dei partiti e del sistema della comunicazione
E’ una percezione della realtà che appare, alla luce degli eventi del week end, di scarsissimo fondamento. E non c’entra solo l’innegabile carisma di Francesco. Nel settembre dello scorso anno si scoprì all’improvviso, grazie a colossali manifestazioni in Germania – un Paese poco aduso alla protesta – che un tema laterale e giudicato “specialistico” come il Ttip, il trattato di libero scambio Europa-Usa, era in realtà ben conosciuto e assai inviso a larghissime fasce della popolazione, pronte a scendere in piazza per fermare i governi (che infatti si fermarono). Il 26 novembre scorso, qui da noi, in Italia, centomila donne invasero Roma per una protesta contro la violenza, un corteo di cui nessuno aveva previsto la consistenza, poco pubblicizzato, non sostenuto dalle consuete “macchine della partecipazione” sindacali o poliche che in quel momento erano occupate col referendum costituzionale. E allo stesso modo, in anni precedenti, la politica e i media furono stupiti da fenomeni di massa come gli Indignados, o Occupy Wall Street, che da un giorno all’altro rivelavano l’esistenza di sentimenti così radicati e forti da rompere l’abituale disincanto del Villaggio Globale e spingere le persone a vestirsi, uscire di casa, partecipare “fisicamente” a qualcosa anziché limitare l’adesione a qualche click.
Ora, a sorprenderci, sono le masse che si muovono per ascoltare di persona Francesco. Ed il suo discorso per i sessant’anni dell’Europa – quello in cui mette in guardia contro la cultura della paura, dell’egoismo, della difesa piccina del proprio orto – non è solo il più “alto” e convincente, ma anche il più partecipato. Quello che può rivendicare il maggiore e più visibile consenso popolare, mentre i sedicenti “portavoce del popolo” restano isolati nelle loro nicchie rancorose o nella loro sterile visibilità social. La politica avrebbe il dovere di approfondire, anziché limitarsi alla spiegazione consolatoria del “Papa Pop” (come titola l’ultimo numero di Rolling Stones, mettendolo in copertina in una posa alla Fonzie). Dovrebbe, ad esempio, interrogarsi consenso effettivo dei cosiddetti populismi e sovranismi, e più in generale dell’intero racconto anti-europeo: quanto di esso corrisponde davvero a un sentimento diffuso, e quanto è legato a una resa culturale delle elìtes, al loro “dare per scontato” che quello sia il campo dove competere?
La politica avrebbe il dovere di approfondire, anziché limitarsi alla spiegazione consolatoria del “Papa Pop” (come titola l’ultimo numero di Rolling Stones, mettendolo in copertina in una posa alla Fonzie)
Angelo Panebianco ci ha spiegato, di recente, che le egemonie politico-culturali non nascono necessariamente dalla forza e dall’intelligenza di chi le costruisce e le cavalca con spregiudicatezza, ma assai spesso dalla resa di chi dovrebbe coltivare un pensiero critico e suggerire altre strade, altre soluzioni. In Italia questa resa è più palese che altrove perché non c’è area che si sottragga all’inseguimento della xenofobia, dell’approccio securitario ai problemi, della logica del sospetto e della paura, e naturalmente al racconto dell’Europa matrigna, nella convinzione che il consenso ormai si possa conquistare solo così, parlando alle famose “pance del Paese”. Dopo la giornata di sabato, dopo aver visto da una parte il populismo senza popolo e dall’altra le colossali folle radunate intorno a questo Papa e al suo messaggio totalmente controcorrente, qualche dubbio bisognerebbe cominciare a porselo.
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SardegnaCheFare?
Oggi mercoledì 29 marzo 2017
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Editoriali di Aladinews. EuropaCheFare?
L’Europa deve essere politica e federale. Ma resta un’utopia.
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PUNTA DE BILLETE ARREGORDARI’ per sabato 8 aprile 2017
Ciao a tutti, per sabato 8 aprile alle ore 17,00 stiamo organizzando come Confederazione Sindacale Sarda, Associazione Riprendiamoci la Sardegna, Assotziu Consumadoris Sardigna – Onlus, nella sala parrocchiale di San Massimiliano Kolbe, a Cagliari in Via Sulcis, quartiere di Is Mirrionis, un Incontro – Dibattito su: territorio, ambiente, salute, lavoro. E’ prevista la presentazione del video documentario “UN DOMANI PER PORTOSCUSO” del Regista Salvatore Sardu, il tutto coordinato dal giornalista Vito Biolchini. Sono invitati a partecipare tutti i rappresentanti delle associazioni e comitati impegnati sul tema del territorio, della salute, dell’ambiente e del lavoro. Sei invitato a partecipare anche TU.
Per gli organizzatori: Giacomo Meloni, Angelo Cremone, Marco Mameli.
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Meridione ovvero “crisi continua”
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
PUNTA de BILLETE ARREGORDARI’ per sabato 8 aprile 2017
Ciao a tutti, per sabato 8 aprile alle ore 17,00 stiamo organizzando come Confederazione Sindacale Sarda, Associazione Riprendiamoci la Sardegna, Assotziu Consumadoris Sardigna – Onlus, nella sala parrocchiale di San Massimiliano Kolbe, a Cagliari in Via Sulcis, quartiere di Is Mirrionis, un Incontro – Dibattito su: territorio, ambiente, salute, lavoro. E’ prevista la presentazione del video documentario “UN DOMANI PER PORTOSCUSO” del Regista Salvatore Sardu, il tutto coordinato dal giornalista Vito Biolchini. Sono invitati a partecipare tutti i rappresentanti delle associazioni e comitati impegnati sul tema del territorio, della salute, dell’ambiente e del lavoro. Sei invitato a partecipare anche TU.
Per gli organizzatori: Giacomo Meloni, Angelo Cremone, Marco Mameli.
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L’incompiuta
Nei miei ricordi di consigliere comunale di Cagliari (1980-1985) in uno degli anni di quella consiliatura vi è una seduta del Consiglio che si protrasse dalla sera di un certo giorno fino all’alba del giorno successivo. Fu un duro scontro tra la maggioranza di centro sinistra (forse era sindaco Michele Di Martino) e l’opposizione di sinistra (Pci-Psdaz-Dp Sarda), la prima vincente, che fece passare la lottizzazione. Si trattava di realizzare una struttura di carattere sanitario (forse una struttura protetta) di cui era titolare la famiglia Floris, della quale sedeva nei banchi consiliare niente di meno che il capostipite Mario Floris, senior, detto Marpio.
Quanto è successo dopo quegli anni è esaurientemente descritto da Andrea Scano, già consigliere comunale, nel suo documentato blog
(il post risale al 20 luglio 2010: http://andreascano.blog.tiscali.it/2010/07/12/uno-scheletro-di-cemento-inutile-ed-impattante-sul-colle-di-san-michele-presento-una-interrogazione/, che può essere consultato ricopiando questa striscia come url o su google).
Dopo tanto tempo nulla è cambiato: lo “scheletro di cemento inutile ed impattante sul colle di San Michele” è sempre al suo posto. E sono passati anni, Sindaci e maggioranze di diverso colore politico! E’ giunto allora il momento di chiedere ed esigere spiegazioni.
Andrea Scano, già consigliere comunale, nel suo documentato blog
(il post risale al 20 luglio 2010: http://andreascano.blog.tiscali.it/2010/07/12/uno-scheletro-di-cemento-inutile-ed-impattante-sul-colle-di-san-michele-presento-una-interrogazione/, che può essere consultato ricopiando questa striscia come url o su google).
Dopo tanto tempo nulla è cambiato: lo “scheletro di cemento inutile ed impattante sul colle di San Michele” è sempre al suo posto. E sono passati anni, Sindaci e maggioranze di diverso colore politico! E’ giunto allora il momento di chiedere ed esigere spiegazioni.
EuropaCheFare?
SOCIETÀ E POLITICA »EVENTI» 2015-ALTRA EUROPA
L’Europa deve essere politica e federale. Ma resta un’utopia
di Nadia Urbinati
«Il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati». Huffingto Post online, 25 Marzo 2017 (c.m.c.)
Il processo di unificazione Europea, di cui celebriamo il sessantesimo compleanno, ha aperto la strada a una nuova cittadinanza. Studiosi della politica e giuristi hanno abbondantemente illustrato il paradigma post-nazionale e sovranazionale della libertà politica che dissocia la cittadinanza dalla nazionalità. Si tratta di una rivoluzione non meno epocale di quella del 1789 che, per ripetere le parole di Hannah Arendt, inaugurò la «conquista dello stato da parte della nazione» e in questo modo l’inizio della democratizzazione.
La storia dell’Europa moderna conferma che mentre la formazione dello stato territoriale ha unificato il corpo dei sudditi della legge è stata la sovranità nazionale a rendere gli stati democratici. Il diritto che ha segnato questo mutamento epocale è quello di e/immigrazione, ovvero la libertà di movimento, delle persone e dei beni.
L’Unione europea nacque sulla libertà di movimento ma con un’ambiguità economica che non è scomparsa, nemmeno quando con il trattato di Lisbona la cittadinanza europea è stata consolidata da una famiglia di diritti costruiti attorno al “libero movimento” e alla “non discriminazione” tra gli Stati membri e all’interno di essi. Pur riconoscendo che l’immigrazione è un fatto fondamentale della vita umana, che riflette la ricerca di individui e collettività di migliorare la propria condizione di vita, ha scritto Ulrich Preuss, essa non mai ha di fatto tolto di mezzo le ragioni economiche per il diritto di movimento e il ruolo degli Stati membri. È vero che, comunque, le ragioni economiche non furono mai così preponderanti da bloccare lo sviluppo di decisioni riguardo la cittadinanza dell’Unione europea e da dare a quest’ultima uno status giuridico formale (il Trattato di Maastricht del 1993) e aumentarlo incrementalmente con i successivi trattati di Amsterdam (1999), Nizza (2003) e Lisbona (2009). Ma tutto questo è avvenuto prima della grande crisi finanziaria.
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È stata sufficiente questa crisi a mostrare le ambiguità: il Trattato di Roma ha messo al centro il diritto di movimento delle persone e delle merci; come nella tradizione settecentesca ha associato la libertà ai fattori economici o di produzione, la cittadinanza all’apertura dei mercati.
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All’inizio del processo europeo di unificazione, quell’ambiguità si applicava essenzialmente all’immigrazione interna (l’antica preoccupazione degli anni ’50 e ’60). Successivamente si è applicata all’immigrazione extracomunitaria, formando sia la politica di integrazione con gli immigrati irregolari (descritti come cittadini di Paesi terzi) sia quella della repressione con i migranti sans-papiers. Joseph Weiler ha così argomentato che «la cittadinanza europea equivale a poco più di un cinico esercizio di pubbliche relazioni e che anche il più sostanziale diritto (al libero movimento e alla residenza) non è concesso secondo uno status dell’individuo in quanto cittadino ma in ragione delle capacità dei singoli come fattori di produzione».
Se il diritto fondamentale di libertà di movimento è così direttamente connesso a ragioni economiche – la circolazione di una forza lavoro concorrenziale – ciò significa che i confini nazionali sono interpretati e utilizzati come meccanismi funzionali a una divisione internazionale del lavoro. Essi diventano il centro del conflitto tra opposti interessi, nel senso che i lavoratori stranieri (che minacciano la classe lavoratrice di una nazione accettando di lavorare senza la stessa protezione sociale e gli stessi salari della classe lavoratrice nazionale), incontrano gli interessi di quei settori economici la cui competitività si basa sul lavoro a basso costo. Questo è stato il ragionamento (populista ma non irrazionale) che ha guidato gli elettori nel referendum su Brexit.
Questo conflitto è il cuore di ciò che James Hollifiel ha chiamato il “paradosso liberale”, il fatto che una società democratica basata sul libero mercato e sulla libertà di movimento conserva un tratto di chiusura legale al fine di proteggere il contratto sociale tra lavoro e capitale, così riconoscendo che il proprio welfare presuppone una società chiusa e uniforme. Strategie di chiusura legale non sono necessariamente e brutalmente di tipo diretto (bloccando i confini, incarcerando e rimpatriando gli immigrati irregolari).
Di fatto, sono strategie per la maggior parte indirette, in modo particolare quando sono rivolte agli immigrati regolari, per esempio limitando i loro diritti civili e sociali, rendendo loro difficile la naturalizzazione, restringendo il loro accesso ai servizi sociali o impedendo i ricongiungimenti familiari. Dunque, per gli Stati europei, e ora anche per l’Unione europea, riguadagnare il controllo dei propri confini equivale ad ammettere che “il controllo dell’immigrazione può richiedere una riduzione dei diritti civili e dei diritti umani per i non cittadini”.
È sull’immigrazione che si gioca quindi il futuro dell’Unione: su questo diritto è sorta e su questo stesso diritto può cadere se lascerà che i singoli stati membri regolino le loro politiche delle frontiere in maniera nazionalistica (come del resto stanno già facendo ad Est). Non sembrano esserci altre soluzioni al problema europeo: perché l’Unione sopravviva deve farsi politica e avere un potere federale capace di imporsi ai governi degli stati membri. Una soluzione più utopistica oggi di sessant’anni fa, nonostante quell’Europa venisse da una carneficina mondiale e questa da sei decenni di pace.
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SOCIETÀ E POLITICA » TEMI E PRINCIPI » DE HOMINE
Cinquant’anni fa l’enciclica indicava la via
di Giorgio Nebbia
«Scritto da Paolo VI nel 1967, il testo denuncia il malaugurato sistema che considera il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti». il manifesto, 26 marzo 2017 (c.m.c.)
Sembrano passati secoli, eppure sono passati solo cinquant’anni dal 1967, quando è stata pubblicata l’enciclica Populorum progressio, scritta da Paolo VI.
Tempestosi e ricchi di speranze quegli anni sessanta del Novecento; si erano da poco conclusi i lavori del Concilio Vaticano II che aveva aperto al mondo le porte della chiesa cattolica; era ancora vivo il ricordo della crisi dei missili a Cuba, quando il confronto fra Stati uniti e Unione sovietica con le loro bombe termonucleari, aveva fatto sentire il mondo sull’orlo di una catastrofe; i paesi coloniali stavano lentamente e faticosamente procedendo sulla via dell’indipendenza, sempre sotto l’ombra delle multinazionali straniere attente a non mollare i loro privilegi di sfruttamento delle preziose materie prime; la miseria della crescente popolazione dei paesi del terzo mondo chiedeva giustizia davanti alla sfacciata opulenza consumistica dei paesi capitalistici del primo mondo; nel primo mondo studenti e operai chiedevano leggi per un ambiente migliore, per salari più equi, per il divieto degli esperimenti nucleari.
In questa atmosfera il malinconico Paolo VI aveva alzata la voce parlando di nuove strade per lo sviluppo. Progressio, ben diverso dalla crescita delle merci e del denaro, la divinità delle economie capitalistiche.
L’enciclica sullo sviluppo dei popoli diceva bene che «il fine ultimo e fondamentale dello sviluppo non consiste nel solo aumento dei beni prodotti né nella sola ricerca del profitto e del predominio economico; non basta promuovere la tecnica perché la Terra diventi più umana da abitare; economia e tecnica non hanno senso che in rapporto all’uomo che esse devono servire».
La Populorum progressio metteva in discussione lo stesso diritto umano al «possesso» dei campi, dei minerali, dell’acqua, degli alberi, degli animali, che non sono di una singola persona o di un singolo paese, ma «di Dio», beni comuni come ripete papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’ e continuamente.
L’enciclica Populorum progressio indica diritti e doveri dei popoli della Terra divisi nelle due grandi «classi» dei ricchi e dei poveri, ben riconoscibili anche oggi: i ricchi, talvolta sfacciatamente ricchi, dei paesi industriali ma anche quelli che, nei paesi poveri, accumulano grandi ricchezze alle spese dei loro concittadini; i poveri che affollano i paesi arretrati, ma anche quelli, spesso invisibili, che affollano le strade delle dei paesi opulenti, all’ombra degli svettanti grattacieli e delle botteghe sfavillanti.
La Populorum progressio fu letta poco volentieri quando fu pubblicata e da allora è stata quasi dimenticata benché le sue analisi dei grandi problemi mondiali siano rimaste attualissime.
I popoli a cui l’enciclica si rivolge sono, allora come oggi, quelli che lottano per liberarsi dal giogo della fame, della miseria, delle malattie endemiche, dell’ignoranza; che cercano una partecipazione più larga ai frutti della civiltà, una più attiva valorizzazione delle loro qualità umane; che si muovono con decisione «verso la meta di un pieno rigoglio».
L’enciclica denuncia il malaugurato (dice proprio così) sistema che considera il profitto come motore essenziale del progresso economico, la concorrenza come legge suprema dell’economia, la proprietà privata dei mezzi di produzione come un diritto assoluto, senza limiti né obblighi sociali corrispondenti. E condanna l’abuso di un liberalismo che si manifesta come «imperialismo internazionale del denaro».
In quegli anni sessanta era vivace il dibattito sulla «esplosione» della popolazione, in rapida crescita specialmente nei paesi poveri, e la domanda di un controllo della popolazione, resa possibile dall’invenzione «della pillola», aveva posto i cattolici di fronte a contraddizioni. Paolo VI ricorda che spetta ai genitori di decidere, con piena cognizione di causa, sul numero dei loro figli, prendendo le loro «responsabilità davanti a Dio, davanti a se stessi, davanti ai figli che già hanno messo al mondo, e davanti alla comunità alla quale appartengono». Il tema della «paternità responsabile» sarebbe stato ripreso nel 1968 dallo stesso Paolo VI nella controversa enciclica Humanae vitae e, più recentemente, da papa Francesco che ha detto che per essere buoni cattolici non è necessario essere come conigli.
Il progresso dei popoli è ostacolato anche dallo «scandalo intollerabile di ogni estenuante corsa agli armamenti», una corsa che si è aggravata in tutto il mezzo secolo successivo con la diffusione di costosissime e sempre più devastanti armi nucleari, oggi nelle mani di ben nove paesi, oltre che di armi convenzionali.
In mezzo secolo è cambiata la geografia politica; un mondo capitalistico egoista e invecchiato deve fare i conti con vivaci e affollati paesi emergenti, pieni di contraddizioni, e con una folla di poverissimi.
I poveri di cui l’enciclica auspicava il progresso, nel frattempo cresciuti di numero, sono quelli che oggi si affacciano alle porte dell’Europa per sfuggire a miseria, guerre fratricide, oppressione imperialista, per sfuggire alla sete e alle alluvioni, alla fame e all’ignoranza, quelli che i paesi cristiani non esitano a rispedire in campi di concentramento africani pur di non incrinare il loro benessere, magari dopo avere strizzato la vita e salute degli immigrati nei nostri campi. I pontefici dicano pure quello che vogliono; le cose serie sono i propri interessi e commerci.
Eppure è fra i poveri disperati e arrabbiati che trova facile ascolto l’invito alla violenza e al terrorismo; noi crediamo che la sicurezza dei nostri negozi e affari si difenda con altre truppe super-armate, con sistemi elettronici che si rivelano fragili e violabili, e invece l’unica ricetta, anche se scomoda, per rendere la terra meno violenta e più «adatta da abitare», sarebbe la giustizia.
Oggi martedì 28 marzo 2017
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IX Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale Essere madri nel mondo globalizzato. Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare.
Oggi 28 marzo 2017, alle ore 16, nell’aula Capitini, Facoltà di Studi umanistici a Sa Duchessa, si svolgerà il seminario conclusivo del IX Corso di educazione alla solidarietà internazionale, organizzato dall’associazione Sucania in collaborazione con la Fondazione di Sardegna, l’Università di Cagliari e la Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Il tema: LA MATERNITÀ NEL CRISTIANESIMO.
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Editoriali di Aladinews. Democrazia partecipata: che bella parola… tutta da praticare, ma attenzione alla mistificazione della «partecipazione».
Su Aladinews
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Iniziative condivisibili per il LAVORO.
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Progetto Cercatori di LavOro.
Cercatori di LavOro: imparare dalle migliori pratiche del lavoro per il bene comune.
- segue -