Monthly Archives: dicembre 2016

È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo.

“Naufragium feci, bene navigavi”
Naufragio Licia 2
“SIAMO TUTTI NAVIGANTI, E IL NAUFRAGIO CI AIUTA A CRESCERE”, DICE A POPSOPHIA REMO BODEI
Data pubblicazione: 11/07/2015
di Giovanna Renzini su POPSOPHIA

Stimolato da Umberto Curi, il noto filosofo ha ripercorso varie teorie sul tema, a partire dall’ossimoro di Erasmo da Rotterdam “Naufragium feci, bene navigavi”

PESARO – Rispetto alla navigazione, che è la filosofia, il naufragio (amoroso, individuale, sociale, ecc.) non è un passaggio negativo ma un elemento necessario, poiché solo attraversando questa esperienza, che rappresenta di fatto il cambiamento, si può davvero crescere. E’ il pensiero di molti filosofi che, a partire dall’ossimoro latino tramandato da Erasmo da Rotterdam ed interpretato da Nietzsche e Schopenhauer, “Naufragium feci, bene navigavi” (“Quando ho fatto naufragio, allora ho ben navigato”) hanno fatto arrivare fino a noi le loro teorie. Proprio su questo aspetto si è concentrata a POPSOPHIA la “Lectio Pop” di Remo Bodei, uno dei massimi filosofi italiani e organizzatore del Festival della Filosofia di Modena, incalzato da un altro grande filosofo, Umberto Curi, da sempre attento al rapporto tra filosofia e contemporaneità.
“Questa idea del naufragio – ha detto Remo Bodei – ha nel mondo antico un punto chiave, il secondo libro del De Rerum Natura di Lucrezio, secondo il quale è consolatorio osservare da terra il naufragio di altri, non per il desiderio del male altrui ma perché ci fa sentire al sicuro. Una visione fortemente contrastata da Hegel secondo il quale guardare il naufragio degli altri sulla sponda dell’egoismo vuol dire sottrarsi alla dinamica della storia, che richiede di gettarsi nelle contraddizioni del mondo”. Come sottolineato dal filosofo Umberto Curi, quella del viaggio è una delle metafore ricorrenti per descrivere l’esperienza filosofica. “La tradizione del viaggio infinito, del naufragio felice, la ritroviamo in tutta la letteratura filosofica moderna, che incoraggia l’andare nella direzione di una ricerca”.
“Il distacco da qualsiasi terraferma – ha aggiunto Bodei – è ben presente in Pascal, che diceva ‘siete imbarcati’ per evidenziare che non c’è più terraferma e che ci troviamo su orbite libere. In effetti noi siamo continuamente in viaggio, l’esperienza umana è legata al viaggio della vita, anche la terra è in continuo movimento. Siamo tutti naviganti più o meno inconsapevoli, anche se stiamo sulla terraferma”.

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Mostra-Licia-17-20-dic-16 2È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?

Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.

Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
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naufragio Licia 1
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.

Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,

despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.

O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?

Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,

si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes

lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis pariter pariterque animatas,

[fervere cum videas classem lateque vagari]

his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.

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Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
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Mostra di Licia Lisei
Mostra-Licia-17-20-dic-16

17 dicembre 2016. Papa Francesco compie oggi 80 anni. Gli auguri di Aladinews: a chentannos e prusu!

papa-francesco
Papa Francesco ha raggiunto gli ottant’anni. Tra poco cade il quarto anniversario della sua elezione… Marco Politi su Il Fatto quotidiano.
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Mostra-Licia-17-20-dic-16 2È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?

Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.

Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
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naufragio Licia 1
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.

Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,

despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.

O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?

Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,

si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes

lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis pariter pariterque animatas,

[fervere cum videas classem lateque vagari]

his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.

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Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
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Mostra di Licia Lisei
Mostra-Licia-17-20-dic-16

Turbantibus aequora ventis

Mostra-Licia-17-20-dic-16 3È dolce, quando sul vasto mare i venti turbano le acque, assistere da terra al gran travaglio altrui, non perché sia un dolce piacere che qualcuno soffra, ma perché è dolce vedere di quali mali tu stesso sia privo. È dolce anche vedere i grandi scontri di guerra schierati nella pianura senza che tu prenda parte al pericolo. Ma nulla è più dolce che tenere saldamente gli alti spazi sereni, fortificati dalla dottrina dei sapienti, da dove tu puoi stare a guardare dall’alto gli altri, e osservarli errare qua e là e cercare smarriti la via della vita, gareggiare in qualità intellettuali, contendere in nobiltà di sangue e sfarzosi di notte e giorno, con instancabile attività, per arrivare ad una grande ricchezza e impadronirsi del potere. O misere menti degli uomini, o ciechi animi! In quali tenebre di vita e in quanti pericoli si trascorre questo poco di vita, qualunque essa sia! E come non vedere che la natura null’altro pretende per sé, se non che in quanto al corpo il dolore sia lontano, e in quanto all’anima goda di piacevoli sensazioni, priva di affanni e di timori?

Vediamo dunque che alla natura del corpo sono affatto necessarie poche cose, che tolgano il dolore, in modo che possano offrirci anche molti piaceri. Può essere talora più gradito, però la natura di per sé non lo richiede, se in casa non ci sono statue dorate di giovani che leggono con le destre fiaccole luminose, perché sia fornita la luce al notturno banchetto, e se la casa non sfavilla d’argento, né risplende d’oro, né le cetre fanno risuonare i soffitti a cassettoni e dorati, mentre tuttavia sdraiati fra amici sulla tenera erba, accanto a un ruscello, sotto i rami di un alto albero senza grandi spese ristoriamo il corpo piacevolmente, soprattutto quando il tempo sorride e la stagione cosparge di fiori le verdeggianti erbe. Né le ardenti febbri si allontanano più rapidamente dal corpo se ti agiti tra coperte ricamate e la rosa porpora che se si deve dormire con una misera coperta. Dunque poiché i tesori, la nobiltà, la gloria del regno non sono di vantaggio al nostro corpo, quanto al resto, bisogna pensare che non giovino neppure all’animo; a meno che, per caso, quando tu vedi ondeggiare le tue legioni negli spazi della pianura movendo finte battaglie rafforzate da grandi truppe ausiliarie e dal vigore della cavalleria equipaggiate di armi e parimenti animate, o quando tu vedi la flotta agitarsi febbrilmente e spiegarsi al largo, allora, sgomentate da queste cose, le paura religiose fuggono pavide dal tuo animo e i timori della morte lascino allora il petto sgombro e sciolto da affanni.

Ma se vediamo che queste cose sono ridicole e degne di scherno e che i timori degli uomini e le angosce, che non ti lasciano mai, non temono il risuonare delle armi o i dardi incalzanti, ma con audacia si aggirano in mezzo ai re e ai potenti né riveriscono il folgore che proviene dall’oro né il chiaro splendore della coperta purpurea, come dubiti che questo potere sia completamente della ragione, tanto più che tutta la vita si affanna nelle tenebre? Infatti come i fanciulli tremano e nelle cieche tenebre temono tutto, così noi, alla luce, temiamo talvolta cose che non sono per niente da temere più di quelle che i fanciulli temono nelle tenebre e si immaginano che accadranno. Pertanto questo terrore dell’animo e le sue tenebre è necessario che li rimuovano non i raggi del sole né i luminosi dardi del sole, ma l’osservazione razionale della natura.
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Mostra-Licia-17-20-dic-16 2
Suave, mari magno turbantibus aequora ventis
e terra magnum alterius spectare laborem;
non quia vexari quemquamst iucunda voluptas,
sed quibus ipse malis careas quia cernere suavest.

Suave etiam belli certamina magna tueri
per campos instructa tua sine parte pericli;
sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere
edita doctrina sapientum templa serena,

despicere unde queas alios passimque videre
errare atque viam palantis quaerere vitae,
certare ingenio, contendere nobilitate,
noctes atque dies niti praestante labore
ad summas emergere opes rerumque potiri.

O miseras hominum mentes, o pectora caeca!
Qualibus in tenebris vitae quantisque periclis
degitur hoc aevi quod cumquest! nonne videre
nihil aliud sibi naturam latrare, nisi ut qui
corpore seiunctus dolor absit, mente fruatur
iucundo sensu cura semota metuque?

Ergo corpoream ad naturam pauca videmus
esse opus omnino: quae demant cumque dolorem,
delicias quoque uti multas substernere possint.
Gratius inter dum, neque natura ipsa requirit,

si non aurea sunt iuvenum simulacra per aedes

lampadas igniferas manibus retinentia dextris,
lumina nocturnis epulis ut suppeditentur,
nec domus argento fulget auroque renidet
nec citharae reboant laqueata aurataque templa,
cum tamen inter se prostrati in gramine molli
propter aquae rivum sub ramis arboris altae
non magnis opibus iucunde corpora curant,
praesertim cum tempestas adridet et anni
tempora conspergunt viridantis floribus herbas.
Nec calidae citius decedunt corpore febres,
textilibus si in picturis ostroque rubenti
iacteris, quam si in plebeia veste cubandum est.
Quapropter quoniam nihil nostro in corpore gazae
proficiunt neque nobilitas nec gloria regni,
quod super est, animo quoque nil prodesse putandum;
si non forte tuas legiones per loca campi
fervere cum videas belli simulacra cientis,
subsidiis magnis et ecum vi constabilitas,
ornatas armis pariter pariterque animatas,

[fervere cum videas classem lateque vagari]

his tibi tum rebus timefactae religiones
effugiunt animo pavidae mortisque timores
tum vacuum pectus lincunt curaque solutum.

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Lucrezio: il proemio del libro II del “De rerum natura” ( VV.1-61)
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Mostra di Licia Lisei
Mostra-Licia-17-20-dic-16

Da oggi a Cagliari Mostra di pittura di Licia Lisei

Mostra Licia 17 - 20 dic 16
- L’evento nella pagina fb. ***** Turbantibus aequora ventis.

Giovedì 29 dicembre 2016 XXX Marcia per la Pace

Marcia Pace 29 12 16PROGRAMMA
Ore 15,00 Raduno nel Sagrato della Basilica di Bonaria
Preghiera introduttiva guidata dal Sua Ecc.za Mons. Roberto Carboni e da Sua Ecc.za Mons. Giovanni Paolo Zedda
Partenza della Marcia che seguirà il seguente percorso: Viale Diaz, Via Roma, Viale Trieste, Piazzale Trento.
Messaggi:
• Saluto del Sindaco Massimo Zedda
• Saluto di S.E. Mons. Arrigo Miglio
• Saluti dei rappresentanti delle Istituzioni
• Saluti del delegato regionale Caritas don Marco Lai
• Saluti di alcuni rappresentanti del Comitato Promotore
• Testimonianza Don Maurizio Patriciello
• Messaggio dei Giovani
• Conclusione di don Angelo Pittau
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Oggi sabato 17 dicembre 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413
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democraziaoggiSardegna: Lai o Busia? Questo è il problema
Amsicora su Democraziaoggi

Sa natzione sar­da devet “andare a icsola”, pro poter fàchere iscola. E’ tutta la società sarda che deve ”andare a scuola” per po­ter fare scuola

Noi non Bachisio BDomani sabato 17 dicembre, alle ore 1, nella sede della Fondazione Sardinia, in piazza San Sepolcro a Cagliari, Giacomo Meloni presenta il libro di Bachisio Bandinu. Segue il dibattito. Presente l’Autore.
Nois no ischiamus, nosu no isciemus, no sapìami – NOI NON SAPEVAMO, di Bachisio Bandinu
de sa LIMBA – TURISMU – INDUSTRIA – BASIS MILITARIS – AMBIENTE. Lezidebos in s’urtimu liberu noi de Bachis Bandinu, ediz. Il Maestrale, Nu, 2016.

Paret una malasorte nostra cussa de nos abbitzare a pustis de tottu su chi nos sutzedit, pro carculare solu sos ùrtimos sessant’annos de s’istòria sarda.
Su tempus nos rughet a supra e non semus capatzes de , ortare a cumbènia nostra sas occasiones de importu. Proitte non semus mai prontos a isfruttare sas possibi­litates a profettu nostru?
Nos est semper mancata sa virtute de ischire pesare sos fattos e de nde iscuntrobbare sos effettos e sos resurtatos.
Zente anzena at ischitu carculare su tempus justu pro si facher mere de sos benes nostros a benefitziu pròpriu.
A dolu mannu nostru, cando deviamus rispondere a sas dimandas chi nos poniat su tempus, in s’ora nois no ischiamus.
Com ente si fachet e tènnere a notu sas cosas chi nos pertocan pro avvalorare sos benes nostros in manera chi torren a profettu de sa economia e de sa cultura sarda?
S’isfida manna pro sa Sardigna, oje, est sa connoschen­tzia e s’intelligentzia de sos sèperos, sa capatzitate de iscun­trobbare sas cumbènias de su locu e de su tempus nostru a cuffrontu de su gheretzu de su mundu.
“Investire in cultura” est unu modu de nàrrere in bue­ca de donzi pulìticu, com ente chi sian paràulas de vantu chi pacu costan, chene carculare chi pro “investire in cultura” bi cheret istudiu, programmas, impreu de ‘inari e de intelligentzia.
A produire cultura est una pràtica de manos e de mente chi rechedit appentu e travagliu, cun su còmpitu de istrui­re sa zente e de inventare fainas novas.
‘” E duncas bisonzat de mezorare su gradu de imparu de s iscola e de sa formatzione professionale: sa natzione sar­da devet andare a iscola, pro poter fàchere iscola. …

– segue -

SPOP – Istantanea dello spopolamento in Sardegna

ARS spopolamento 17 dic 16arte cond in SardegnaSPOP – Istantanea dello spopolamento in Sardegna

Sabato 17 Dicembre 2016 a Cagliari, presso la sede della Fondazione di Sardegna in via S. Salvatore da Horta 2, è prevista una giornata dedicata a incontri, dibattiti e approfondimenti sul tema dello spopolamento.
A partire dalle ore 10, e nel corso di tutta la giornata, sarà presentata dal collettivo Sardarch Architettura la ricerca scientifica sul tema dal titolo ‘SPOP. Istantanea dello spopolamento in Sardegna‘, confluita in una pubblicazione pluridisciplinare edita da LetteraVentidue Edizioni.
L’iniziativa, promossa dalla Fondazione di Sardegna nell’ambito di AR/S Arte condivisa in Sardegna, è dedicata ad approfondire i temi del libro, parlando di Economia Locale, Migrazioni e Cultura, grazie agli interventi di numerosi ospiti che racconteranno la propria esperienza nei diversi ambiti e la partecipazione dei Sindaci dei Comuni oggetto della ricerca.
Ci sarà inoltre un focus sul tema dell’Arte Pubblica e la trasformazione dei territori attraverso forme di progettazione integrata, sociale e culturale, a cura di Maria Paola Zedda.
Nel corso di tutta la giornata, è prevista anche la visita con l’autore della mostra “La Città Invisibile”, di Gianluca Vassallo.
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Programma:
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Un paese sfiduciato. E i giovani sempre meno protagonisti. Quel che va male ma troviamo anche segnali positivi

censis 50rapporto_2016RAPPORTO CENSIS
A chi, a cosa gli italiani danno fiducia
di Fiorella Farinelli, su Rocca 1/2017

E’ nell’ultima pagina, la 546esima del 50° Rapporto Censis, che si spiega quel suo continuo aggirarsi attorno al tema delle «giunture». Le giunture che si sono logorate e smarrite, le giunture che bisogna ricostruire contro i precipizi inquietanti di un populismo distruttivo. A chi, a cosa gli italiani di oggi danno più fiducia? In testa alla classifica ci sono due soggetti molto diversi per funzioni e gestione, e però interpreti entrambi di interessi/valori collettivi, al primo posto le forze dell’ordine col 48,7% di fiducia, al secondo le associazioni di volontariato col 42,5%. Poi, a grande distanza, il 25,1% dei più giovani che credono nelle imprese agricole, segnale di un rinnovato interesse alla terra come nuova opportunità di impiego o di iniziativa imprenditoriale. Seguono un modesto 16,7% per la Chiesa, assai al di sotto del prestigio etico e spirituale di papa Bergoglio (e dimezzato inoltre all’8,8% tra i più giovani), e un ancora più modesto 12,1% per le grandi imprese/grandi marchi che, contrariamente alla vulgata ufficiale, la dice tutta sulle delusioni di tanti rispetto al ruolo giocato per lo sviluppo e per l’occupazione. Più in basso, con una fiducia che scivola al 9,1%, ci sono le istituzioni locali, intese come Comuni (e chissà fin dove si scenderebbe se la si fosse verificata anche per le Regioni). Ancora peggio va per i sindacati, ridotti dai fasti di un tempo a un misero 6,6% e tuttavia in grande vantaggio rispetto ai partiti politici. Ma ciò che colpisce di più è che agli ultimi due posti si trovino non solo le banche (1,5%) che dal 2007 hanno in verità fatto di tutto per meritarlo, ma anche la politica, che non le supera se non per un impalpabile decimo di punto (1,6%).

distanza tra società e poteri

Eccole, dunque, le giunture che non ci sono. Il grande scollamento tra cittadini e tutto ciò che è politica, istituzioni, poteri. Lo spazio desertificato in cui scorrazza indisturbato il vento di un populismo che mina alle radici la democrazia rappresentativa e, prima ancora, la coesione sociale. Ma di populismi in verità sembrano essercene più di uno perché secondo il Censis anche il potere, per conquistare consenso, tende a rispecchiarsi nella parte di società che segue la pancia più che la testa. Il caso limite è quello di Trump negli Usa ma anche in Italia, osserva Giuseppe De Rita che del Censis è l’eterno ispiratore, non sembra esserci volontà o capacità di una politica diversa. Col rischio che «alla fine vada in scena un derby tra populisti che finisce per forza con la vittoria di un populista».

Ma com’è successo che tra società e poteri economici e politici si sia prodotta una tale distanza? Che in un paese connotato da decenni di vitale dialettica democratica non ci siano quasi più istituzioni e organizzazioni che godano di una fiducia sufficiente ad essere ritenuti interlocutori credibili da parte dei cittadini interessati a far pesare interessi non solo particolaristici? E da dove viene la crisi profonda di tutti o quasi i corpi intermedi e di tutte le rappresentanze? Ci sono, certo, gli effetti di una lunga stagione di rifiuto, da parte del potere, di ogni «intermediazione», alla ricerca di un rapporto diretto – più semplice, più efficace, e soprattutto foriero di consensi non spartibili con altri attori – con i cittadini. E poi il risultato di istituzioni da un lato svuotate del loro ruolo di intermediazione con la società da una politica che le ha asservite o le ha rese povere e quindi impotenti, dall’altro travolte per loro colpa dalla corruzione, da perverse porosità alle pressioni e agli interessi di pochi, da mix indigeribili tra inefficienze e privilegi.

un corpo sociale attivo e reattivo

Ma c’è anche un’altra narrazione, nel cinquantesimo Rapporto Censis. Che permette di riproporre, insieme alle inquietudini, anche un filo di ottimismo. Come il Censis ha del resto sempre fatto, nelle sue annuali analisi tese ad offrire al Paese una sorta di «autocoscienza collettiva».

La distanza tra società e poteri nasce anche dal fatto che il «corpo sociale» sareb- be stato capace, pur all’interno di una crisi stremante, di reagire in modo molecolare alle difficoltà, di inventare rimedi alla disoccupazione, di far leva sulle proprie risorse per trovare altri redditi, di realizzare forme inedite di sharing economy utilizzando anche i vantaggi della disintermediazione offerti dalle nuove tecnologie. Le case e i terreni che smettono di essere beni rifugio per diventare struttu- re ricettive extralberghiere, bad and bre- akfast, stanze in affitto, agriturismi. I bassi salari e le basse pensioni che vengono integrate a via di lavori e lavoretti tra il chiaro e il sommerso. La disoccupazione che viene contrastata utilizzando le opportunità del territorio e i supporti delle reti di prossimità. Le spese che vengono messe sotto controllo anche con ricicli, riusi, e-commerce, economia solidale. Le famiglie che rimediano all’impoverimento del welfare con nuovi comportamenti e nuove solidarietà. Il risparmio – e perfino l’anticipo delle eredità – che risolvono problemi di figli e nipoti. Un corpo sociale così attivo e reattivo, così capace di continuare per la sua strada nonostante tutto, così adattivo e creativo, è orgoglioso della sua tenuta e proprio per questo ha maturato una sempre maggiore distanza da istituzioni, partiti politici, sindacati, istituti di credito, sistemi di welfare incapaci di sostenerlo e di supportarlo. Oltre che, s’intende, di cambiare la situazione.

il sommerso di oggi

De Rita, in verità, ammette che l’informale, il flessibile, il sommerso oggi non funzionano più come negli anni Settanta, quando dettero luogo a nuove forme di sviluppo industriale ed imprenditoriale delocalizzato. Il sommerso di oggi è piut- tosto una forma di difesa, un fenomeno più statico che evolutivo, e senza «sistemici orientamenti di sviluppo». Basti pensare all’accumulo, dal 2007 a oggi, di una massa di denaro liquido pari a 114,3 miliardi di Euro che resta nelle cassette di sicurezza senza venire utilizzato in investimenti di lungo respiro. Senza produrre, quindi, nuova ricchezza, e tantomeno nuovo sviluppo. Un paese rentier che non investendo non costruisce futuro? Tutto ciò consente però di restare a galla, e sarebbe proprio la percezione di farcela nonostante tutto ad alimentare il diffuso di- sprezzo per una politica che invece guarda solo a se stessa, e che viene ritenuta incapace di strategie di successo. Perché condizionata dai vincoli europei, perché senza possibilità di incidere sulla globa- lizzazione economica e sull’immigrazione globale, perché senza coraggio e senza idee. Una casta, insomma, si tratti di politici, manager pubblici, grandi imprese, banche.

lavoro e welfare

C’è del vero, in questa narrazione tinta di ottimismo delle capacità del corpo sociale italiano di «ruminare» anche le peggiori difficoltà, metabolizzando criticità e novità e inventandosi modi nuovi di essere anche nelle peggiori emergenze, dai terremoti alle migrazioni. E c’è del vero anche nella segnalazione dei successi che pure continuano ad esserci, nell’export, nel manifatturiero, nella filiera agricolo- alimentare e in quella del lusso, nel turismo, in un made in Italy attrattivo in tan- te parti del mondo. E tuttavia è proprio la descrizione di tutto un insieme di fe- nomeni, soprattutto nei capitoli dedicati al lavoro e al welfare, a sbattere sul tavolo la crudezza di ciò che avviene e l’impossibilità, al momento, di uscirne per la porta principale. La disoccupazione è diminuita, tra il 2014 e il 2015 c’è stato il recupero di 186.000 occupati, gli incentivi e le detrazioni fiscali del Jobs Act hanno «fatto fibrillare il mercato del lavoro». Ma non si tratta di nuovo sviluppo, e neppure di incremento della ricchezza collettiva. Sono per lo più lavori di bassa produttività, di modesta professionalità, di breve durata, lo dicono i 277 milioni di contratti di lavoro stipulati tra il 2008 e il 2015 (pari a 83 contratti medi pro capite, tanti di pochi mesi e perfino di pochi giorni) e i 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. Ad essere particolarmente penalizzate, in questo quadro di mancato sviluppo, sono le figure professionali di livello medio-alto, i quadri, i tecnici, gli impiegati che non trovano lavoro nell’industria e nei servizi del privato e a cui è stata chiusa, causa spending review e innalzamento dell’età di pensionamento, la porta di accesso al settore pubblico. Con una sofferenza diffusa, quindi, oltre che dei giovani diplomati e laureati, anche di una parte importante del ceto medio che dall’impoverimento dei suoi figli rispetto ai coetanei di venti e trent’anni fa trae un’insicurezza profonda, foriera di comportamenti adattivi o conservativi. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non crescerà nei prossimi anni, il 57% è certo che figli e nipoti non vivranno meglio di loro, tutti temono che senza un nuovo sviluppo l’area delle professioni e del lavoro esperto subirà senza possibilità di recupero gli effetti di spiazzamento delle tecnologie digitali che fagocitano intere procedure, meccanismi di controllo e processi decisionali.

un paese economicamente fermo

Un paese che non fa figli. Un paese che non prepara il suo futuro. Un paese che penalizza i millennials, nati tra gli ultimi anni del secolo passato e i primi del nuovo, che hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, si sposano poco e mettono al mondo pochi figli, passano gli anni delle migliori energie nell’attesa di cambiamenti che non si vedono. La loro insicurezza si moltiplica in quella dei genitori. All’insicurezza diffusa contribuisce del resto anche l’incessante indebolirsi delle tutele dai rischi, assicurate un tempo dal welfare. Esemplare il caso della sanità. Sono 11 milioni gli italiani che nel 2016 hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie di vario tipo, odontoiatriche, specialistiche, diagnostiche. Il rientro dal disavanzo della spesa sanitaria tra il 2009 e il 2014 (da 3,5 miliardi a 275 milioni di euro) è stato pagato dagli utenti, con un incremento della spesa privata del 34,8%, pari ormai al 24% dell’intera spesa sanitaria. Mentre, nello stesso periodo, sono aumentate del 74,4% anche le spese di compartecipazione, cioè dei ticket sanitari e farmaceutici, e sono diminuiti i posti letto, dagli 11,7 milioni del 2009 ai 9,5 del 2014.

Dati noti, e dinamiche note. Che il Censis richiama per spiegare perché il nostro Paese si è seduto, perché non investe, perché accumula risparmio solo al fine di difendersi dall’insicurezza e di far galleggiare i propri figli. Un richiamo in puro spirito keynesiano al fatto che parlare di welfare non è parlare solo di assistenza e di solidarietà ma anche di sviluppo. Già, ma qual è la via maestra per uscirne? Su quali priorità, con quali strategie si dovrebbero ricostruire le giunture andate perdute? E dove sono gli attori politici capaci di farlo?
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Rocca 1 gennaio 2017
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Aumentano le diseguaglianze intergenerazionali
«La ripartenza? Solo per pochi. Troppe disuguaglianze e Sud al palo»
Intervista. L’ex ministro e inventore del Bes Enrico Giovannini: il benessere italiano è ancora inferirore ai livelli pre-crisi

Angelo Mastrandrea su il manifesto online EDIZIONE DEL 15.12.2016

«L’Italia sta ripartendo? Sì, se ci si basa solo sugli indicatori economici. Ma il benessere italiano è ancora lontano dai livelli del 2009, prima della crisi». Ex presidente dell’Istat e ministro del Lavoro nel governo guidato da Enrico Letta, Enrico Giovannini è l’inventore del Bes, un indice unico al mondo che misura il grado di benessere dei cittadini e non solo la ricchezza complessiva. Complementare al Pil, più che sostitutivo, ma fondamentale per comprendere più a fondo la società italiana, anche se «alcuni indicatori andrebbero resi più tempestivi, come già accade per il Pil», sostiene. «Fin da quando lavoravo all’Ocse, mi sono battuto contro la cultura del numero unico sulla quale si basa il Pil», dice. Invece, «bisogna accettare la complessità», dunque la possibilità che «alcuni parametri migliorino e altri no» o che il benessere possa essere distribuito a macchia di leopardo, perfino all’interno della stessa città. Come portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile (Asvis), Giovannini è pure soddisfatto del fatto che l’Istat per la prima volta abbia adottato degli indicatori di sviluppo sostenibile, ascoltando i suggerimenti delle Nazioni Unite, «anche se avrebbero potuti essere noti prima perché fossero utilizzati per la legge di bilancio appena approvata».

Insomma, professor Giovannini, il Paese sta ripartendo e molti cittadini non se ne sono accorti?

Se ci si basa sui normali indici economici, questi dicono che c’è una ripresa, ma è contenuta e non compensa affatto gli anni della crisi. Se andiamo a guardare bene, notiamo che siamo ancora ben al di sotto dei valori del 2009. Le piccole variazioni che ci sono state non bastano a recuperare il terreno perduto. A questo va aggiunto l’aumento delle disuguaglianze, che sono fortissime.

Che tipo di disuguaglianze?

Soprattutto quelle intergenerazionali, tra gruppi sociali e territoriali. Un piccolo aumento dell’occupazione non basta a certo a compensare il divario.

Vuol dire che i giovani stanno decisamente peggio dei loro genitori e nonni e il Sud peggio del Nord?

Sì per quanto riguarda il primo punto, non necessariamente per il secondo. Ci sono aree del Nord Italia che non stanno messe meglio del Mezzogiorno, ad esempio alcune periferie di grandi città.

È il tema che si pone all’attenzione della politica pure nel resto dell’Europa e sta mettendo in crisi le élite continentali, a vantaggio dei populismi.

Certo. Se leggiamo il rapporto dell’Istat sulla soddisfazione di vita delle persone, pubblicato di recente, notiamo che esiste un forte disagio in molte città a causa del peggioramento dei servizi di trasporto. In questo caso è la qualità della vita a peggiorare, perché tutti odiano il tempo trascorso su bus, treni locali, tram e metropolitane.

Una delle poche novità, forse l’unica, del neonato governo Gentiloni è il ritorno di un ministero che dovrà occuparsi del Mezzogiorno. Senza voler scomodare la vecchia «questione meridionale», la considera una scelta che va nella giusta direzione, ossia di una riduzione del divario tra il Nord e il Sud dell’Italia?

È un segnale di attenzione, soprattutto se si pensa all’attuazione della programmazione dei nuovi fondi strutturali europei 2014-2021. Ora si tratta di realizzare il processo che abbiamo cominciato con il governo Letta e una regia centrale può spingere perché vengano utilizzati, anche se poi il compito spetta soprattutto alle regioni. Spendere questi soldi è un’assoluta necessità, perché solo in questo modo si può creare una massa critica che non si riuscirebbe a realizzare a causa dei vincoli di bilancio. Se non lo si fa, non si può nemmeno immaginare quel salto di qualità di cui abbiamo bisogno.

In ogni modo, il Sud rimane fanalino di coda in numerosi parametri.

Tutti i dati contenuti nel rapporto mostrano come il divario con il resto dell’Italia sia inaccettabile. Faccio un solo esempio: gli asili nido, che sono un elemento cruciale per la crescita delle disuguaglianze tra donne e uomini. Anche nel resto d’Europa ci sono aree che sono indietro e che stanno recuperando, penso alla Polonia. Se in Italia non riusciamo a far crescere il nostro meridione non di qualche zero virgola ma di diversi punti percentuali, non risolveremo il problema e l’intero paese non beneficerà neppure dell’effetto di trascinamento di questa crescita.

Il dossier sul Benessere equo e sostenibile dipinge un quadro non univoco. Non tutti i dati sono terribili. Come va interpretato, secondo lei?

La realtà non può essere sintetizzata in un singolo numero: lei la guiderebbe un’automobile che le indica solo la velocità e poi magari la lascia senza benzina? Quello del numero unico è un riflesso condizionato della cultura del Pil, contro la quale mi batto da tempo. Bisogna accettare la complessità e rendersi conto che alcune condizioni migliorano e altre no. Il quadro che emerge non è però contraddittorio: nonostante alcuni segnali positivi, è evidente che complessivamente la situazione del benessere è lontana dai livelli pre-crisi. Considerando la crescita delle disuguaglianze, i miglioramenti non sono percepibili allo stesso modo da tutta la popolazione.
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Enrico Giovannini
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Il Belpaese, società dell’incertezza permanente
Rapporto Bes/Istat. Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese in cui si parla di “benessere soggettivo”. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa

di Roberto Ciccarelli, su il manifesto EDIZIONE DEL 15.12.2016

Dal quarto rapporto sul benessere equo e sostenibile (Bes) dell’Istat emerge un paese ambivalente dove cresce il «benessere soggettivo» e l’incertezza per il futuro. Più che il timore di un peggioramento, cresce la quota di chi ritiene di vivere in una società dell’incertezza rispetto a quanto accadrà domani.

UN PAESE DIVISO I 130 indicatori del rapporto fotografano le diseguaglianze territoriali tra Centro-Nord e Sud. Nell’ultimo anno al Nord e al Centro è stato registrato un miglioramento nella gestione dell’ambiente, nella salute dei cittadini e nell’istruzione, mentre negli altri «domini» (sono dodici in tutto), come la «qualità dei servizi», il benessere economico o la sicurezza, si sta tornando ai livelli del 2010, l’ultimo anno di relativa stabilità prima che la crisi iniziasse a mordere davvero. Fatta eccezione per la qualità del lavoro, non a caso. Nel Mezzogiorno, invece, il 2010 è un anno lontano. Pesano condizioni economiche compromesse, peggiora la qualità del lavoro, insieme a un altro criterio dalla forte valenza simbolica: la «soddisfazione per la vita».

PARTECIPAZIONE La sfiducia rispetto ai partiti e alle istituzioni è alta, anche se quest’anno l’Istat sostiene di avere «avvertito» un’inversione di tendenza rispetto al Parlamento, al sistema giudiziario o alle istituzioni locali. «Ma il clima resta negativo», precisa. La partecipazione politica e civica è diminuita (dal 66,4% al 63,1%) nel 2015. In questo caso non esiste una differenza tra Nord e Sud: l’abbandono è diffuso, senza distinzioni territoriali. Interessa uomini e donne di tutte le fasce d’età e si fa sentire in particolare tra i 35 e i 59 anni.

Resta ancora stabile la quota delle persone che sostengono di svolgere attività sociali e partecipano a reti informali: l’81,7% degli interpellati conta su una rete potenziale di aiuto, il 14,8% ha finanziato associazioni, il 10,7% svolge attività di volontariato. Dal 2013, anno elettorale che ha segnato un’inversione di tendenza della presenza femminile negli organi legislativi ed esecutivi, è stato registrato un miglioramento della partecipazione delle donne alla vita istituzionale. Oggi la loro rappresentanza nel Parlamento europeo tocca il 37%, nel 2009 era il 35%. A livello nazionale supera la quota del 30%, un aumento di dieci punti dal 2009.

GIOVANI NEET Il peso delle diseguaglianze si fa sentire nell’accesso all’istruzione, al mercato del lavoro e all’economia della conoscenza. Il divario territoriale tra Nord e Sud è tradizionalmente stabile. Il tasso di abbandono scolastico è in diminuzione a livello nazionale: 14,7% nel 2015, ben al di sopra della media Ue (11%). La situazione assume tutta la sua gravità vista dai territori. L’abbandono si è attestato all’11,6% nel Centro-Nord e al 19,2% nel Mezzogiorno, dove la quota dei Neet – i ragazzi tra i 15 e i 24 anni che non studiano né lavorano – è al 35,3%. Quasi doppia rispetto al Nord (18,4%).

Con la trasformazione dell’università nell’esamificio del «3+2» e l’enfasi sulla professionalizzazione dell’istruzione secondaria, il nostro paese è riuscito a ridurre solo leggermente il basso tasso di istruzione diffuso. Tra il 2004 e il 2015 è cresciuta la quota di persone tra i 25 e i 64 anni con un diploma superiore (al 59,9%, +11%) e quella tra i 30 e i 34 anni con una laurea (25,3%, +10%).

DIPLOMATI E LAUREATI Rispetto alle medie europee, resta l’abisso. La quota di 25-64enni con almeno il diploma è di oltre 16 punti inferiore alle media europea, così come il tasso d’istruzione terziaria dei giovani 30-34enni è inferiore di oltre 13 punti e ancora molto lontano dall’obiettivo nazionale previsto da Europa 2020 (25-26%). È la prova del fallimento della ventennale strategia neoliberale che ha inteso aumentare il numero dei laureati. Oggi assistiamo a un fenomeno imprevisto per i «riformatori» del sistema: il calo degli iscritti all’università. Tra i pochi risultati positivi c’è la partecipazione alla scuola dell’infanzia che supera il 92% per i bambini tra i 4 e i 5 anni, una delle più alte in Europa.

Il taglio di 8 miliardi alla scuola e di 1,1 all’università, voluto dal governo Berlusconi nel 2008, ha prodotto conseguenze devastanti su un sistema dove gli investimenti sulla conoscenza e l’innovazione sono ben al di sotto la media Ue sulla spesa per ricerca e sviluppo, i brevetti, l’occupazione hi-tech e qualificata. Nel 2014 era all’1,38%, in aumento sul 2013, inferiore all’obiettivo dell’1,53%. Una percentuale raggiunta solo al Nord.

SERVIZI PUBBLICI Aumentano le differenze territoriali nell’erogazione dei servizi pubblici. Le politiche di austerità che hanno tagliato i fondi sociali agli enti locali, il blocco del turn-over, hanno inciso sull’offerta dei servizi socio-educativi per la prima infanzia. La spesa impegnata dai comuni è in diminuzione dal 2011. L’obiettivo è garantire il 33% dei posti in strutture pubbliche ogni 100 bambini da 0 a 2 anni.

Il divario fra le regioni del Centro e del Nord e quelle del Mezzogiorno è rilevante. Questo significa che la conciliazione tra i tempi del lavoro e quelli della vita dei genitori diventa sempre più difficile man mano che si scende da Roma in giù.
Nei servizi di pubblica utilità si registra un aumento dei black out in Sicilia: sono state più di cinque nel 2015. Altrove ci sono state 2,4 interruzioni dell’elettricità per utente, erano due nel 2014.

BENI CULTURALI I tagli hanno inciso anche sulla capacità di gestire i beni culturali in un paese che conserva il primato nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco per numero di beni iscritti: 51, pari al 4,8% del totale. La spesa pubblica destinata alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio culturale continua a diminuire: dallo 0,3% del 2009 allo 0,2% del 2015.

Cresce – a dispetto della crisi dell’edilizia – l’abusivismo. Nel 2015 sono state realizzate venti costruzioni abusive ogni 100 autorizzate, contro le 17,6 dell’anno precedente e le 9,3 del 2008. Cresce anche la percezione del degrado paesaggistico: il 22,1% nel 2015 contro il 20,1% dell’anno precedente. E si registra anche il fenomeno opposto: diminuiscono gli italiani che considerano l’abusivismo tra i principali fattori della rovina del paesaggio: 15,7% nel 2015, 17,1% nel 2014.

SALUTE Il Belpaese resta uno dei paesi più longevi d’Europa, anche se la speranza di vita è sotto la media europea. Diminuisce l’età media, da 82,6 a 82,3 anni. L’aumento della mortalità ha fatto discutere. Per l’Istat le cause sono dovute a una combinazione di elementi: oscillazioni demografiche e fattori congiunturali di natura epidemiologica e ambientale che hanno comportato un aumento dei decessi nella popolazione più anziana. Lo stesso fenomeno è stato registrato in altri paesi europei.

L’incremento della mortalità non ha avuto conseguenze sulla qualità degli anni da vivere. Resta da capire come vivere i prossimi anni in uno dei paesi più diseguali d’Europa.

E’ online il manifestosardo 228

pintor il manifesto sardo Il numero 228 de il manifesto sardo è online.
Il sommario
La vittoria del NO (Marco Ligas), Il cerchio magico (Graziano Pintori), Il NO sardo. Una sentenza di condanna ampia, ma nessun dorma (Claudia Zuncheddu), Bombe ecologiche ad Alghero (Stefano Deliperi), I giovani, Marx e il lavoro (Amedeo Spagnuolo), Le varie forme del capitalismo: pregi e difetti (Gianfranco Sabattini), La Sinistra sarda risorgerà come l’araba fenice? (Andrea Pubusa), Via libera all’aggiornamento del Piano Regionale Gestione Rifiuti Urbani e all’inceneritore di Tossilo (Red).
foto Chiara Caredda il manif sardoFoto su “il manifesto sardo” è di Chiara Caredda

Oggi venerdì 16 dicembre 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghdemocraziaoggiGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413
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SA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2016

Santa Croce acquerelloSA NOVENA DE PASCH’E NADALE 2016, dae su 16 a su 24 de custu mese, donnia die, in sa cresia de Santa Creu (Santa Croce) de Casteddu (via Corte d’Appello 44, bastione Santa Croce, h 17,30, Chiesa di Santa Croce, sopra l’omonimo bastione, nel quartiere Castello di Cagliari, nell’illustrazione). Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia alla voce PUBBLICAZIONI. Puoi seguire nello stesso sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni alla voce VIDEO.

Con l’avvicinarsi del Natale, fervono i preparativi per la tradizionale novena, che avrà inizio il 16 dicembre e si protrarrà ogni sera fino al 24 dicembre, vigilia di Natale. Seguendo una tradizione ormai decennale, anche quest’anno in diverse parrocchie dell’isola, la novena verrà celebrata in lingua sarda, seguendo il rito gregoriano. Si tratta di un’iniziativa inaugurata ormai da diversi anni nella chiesa di S. Eulalia, con grande partecipazione, e successivamente ripresa in altri centri.

La novità di quest’anno è costituita dal fatto che la novena, a Cagliari, sarà celebrata nella Chiesa di Santa Croce, in via Corte d’Appello 44, a partire dalle ore 17,30, e sarà officiata da mons. Gianfranco Zuncheddu.

La novena in lingua sarda sarà celebrata anche in altri centri. Si ha notizia certa della celebrazione nelle seguenti parrocchie:
1. Serdiana, Parrocchia del SS.mo Salvatore, a partire dalle ore 18,45, celebrata dal parroco don Mario Cugusi.
2. Quartu – Pitz’e Serra, Parrocchia di S. Giovanni Ev., a partire dalle ore 19,30, celebrata dal parroco don Gianfranco Falchi.
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Il testo della ‘Novena de Pasch’e Nadale’ si legge nel sito della Fondazione Sardinia cliccando qui.

Puoi seguire in questo sito anche la novena del 2010 in video ed apprendere musica e canzoni.

Oggi giovedì 15 dicembre 2016

La Scuola Popolare a La Collina mercoledì 14 dicembre 2016 Presentazione del libro. Reportage fotografico della serata di Antonio Medda.
La Scuola Popolare a La Collina 14 dic16
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IL DIBATTITO NELLA SARDEGNA DEL POST REFERENDUM COSTITUZIONALE
- Questa sera alle 19 presso la sede della CSS (Confederazione Sindacale Sarda) in via Roma 72 riunione del Comitato Sardo per il No nel referendum costituzionale, per riflettere sulla situazione politica post referendaria in Italia e in Sardegna. Il Comitato presto cambierà nome per proseguire la sua missione come Comitato di iniziativa costituzionale e statutaria. Appello del Comitato nazionale per il NO
Ripartire dopo la vittoria del NO per una legge elettorale pienamente costituzionale
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democraziaoggiLa Sinistra sarda risorgerà come l’araba fenice?
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.

Cari dirigenti della sinistra sarda,

Un paese sfiduciato. E i giovani sempre meno protagonisti. Quanto va male ma anche i segnali positivi

censis 50rapporto_2016RAPPORTO CENSIS
A chi, a cosa gli italiani danno fiducia
di Fiorella Farinelli, su Rocca 1/2017

E’ nell’ultima pagina, la 546esima del 50° Rapporto Censis, che si spiega quel suo continuo aggirarsi attorno al tema delle «giunture». Le giunture che si sono logorate e smarrite, le giunture che bisogna ricostruire contro i precipizi inquietanti di un populismo distruttivo. A chi, a cosa gli italiani di oggi danno più fiducia? In testa alla classifica ci sono due soggetti molto diversi per funzioni e gestione, e però interpreti entrambi di interessi/valori collettivi, al primo posto le forze dell’ordine col 48,7% di fiducia, al secondo le associazioni di volontariato col 42,5%. Poi, a grande distanza, il 25,1% dei più giovani che credono nelle imprese agricole, segnale di un rinnovato interesse alla terra come nuova opportunità di impiego o di iniziativa imprenditoriale. Seguono un modesto 16,7% per la Chiesa, assai al di sotto del prestigio etico e spirituale di papa Bergoglio (e dimezzato inoltre all’8,8% tra i più giovani), e un ancora più modesto 12,1% per le grandi imprese/grandi marchi che, contrariamente alla vulgata ufficiale, la dice tutta sulle delusioni di tanti rispetto al ruolo giocato per lo sviluppo e per l’occupazione. Più in basso, con una fiducia che scivola al 9,1%, ci sono le istituzioni locali, intese come Comuni (e chissà fin dove si scenderebbe se la si fosse verificata anche per le Regioni). Ancora peggio va per i sindacati, ridotti dai fasti di un tempo a un misero 6,6% e tuttavia in grande vantaggio rispetto ai partiti politici. Ma ciò che colpisce di più è che agli ultimi due posti si trovino non solo le banche (1,5%) che dal 2007 hanno in verità fatto di tutto per meritarlo, ma anche la politica, che non le supera se non per un impalpabile decimo di punto (1,6%).

distanza tra società e poteri

Eccole, dunque, le giunture che non ci sono. Il grande scollamento tra cittadini e tutto ciò che è politica, istituzioni, poteri. Lo spazio desertificato in cui scorrazza indisturbato il vento di un populismo che mina alle radici la democrazia rappresentativa e, prima ancora, la coesione sociale. Ma di populismi in verità sembrano essercene più di uno perché secondo il Censis anche il potere, per conquistare consenso, tende a rispecchiarsi nella parte di società che segue la pancia più che la testa. Il caso limite è quello di Trump negli Usa ma anche in Italia, osserva Giuseppe De Rita che del Censis è l’eterno ispiratore, non sembra esserci volontà o capacità di una politica diversa. Col rischio che «alla fine vada in scena un derby tra populisti che finisce per forza con la vittoria di un populista».

Ma com’è successo che tra società e poteri economici e politici si sia prodotta una tale distanza? Che in un paese connotato da decenni di vitale dialettica democratica non ci siano quasi più istituzioni e organizzazioni che godano di una fiducia sufficiente ad essere ritenuti interlocutori credibili da parte dei cittadini interessati a far pesare interessi non solo particolaristici? E da dove viene la crisi profonda di tutti o quasi i corpi intermedi e di tutte le rappresentanze? Ci sono, certo, gli effetti di una lunga stagione di rifiuto, da parte del potere, di ogni «intermediazione», alla ricerca di un rapporto diretto – più semplice, più efficace, e soprattutto foriero di consensi non spartibili con altri attori – con i cittadini. E poi il risultato di istituzioni da un lato svuotate del loro ruolo di intermediazione con la società da una politica che le ha asservite o le ha rese povere e quindi impotenti, dall’altro travolte per loro colpa dalla corruzione, da perverse porosità alle pressioni e agli interessi di pochi, da mix indigeribili tra inefficienze e privilegi.

un corpo sociale attivo e reattivo

Ma c’è anche un’altra narrazione, nel cinquantesimo Rapporto Censis. Che permette di riproporre, insieme alle inquietudini, anche un filo di ottimismo. Come il Censis ha del resto sempre fatto, nelle sue annuali analisi tese ad offrire al Paese una sorta di «autocoscienza collettiva».

La distanza tra società e poteri nasce anche dal fatto che il «corpo sociale» sareb- be stato capace, pur all’interno di una crisi stremante, di reagire in modo molecolare alle difficoltà, di inventare rimedi alla disoccupazione, di far leva sulle proprie risorse per trovare altri redditi, di realizzare forme inedite di sharing economy utilizzando anche i vantaggi della disintermediazione offerti dalle nuove tecnologie. Le case e i terreni che smettono di essere beni rifugio per diventare struttu- re ricettive extralberghiere, bad and bre- akfast, stanze in affitto, agriturismi. I bassi salari e le basse pensioni che vengono integrate a via di lavori e lavoretti tra il chiaro e il sommerso. La disoccupazione che viene contrastata utilizzando le opportunità del territorio e i supporti delle reti di prossimità. Le spese che vengono messe sotto controllo anche con ricicli, riusi, e-commerce, economia solidale. Le famiglie che rimediano all’impoverimento del welfare con nuovi comportamenti e nuove solidarietà. Il risparmio – e perfino l’anticipo delle eredità – che risolvono problemi di figli e nipoti. Un corpo sociale così attivo e reattivo, così capace di continuare per la sua strada nonostante tutto, così adattivo e creativo, è orgoglioso della sua tenuta e proprio per questo ha maturato una sempre maggiore distanza da istituzioni, partiti politici, sindacati, istituti di credito, sistemi di welfare incapaci di sostenerlo e di supportarlo. Oltre che, s’intende, di cambiare la situazione.

il sommerso di oggi

De Rita, in verità, ammette che l’informale, il flessibile, il sommerso oggi non funzionano più come negli anni Settanta, quando dettero luogo a nuove forme di sviluppo industriale ed imprenditoriale delocalizzato. Il sommerso di oggi è piut- tosto una forma di difesa, un fenomeno più statico che evolutivo, e senza «sistemici orientamenti di sviluppo». Basti pensare all’accumulo, dal 2007 a oggi, di una massa di denaro liquido pari a 114,3 miliardi di Euro che resta nelle cassette di sicurezza senza venire utilizzato in investimenti di lungo respiro. Senza produrre, quindi, nuova ricchezza, e tantomeno nuovo sviluppo. Un paese rentier che non investendo non costruisce futuro? Tutto ciò consente però di restare a galla, e sarebbe proprio la percezione di farcela nonostante tutto ad alimentare il diffuso di- sprezzo per una politica che invece guarda solo a se stessa, e che viene ritenuta incapace di strategie di successo. Perché condizionata dai vincoli europei, perché senza possibilità di incidere sulla globa- lizzazione economica e sull’immigrazione globale, perché senza coraggio e senza idee. Una casta, insomma, si tratti di politici, manager pubblici, grandi imprese, banche.

lavoro e welfare

C’è del vero, in questa narrazione tinta di ottimismo delle capacità del corpo sociale italiano di «ruminare» anche le peggiori difficoltà, metabolizzando criticità e novità e inventandosi modi nuovi di essere anche nelle peggiori emergenze, dai terremoti alle migrazioni. E c’è del vero anche nella segnalazione dei successi che pure continuano ad esserci, nell’export, nel manifatturiero, nella filiera agricolo- alimentare e in quella del lusso, nel turismo, in un made in Italy attrattivo in tan- te parti del mondo. E tuttavia è proprio la descrizione di tutto un insieme di fe- nomeni, soprattutto nei capitoli dedicati al lavoro e al welfare, a sbattere sul tavolo la crudezza di ciò che avviene e l’impossibilità, al momento, di uscirne per la porta principale. La disoccupazione è diminuita, tra il 2014 e il 2015 c’è stato il recupero di 186.000 occupati, gli incentivi e le detrazioni fiscali del Jobs Act hanno «fatto fibrillare il mercato del lavoro». Ma non si tratta di nuovo sviluppo, e neppure di incremento della ricchezza collettiva. Sono per lo più lavori di bassa produttività, di modesta professionalità, di breve durata, lo dicono i 277 milioni di contratti di lavoro stipulati tra il 2008 e il 2015 (pari a 83 contratti medi pro capite, tanti di pochi mesi e perfino di pochi giorni) e i 70 milioni di nuovi voucher emessi nei primi sei mesi del 2016. Ad essere particolarmente penalizzate, in questo quadro di mancato sviluppo, sono le figure professionali di livello medio-alto, i quadri, i tecnici, gli impiegati che non trovano lavoro nell’industria e nei servizi del privato e a cui è stata chiusa, causa spending review e innalzamento dell’età di pensionamento, la porta di accesso al settore pubblico. Con una sofferenza diffusa, quindi, oltre che dei giovani diplomati e laureati, anche di una parte importante del ceto medio che dall’impoverimento dei suoi figli rispetto ai coetanei di venti e trent’anni fa trae un’insicurezza profonda, foriera di comportamenti adattivi o conservativi. Il 61,4% è convinto che il proprio reddito non crescerà nei prossimi anni, il 57% è certo che figli e nipoti non vivranno meglio di loro, tutti temono che senza un nuovo sviluppo l’area delle professioni e del lavoro esperto subirà senza possibilità di recupero gli effetti di spiazzamento delle tecnologie digitali che fagocitano intere procedure, meccanismi di controllo e processi decisionali.

un paese economicamente fermo

Un paese che non fa figli. Un paese che non prepara il suo futuro. Un paese che penalizza i millennials, nati tra gli ultimi anni del secolo passato e i primi del nuovo, che hanno un reddito inferiore del 15,1% rispetto alla media dei cittadini, si sposano poco e mettono al mondo pochi figli, passano gli anni delle migliori energie nell’attesa di cambiamenti che non si vedono. La loro insicurezza si moltiplica in quella dei genitori. All’insicurezza diffusa contribuisce del resto anche l’incessante indebolirsi delle tutele dai rischi, assicurate un tempo dal welfare. Esemplare il caso della sanità. Sono 11 milioni gli italiani che nel 2016 hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie di vario tipo, odontoiatriche, specialistiche, diagnostiche. Il rientro dal disavanzo della spesa sanitaria tra il 2009 e il 2014 (da 3,5 miliardi a 275 milioni di euro) è stato pagato dagli utenti, con un incremento della spesa privata del 34,8%, pari ormai al 24% dell’intera spesa sanitaria. Mentre, nello stesso periodo, sono aumentate del 74,4% anche le spese di compartecipazione, cioè dei ticket sanitari e farmaceutici, e sono diminuiti i posti letto, dagli 11,7 milioni del 2009 ai 9,5 del 2014.

Dati noti, e dinamiche note. Che il Censis richiama per spiegare perché il nostro Paese si è seduto, perché non investe, perché accumula risparmio solo al fine di difendersi dall’insicurezza e di far galleggiare i propri figli. Un richiamo in puro spirito keynesiano al fatto che parlare di welfare non è parlare solo di assistenza e di solidarietà ma anche di sviluppo. Già, ma qual è la via maestra per uscirne? Su quali priorità, con quali strategie si dovrebbero ricostruire le giunture andate perdute? E dove sono gli attori politici capaci di farlo?
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Rocca 1 gennaio 2017

Le Scuole Popolari oggi più che mai. Oggi il dibattito a La Collina

La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
lezione alla scuola popolare 1971Oggi, mercoledì 14 dicembre, sarà presentato a La Collina di Serdiana il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” . Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?

(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)

La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.

Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.

Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.

«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».

Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?

«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».

Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?

«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».

L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?

«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».

Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?

«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
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Scuola Popolare a La Collina 14 dic 16
- La pagina fb dell’evento.
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Scuola: se la salviamo ci salva. Una priorità anche per la Sardegna
La parola chiave sia “cura”, non successo, non competitività, non occupabilità

di Franco Meloni, su Aladinews del 10 ottobre 2016.

Ogni anno all’apertura dell’anno scolastico i media ci ricordano che la scuola italiana non gode di buona salute: molti edifici vetusti e non “a norma”, ritardi burocratici nelle nomine dei docenti, nonché precariato diffuso e instabilità delle sedi per gli stessi, e così via. La situazione della scuola sarda è ancor più preoccupante in relazione ai dati allarmanti della dispersione scolastica. Il Rapporto Crenos 2016 afferma che il tasso di abbandono scolastico è, infatti, tra i più elevanti in Italia, e la percentuale di giovani inattivi, in costante crescita. Nel 2014, il 29,6% dei ragazzi e il 17% delle ragazze in età 18-24 anni ha abbandonato gli studi e oltre il 27% dei giovani tra i 15 e i 24 anni (30,6 per i ragazzi e 24,7% per le ragazze) non studia e non lavora (i c.d. NEET – Not in Education, Employment nor Training ).
A fronte di questa situazione la Regione ha messo in campo nel passato diversi programmi, sostenuti da ingenti finanziamenti (comunitari, governativi, regionali), tutti dimostratisi inefficaci. Speriamo ora nell’ultimo progetto, denominato “Iscol@”, recentemente avviato. Prevede investimenti nell’edilizia scolastica, l’ampliamento dell’offerta formativa e professionale. Avrà durata triennale e i fondi a disposizione ammontano a 358,2 milioni. Il progetto è stato aperto al confronto sul web e in presenza – coinvolgendo cittadini, docenti e famiglie, Agenzie formative, Comuni e altri enti locali – che in qualche modo lo ha migliorato. Allo stato non è possibile un’attendibile valutazione per capire se si è riusciti a escogitare qualcosa di efficace o se si registrerà l’ennesimo fallimento.
Per evitarlo, non ci aiutano certo le politiche di “dimensionamento” degli interventi in materia di utilizzo delle sedi scolastiche stabilite dalla Giunta regionale, laddove per ragioni di risparmio si chiudono le scuole dei piccoli paesi, concentrando le classi in quelli più grossi. Con queste politiche si contribuisce allo spopolamento dei paesi della Sardegna. Più degli amministratori lo hanno capito le mamme dei bambini che si oppongono alla chiusura delle scuole. In tema, l’economista Paolo Savona ha espresso tempo fa un concetto che sembra proprio dar loro ragione, sostenendo che “una buona scuola oggi vale perfino più di una buona azienda per la disseminazione degli effetti positivi che essa crea”.
Ma al di là delle pur importanti rivendicazioni di strutture adeguate e di maggiori risorse per la scuola, con Fiorella Farinelli, giornalista di Rocca, concordiamo che le domande di fondo che tutti dovremmo porci sono altre. “Perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto? Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti? Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini? Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare? E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?”. Allora è necessaria una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni, nel ricupero dei valori che devono informare la scuola. In questa prospettiva “ è «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive”. E in Sardegna c’è spazio e voglia di lavorare in questa direzione? Il progetto Iscol@ può servire allo scopo? Cerchiamo insieme le risposte e teniamo vivo il dibattito.
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E’ on line Rocca del 1° gennaio 2017!
Rocca 1 gennaio 2017