Monthly Archives: novembre 2016
Cagliari, un “amore mio” da coltivare
Domani lunedì 21 novembre, alle ore 17.30, sala conferenze Fondazione di Sardegna, via San Salvatore da Horta 2, Cagliari. La pagina fb dell’associazione.
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L’Associazione culturale Stampaxi, costituita (nel marzo del corrente anno) con lo scopo precipuo di valorizzare la storia, la cultura, le tradizioni, le persone, dello storico quartiere di Stampace, quale parte della città di Cagliari e della Sardegna tutta, apre il nuovo anno sociale 2016-2017 con un Convegno-dibattito sulla città, offrendo per/sulla stessa un terreno di riflessione critica sul suo ruolo in Sardegna, nel Mediterraneo, in Europa. Si tratta di stimolare un confronto tra idee per lo sviluppo della città che non si fermino all’ordinaria amministrazione, ma che invece azzardino nuovi e ambiziosi traguardi. Il dibattito, coordinato dal prof. Aldo Lino, docente del Dipartimento di Architettura dell’Università di Sassari, sarà preceduto da cinque brevi contributi. Nell’ordine i relatori: 1) il prof. Enrico Corti, docente urbanista dell’Università di Cagliari, parlerà delle nuove dimensioni metropolitane della città; 2) la prof. Francesca Cabiddu, economista aziendale dell’Università di Cagliari, parlerà della città accessibile per tutti; 3) il comm. Paolo Fadda, storico e letterato, parlerà della ricerca di nuove linee di sviluppo di Cagliari che trovano origine, ma non limite, nella sua illustre millenaria storia; 4) Francesco Bachis, antropologo dell’Università di Cagliari, musicista e operatore culturale, parlerà dell’importanza del recupero della memoria della città, come presupposto della ricerca delle sue nuove missioni; 5) ed infine la prof.ssa Patrizia Manduchi, docente di Storia dei paesi islamici, dell’Università di Cagliari, proporrà processi di interazione con le “culture altre”, presenti in modi e misure rilevanti nella città, che devono configurare adeguate politiche di accoglienza e di effettiva integrazione.
Il titolo del Convegno-dibattito “Cagliari, un “amore mio” da coltivare, vuole essere un omaggio a una grande donna intellettuale cagliaritana, Cenza Thermes, che alla città dedicò i suoi studi e, in particolare, due bei volumi, intitolandoli proprio “Cagliari Amore mio”, a significare che il futuro della città di Cagliari ha la fortuna di avere un cuore antico.
Impegnati per il NO
Oggi Manifestazione dell’Anpi con il presidente nazionale Carlo Smuraglia. Parla Corinna.
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Foto di Piero Carta, dalla pag. fb.
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- Altro servizio fotografico, sulla pagina fb di Antonio Dessì.
Oggi domenica 20 novembre 2016
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Oggi Carlo Smuraglia a Cagliari per il NO
Il Presidente nazionale dell’Anpi Carlo Smuraglia, oggi domenica 20 novembre a Cagliari. partecipa ad una manifestazione a sostegno del No al referendum del prossimo 4 dicembre, organizzata dal Coordinamento regionale dell’Anpi e dal Comitato provinciale di Cagliari. L’appuntamento è fissato alle ore 10.30 al THotel. Carlo Smuraglia sarà intervistato dal giornalista Vito Biolchini. Pag.fb dell’evento.
ANPI: le ragioni del NO
———————————————————————————————– METTITI NEI MIEI PANNI - Oggi inaugurazione mostra fotografica.
- La pagina fb dell’evento.
Se il talento prendesse forma umana…
La sedia
di Vanni Tola
“L’ultima trasfigurazione di Fernand” è l’ultimo romanzo di Alberto Capitta, in libreria da alcuni giorni. Goffredo Fofi, autorevole critico letterario, indica Capitta come il più originale dei nostri scrittori. Tra le sue pubblicazioni, per la casa editrice Il Maestrale, quattro romanzi. “Creaturine” (finalista al premio Strega nel 2005 e Premio Lo Straniero 2006; “Il cielo nevica” (2007): “Il giardino non esiste” (2008); “Alberi erranti e naufraghi” (2013). L’ultimo romanzo parla dell’arte dell’attore, di un personaggio Ferdinand Lieber, grande protagonista delle scene teatrali, dei suoi trionfi e dell’evoluzione della sua vita. In attesa di leggere il romanzo proponiamo una piccola parte della scheda predisposta dall’editore che, certamente, inviterà alla lettura del romanzo. “Il talento di Ferdinand è la recitazione, una autentica vocazione che gli permette d’inabissarsi nei personaggi fino al limite estremo della trasfigurazione nell’altro da sé”. Il giovane Ferdinand fa presto i conti con la benedetta maledizione di queste metamorfosi”.
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- “L’ultima trasfigurazione di Fernand” (247 pagine, 16 euro, edizioni Il Maestrale).
Oggi sabato 19 novembre 2016
—————————————————————————————————————– Il presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia a Cagliari – La pagina fb dell’evento.———————————————————–
Il referendum lo certifica: l’esperimento politico della giunta sarda di centrosinistra e sovranista è fallito.
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it.
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Nella Costituzione la salute è un diritto fondamentale
di Antonello Murgia su Democraziaoggi.
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La controriforma di Renzi, Boschi Verdini
di PAOLO FLORES D’ARCAIS, su eddiburg del 19 Novembre 2016.
In difesa della COSTITUZIONE. NO nel referendum costituzionale
Il presidente nazionale dell’ANPI Carlo Smuraglia a Cagliari – La pagina fb dell’evento.
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Rischi e certezze sull’affievolimento della specialità regionale sarda nella riforma costituzionale.
di Antonio Dessì su SardegnaPost.
Storie in Trasformazione, di viaggio e migrazione
Si chiude oggi venerdì 18 e domani sabato 19 novembre, nella sala della Fondazione di Sardegna in Via San Salvatore da Horta, la rassegna letteraria Storie in Trasformazione. Due giornate dedicate al tema del viaggio e delle migrazioni con presentazioni di libri, piece teatrali, reading letterari, testimonianze e dibattiti.
- Approfondimenti su il manifesto sardo.
Immigrazioni che fare?
ACCOGLIENZA NUOVI IMMIGRATI
troppi mesi senza far niente
di Fiorella Farinelli, su Rocca.
C’è un’Italia che apre le porte, offre ospitalità e amicizia, contrasta in ogni modo la doppia catastrofe – quella che rifugia da guerre, povertà, disastri ambientali, e quella di un’Europa che innalzando ogni tipo di muro seta perdendo se stessa. E c’è un’Italia che invece strepita, si oppone, grida all’invasione, accusa l’altra di agire solo per sporchi interessi, minaccia e aggredisce. Quando finirà? E, soprattutto, ci sono strategie e politiche, internazionali e nazionali, che possano essere efficaci?
arrivano che fare?
In Italia i profughi arrivati dall’inizio del 2016 sono circa 150mila. Non sono di più di quelli del 2015, e non sono un numero che giustifichi l’uso della parola invasione a fronte dei 5 milioni e rotti di immigrati che negli ultimi venti anni si sono stabilizzati da noi. Quelli che, resistendo alla crisi, oggi lavorano, «fanno impresa» dando talora occupazione anche agli italiani, consumano e pagano le tasse, mandano i figli a scuola (più di 800mila gli studenti stranieri nel 2015), ottengono permessi di soggiorno a tempo indeterminato, e in quote sempre più consistenti anche la cittadinanza.
Non sono un’enormità i 150mila sbarcati quest’anno. Tanto più che i flussi «per lavoro», che in anni recenti sono stati qualche volta anche più di 200mila l’anno stanno diventando dal 2012 un rivolo sempre più sottile, e c’è anche chi, complici le difficoltà occupazionali e il miglioramento, viceversa, delle condizioni di vita nei paesi d’origine, ci è già tornato e ci tornerà, come per esempio albanesi e romeni. Tanto più che da noi le culle sono sempre più vuote, e «loro», i profughi che salviamo dai naufragi, sono solitamente giovani, qualche volta sono addirittura ragazzini (più di 12mila, quest’anno, i «minori stranieri ogni modo la doppia catastrofe – non accompagnati», cioè arrivati da soli). Ma questi argomenti non bastano. Non basta neppure l’impossibilità evidente, per un paese che si allunga nel mare fino a poche centinaia di chilometri dai luoghi delle crisi geopolitiche più acute, di mezzi di contrasto che non siano apertamente violenti. Che cosa dovremmo fare, lasciare che anneghino?
una accoglienza «cauta»
Ma il clima politico si sta facendo di giorno in giorno più arroventato, da noi e in altri paesi ben più solidi del nostro. Anche in Germania, dove l’accoglienza è stata generosa (con 800mila profughi accolti tutti insieme nel 2015) e dove la macchina dell’integrazione funziona assai meglio che da noi, l’insofferenza per questa nuova immigrazione fa tremare la democrazia. Prima il capodanno 2015 di Colonia, ora le risse nei centri sociali di Lipsia – al centro sempre conflitti culturali e comportamentali sul rapporto tra i sessi – si assottiglia ogni giorno di più lo spazio per le retoriche ingenue dell’integrazione facile e di un lineare sviluppo interculturale. Ed è stato il rifiuto dell’immigrazione, venuto non a caso soprattutto dai settori di popolazione più massacrati dalla deindustrializzazione e dalla crescita esponenziale delle diseguaglianze, l’ingrediente più potente della Brexit. Con la tendopoli di Calais, migliaia di profughi sulla sponda francese disposti a tutto pur di riuscire ad attraversare la Manica, a buttare benzina sul fuoco. Che cosa diventerà l’Europa politica, nei prossimi anni? Perfino papa Bergoglio, al ritorno da una Svezia che sta dismettendo il suo mitico Welfare, ha dato voce all’esigenza di un’accoglienza «cauta», che non prometta più di quel che si può ragionevolmente fare in termini di integrazione.
l’integrazione seria e difficile
Questa immigrazione, in effetti, inquieta molto più di altre ondate. L’opinione pubblica italiana, anche la più razionale, sa che molti di quelli che arrivano in Italia ma vorrebbero andare altrove, per il momento non ci riusciranno. Si stanno moltiplicando ovunque, nell’area Ue, i muri materiali e immateriali, e quest’anno sono state solo poche migliaia i «ricollocati» in base agli impegni sottoscritti negli altri paesi dell’Unione. Sa anche che quelli a cui non verrà riconosciuto il diritto a una protezione – i «dinieghi» sono mediamente il 50% delle richieste – si sottrarranno ai decreti di espulsione e resteranno da noi. A fare che cosa? A ingrossare le file dei mendicanti, o quelle della malavita? Anche chi fa parte dell’Italia che accoglie, ha mille inquietudini e mille paure per quello che può succedere. L’integrazione è una cosa seria e difficile, significa alloggi, inserimento nel lavoro, istruzione e qualificazione professionale, uno sviluppo economico che non c’è, legami di amicizia e di solidarietà che richiedono intelligenza sociale e tempo.
chi ci prova
Intanto che si cercano, senza per ora grandi successi, strategie e rapporti internazionali che, determinando nuovi equilibri nei paesi più tormentati da guerre e disastri politici, contengano o esauriscano i flussi, ci sono almeno strategie politiche locali capaci di sostenere una vera integrazione? ll panorama è variegato. Noi ci lamentiamo dell’Europa, dove il programma di ricollocazione è ostacolato o va a rilento, ma anche in Italia il problema sembra analogo. Le Regioni si dividono tra quelle che mugugnano per i piani di distribuzione dei profughi del Ministero degli Interni e quelle che protestano. Lombardia e Veneto gridano a gran voce di avere già dato, altre Regioni, pur accettandoli, stentano a trovare soluzioni efficienti e di lunga gittata. Sono talora i Comuni, presi in mezzo, a inventare le politiche migliori.
È il caso di Riace, la città calabrese dei Bronzi, in cui il Comune è riuscito a trasformare in una potente risorsa di sviluppo un’immigrazione di 6.000 persone, tantissime per un paese di poche migliaia di residenti. Ripopolando un territorio di case e campagne abbandonate dai giovani italiani, con iniziative in agricoltura e nei servizi, dalla raccolta differenziata al parco di ippoterapia per ragazzi disabili. L’abbiamo saputo da Fortune, la rivista americana di business globale fondata all’indomani della crisi del ’29, che ha nominato lo sconosciuto sindaco di Riace tra gli uomini più importanti del mondo, omaggio strameritato a una politica capace di visione del futuro, e di incarnarsi in iniziative concrete di successo.
Tra le eccezioni al mugugno e alla protesta, c’è anche la Regione Basilicata, un altro luogo di Italia da cui i giovani scolarizzati oggi fuggono – come decenni fa fuggirono i contadini poveri – che ha recentemente chiesto allo Stato di poter accogliere il doppio di profughi rispetto ai 1.000 che le sono stati assegnati. Perché, sulla scorta dei 44mila stranieri – il 90% con contratti regolari – che già oggi hanno trovato alloggio e occupazione nei paesi spopolati e nelle campagne abbandonate, ha concreti piani di rilancio economico e di lavoro. Siamo nella terra in cui Eni e Fiat di Melfi mettono in cassa integrazione centinaia tra operai e tecnici, ma le strategie di sviluppo ci sono, e così interessanti da indurre il ricchissimo egiziano Naguib Sawirs, tycoon delle telecomunicazioni, a investire capitali per dare un futuro ai tanti connazionali in fuga dalla povertà del paese d’origine. Meglio un’immigrazione controllata e non infiltrata dall’Isis e dai Fratelli musulmani, meglio un avvenire di lavoro in Basilicata, argomenta Sawirs, che i salari da fame egiziani. Utopie che si sgretoleranno alla prova dei fatti o sensate strategie di sviluppo con giovani disponibili e motivati al lavoro in agricoltura e nei servizi? È un fatto però che queste iniziative non stanno diventando un modello esportabile in altri luoghi del paese, e che nei social infuriano anzi le contrarietà per iniziative non indirizzate agli italiani ma agli stranieri «usurpatori».
salvare la vita non basta
Eppure di tutto ciò, e di molto di più, c’è un bisogno urgente. Se i 150mila, e gli altri che arriveranno, non sono per il momento una realtà numericamente insostenibile per un paese con 60 milioni di abitanti sempre più vecchi e con pochi giovani, è assolutamente evidente che non si può in alcun modo ipotizzare una loro stabilizzazione e integrazione se non nel contesto di politiche nuove, capaci di intrecciare nuovo sviluppo e nuovi dispositivi di inclusione e di inserimento. Chi si occupa dell’accoglienza e perfino chi opera nelle tante scuole di italiano sa bene che si tratta per lo più di persone traumatizzate, disorientate, frustrate. Diverse, per motivazioni ed esperienze, dall’immigrazione per lavoro che abbiamo conosciuto negli ultimi vent’anni. Perfino imparare l’italiano è più difficile per chi si aspettava di dover imparare lo svedese o l’olandese e vede anche in questo il segno tangibile della sconfitta del suo progetto migratorio. Lavoro subito, qualificazione professionale, riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze sono obiettivi da realizzare rapidamente e concretamente. Sono molti – dalla Libia, dall’Africa centrale, dalla Siria, dall’Afghanistan, dall’Iran – i diplomati e i laureati, quelli che hanno interrotto gli studi, i tecnici in informatica, i dentisti, gli ingegneri, gli agronomi. Ci sono anche ragazzi poco scolarizzati, soprattutto dall’Egitto e dall’Eritrea, qualche volta perfino analfabeti nella loro lingua madre, ma insieme a loro i plurilingue che padroneggiano insieme dialetti, lingua araba, inglese o francese, una risorsa importante in un paese come il nostro in cui c’è scarsa familiarità con le lingue straniere.
Ci sono giovani donne coinvolte da esperienze di tratta e di altro tipo che fanno fatica perfino a raccontare, ma anche giornaliste, avvocate, infermiere, ostetriche, medici.
Non si può perdere tempo, non si può lasciare che per mesi e mesi (almeno 6 perché le commissioni verifichino se potranno godere dell’asilo o della protezione, e poi altri mesi ancora per i ricorsi contro i «dinieghi») restino nei luoghi cosiddetti di accoglienza senza far niente, senza avere neppure la possibilità di un lavoro volontario nella gestione del loro funzionamento, senza relazioni con i contesti di arrivo, senza esperienze di vita e di lavoro che diano un senso al loro essere qui. Sono percorsi di estraniamento, questi, non di integrazione. Di dipendenza, non di responsabilizzazione.
Percorsi per di più pericolosissimi perché esposti alla tentazione dell’illegalità e della criminalità organizzata, lo si tocca con mano con i «minori stranieri non accompagnati»: quasi tutti maschi mandati da noi con il compito di trovare il prima possibile e in qualunque modo i soldi da mandare a casa, per recuperare i debiti del viaggio, e per aiutare le famiglie e molto spesso pronti, appena ce n’è l’occasione, a scappare dalle case-famiglia per impigliarsi nelle reti, dei connazionali e degli italiani, per lo spaccio di droghe, la prostituzione, e peggio. Sono circa un terzo – dati del Ministero degli Interni – quelli che dopo qualche mese si volatilizzano senza lasciare traccia di sé.
E non sono molte finora le situazioni capaci di replicare i modelli di accoglienza e di integrazione che, come sta succedendo a Palermo e in Sicilia (dove è accolto oggi il 40% dei ragazzi arrivati da soli), riescono a intrecciare in modo efficace e motivante le risorse della scuola, dell’università, del volontariato, delle amministrazioni locali.
È difficile, certo, ma non impossibile. Salvare la vita non basta, se poi non si riesce a darle un senso positivo che restituisca identità e dignità. Non è solidarietà soltanto, è qualcosa che si deve fare anche per il paese che ospita, per il suo sviluppo economico, per la sua salute civile e democratica. Minacciata non dall’immigrazione, ma soprattutto dall’incapacità di governarla e di integrarla. Passa da qui, e non da improbabili respingimenti di massa su frontiere che in Italia non ci sono, la possibilità di farcela.
Fiorella Farinelli su Rocca n.23/2016
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- Fonte foto Riace.
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Immigrazione in Sardegna: come stanno davvero le cose
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D O S S I E R S TAT I S T I CO I M M I G R A Z I O N E 2 0 1 6
PARTE V I contesti regionali
Sardegna. Rapporto immigrazione 2016 .
Redazione regionale: Maria Tiziana Putzolu
(Centro Studi Relazioni Industriali – Università di Cagliari)
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Oggi venerdì 18 novembre 2016
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Caro Pigliaru, alfine anche per te un giorno da leone (…o da pecora?)
di Amsicora su Democraziaoggi.
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Subalterno e opportunista: grazie al referendum il centrosinistra sardo svela la sua vera identità
Vito Biolchini su vitobiolchini.it
Il patto per Cagliari e l’imbonitore della Fiera
di Giuseppe Andreozzi, su Cagliari Pad
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Il patto sul sito del Governo (link).
- Documento.
- Scheda interventi.
E’ online il manifesto sardo duecentoventisei
Il numero 226 de il manifesto sardo è online.
Il sommario
Non vogliamo tecnocrati: votiamo NO (Marco Ligas), I dubbi e le reticenze che hanno minato sin dall’origine l’accoglimento del messaggio del Manifesto di Ventotene (Gianfranco Sabattini), Il Sì e la perdita dello spirito pubblico (Francesco Cocco), La Costituzione del Caudillo (Graziano Pintori), La Scuola Popolare di Is Mirrionis raccontata in un libro (Ottavio Olita), Parco naturale Santa Gilla, Molentargius e Sella del Diavolo, consueto fumo negli occhi e scarse prospettive di efficace tutela ambientale (Stefano Deliperi), In Europa i partiti di “sinistra” non rappresentano più il lavoro (Vittorio Capecchi), L’America di Donald Trump: ritratto di un mondo in cui tutti sono contro tutti (Loris Campetti), C’è chi sente vertigini (Giulio Angioni), Storie in Trasformazione, di viaggio e migrazione (Red) La scuola a “Badu ‘e Carros” (Amedeo Spagnuolo), 17 Novembre, giornata internazionale degli studenti a Cagliari (Red), Carlo Smuraglia a Cagliari. In difesa della Costituzione, per il No nel referendum (Red), Un No per estendere la democrazia (Andrea Mura), Il NO e le riforme (Marcello Tuveri), International Meeting of Young Independentists (Red).
L’immagine di apertura del nuovo numero è della fotografa Alessandra Cecchetto, Cridàr.
Oggi giovedì 17 novembre 2016
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La scuola nello scasso costituzionale di Renzi
Rosamaria Maggio su Democraziaoggi.
Trump e Trattati commerciali internazionali. La Cina è vicina
La sedia
di Vanni Tola.
Trump e il protezionismo, la rivoluzione nei commerci internazionali?
Ora che Donald Trump è diventato il presidente degli Stati Uniti e fa i conti con un ampio movimento popolare che non intende riconoscerlo come tale, cresce l’attenzione sul suo programma di governo. O meglio ci si interroga su quale e quanta parte degli obiettivi, indicati in campagna elettorale vorrà, dovrà e potrà realizzare. Uno dei temi forti della campagna elettorale del Presidente è stato il protezionismo. Trump ha manifestato esplicitamente di essere contrario agli accordi commerciali vigenti con il Messico e il Canada (Nafta) e con l’Asia (Tpp) e potrebbe mettere la parola fine alle trattative per la riforma dei commerci con l’Europa, assestando un colpo mortale al trattato Ttip, peraltro già in crisi ancora prima delle elezioni americane. Si cambia rotta, dunque. L’obiettivo del Presidente sarà proteggere e sviluppare le attività produttive e il lavoro dell’America prima di ogni altra cosa, con interventi, modalità e procedure ancora da definire o che si vanno delineando. La globalizzazione e l’istituzione di vaste aree di libero scambio, quindi, non saranno più il riferimento principale per gli Stati Uniti. I trattati internazionali diventano per Trump i nemici da battere. Sarebbero loro, a suo parere, gli strumenti di distruzione dell’industria e del lavoro americano. Appare evidente che tali propositi, se realizzati, potrebbero sconvolgere radicalmente il commercio internazionale invertendo i programmi di riorganizzazione degli stessi che i grandi trattati internazionali andavano definendo e perfezionando. Vediamo di comprendere meglio ciò che accade. L’elezione di Trump alla presidenza Usa è letta da molti analisti come la naturale conseguenza del progetto di globalizzazione dell’economia mondiale in atto (guidato dagli Stati Uniti) che sarebbe in crisi già dal lontano 2008. I commerci internazionali, infatti, vivono da allora una fase di crisi costante. Hanno cioè smesso di svolgere quel ruolo di promozione dello sviluppo della crescita che veniva loro attribuito. Da qui era nata la necessità di riconfigurare gli scambi commerciali internazionali con nuovi trattati. Trattati che il “trumpismo” mette seriamente in discussione, con buona pace dell’uscente Presidente Obama che, quei trattati, sperava di concluderli prima della scadenza del proprio mandato. Ci si avvia dunque verso una riedizione del protezionismo come negli anni Trenta? Potrebbe darsi ma non è detto. Non tutto ciò che Trump ha promesso col programma elettorale, potrà tradursi automaticamente in azioni concrete e coerenti col programma presentato. Il neopresidente dovrà, infatti, tenere conto di tanti altri fattori che potrebbero modificare i suoi proponimenti. Uno fra tutti il fatto che le multinazionali americane, che sono state le maggiori beneficiarie della globalizzazione, potrebbero avere molto da perdere da pratiche protezionistiche. Per tale motivo sono già iniziate le grandi manovre delle multinazionali con l’obiettivo palese di indurre il Presidente a rivedere o a contenere certi suoi orientamenti anti globalizzazione. Attraverso il Wall Street Journal, importante quotidiano economico-finanziario, sono state prospettate all’opinione pubblica e allo staff presidenziale, proposte e suggerimenti per “mitigare” lo spirito protezionista del neoeletto. In alternativa allo scontro “totale” contro i paesi concorrenti a colpi di dazi e barriere doganali, autorevoli e accreditati suggeritori del Presidente consigliano di avviare soltanto alcuni interventi mirati a difendere gli interessi americani ma con effetti meno devastanti di un rigido protezionismo diffuso. Per esempio misure anti dumping (strategia con cui i prodotti di un Paese sono immessi in commercio in un altro Paese a un prezzo inferiore al valore normale del prodotto) contro la Cina. Interventi contro i Paesi che praticano concorrenza sleale, la riforma dell’accordo Nafta con Messico e Canada, il rafforzamento degli accordi bilaterali con alcuni paesi maggiormente vicini agli interessi Usa quali Giappone e Regno Unito e la tutela del ruolo che gli Stati Uniti svolgono, in qualità di capo fila della politica dei mercati aperti. Soprattutto si tenta di richiamare l’attenzione di Trump sul fatto che il Tpp (Trans-Pacific Pertnership), l’accordo commerciale tra gli Usa e undici Paesi dell’area dell’oceano Pacifico – che mira alla realizzazione della più estesa area di libero scambio del mondo – è nato con l’obiettivo strategico di arginare la crescente influenza della Cina nell’area Asia-Pacifico. Rinunciare al Tpp quindi potrebbe significare lasciare alla Cina campo libero per i trattati commerciali nell’area asiatica e del Pacifico. Un problema non di poco conto per il neopresidente, uno dei tanti problemi che assillano il nuovo inquilino della Casa Bianca.
Una pedalata per dire NO alla riforma costituzionale
Una pedalata per dire No alla riforma costituzionale
Il Comitato per il NO al referendum costituzionale organizza e invita le cittadine e i cittadini alla Pedalata di NOVEMBRE per dire NO al referendum. L’appuntamento Sabato 19 novembre 2016 ore 10.00 in piazza Yenne (corso Vittorio Emanuele) a Cagliari.
Partenza ore 10.30 – La pagina fb dell’evento.