Monthly Archives: settembre 2016
Memorie
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Il patrimonio documentario del Credito Industriale Sardo, con il recente conferimento all’Archivio di Stato di Cagliari, è ora a disposizione della comunità per fini di studio, di ricerca, di conoscenza e di comunicazione a supporto di progetti di sviluppo locale.
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Migranti
Immigrazione in Sardegna: cosa fare e cosa pensare. Giorgio Altieri, magistrato del Tribunale di Cagliari, analizza sul piano sociale e giuridico l’emergenza umanitaria che l’Occidente ha appena cominciato ad affrontare
Su La Nuova Sardegna del 16 settembre 2016
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Migranti
Immigrazione: problema demografico o economico?
Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi.
Uno dei motivi per cui l’immigrazione costituisce la causa di profondi contrasti a livello politico e di discussione a livello di esperti è il fatto che, per Paesi come l’Italia, ma non solo, può essere considerata secondo prospettive diverse, in relazione a problematiche sociali ed economiche diverse; queste, a volte, vengono affrontate senza considerare i tempi necessari per risolverle con adeguate politiche pubbliche, mentre le discussioni si protraggono senza mai giungere a un qualche punto fermo, scontando tra l’altro in negativo la propensione della classe politica ad essere sempre disponibile a “catturare” un consenso di breve respiro, trascurando la ricerca di soluzioni di medio e lungo periodo.
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Brexit
Proseguiamo con la pubblicazione delle riflessioni di Umberto Allegretti su Brexit e prospettive dell’Unione Europea, scritte per Rocca. Ringraziamo l’Autore e il direttore di Rocca Gino Bulla per averci consentito di riprendere gli articoli, in anteprima rispetto alla disponibilità cartacea della rivista. Rammentiamo che il n. 19 di Rocca è stato chiuso il 16 del corrente mese e che pertanto non da conto delle conclusioni della riunione del Consiglio Europeo di Bratislava, peraltro del tutto deludenti perché insignificanti. Il primo contributo di Umberto è rintracciabile qui; il secondo qui.
La lenta uscita della nave inglese dal porto Europa.
di Umberto Allegretti su Rocca
Ache punto siamo, a metà settembre 2016, nella realizzazione effettiva dell’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, a seguito del referendum britannico del mese di giugno? Apparentemente molto indietro, perché la Gran Bretagna sembra aver rinviato al 2017 la notifica della sua decisione prevista dal Trattato di Lisbona per aprire formalmente il processo di uscita di un membro dall’Unione (ma la data di inizio del processo può dipendere solo dalla Gran Bretagna o l’Unione può agire nello stesso senso?). In realtà idee e comportamenti stanno maturando, e non sembra in una direzione buona.
Il Regno Unito vuol prender tempo nelle trattative stabilite dal Trattato, sia per la complessità dei cambiamenti, non chiari, che l’evento porta con sé, sia (e forse soprattutto) per poter intanto continuare a influire su decisioni europee a cui sia interessato, sia in specie per i timori di un indebolimento di Londra a seguito di eventuali trasferimenti sul continente di centri finanziari importanti (un timore che si è presentato subito ma che non pare ancora verificarsi in misura preoccupante per l’Inghilterra) e sia, infine, per dissensi interni tra i suoi leader e tra le parti costitutive del Regno Unito. L’Unione, a sua volta, dopo varie incertezze e diversità di intenti pare anch’essa accettare la lentezza del processo, per ragioni in parte vicine a quelle britanniche. Intanto, il Regno Unito si sta comportando – giustamente una deputata europea lo ha denunciato – come se la procedura di distacco non fosse iniziata, ma certo è quanto meno scorretto, alla luce dell’art. 50 del Trattato sull’Unione che, avendo già sostanzialmente il popolo e il nuovo governo britannico deciso l’uscita, il Regno Unito continui a occupare, salvo un solo caso di volontarie dimissioni, posti di responsabilità in seno alle istituzioni dell’Unione (e addirittura sottoponga agli organi europei una nuova nomina al posto del commissario dimissionario).
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“Disability Management 2016″
Disability Management: Buone pratiche e prospettive future in Italia, Venerdì 25 novembre 2016, 09:00 – 13:30 Aula Rogers, Facoltà di Architettura – Politecnico di Milano – Via Ampère, 2 – Milano.
- Visita la pagina “Disability Management 2016″, per saperne di più e partecipare all’evento.
Pedalata per il NO
Il Comitato per il NO al referendum costituzionale organizza e invita le cittadine e i cittadini a una Pedalata per dire NO al referendum.
L’appuntamento è Giovedì 29 settembre alle 18.00 in Piazza Giovanni XXIII a Cagliari.
- La pagina fb dell’evento.
Tutti i dettagli - segue -
Impegnati per il NO nel referendum costituzionale. La CGIL per il NO
Il NO con le prime piogge diventa un fiume in piena
Red su Democraziaoggi
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E’ online il manifesto sardo duecentoventidue
Il numero 222 de il manifesto sardo è online.
Il sommario
Accelera la privatizzazione della sanità pubblica in Sardegna (Claudia Zuncheddu), Non si può tagliare il bosco senza autorizzazione paesaggistica. Motoseghe abusive al Marganai (Stefano Deliperi), Il modo errato di concepire il ruolo e la funzione del denaro e la crisi del capitalismo (Gianfranco Sabattini), Eccidio di Bugerru, una domenica di sangue (Paola De Gioannis), Migranti: aiutarli a casa loro? (Gianfranca Fois), Commercio a Cagliari (Roberto Mirasola), Il G20 dell’inconcludenza (Graziano Pintori), Raimondo Manelli, il valente poeta gavoese cantore dei vassallos (Francesco Casula), Da Gerico alla Sardegna: lo sport come ponte tra la Palestina e il mondo (Omar Suboh), Lorenzo, tra satira e cinesica (Bastiana Madau).
La foto è di Chiara Caredda
Francesco Masala
Ricordando Francesco Masala nel centenario della sua nascita.
di Francesco Casula.
A Nughedu San Nicolò (SS) il 17 settembre 1916 nasceva Francesco Masala. Lo voglio ricordare, in occasione del Centenario della sua nascita, con questa nota incentrata sul suo rapporto con la politica e i Partiti italiani.
Masala è stato militante nel PSI prima e nello PSIUP poi.
Nel PSI si iscrisse agli inizi degli anni ’60 per uscirne subito dopo, nel 1964, seguendo l’amico Lussu nel Partito socialista di unità proletaria. Questo Partito nacque in seguito alla scissione del PSI, accusato di aver tradito gli ideali socialisti, dopo l’ingresso nel Governo di centro-sinistra, voluto da Nenni e guidato dal democristiano Aldo Moro.
Nello PSIUP fa parte del Comitato regionale: ma per poco tempo. Inizia infatti a muovere forti critiche alla forma-Partito e ai Partiti italioti in genere al loro rapportarsi con la Sardegna, in forme di colonialismo politico e culturale..
“Presi coscienza – scriverà – che la scissione era stata un’operazione di vertice e, anche e soprattutto, che la dirigenza sarda dello PSIUP (purtroppo tutti figli e nipoti politici di Lussu) nella quasi totalità, altro non era che la filiale isolana della fabbrica politica italiota, cioè si limitava a importare nell’Isola i manufatti politici prodotti in Continente:insomma una grave forma di centralismo burocratico, di colonialismo politico-culturale, senza nessun approfondimento né della Questione sarda né della grande lezione del sardismo lussiano”.
Scrive dunque una lettera a Lussu. Eccone alcuni scampoli: ”I padroni del Partito, cioè i baroni delle tessere, hanno adottato una tattica adoperata in Sardegna già nel periodo dei Nuraghi: i cacciatori nuragici avevano scoperto che, riunendosi in gruppo, potevano cacciare meglio, cioè potevano procurarsi maggior cibo, nei territori di caccia. Naturalmente i moderni cacciatori, a differenza dei clan nuragici, non usano le clave ma le tessere. Esse le tessere contano più di qualunque corretta ideologia…esse le tessere procurano ai baroni un maggior peso e un maggior potere…dentro le riserve di caccia del Partito – continua la lettera – di necessità i clan devono darsi battaglia fra di loro, litigare insomma, per il maggior cibo, su futili pretesti ideologici e senza comprensibili motivazioni politiche: prima si stabilisce di essere contro e poi si inventano le motivazioni per cui si è contro. Così l’ideologia diventa aria fritta, nebbia, catrame e il Partito stesso diventa un cane che si morde la coda. Insomma questi baroni delle tessere fanno come il figlio Giove col padre saturno:per paura di essere divorati dal padre (il Partito), essi i figli espropriano il potere egualitario di tutto il Partito, cioè si divorano il padre. E non basta. I padroni del Partito, oltre a uccidere il padre, ammazzano anche la madre, la Sardegna, distrutta dalla logica del centralismo burocratico italiota. Caro Lussu – conclude Masala – c’è veramente del marcio in Danimarca!”.
Lussu rimase molto male: Masala voleva distruggere, ammazzare la sua creatura prediletta: lo PSIUP sardo. Lussu, rispondendo a Masala che voleva portare al mattatoio tutti gli psiuppini sardi, afferma che li vorrebbe tutti in Consiglio regionale…
Ormai il dissenso fra i due è totale, almeno per quanto atteneva al Partito. Masala riscrive a Lussu un’altra lettera che servirà a aumentare il solco profondo che ormai li separa, non solo in merito al Partito ma anche su altre questioni importanti.
Scrive Masala:
1.Lo PSIUP in Sardegna come tutti gli altri Partiti italioti, è funzionale allo Stato accentratore;
2. L’Italia è uno Stato ma non una Nazione, mentre la Sardegna è una Nazione ma non è uno Stato;
3. La cosiddetta Autonomia è una perfetta Eteronomia;
4. L’esperienza sarda dimostra che lo stato, comunque esso sia è un nemico. Lussu risponde in modo secco e acre, quasi indispettito: in merito allo Stato ma non solo. Il modo in cui rievochi lo Stato – scrive Lussu – fa pensare che tu sia con gli anarchici non con Marx.
Altrettanto secca è la nuova lettera di Masala:”A pensarci bene – scrive – l’ultimo e più felice stadio di una società comunista è l’anarchia, cioè una società di liberi e uguali, senza governanti e governati, senza dominatori e senza dominati, senza vincitori né vinti.
Per conto mio – prosegue Masala – non sono per l’anarchia borghese ma per l’etnia egualitaria, cioè per una comunità etnica che produce beni materiali e culturali da distribuire in parti uguali. Se è vero come è vero che la proprietà privata ha creato il codice per legalizzare e sacralizzare le disuguaglianze, allora è vero che per desacralizzare la proprietà, per decodificare lo Stato è necessario ritornare alle etnie egualitarie.
Inoltre Masala, pur sapendo che Lussu come una malabestia odiava il separatismo, conclude la lettera affermando che: ”A pensarci proprio bene l’Italia non è la nostra madrepatria ma è la nostra matrigna e non è più una donna giovane e bella, con la corona in testa, come appare nelle carte bollate postrisorgimentali, ma è una vecchia che puzza, non c’è quindi da addolorarci molto se l’etnia sarda comincia a prendere le distanze da questa salma”.
A questo punto la polemica epistolare fra Lussu e Masala si interrompe. Anche perché in una ultima, provocatoria e “cattiva” lettera Masala ricorda a Lussu alcune posizioni del passato che a suo dire sarebbero in contraddizione con quelle del presente. In modo particolare un articolo contro le leggi antiebraiche in Italia, pubblicato in Giustizia e Libertà del 21-10-1940, in cui il cavaliere dei Rossomori aveva parlato di “Repubblica sarda indipendente”.
Nonostante le scaramucce epistolari rimarrà comunque intatta la stima e l’ammirazione di Masala nei confronti di Lussu.
Dopo l’esperienza politica nello PSIUP Masala – è lui stesso a sottolinearlo più volte – non aderirà più ad alcun Partito politico e sarà un libero “cane sciolto”. Con l’esplosione del Movimento del ’68 simpatizzerà con gli studenti e gli extraparlamentari ma anche a loro rimprovererà forme di colonialismo politico: con l’importazione in Sardegna di gruppi e gruppuscoli da Milano e altre città italiane e relativi programmi e proposte.
La sua battaglia politico-culturale (scriverà oltre saggi, romanzi, poesie, moltissimi articoli su Quotidiani e riviste, in modo particolare nel periodico Nazione sarda, con Lilliu, Eliseo Spiga, Antonello Satta, Elisa Nivola) sarà sempre più incentrata nella difesa della lingua sarda e dunque nella rivendicazione del Bilinguismo perfetto. Lingua sarda – me lo ripeteva fino all’ossessione – la cui salvezza e salvaguardia dipendeva soprattutto dal suo insegnamento, come materia curriculare, nelle scuole di ogni ordine e grado.
Non aderirà neppure ai Movimenti e Partiti indipendentisti: pur essendo ormai la sua posizione di critica radicale all’Italia (un cadavere che puzza) da cui dunque occorreva allontanarsi al più presto.
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Cento anni fa nasceva Francesco Masala, l’uomo che combatté la petrolchimica con la forza della poesia
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it.
La Scuola al primo posto
TUTTA UN’ALTRA SCUOLA
cosa non va nella scuola italiana?
Fiorella Farinelli su Rocca
Fine settimana di metà settembre a Vaiano, qualche chilometro da Prato. Una «Festa-convegno della scuola che cambia», ospitata nell’istituto comprensivo della cittadina. Una giovane preside che parla di Barbiana e Don Milani come fossero ancora tra noi a denunciare quella scuola di tanti anni fa (ma per certi versi non è ancora così?) troppo simile a un ospedale che accoglie i sani e respinge i malati. Tanti gli insegnanti e tantissimi i genitori, bambini e passeggini a rallegrare ogni angolo. Le attività sono anche outdoor e si espandono in cerchi concentrici, due piazze, una sopravvissuta Casa del Popolo, una Badia, un giardino pubblico, spazi all’aperto e al chiuso dedicati a una miriade di laboratori, gruppi di lavoro, seminari, giochi per adulti e per bambini, atelier di teatro e manualità varie. Si capisce subito che l’evento è speciale anche perché coinvolge l’intera comunità locale, e il suo sindaco. Ma la cifra più interessante è che non si tratta solo di idee ma anche di azioni. Non solo di progetti ma anche di esperienze. Non solo di denunce ma anche di proposte. A tenerle insieme il gomitolo multicolore di un ambientalismo giovane, positivo e produttivo – dovunque in vendita prdotti locali rigorosamente bio – cui si intrecciano innamoramenti e mode culturali che guardano a orizzonti più vasti. Le filosofie orientali e l’India, yoga e animalismo, meditazione e buddhismo. A promuovere il tutto, attraendo esperienze e pensieri da Padova a Scampia, è l’associazione toscana TerraNuova-Pensa e Vivi Ecologico, forte di numerosi rapporti con associazioni culturali e sociali di mezza Italia, e con i più diversi progetti di sviluppo civico e per la qualità ambientale. Ma tra i tanti laboratori per il risparmio energetico, il riciclo degli scarti, l’olio di oliva che diventa sapone, la cardatura della lana, come costruirsi un pannellino solare per ricaricare i cellulari, spiccano anche temi e protagonisti di un mondo educativo, non solo scolastico, che costruisce e ricostruisce instancabilmente quello che nel nostro sistema di istruzione sembra oggi più a rischio. L’originalità didattica, la passione pedagogica, la centralità delle persone e delle libertà individuali, i metodi e i percorsi di una scuola orientata alla cooperazione più che alla competitività, l’apprendimento che scalda i cuori dissolvendo conformismi e vincoli burocratici, un crescere insieme – e reciprocamente – tra scuole e comunità. Cultura, identità, locale e globale.
paradigmi educativi altri
Perché il titolo dell’evento è in verità «Tutta un’altra scuola», la ricerca dunque di altri o alternativi paradigmi educativi. C’è la Rete Senza Zaino degli studenti impegnati in progetti di scuole liberate da oneri e vincoli impropri, ma anche le storiche esperienze del riformismo fiorentino di Scuola-Città Pestalozzi. C’è l’Alice Project che non ha mai attecchito nella scuola pubblica italiana trovando invece il suo habitat in una lontana regione dell’India, ma portano contributi anche le sempre-verdi scuole montessoriane e le sempre più apprezzate steineriane. Non mancano le suggestioni anglosassoni dell’homeschooling, gli «asili nei boschi» d’ispirazione tedesca, il consueto e irrisolto dibattito su digitale sì-digitale no, cui si alternano le riflessioni da una università di Milano sulla «contro educazione», gli stimoli delle edizioni Erickson dedicate alle nuove tecnologie didattiche, e persino qualche progetto d’avanguardia firmato Confindustria. A discuterne in modi formali e informali, un singolare mix di educatori di strada arrivati da Napoli e di operatori della formazione professionale che lavorano invece a Bologna, esperti di cose scolastiche coi capelli grigi e giovani insegnanti alle prese con i minori stranieri non accompagnati approdati in Sicilia, pedagogisti libertari e studenti con domande spesso più difficili delle risposte.
pensiero e azione
Un menù così denso e variegato da far dubitare che se ne possa venire a capo. Ma un punto fermo c’è, nel «Tutta un’altra scuola» di Vaiano. È evidente che i temi dell’educazione non possono essere sequestrati dai soli addetti ai lavori, politici o operatori che siano, e che l’esigenza di metterli a fuoco per individuare e pratica- re le soluzioni è tanto più pressante dove – come, appunto, nel mondo ambientalista che analizza i guasti di un modello di sviluppo insano – ci si misura con il cosa e il come fare per uscirne. Una sfida che, nel caso dell’ambientalismo ma non solo, richiede politiche pubbliche bene orientate ma anche stili diversi di vita e diversi comportamenti individuali. Quindi informazione, formazione, apprendimenti cognitivi e valoriali. Partecipazione democratica, certo, ma anche interiorizzazione di una nuova etica fatta di responsabilità civile. Sta qui, e non altrove, la centralità dell’educazione, non solo scolastica. Una strategia intelligente, una promettente combinazione di pensiero e azione. Che siano soprattutto qui – nell’ormai diffusa rinuncia ad avere e costruire collettivamente una qualche idea di trasformazione del mondo, e quindi di trasformazione delle mentalità – le ragioni più profonde della straordinaria povertà culturale e politica che ormai da tempo caratterizza il dibattito italiano sui temi dell’educazione? C’è da chiederselo perché è evidente che non è possibile discutere di contenuti culturali, di altri metodi di insegnamento/ apprendimento, di nuovi obiettivi dell’istruzione e della formazione senza porsi il problema di ridefinire mete e modelli di società, e direzioni di marcia per realizzarli. E perché non si può sapere che fare della scuola e nella scuola senza ridiscutere i profili auspicabili di una cittadinanza attiva e responsabile – e misurarsi su cosa serve per formarli. Saranno le tante «Tutta un’altra scuola» del nostro paese a rimettere prima o poi le cose con i piedi per terra?
Risulta chiaro, intanto, che per farlo occorre una buona dose di coraggio e di laicità culturale. E un buon senso capace di sfidare il conformismo del senso comune. Che in effetti si profila in modo netto nella conferenza dedicata a un tema tra i più classici della discussione scolastico-educativa. La dispersione, e i tanti perché degli abbandoni scolastici precoci. Una patologia in calo nel nostro paese ma ancora troppo consistente con il suo 19-20 per cento di ragazzi che escono dai circuiti formativi senza diplomi e neppure qualifiche, e dalle connotazioni inquietanti. Da un lato uno svantaggio dei ragazzi rispetto alle ragazze di quasi 7 punti, decisamente superiore alle medie europee; dall’altro una correlazione evidente con le aree territoriali e le condizioni socio-familiari più sfavorite; e poi l’impressionante sequela di insuccessi – bocciature, ripetenze, ritardi, abbandoni – degli studenti di origine straniera, anche nati da noi, e di gravità maggiore, anche qui, rispetto a ciò che succede in altri paesi meta di flussi migratori.
come si spiega?
Come si spiega? Cos’è che non va nella scuola italiana? E quali sono le responsabilità esterne alla scuola? I dati statistici non bastano a capire. Ma basterebbero, in altre occasioni di confronto – istituzionali, politiche, accademiche – per replicare il solito refrain di una scuola, quella italiana, che per molte ragioni storiche e strutturali non ha ancora gli strumenti per misurarsi con successo con le disgrazie del mondo, le disparità socioculturali della popolazione, le note diseguaglianze del Sud, i deficit linguistici degli stranieri, le difficoltà identitarie di un genere maschile sempre più disorientato dalle dinamiche emancipatorie della componente femminile e quant’altro. In sintesi, per riproporre la consueta pratica autogiustificatoria per cui gli insuccessi del sistema scolastico si spiegherebbero con ritardi e deficit che gli impediscono, non per sua colpa, di affrontare le tante novità sociali e culturali dei nostri tempi. C’è del vero, intendiamoci, in questo modello interpretativo. Ma serve ripeterselo ancora una volta? E, soprattutto, un approccio di questo tipo basta a rappresentare le diverse facce della crisi attuale della scuola italiana?
l’approccio dei Maestri di Strada napoletani
L’approccio dei «Maestri di Strada» di Napoli che danno avvio alla discussione è un altro. Sebbene la loro esperienza educativa sia nata dentro i contesti socioculturali più disagiati della città, gli educatori napoletani non ci stanno a relegare il disagio scolastico nei confini relativamente ristretti del disagio sociale più acuto. Il problema allora viene rovesciato mostrando come gli abbandoni siano solo la punta più visibile ed estrema di un malessere e di un’insoddisfazione per l’esperienza scolastica in verità molto più larghi e interclassisti. Che riguarda anche figli dei ceti non sfavoriti, che non si concentra solo nel Sud o nelle periferie metropolitane, che non si manifesta solo negli istituti professionali e tecnici, che riguarda anche i nativi e non solo gli stranieri. Che c’è, è riconoscibile, e va curato anche quando non si presenta con la faccia drammatica delle bocciature e degli abbandoni, ma piuttosto con l’aspetto, in verità non meno inquietante, della demotivazione, del disinteresse, di un apprezzamento dell’esperienza scolastica solo per quel che offre in termini di socialità tra pari. E poi sotto forma di apprendimenti scarsi, superficiali, effimeri.
Oggi il pericolo più grande, si sostiene, è il diffuso disinvestimento individuale nell’istruzione, è lo spreco di opportunità di uno sviluppo culturale fondamentale per il futuro dei giovani. Non solo il futuro lavorativo e professionale, ma anche e soprattutto quello civile che riguarda la consapevolezza del mondo in cui siamo e la passione per un suo possibile cambiamento. Il possesso degli strumenti per autorientarsi, e anche per vivere al meglio un futuro sia di occupazione che di disoccupazione. La domanda di fondo, allora, quella che tutti dovrebbero porsi, diventa provocatoriamente un’altra. Da esaminare non sono solo le cause per cui un settore ampio di giovani esce dai circuiti formativi prematuramente, c’è piuttosto da chiedersi perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto. Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti. Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini. Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare. E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?
«cura» parola chiave
Queste domande non esauriscono l’intero catalogo delle questioni aperte ma hanno il pregio di svelare la nudità del re, e perciò di andare più a fondo dei numerosi fattori di crisi del nostro come di altri sistemi scolastici. E delle responsabilità che si annidano in una educazione familiare orientata spesso più alla tutela dei giovani che alla loro responsabilizzazione, in una non-educazione o malaeducazione che viene dalla società, dai media, da un consumismo che dà valore più all’avere che all’essere, da un modello economico e sociale impostato sulla dissipazione delle risorse, dei beni comuni, delle energie e dei talenti delle giovani generazioni.
C’è spazio, ovviamente, anche per una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni. Ma non è questo il registro essenziale della discussione di Vaiano. Che segue piuttosto, come per i temi ambientali, la via dell’individuazione delle contraddizioni più acute, e di ciò che si può fare, e che in molti casi si sta già facendo per curarle. È «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive. Per i ragazzi di oggi e anche per il destino del paese. Vale la pena di provarci.
Fiorella Farinelli
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- La foto in testa all’articolo è tratta dal sito del progetto Alice (Alice Project).