Monthly Archives: agosto 2016
Attacco ai beni comuni
di Alex Zanotelli, su Il Dialogo
Il profeta dell’Apocalisse descrive la Roma Imperiale come la BESTIA dalle sette teste che rappresentano i sette imperatori. Anche il nostro Sistema economico-finanziario è una Bestia dalle sette teste che sono i sette importanti trattati internazionali (NAFTA, TPP,TTIP, CETA, TISA, CAFTA, ALCA), siglati per creare un mercato globale sempre più liberista sotto la spinta delle multinazionali e della finanza che vogliono entrare nei processi decisionali delle nazioni.
I trattati che ci interessano più direttamente ora sono il CETA(Accordo Commerciale tra Canada e Europa), il TTIP (Partenariato Transatlantico per il commercio e per gli investimenti) e il TISA (Accordo sul commercio dei servizi).Il CETA sta per essere ormai approvato , nonostante le tante contestazioni soprattutto per certe clausole pericolose che contiene. Abbiamo però ottenuto una vittoria: il Trattato dovrà passare al vaglio dei Parlamenti dei 28 paesi della UE, prima di entrare in funzione. E questo ci fa sperare che venga così sconfitto. – segue –
Migranti a Cagliari. Solo la Prefettura fa la sua parte. La politica latita
Cagliari leghista, sui migranti nell’isola la sinistra sarda non ha uno straccio di idea
di Vito Biolchini, su vitobiolchini.it
“Perché prendersela con la destra che fa la destra, quando poi a Cagliari è la sinistra che non fa la sinistra?”. Con questa riflessione chiudevo due settimane fa il post dedicato all’accampamento dei migranti
Non restiamo indifferenti. Riflessioni di Vito Mancuso
di Vito Mancuso
Due giorni fa in diverse città di Francia e d’Italia alcuni imam e semplici fedeli musulmani hanno partecipato alla messa cattolica, compiendo un gesto assolutamente inedito e direi persino inimmaginabile. L’hanno fatto per testimoniare pubblicamente due cose: la solidarietà ai cattolici per l’assassinio di padre Hamel e l’inequivocabile condanna del terrorismo che utilizza la religione. Ma al di là della contingenza immediata alla base di questa nobile iniziativa, occorre porsi una domanda: i cristiani e i musulmani possono davvero pregare insieme? Quello di domenica è un evento autenticamente religioso e come tale reiterabile anche in futuro, o è un evento sociopolitico compiuto in un contesto religioso? La mia tesi è che si tratta di un evento sociopolitico in un contesto religioso, e che come tale esso non può diventare un evento religioso ripetibile nel futuro, se non sempre in via del tutto eccezionale e con le medesime finalità socio-politiche …
Questo significa che musulmani e cristiani, o fedeli di altre religioni, non possono in alcun modo rivolgersi insieme all’unico Dio? La risposta dipende da cosa si intende per preghiera e da come si esercita il pregare. Se la preghiera è intesa come proclamazione della fede dottrinale è del tutto evidente l’impossibilità strutturale di condurla insieme: cosa hanno in comune i fedeli che iniziano a pregare dicendo “nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo” e che così proclamano la loro fede in un Dio che è Trinità, con i fedeli che fanno del monoteismo assoluto l’essenza decisiva della fede?
Finché si rimane al livello delle religioni istituite non è possibile un’autentica preghiera comune. Fu questa la ragione che nel 1986 portò Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, a non partecipare al meeting interreligioso voluto da Giovanni Paolo II ad Assisi. Non c’è infatti preghiera religiosamente connotata che non contenga sempre una particolare teologia. Quando il cristiano dice “Padre nostro” si rivolge a Dio credendolo realmente tale, ma questo è del tutto inaccettabile per un musulmano che tra i “99 bellissimi nomi di Allah” della sua tradizione non ritrova l’appellativo padre. E non lo ritrova perché per l’Islam Dio non genera alcun Figlio perché un rapporto di figliolanza minaccia l’assoluta alterità divina, così che i fedeli non possono essere detti figli di Dio.
Io penso però che il pregare insieme diventi possibile quando le religioni compiono un passo indietro (o in avanti?) mettendosi al servizio della pura e nuda umanità alle prese con la fatica di vivere. La vita è troppo grande per essere racchiusa da qualsivoglia religione, o da qualsivoglia filosofia o teoria scientifica. Percepire tale eccedenza della vita significa poter sperimentare la valenza antropologica della preghiera. Il verbo “pregare” viene dal verbo latino precor il cui infinito è precari, termine oggi molto diffuso per designare chi è instabile e insicuro. La preghiera è quindi strettamente collegata con la precarietà: si prega perché ci si sente precari, provvisori, non assicurati, in balìa di forza più grandi. È la situazione sperimentata dagli esseri umani fin dai primordi: per questo non c’è mai stata civiltà priva di riti e di liturgie. Vi sono persino religioni senza Dio, ma nessuna senza preghiera.
La sensazione di precarietà è tanto più intensa oggi in Occidente dove i punti fermi della convivenza sociale vacillano sempre più e non c’è istituzione politica, economica, culturale o religiosa che sia esente dalla contestazione, e dove l’esistenza dei singoli è esposta al gelo del nichilismo perché le argomentazioni tradizionali a sostegno del bene, della giustizia, del senso appaiono ormai prive di forza. Non per questo però in Occidente si prega di più, anzi aumenta la precarietà e diminuisce la preghiera. Ma la precarietà incapace di trasformarsi in preghiera (trovando le parole mediante cui farsi invocazione, devozione, aspirazione, esame di coscienza) genera ansia, vuoto interiore, assenza di significato. Ha scritto a questo riguardo Carl Gustav Jung: «La mancanza di significato impedisce la pienezza della vita ed è equivalente alla malattia». Ecco lo strisciante malessere del nostro tempo.
Dicendo “nostro tempo” intendo includere anche i musulmani che vivono in Occidente perché neppure essi possono essere esenti dallo spirito del tempo. La “morte di Dio” segnalata da Hegel (1802), Nietzsche (1882) e Heidegger (1940) non riguarda solo il Dio cristiano ma ogni istanza di trascendenza e con questo fenomeno anche l’Islam dovrà fare i conti; anzi, a mio avviso li sta già facendo, perché solo così si spiega la frattura al suo interno tra novatori e integralisti. Esattamente cento anni fa, per la precisione l’11 giugno 1916, mentre prestava servizio nell’esercito austriaco sul fronte orientale della Prima guerra mondiale, Ludwig Wittgenstein scriveva: «Pregare è pensare al senso della vita». Il pensare che qui è in gioco non è solo un’attività intellettuale ma qualcosa di integrale: è pensiero che diventa vita e vita che diventa pensiero, e si pratica anche con il corpo e il sentimento. Chi pensa così prega, e chi prega così pensa, ricercando un senso, una direzione, un orientamento, aspirando a uscire dal disorientamento del nulla per ottenere una via su cui camminare nella fatica dei giorni.
Oggi siamo al cospetto di un’epoca molto vitale per le religioni. Il mondo è diventato un laboratorio che chiama le singole religioni con i loro riti e le loro liturgie a mettersi al servizio di questa dimensione esistenziale della preghiera, assai più importante della preghiera come espressione della fede dottrinale. E in questa prospettiva, senza attendere un futuro atto terroristico ma semmai contribuendo a prevenirlo, sarebbe bellissimo che almeno una volta all’anno i fedeli delle diverse religioni si incontrassero davvero con finalità spirituale, meditando umilmente, nel più perfetto silenzio, di fronte all’immensità della vita e al suo mistero. Sperimenterebbero così l’inadeguatezza di tutte le loro dottrine e i loro precetti, e questa esperienza di vera trascendenza è la via privilegiata per la pace e il mite sorriso che dimora nel cuore di ogni autentica persona spirituale.
Vito Mancuso, Repubblica 2 agosto 2016
Sardegna quasi non conti niente
Appesi al giudizio di Zunino. Zunino chi?
di Nicolò Migheli*
Anno di grazia 2016. Mese di agosto. Noi sempre lì, fissi. Come Pais-Serra che confutava l’uccisione rituale dei vecchi da parte dei nuragici. Come i soldatini sardi sul Carso, desiderosi che lo stigma di etnia criminale si tramutasse in etnia combattente. Appesi al ite narant de nois sos continentales, come se lo sguardo straniero fosse determinante per definirci.
Corrado Zunino di Repubblica scrive: “Non sale dalla profonda Barbagia il racconto del maltrattamento dei piccoli alunni. Tocca Roma, Grosseto, Pisa, Bolzano.”
Nelle reti sociali e nella stampa isolana una rivolta. Ancora una volta vittime di stigmi altrui. No questo no, non può essere, il commento più diffuso. Quando non si trascende in insulti. Ma chi è questo Zunino che ha il potere di sconvolgerci? Chi è questo giornalista che usa lo stereotipo come se piovesse. Che stabilisce il limes con l’altro da sé, incapace di concepire una realtà che non sia in paragone con un’immagine deformata del mondo? Uno a cui non interessa conoscere, perché sa bene che di questi tempi per la stampa l’insulto funziona di più.
E noi? E noi, non si trova di meglio che invitarlo in Barbagia perché veda quanto siamo civili! Cambierà subito stereotipo. Passerà dai luoghi vissuti come criminali a quelli della balentìa, del sardo taciturno a cui basta una stretta di mano; dell’orgoglio sempre e comunque; della severità delle donne sarde, naturalmente frutto del matriarcato!
E poi l’ospitalità? Mi raccomando, che non paghi un caffè al bar, che venga sequestrato di casa in casa, da spuntino a cena, che s’ingrassi ben bene, perché si sa, a Milano mangiano schifezze. Noi no, anche se facciamo la fila all’hard discount. Alé, continuiamo così. Pezze peggiori del buco. Bisogna che gli altri ci raccontino come si deve, perché è da lì che caviamo l’idea di noi stessi.
Dopo un’esperienza simile Zunino cambierà idea? Certo che no, verrà confermata la sua. Racconterà di aver trovato l’ultima etnia cannibale dell’Europa, vivrà l’ospitata come un potlac dovutogli. Lui che con un’iperbole stigmatizza una comunità intera. Teniamolo pure nel suo mondo, dove lui e i suoi pari sono al vertice e i sardi, appena sopra i negri che puzzano, i rom che rubano, gli islamici che sgozzano. Lasciamo quel giornalista alla sua società immaginaria con un sud tribale.
Perché il problema non è Zunino, ma noi. Coglionizzati diceva Cicito Masala. Self post-coglionizeed 2.0, si potrebbe dire oggi. Perché di post colonialismo si tratta. Che permette di essere collaboratori nella distruzione dei nostri fondamenti culturali. Di fare in modo che la vergogna di essere sardi ci domini. Di distruggere il paesaggio grazie alle riviste patinate. Di sbarazzarsi della lingua perchè ultimo ostacolo alla modernità pensata solo come adesione a modelli esterni. Di permettere che gli stigmi altrui siano auto-stigmi e chiave auto interpretativa di noi stessi.
Siamo noi a dover cambiare. Qui iniziano i problemi. Qui comincia un percorso di consapevolezza dolorosa che parta da un dato di fatto. È dal 1720 che noi siamo colonia interna, prima dei Savoia e poi dell’Italia. Che gli ultimi trecento anni di storia ci hanno progressivamente deprivato, hanno fatto di noi un’umanità insicura, dipendente dal punto di vista culturale prima che economico.
Questo però non viene accettato dai sacerdoti del concetto di sviluppo come rincorsa altrui; che vede le letture differenti come messa in dubbio dei propri comodi luoghi comuni, per poi esplodere in maledizioni ogni qual volta il termine colonialismo viene usato per la Sardegna. Mi limito a suggerirvi tre titoli tra i tanti: Placido Cherchi Per un’identità critica. Alcune incursioni autoanalitiche nel mondo identitario dei sardi, Arkadia ed. Ca, Bachisio Bandinu, Noi non sapevamo, ed. Maestrale. Alessandro Mongili Topologie post coloniali. Innovazione e modernizzazione in Sardegna. Ed. Condaghes.
Un percorso che può aiutare a relativizzare il giudizio altrui, a prendere consapevolezza dei limiti e delle responsabilità degli altri e nostre. Perché in conclusione tutto dovrebbe ridursi a quello che ebbe a dire un famoso politico regionale di un suo collega: Mi scusi, ma cussu chini catzu est?.
Absit iniuria verbis.
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*Su SardegnaSoprattutto.
a spasso
- Le prime due immagini, oggi 3 agosto 2016, a Cagliari, in via Nuoro. Le ultime due: come le riprese il pittore Peppino Spanu nel luglio 2010 (?) (http://peppinospanu.blogspot.it/2010/07/blog-post_02.html ). Tra non molto portone e finestre beneficeranno della tutela delle Soprintendenze delle Antichità e del Paesaggio!
Gaffe di “La Repubblica” e dintorni
di Francesco Casula.
L’amico Efisio Arbau, ottimo sindaco di Ollolai e già consigliere regionale, a proposito della gaffe di Repubblica e del giornalista Zunino, (non sale dalla profonda Barbagia il maltrattamento di piccoli alunni, tocca Roma, Grosseto, Pisa, Bolzano…), opportunamente ci invita a finirla di fare le vittime e a giocarci meglio le nostre carte. In Italia e nel mondo amano la Barbagia. Questa é una caduta di stile e niente di più. Insomma lasciamo perdere gli insulti e il vittimismo di cui spesso e volentieri ci vestiamo, – prosegue Arbau – e magari invitiamo Zunino da noi, suggerendogli di prendere il traghetto con la compagnia Grimaldi (si beccherà uno sconto del 15%!): sarà l’occasione per scrivere un bel reportage su Repubblica (come i numerosi altri che spesso ha dedicato al nostro bel territorio e alla sua gente) e far conoscere al mondo quanto di valore la Barbagia ha da offrire.
Bene. Difficile dargli torto
Eppure c’è qualcosa che non convince del tutto nella pur saggia posizione di Arbau. Mi pare riduttivo ricondurre tutto alla gaffe di un piscia tinteris che ha imbruttito paperis e Barbaricinos. Ho l’impressione – dando uno sguardo alla storia – che sotto sotto vi sia qualcosa di più profondo e di più inquietante: ovvero che in certa cultura italiota alberghino tratti razzistici o pararazzistici: che emergono in modo carsico. - segue -
Topologie Postcoloniali. Presentazione del libro di Alessandro Mongili
Oggi dalle ore 19:00 alle ore 21:00
Piazza Zampillo, Villacidro
Presentazione del libro di Alessandro Mongili
Che cos’è l’innovazione? Dove si compie? Le politiche dell’innovazione in Sardegna come si articolano? - segue –