Monthly Archives: agosto 2016
Campo estivo internazionale Caritas
Quarto Campo estivo internazionale di formazione, servizio, condivisione e preghiera.
Condividi la tua estate, moltiplica la Misericordia
17-24 agosto 2016, Centro Saveriano di Cagliari (via Sulcis 5)
(COMUNICATO STAMPA) Si svolgerà dal 17 al 24 agosto 2016 presso il Centro dei missionari Saveriani (via Sulcis 5, Cagliari) la quarta edizione del campo internazionale di formazione, servizio, condivisione e preghiera, organizzato dalla Caritas diocesana di Cagliari, attraverso il GDEM (Gruppo diocesano di educazione alla mondialità), in collaborazione con il CSV Sardegna Solidale e con altre associazioni e realtà di inclusione sociale. L’iniziativa diocesana è organizzata nell’ambito dell’Anno Santo della Misericordia; il titolo “Condividi la tua estate, moltiplica la misericordia”, richiama l’invito di Papa Francesco rivolto ai giovani nel messaggio per la 31esima Giornata mondiale della Gioventù a Cracovia, con la proposta di “scegliere le opere di Misericordia corporale e spirituale”.
– segue –
BREXIT le mosse attuali
Come promesso sul precedente numero di Rocca (n. 15 del 1° agosto 2016) Umberto Allegretti prosegue le sue riflessioni sull’esito referendario della Gran Bretagna, aggiornate con le ultime novità. Puntualmente anche noi di Aladinews riprendiamo il suo articolo (apparso sul successivo numero di Rocca, n. 16-17 agosto/settembre 2016) ribadendo l’importanza delle questioni nella prospettiva del “che fare?” per l’Europa. Ringraziamo anche in questa circostanza la redazione di Rocca e, in particolare, il direttore Gino Bulla, auspicando che si concretizzi l’idea degli “Amici sardi della Cittadella di Assisi” per l’organizzazione di un’apposita conferenza di Umberto Allegretti a Cagliari, in collaborazione con l’associazione culturale “Stampaxi” e con la Fondazione di Sardegna.
di Umberto Allegretti, su Rocca n. 16-17 agosto/settembre 2016*
Dopo un mese dal referendum che ha votato per l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea (23 giugno), le sue conseguenze non sono chiare né nel Paese protagonista né nei suoi partner europei. La diversità e contraddittorietà delle idee espresse per darvi seguito sono infatti apparse massime; sembra che, come diceva Mao, grande sia la confusione sotto il cielo.
uno stato confusionale
Confusione, innanzi tutto, nella stessa Gran Bretagna: non tanto per la permanente volontà di adesione all’Ue da parte della Scozia, che pone problemi non semplici, e per l’ulteriore anche più complicato passo che potrebbe tentare nella stessa direzione l’Irlanda del Nord. Ma, prima di tutto, per gli effetti prodottisi in seno alle diverse parti politiche del Regno Unito. I dissensi sono solo in parte riflesso delle differenze di voto tra l’elettorato giovanile (che ha però votato unicamente per il 30%) e quello colto e londinese che hanno in maggioranza votato Remain, mentre gli anziani, le zone interne e le regioni proletarie si sono prevalentemente espressi per il Leave, ma con un tasso di presenza elettorale di circa l’80%. Maggiori sono i dissidi di origine largamente personale tra i leader in seno ai vari par- titi, tanto da far parlare, in Gran Bretagna e fuori, di un dramma shakespeariano di tradimenti (con tanto di presenza di lady Macbeth nell’opera di incitamento della signora Gove verso il marito già candidato). Alla fine le lotte in seno al maggioritario Partito conservatore hanno trovato un epilogo nella designazione alla presidenza di Theresa May, la quale ha rapidamente formato il proprio governo.
Nonostante qualche resipiscenza nel Paese rispetto al risultato del voto, senza peraltro possibilità di una seconda consultazione popolare e semmai con l’eventualità di convocare nuove elezioni generali per ricavare chiarezza sulle tendenze dell’elettorato, le prime dichiarazioni del nuovo governo e la sua stessa composizione (che include un personaggio controvertibile quale il già pro-Brexit Johnson) non hanno un contenuto rassicurante.
Anche nell’Unione le reazioni non sono univoche. A parte quelle di favore per il risultato referendario quelle, prevalenti, di sfavore hanno avuto diverso andamento. Alcuni leader, come il capo del governo italiano, si sono espressi per una veloce condotta delle trattative sulla fuoriuscita effettiva del Regno Unito, richieste dal Trattato di Lisbona per regolare i complessi problemi risultanti dall’abbandono di uno Stato membro. Altri, come nell’iniziale atteggiamento della maggiore rappresentante politica dell’Europa, la tedesca Angela Merkel (ma non del suo super-ministro Schaüble), hanno invece patrocinato un’uscita morbida e lenta, per ragioni che non appaiono del tutto chiare e coerenti. La prima tesi sembra ormai prevalere.
trattative Ue-Gran Bretagna
Si arriva però ai limiti della farsa quando da personaggi di entrambe le parti taluno auspica che il rapporto tra Gran Bretagna e Unione resti quello di «amici, alleati, partner», quasi che sia possibile, come è stato con humour rilevato, che «esista una mezza strada fra il divorzio e la stabilità dell’unione». Proprio questa seconda è la posizione della politica britannica, che aspira alla costruzione di un legame tra Ue e Uk simile al rapporto dell’Unione con la Norvegia (si vorrebbe addirittura un «Norway plus»). Ma può un componente, fuoriuscito da un’unione che gli ha accordato tante deroghe e privilegi rispetto agli altri membri, pretendere ora uno statuto ancor più privilegiato?
Guardando poi alla sostanza, nonostante la convinzione secondo cui ci sono nella struttura dell’Unione e nelle sue politiche carenze che hanno provocato l’atteggiamento dell’elettorato britannico e potrebbero provocarne di simili in altri Paesi, i divari si fanno anche maggiori. Se tutti coloro che non hanno una pregiudiziale nazionalistica auspicano un potenziamento dell’unità europea in direzione federale che dovrebbe tradursi in modifiche profonde delle istituzioni, c’è divisione tra chi ritiene che, proprio attribuendo il Brexit alla mancanza di un vero progresso in senso federale, è tempo di por mano a inno- vazioni di questo tipo. E chi invece è dell’opinione che non è questo il momento per procedere a modificazioni organizzative che i popoli europei, e soprattutto quelli dell’Est, attestati su posizioni fortemente «nazionali», avvertirebbero come una sfida inadatta alla situazione attuale, nella quale essi sentono piuttosto il bisogno della soluzione di problemi politici, economici e sociali.
È certo che sono da migliorare la politica economica e quella bancaria, la crescita e l’occupazione giovanile, la politica culturale e di ricerca e la sicurezza. Cameron ha spiegato – e i primi atteggiamenti del governo May, nettamente di destra malgrado qualche cenno a un miglioramento della politica sociale, lo confermerebbero – che la ragione fondamentale del Brexit sta nell’insoddisfazione inglese in merito alla libera circolazione delle persone, perfino tra Regno Unito e partner europei, benché la politica migratoria (tranne in parte nel caso tedesco) non sia certo ampia né solidale. Per molti, troppi, l’enfasi sulla sicurezza porta a una politica di immigrazione restrittiva, senza valutare quali gravi condizioni portano, non solo i popoli in guerra aperta come la Siria, l’Iraq e l’Afghanistan, ma quelli della cerchia della fame – l’Africa subsahariana innanzi tutto – a affrontare la morte in mare o nelle lunghe marce nel deserto e lungo i Balcani. E quindi si manca soprattutto al consenso necessario a una delle migliori proposte di Renzi, quella di una sorta di «Piano Marshall per l’Africa» (proposta che abbiamo personalmente sentito condividere da un personaggio certo non secondario come Prodi), dotato delle necessarie garanzie ma che elevi il tenore di vita di quei Paesi e spinga la gente a rimanervi.
la questione bancaria
La questione bancaria vede forti contrapposizioni tra i governi italiano e tedesco, il primo deciso a un eccezionale intervento di Stato per salvare i risparmiatori dalle difficoltà di una serie di istituti di credito, il secondo contrario; solo di recente sembrano delinearsi (ma ancora, mentre scriviamo, con grosse incertezze) possibilità più vicine alla posizione del nostro Paese. Analoga contrapposizione continua a sussistere sulla questione dei bond europei, voluti da Paesi come l’Italia e negati dalla Germania, ossessionata dalle paure di una sua responsabilità economica. Se queste ed altre cose non si fanno, per esempio nelle politiche sociali, ciò in parte dipende dall’«indebolimento della Francia», così che la Germania sembra un protagonista dell’Unione drammaticamente «solitario» (così ancora Prodi, e Habermas sul Corriere della Sera del 10 luglio è arrivato a dire che la sua patria è «un’egemone riluttante», «insensibile ed incapace»).
Il cambiamento delle politiche va chiesto dai popoli con più forte voce, senza perciò andare alla rottura, che non farebbe se non danni maggiori. Oppure dobbiamo pensare che gli atteggiamenti dei membri europei dell’Est siano l’ultimo frutto avvelenato del comunismo sovietico, in cui a un’ideologia ipercapitalistica si accompagna una scarsa propensione alla libertà e alla solidarietà? Giustamente scriveva poco tempo fa Napolitano che, se non vogliamo ritenere che la loro simultanea ammissione all’Unione sia stato un errore, un errore sicuramente fu non far capire loro bene quali limitazioni di sovranità e quali obblighi di solidarietà erano a base di quell’adesione.
Al momento attuale – se il Brexit è il «suicidio» dell’Uk (così lo si è sentito giustamente chiamare da Prodi) e anche «l’omicidio» dell’Unione – è assai meno prevedibile che cosa accadrà dell’Ue dopo quest’evento. Ma è lecito esprimere una previsione non pessimistica. Vedendo i danni che certamente il Brexit sta provocando nella vita europea, la minaccia di uscita dall’Unione di altri Paesi o di loro porzioni dovrebbe essere meno probabile e i nocumenti all’economia del Continente potrebbero, con saggi comportamenti, essere ben dominati. E infatti, secondo un’inchiesta di cui dà atto Le Monde, nella mag- gior parte dei Paesi membri (ma il maggior pessimismo si verificherebbe proprio in Italia) dopo il Brexit si starebbe producendo una rinascita di sentimento pro-europeo e perfino pro-euro.
Quale economia?
I limiti della “mano invisibile” del mercato
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
La teoria economica tradizionale ha prodotto un’abbondante letteratura, per dimostrare i vantaggi che possono essere assicurati alla collettività dal funzionamento di un libero mercato guidato da una presunta “mano invisibile”. E’ questa una visione dovuta al fondatore dell’economia moderna, Adam Smith, secondo il quale, quando i mercati sono lasciati funzionare per conto loro, senza che un’autorità sovraordinata pretenda di dirigerli, producono il massimo vantaggio per i singoli individui che vi operano, indipendentemente dalla loro intenzionalità, ma anche per l’intera collettività.
L’errore di chi, acriticamente, prende che sia considerata valida la visione smithiana consiste, secondo Kaushik Basu [economista indiano e docente presso la Cornell University di Ithaca nello Stato di New York e autore di “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”], nel non rendersi conto che il libero mercato della tradizione manualistica della teoria economica, pur avendo le qualità che le vengono attribuite, essa però è irrealistica; da ciò consegue che è privo di senso pensare che l’avvicinarsi “al modello di un mercato perfettamente libero” serva a condurre l’umanità “verso una qualche sorta di ideale sociale”.
L’assunto sottostante la concezione ortodossa del libero mercato è che la ricerca dell’interesse personale vada sempre a beneficio della società; ma questo assunto – a parere di Basu – implica che non esista alcun conflitto tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo dell’intera società. Sebbene la visione smithiana del mercato possa apparire ovvia, occorre tenere presente – afferma Basu – che l’assunto del libero mercato regolato dalla mano invisibile è rimasto senza dimostrazione per tanto tempo, sino a quando esso, a Novecento inoltrato, è stata dimostrata la sua validità formale, da parte di alcuni autori, tra i quali spiccano i nomi di Kenneth Arrow e Gèrard Debreu. Questi autori hanno formalmente dimostrato che, date certe condizioni iniziali, tutti gli individui, perseguendo il proprio interesse egoistico, conducono il sistema sociale ad uno stato ottimale; questa dimostrazione formale è divenuta nota come “primo teorema dell’economia del benessere”.
Il teorema non implica che l’assunto del libero mercato affermi qualcosa di sbagliato; le proposizioni in cui il teorema si articola, però, sono proposizioni condizionali, fondate su un sistema di ipotesi che valgono ad introdurre un insieme di condizioni iniziali che si suppongono date; queste, in quanto tali, valgono ad allontanare l’idea del mercato competitivo autoregolato dalla realtà. Un aspetto essenziale della condizioni iniziali è l’idea che il mercato e il funzionamento del sistema economico possano essere separati dalla società e dalle sue istituzioni politiche, mentre per poter valutare come realmente funziona il mercato occorre valutare congiuntamente le relazioni che intercorrono tra mercato, funzionamento del sistema economico, istituzioni politiche e società; non farlo – afferma Basu – costituisce un limite grave al funzionamento stabile e socialmente giusto del sistema economico. Llimite, questo, che sta alla base del conservatorismo di gran parte della teoria economica standard.
Pertanto, l’idea che un mercato interamente libero costituisca un obiettivo ideale da perseguire per ottimizzare la soddisfazione dell’interesse individuale e collettivo poggia su basi realisticamente improbabili. Queste basi sono un mito: “un mito – afferma Basu – che ha prodotto effetti di vastissima portata sul modo di valutare le decisioni di politica economica” e sulla possibilità di realizzare un ordine economico più stabile e socialmente equo. Poiché del primo teorema dell’economia del benessere, in virtù della sua forza intellettuale, ma anche del suo grande fascino estetico, se considerato isolatamente, ne è stato fatto un uso irragionevole, sino a comportare conseguenze negative riguardo al modo in cui sono decise le politiche economiche, Baso, col suo libro, intende criticare il pensiero economico dominante, per proporre un punto di vista alternativo riguardo al modo di funzionare dell’economia.
Lo scopo dell’economista indiano è di mostrare che il mercato può funzionare in modo diverso rispetto a quello assunto sulla base del mito della mano invisibile, per sostenere che i processi economici e sociali non si svolgono secondo ipotesi fideistiche, ma sulla base di una governance politicamente adottata e socialmente condivisa. L’efficienza e l’equità di un’economia di mercato – afferma Basu – sono “strettamente connesse alla natura della governance e delle istituzioni collettive di una società”. Ciò, peraltro, è quanto stabilisce il secondo “teorema dell’economia del benessere”, che i sostenitore del libero mercato incondizionato ignorano nelle loro analisi.
Il secondo teorema, infatti, ridimensiona il mito smithiano, affermando che, modificando opportunamente le dotazioni iniziali dei componenti il sistema sociale attraverso politiche ridistributive, un’economia concorrenziale consente di raggiungere qualsivoglia stato sociale ottimale, in corrispondenza del quale è massimizzata l’utilità collettiva. Se si considera anche questo secondo teoreme, diventa chiaro – sottolinea Basu – che, se si vuole che il sistema sociale disponga di un’economia efficiente ed equa sul piano distributivo, occorre un governo del mercato ed istituzioni politiche idonee a contenere le disuguaglianze; se queste sono associate a situazioni di povertà, come capita spesso nei sistemi capitalistici, occorrerà combattere per prima quest’ultima, in quanto, sebbene le disuguagluanze siano di per sé un male, esse possono essere tollerate se servono a sconfiggere la povertà.
Cercare di conseguire miglioramenti dello stato sociale, anche attraverso politiche economiche dagli effetti limitati sul piano del cambiamento, non significa che queste politiche siano compatibili con lo scopo più generale di realizzare un mondo migliore; esse servono – sottolinea Basu – “a tener vive le speranze di riforme più generali, capaci di eliminare la povertà dal pianeta […] e di riportare la disuguaglianza, oggi schizzata ad altezze incomprensibili, a livelli più tollerabili”. Un mondo siffatto non sarebbe “semplicemente efficiente, come vogliono essere le economie di mercato, ma anche giusto”, da risultare perciò meno instabile sul piano politico, sociale ed economico. Il fatto che si rinunci a realizzare questo stato del mondo, vale solo a dimostrare che “la forma di capitalismo a cui gran parte del mondo si affida o a cui gran parte del mondo aspira è un sistema clamorosamente iniquo”.
Ciò accade, a parere di Basu, perché i “corifei” della teoria economica tradizionale hanno concorso a radicare il convincimento che basti perfezionare il sistema vigente perché tutto vada bene; si tratta di un convincimento propagato, a volte consapevolmente e a volte no, nell’interesse di chi ha da guadagnare dalla permanenza dell’iniquità del sistema.
L’aspirazione a un cambiamento dello stato esistente del mondo sarebbe irrazionale se esistesse una qualche legge che dimostrasse l’immodificabilità dello status quo; ma poiché il secondo teorema dell’economia del benessere dimostra la possibilità di realizzare altri sistemi sociali alternatici a quello esistente, è giusto – afferma l’economista indiano – cercare di mitigare “la nostra propensione all’egoismo”, senza impegnarci instancabilmente a cercare di cogliere ogni vantaggio che ci si presenta.
In conclusione, è giusto aspirare a realizzare consapevolmente, senza che ci si affidi a presunte autonome capacità di regolazione del libero mercato, un mondo migliore ed è anche giusto pensare di poterlo realizzare sebbene non risulti compatibile con il sistema degli incentivi descritto dai manuali dell’economia tradizionale a supporto del comportamento razionale dal punto di vista economico. E’ giusto pensare di poter realizzare tutto ciò, soprattutto da parte di coloro che si trovano in stato di necessità, senza averne colpa, all’interno di sistemi sociali dotati di tante risorse da consentire di poter funzionare in condizioni di massima efficienza, pur realizzando una società giusta e solidale.
Soprattutto, in generale e in linea di principio, è giusto pensare, indipendentemente dallo stato di bisogno di ciascuno, di poter rimuovere il mito della mano invisibile, coltivato e conservato dai sostenitori del sistema vigente; soprattutto se questi ultimi si conservano sempre disposti a sostenere che la povertà di una parte della società è l’esatta misura della sua produttività e che la sua costante presenza è essenziale per non alterare gli incentivi necessari per realizzare un “reddito medio” più elevato, unico e valido parametro in base al quale misurare la rimozione della piaga dell’indigenza e dell’ingiustizia. Il conservatorismo sarà duro a morire, ma l’esperienza storica ha lasciato in eredità delle generazioni presenti un’esperienza da non permettere sonni tranquilli per chi persevera nel sostenere, a tutti i costi, per buona una visione della società che la ragione rifiuta.
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La situazione italiana
Da Linkiesta
La recessione è alle porte: tre proposte per evitare la catastrofe
Il Pil del secondo trimestre del 2016 segna crescita zero e lo spettro di un nuovo rallentamento dell’economia italiana si avvicina. Bisogna prendere atto che tutto quel che è stato fatto non ha funzionato come doveva. Perché i problemi sono altrove e si possono risolvere
di Francesco Cancellato
Zero. Il Pil italiano nel secondo trimestre del 2016 non cresce nemmeno di un decimale di percentuale, secondo le stime dell’Istat. Se pensate che questo voglia dire calma piatta, tuttavia, vi sbagliate di grosso. E per capirlo non serve un PhD in economia. Basta saper guardare un grafico, infatti, per accorgersi che l’aria tira decisamente al ribasso, che il vento della ripresa ha smesso di soffiare. Che dopo cinque trimestri consecutivi di crescita il rischio concreto è quello di riprecipitare in una nuova recessione.
Lo diciamo subito, senza alcuna reticenza: per l’economia italiana è una prospettiva devastante. Perché non avviene né nel mezzo di una tempesta finanziaria globale, come nel 2008-2009, né in una fase di politiche di tagli e austerità, come nel 2011-2012. Se mai precipiterà di nuovo in territorio negativo, l’economia italiana, lo farà nonostante gli 80 euro che dovevano rilanciare i consumi, nonostante il Jobs Act che doveva rilanciare l’occupazione e gli investimenti esteri, nonostante lo sblocco dei debiti della pubblica amministrazione che doveva dare ossigeno alle imprese,nonostante il quantitative easing che doveva far ripartire i prezzi e nonostante la benevolenza della commissione europea che ha chiuso un occhio e mezzo (forse pure di più) sul mancato rispetto italiano del fiscal compact e degli impegni presi sulla riduzione del debito pubblico.
Non solo non ci sono scuse, insomma. Non ci dovrebbero nemmeno essere motivi tali da spiegare l’ennesima frenata. Che per la cronaca è, come ormai da prassi, più brusca rispetto a quelle dei nostri partner continentali. Se non la presa di coscienza che la nostra economia ha problemi molto più seri di quelli che immaginavamo. E ha bisogno di cure molto più radicali di quelle che pensavamo. Proviamo a suggerirne tre.
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Investire nel digitale per combattere la disoccupazione giovanile, spostare la spesa pubblica dai vecchi a giovani per tornare a fare figli, portare le piccole imprese in Borsa per ricapitalizzare il sistema produttivo: solo così possiamo davvero ripartire
Primo: una disoccupazione giovanile incompatibile con lo sviluppo. Non fosse altro per il fatto che i giovani sono quel pezzo di popolazione in possesso di saperi e competenze che potrebbero cambiare i destini delle nostre imprese, facendo far loro – finalmente – un salto nel terzo millennio e nell’economia digitale, recuperando quella maledetta produttività che oggi sembra una chimera. Domanda: invece di incentivi a pioggia e regali assortiti – Confindustria ancora ringrazia per l’abolizione dell’articolo 18 – perché non si è vincolato il sostegno alle imprese a un deciso investimento nell’economia digitale? E perché la banda larga è ancora lì, nel libro dei sogni?
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Secondo: una piramide demografica altrettanto insostenibile, con una popolazione che non fa figli e invecchia sempre più. E con la ricchezza che si sposta sempre più nelle tasche di chi è meno giovane. Risultato: stallo dei consumi (i giovani spendono, i vecchi risparmiano) e un sistema di welfare che diventa insostenibile. Ci ripetiamo, anche in questo caso: oggi le pensioni si mangiano il 27,9% della spesa nazionale, mentre il sostegno alle famiglie il 2,3%. Sono il dato più alto e più basso d’Europa, rispettivamente (Grecia esclusa). Delle due, una: o si alza ancora l’età pensionabile, o si decide che i diritti acquisiti non sono più un dogma. In ogni caso, bisogna spostare un bel po’ di risorse dai vecchi ai giovani.
Terzo: c’è bisogno di un new deal finanziario. Secondo una ricerca di Res Pubblica, se la capitalizzazione delle piccole e medie imprese aumentasse del 20%, l’effetto sarebbe pari a 0,6 punti di Pil e gli occupati crescerebbero quasi di 160mila unità. Questa ricapitalizzazione non può più essere garantita dalle sole banche. Un po’ perché molte di loro navigano in cattive acque. Un po’ perché, pur con lodevoli eccezioni, le sofferenze che hanno in pancia sono la prova della loro incapacità nell’erogare credito soldi a chi se lo merita davvero. La soluzione si chiama capitale di rischio. Le piccole imprese italiane vanno incentivate in ogni modo ad andare in Borsa a raccogliere capitali. Missione impossibile? No. In vent’anni, le quotazioni delle imprese in Aim Uk hanno prodotto una raccolta di circa 90 miliardi di sterline, generando una crescita della capitalizzazione da 10 a 50 miliardi, 800mila posti di lavoro e un punto e mezzo di prodotto interno lordo. Quel che servirebbe a noi, per poter rimettere in moto tutto e ripartire davvero.
Quale economia al servizio dell’umanità?
I limiti della “mano invisibile” del mercato
di Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi
La teoria economica tradizionale ha prodotto un’abbondante letteratura, per dimostrare i vantaggi che possono essere assicurati alla collettività dal funzionamento di un libero mercato guidato da una presunta “mano invisibile”. E’ questa una visione dovuta al fondatore dell’economia moderna, Adam Smith, secondo il quale, quando i mercati sono lasciati funzionare per conto loro, senza che un’autorità sovraordinata pretenda di dirigerli, producono il massimo vantaggio per i singoli individui che vi operano, indipendentemente dalla loro intenzionalità, ma anche per l’intera collettività.
L’errore di chi, acriticamente, prende che sia considerata valida la visione smithiana consiste, secondo Kaushik Basu [economista indiano e docente presso la Cornell University di Ithaca nello Stato di New York e autore di “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”], nel non rendersi conto che il libero mercato della tradizione manualistica della teoria economica, pur avendo le qualità che le vengono attribuite, essa però è irrealistica; da ciò consegue che è privo di senso pensare che l’avvicinarsi “al modello di un mercato perfettamente libero” serva a condurre l’umanità “verso una qualche sorta di ideale sociale”.
L’assunto sottostante la concezione ortodossa del libero mercato è che la ricerca dell’interesse personale vada sempre a beneficio della società; ma questo assunto – a parere di Basu – implica che non esista alcun conflitto tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo dell’intera società. Sebbene la visione smithiana del mercato possa apparire ovvia, occorre tenere presente – afferma Basu – che l’assunto del libero mercato regolato dalla mano invisibile è rimasto senza dimostrazione per tanto tempo, sino a quando esso, a Novecento inoltrato, è stata dimostrata la sua validità formale, da parte di alcuni autori, tra i quali spiccano i nomi di Kenneth Arrow e Gèrard Debreu. Questi autori hanno formalmente dimostrato che, date certe condizioni iniziali, tutti gli individui, perseguendo il proprio interesse egoistico, conducono il sistema sociale ad uno stato ottimale; questa dimostrazione formale è divenuta nota come “primo teorema dell’economia del benessere”.
Il teorema non implica che l’assunto del libero mercato affermi qualcosa di sbagliato; le proposizioni in cui il teorema si articola, però, sono proposizioni condizionali, fondate su un sistema di ipotesi che valgono ad introdurre un insieme di condizioni iniziali che si suppongono date; queste, in quanto tali, valgono ad allontanare l’idea del mercato competitivo autoregolato dalla realtà. Un aspetto essenziale della condizioni iniziali è l’idea che il mercato e il funzionamento del sistema economico possano essere separati dalla società e dalle sue istituzioni politiche, mentre per poter valutare come realmente funziona il mercato occorre valutare congiuntamente le relazioni che intercorrono tra mercato, funzionamento del sistema economico, istituzioni politiche e società; non farlo – afferma Basu – costituisce un limite grave al funzionamento stabile e socialmente giusto del sistema economico. Llimite, questo, che sta alla base del conservatorismo di gran parte della teoria economica standard.
Pertanto, l’idea che un mercato interamente libero costituisca un obiettivo ideale da perseguire per ottimizzare la soddisfazione dell’interesse individuale e collettivo poggia su basi realisticamente improbabili. Queste basi sono un mito: “un mito – afferma Basu – che ha prodotto effetti di vastissima portata sul modo di valutare le decisioni di politica economica” e sulla possibilità di realizzare un ordine economico più stabile e socialmente equo. Poiché del primo teorema dell’economia del benessere, in virtù della sua forza intellettuale, ma anche del suo grande fascino estetico, se considerato isolatamente, ne è stato fatto un uso irragionevole, sino a comportare conseguenze negative riguardo al modo in cui sono decise le politiche economiche, Baso, col suo libro, intende criticare il pensiero economico dominante, per proporre un punto di vista alternativo riguardo al modo di funzionare dell’economia.
Lo scopo dell’economista indiano è di mostrare che il mercato può funzionare in modo diverso rispetto a quello assunto sulla base del mito della mano invisibile, per sostenere che i processi economici e sociali non si svolgono secondo ipotesi fideistiche, ma sulla base di una governance politicamente adottata e socialmente condivisa. L’efficienza e l’equità di un’economia di mercato – afferma Basu – sono “strettamente connesse alla natura della governance e delle istituzioni collettive di una società”. Ciò, peraltro, è quanto stabilisce il secondo “teorema dell’economia del benessere”, che i sostenitore del libero mercato incondizionato ignorano nelle loro analisi.
Il secondo teorema, infatti, ridimensiona il mito smithiano, affermando che, modificando opportunamente le dotazioni iniziali dei componenti il sistema sociale attraverso politiche ridistributive, un’economia concorrenziale consente di raggiungere qualsivoglia stato sociale ottimale, in corrispondenza del quale è massimizzata l’utilità collettiva. Se si considera anche questo secondo teoreme, diventa chiaro – sottolinea Basu – che, se si vuole che il sistema sociale disponga di un’economia efficiente ed equa sul piano distributivo, occorre un governo del mercato ed istituzioni politiche idonee a contenere le disuguaglianze; se queste sono associate a situazioni di povertà, come capita spesso nei sistemi capitalistici, occorrerà combattere per prima quest’ultima, in quanto, sebbene le disuguagluanze siano di per sé un male, esse possono essere tollerate se servono a sconfiggere la povertà.
Cercare di conseguire miglioramenti dello stato sociale, anche attraverso politiche economiche dagli effetti limitati sul piano del cambiamento, non significa che queste politiche siano compatibili con lo scopo più generale di realizzare un mondo migliore; esse servono – sottolinea Basu – “a tener vive le speranze di riforme più generali, capaci di eliminare la povertà dal pianeta […] e di riportare la disuguaglianza, oggi schizzata ad altezze incomprensibili, a livelli più tollerabili”. Un mondo siffatto non sarebbe “semplicemente efficiente, come vogliono essere le economie di mercato, ma anche giusto”, da risultare perciò meno instabile sul piano politico, sociale ed economico. Il fatto che si rinunci a realizzare questo stato del mondo, vale solo a dimostrare che “la forma di capitalismo a cui gran parte del mondo si affida o a cui gran parte del mondo aspira è un sistema clamorosamente iniquo”.
Ciò accade, a parere di Basu, perché i “corifei” della teoria economica tradizionale hanno concorso a radicare il convincimento che basti perfezionare il sistema vigente perché tutto vada bene; si tratta di un convincimento propagato, a volte consapevolmente e a volte no, nell’interesse di chi ha da guadagnare dalla permanenza dell’iniquità del sistema.
L’aspirazione a un cambiamento dello stato esistente del mondo sarebbe irrazionale se esistesse una qualche legge che dimostrasse l’immodificabilità dello status quo; ma poiché il secondo teorema dell’economia del benessere dimostra la possibilità di realizzare altri sistemi sociali alternatici a quello esistente, è giusto – afferma l’economista indiano – cercare di mitigare “la nostra propensione all’egoismo”, senza impegnarci instancabilmente a cercare di cogliere ogni vantaggio che ci si presenta.
In conclusione, è giusto aspirare a realizzare consapevolmente, senza che ci si affidi a presunte autonome capacità di regolazione del libero mercato, un mondo migliore ed è anche giusto pensare di poterlo realizzare sebbene non risulti compatibile con il sistema degli incentivi descritto dai manuali dell’economia tradizionale a supporto del comportamento razionale dal punto di vista economico. E’ giusto pensare di poter realizzare tutto ciò, soprattutto da parte di coloro che si trovano in stato di necessità, senza averne colpa, all’interno di sistemi sociali dotati di tante risorse da consentire di poter funzionare in condizioni di massima efficienza, pur realizzando una società giusta e solidale.
Soprattutto, in generale e in linea di principio, è giusto pensare, indipendentemente dallo stato di bisogno di ciascuno, di poter rimuovere il mito della mano invisibile, coltivato e conservato dai sostenitori del sistema vigente; soprattutto se questi ultimi si conservano sempre disposti a sostenere che la povertà di una parte della società è l’esatta misura della sua produttività e che la sua costante presenza è essenziale per non alterare gli incentivi necessari per realizzare un “reddito medio” più elevato, unico e valido parametro in base al quale misurare la rimozione della piaga dell’indigenza e dell’ingiustizia. Il conservatorismo sarà duro a morire, ma l’esperienza storica ha lasciato in eredità delle generazioni presenti un’esperienza da non permettere sonni tranquilli per chi persevera nel sostenere, a tutti i costi, per buona una visione della società che la ragione rifiuta.
Blocco notes. Referendum e dintorni
di Antonio Dessì
Scorro sui giornali e su FB le preoccupazioni per l’accentuarsi della svolta populistico-totalitaria in Turchia e per il paventato avvicinamento politico-strategico con l’autocrazia putiniana.
Non pochi leggono sintomi analoghi in Italia nell’occupazione della Rai da parte del Governo Renzi ad onta di ogni proposito precedentemente proclamato di liberare la Rai dall’occupazione dei partiti.
Immaginiamoci se il voto referendario andasse nella direzione auspicata dal Presidente del Consiglio.
Di sicuro il Paese non sarebbe più lo stesso. Dubito tuttavia che tutti, compresi molti sostenitori “pro bono” del Si, alla fine sarebbero davvero contenti.
Nei canali Rai al momento, in assenza di qualsiasi par condicio, si intensifica il martellamento delle notizie di iniziative e dichiarazioni pro-riforma.
Qualche organo di stampa comincia invece a fare il suo dovere pubblicando a confronto le posizioni dei favorevoli e dei contrari alla revisione costituzionale.
È un bene, perché i contenuti e i toni fortemente antipolitici della propaganda del Si vengono alla luce con maggior evidenza, mentre si constata la genericità delle spiegazioni sul merito. “Qualcosa bisognava pur fare”, dicono, in buona sostanza. Nulla di più.
Devo dire che, complessivamente, i contrari alla riforma si sforzano di dare spiegazioni e motivazioni più articolate. – segue –
Almeno in agosto!
Tutti al mare, per favore! Un nun te reggh cchjù a proposito di scambi epistolari pidini in piena estate.
di Alessandro Mongili, su SardegnaSoprattutto.
Da onesto fruitore di Facebook un povero Cristo, anche in vacanza, può avere esperienze talvolta terrificanti. Ad esempio, il carteggio Jacopo Fiori-Renato Soru di due giorni fa e alcuni interventi di contorno. Per carità, tutte ottime persone. Però, Santo Cielo, basta!
Come è noto, un cosiddetto giovane pidino (categoria non anagrafica) scrisse a Soru, il quale rispose nel giorno medesimo del di lui genetliaco (a proposito: auguri). Tutto – c’è da stentare a crederlo – nell’estate del 2016 in Sardegna. Gli argomenti furono vari ma astrusi. I riferimenti incrociati oscuri ai più, ma contundenti per gli stretti partecipanti allo scambio. La genealogia dello scontro tracciabile, ma putrescente. L’interesse politico nullo. Quello crastulo notevole, ma ridotto a un mondo pidino sempre più piccolo e sempre più vecchio.
Il problema è che questa gazzarra corrisponde alla loro unica passione residua: il potere, le carriere, la fama personale. Per noi, un tempo spettatori interessati, si tratta solamente di un déjà vu, e pure poco stimolante. Tutto già sentito, già visto, già inutilmente preso sul serio 10, o 5, anni fa. Anche le virgole.
Voi infatti non siete più all’ordine del giorno, non siete più previsti, cari amici del PD, di SEL e del loro contorno. Il nostro ordine del giorno è composto dalle difficoltà a spostarci in Sardegna e fuori, grazie alle politiche di mobilità territoriale presidiate da improbabili assessori del PD, dal lavoro che non si trova a causa dell’assenza di politiche per il lavoro che non siano clientelari (la vostra specialità), dalla perdurante crisi delle produzioni locali, dallo spopolamento.
Il nostro ordine del giorno fa riferimento a un’agGiunta regionale di cui voi siete la causa e che è mediocre e inutile, a un ambiente assalito dagli speculatori e a un turismo in crisi, a un patrimonio culturale e linguistico annientato da Assessore inesperte e inamovibili e da odi snobistici di persone senza nobiltà.
Il nostro ordine del giorno è ingombrato dall’occupazione militare, che il PD sostiene, dai suoi costi in termini di territorio sottratto e avvelenato, di vite umane spezzate e di malattie indotte, dalla nostra dipendenza da Roma e, ormai, da chiunque abbia un portafoglio per finanziare clientele e nuovi podatari. Insomma, da tutto ciò che in Sardegna, sul piano strutturale e su quello delle contingenze, ci rende la vita veramente una rottura. E, certo, anche dalla domanda angosciante “che fare?”, visto che sia il PD che altre esperienze successive si sono arenate nei personalismi, nell’incapacità di autonomia e di organizzazione, nell’astrattismo e nello spirito middleclassish, piccolo borghese, e arrivista.
Siccome voi siete inutili per combattere queste derive e per risolvere questi problemi, siete inopinatamente usciti dalle nostre priorità. Le vostre diatribe ci annoiano. I vostri problemi sono scontati e privi di charme. Il vostro linguaggio è datato. Non vediamo l’ora che spariate politicamente tutti insieme al vostro referente d’Oltretirreno, Matteo Renzi. Nessuno si ricorderà di voi per più di un giorno, a parte l’esperienza della Giunta Soru, alla quale moltissimi di voi si opposero con scarsa intelligenza. E purtroppo non ricorderemo Renato Soru per ciò che è successo dopo il 2009.
Infatti siamo stufi anche del suo linguaggio da oppositore a cui fanno da contraltare le sue pratiche da supporter. Così come siamo nauseati dal dibattito interno di chi si è messo in fila per occupare posizioni e desidera che siano i padri a consegnargliele lintas e pintas. Siamo umiliati da scelte parentali nelle composizioni di agGiunte, Giuntine, Consigli d’amministrazione e sottoboschi vari. Non abbiamo alcuna fiducia né stima nei ggiovani del PD o di SEL, abituati a stare in fila piegando la testa e aspettando che arrivi la posizione da occupare, e il cui concetto astratto praticato con maggiore solerzia è dare del tu ai potenti e ridacchiare dei poveracci.
Personalmente trovo patetici anche gli attacchi a Soru ora che Soru non è più Soru, politicamente parlando. Insomma, fateci fare una buona nuotata senza pensare a Tramatza e, ve lo consiglio tantissimo, buttatevi anche voi in mare. Almeno ogni tanto, in questa splendida stagione estiva. Ché il nostro mare non è affatto male.
Migranti: emergenza a Milano.
09/08/2016
SIMONE GORLA, FRANCESCO MOSCATELLI
MILANO su La Stampa
«Nelle ultime due notti lo sforzo di accoglienza a cui siamo stati costretti all’hub di via Sammartini ha raggiunto livelli mai visti prima. Vi chiediamo un impegno ulteriore». Le frontiere di Ventimiglia e di Como-Chiasso sono chiuse e la Milano che apre le porte ai migranti, la «Milan col coeur in man», rischia di trasformarsi nel collo dell’imbuto e di pagare il prezzo più alto dell’ennesima estate di emergenza.
- segue –