Monthly Archives: luglio 2016
Avanti nella campagna per il NO nel referendum costituzionale!
(05-07-2016 ) Dal Coordinamento Democrazia Costituzionale
Referendum Italicum dati e dichiarazioni raccolta firme
Comitato per il Si nei due referendum abrogativi relativi alla Legge 6 maggio 2015 n.52
Dichiarazione di Massimo Villone, Alfiero Grandi, Silvia Manderino del Comitato contro l’Italicum che ha promosso i due referendum abrogativi
Le firme raccolte per i due referendum abrogativi di norme dell’Italicum sono giunte a 420.000 (418.239 per il premio di maggioranza e 422.555 per i capilista bloccati). Non bastano, ma sono comunque uno straordinario risultato della mobilitazione organizzata dal Comitato nazionale e dai comitati territoriali.
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Sardegna. Sinistra cercasi
Il PD sardo alla disperata ricerca di un equilibrio fra componenti, tutto il resto può attendere.
Il PD sardo, o meglio i capi delle quattro o cinque correnti del partito, avevano già capito tutto e scelto la linea riconfermata da Renzi nella Direzione nazionale. Incuranti della crisi dell’Isola, sempre più drammatica, proseguono nella ricerca di un equilibrio tra le correnti interne per eleggere un segretario che porti il PD sardo al congresso. In quella sede poi si faranno i conti definitivamente tra le diverse componenti e i comitati d’affari. Una volta trovato l’equilibrio tra le correnti interne la tabella di marcia prevede poi il confronto con il Presidente Pigliaru per studiare un nuovo equilibrio nel consiglio regionale che tenga naturalmente conto del ruolo delle componenti del PD nella assegnazione degli incarichi regionali. Come l’ultimo giapponese che ha vissuto per decenni nella foresta pensando che la guerra non fosse ancora terminata, così i dirigenti delle diverse componenti del PD procedono a testa bassa nella ricerca dell’equilibrio tra le componenti, che tradotto dal politichese significa trovare un adeguato numero di poltrone sul quale adagiare altrettanti culi, riservando a ciascuno il suo pezzetto di potere e di influenza nella gestione della cosa pubblica. Alla direzione nazionale del partito qualcuno ha fatto timidamente osservare che se il PD non cambia rotta finirà coll’andare a sbattere rovinosamente. Loro, i dirigenti delle correnti regionali del Pd, hanno risposto: ” Si, va bene, purché si vada a sbattere tenendo conto del valore e del peso specifico delle diverse componenti”. Neppure il mitico Tafazzi avrebbe saputo fare di meglio.
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Referendum costituzionale: che sfascio il PD sardo!
di Andrea Pubusa su Democraziaoggi
Vittorio Emanuele II: giù dal piedistallo!
Vittorio Emanuele II: un altro Savoia da eliminare dalla toponomastica sarda. Ecco perché.
di Francesco Casula
Vittorio Emanuele II è stato l’ultimo re di Sardegna (dal 1849 al 1861) e il primo re d’Italia (dal 1861 al 1878).
Nonostante gli smisurati elogi da parte di tutta la pubblicistica patriottarda, – fu soprannominato il re galantuomo – tesa ad esaltare le magnifiche sorti e progressive del Risorgimento italiano, la sua opera nei confronti della nostra Isola sia come ultimo re di Sardegna sia come primo re d’Italia, fu nefasta.
1. Vittorio Emanuele ultimo re di Sardegna.
Con Vittorio Emanuele II, dopo la Fusione Perfetta con gli stati del continente, la Sardegna perderà ogni forma residuale di sovranità e di autonomia statuale per confluire nei confini di uno stato più grande e il cui centro degli interessi risultava radicato interamente sul continente. L’Unione Perfetta non apportò alcun vantaggio all’Isola, né dal punto di vista economico, né da quelli politico, sociale e culturale. Tale esito fallimentare, fu ben chiaro sin dai primi anni con l’aggravamento fiscale e una maggiore repressione che sfociò nello stato d’assedio, – che divenne sistema di governo – sia con Alberto la Marmora (1849) che con il generale Durando (1852).
Gianbattista Tuveri scrisse che dopo la fusione perfetta del 1847, la Sardegna era diventata una fattoria del Piemonte, misera e affamata da un governo senza cuore e senza cervello.
Ad esemplificare l’estraneità della Sardegna al Piemonte basta un episodio paradigmatico: Giovanni Siotto Pintor, uno di quegli intellettuali sardi che nel novembre del 1847 più si era adoperato perché si raggiungesse l’obiettivo della fusione con il Piemonte, all’ingresso di Palazzo Carignano viene fermato dal portiere. Il suo abbigliamento (si era presentato con il costume caratteristico dei sardi, con sa berritta, orbace e cerchietto d’oro all’orecchio) contrastava con l’eleganza e severità dei suoi colleghi piemontesi o liguri o savoiardi della Camera di nomina regia. Per questo si dice che entrò nell’aula del Senato solo dopo aver vinto con la forza le resistenze del portiere che evidentemente aveva una qualche difficoltà a riconoscere in lui un Senatore.
Il secondo episodio venne denunciato con una lettera al Presidente della Camera dal deputato di Sassari Pasquale Tola, che, quando nel maggio del 1848 in occasione di una riunione con i colleghi delle altre province, rimarcò l’assenza dell’emblema della Sardegna nell’aula dove,invece, erano dipinti e diversamente raffigurati quelli delle altre province del Regno.
2. Vittorio Emanuele primo re d’Italia
Le cose per la nostra Isola con cambiano con l’Unità d’Italia. Se è possibile, anzi, si aggravano, ad iniziare dal campo fiscale.
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Migranti. Buone pratiche tedesche
GERMANIA IMMIGRATI
strategie d’integrazione
di Fiorella Farinelli, su Rocca
Bisogna che entrino nel lavoro il prima possibile. Che comincino a consumare, a pagare le tasse, a far girare l’economia. In Germania – dal gennaio 2015 sono state 965mila le richieste di asilo – l’integrazione dei profughi è un programma operativo, e una strategia politica, che non ammette indugi. Sicuramente costoso, difficile, per tanti aspetti controverso, ma perdere tempo sarebbe fatale. Per loro, e per il paese che li ha accolti. Alla disperata determinazione del viaggio, all’adrenalina che ha consentito di superarne rischi e fatiche, non deve seguire un periodo troppo lungo di dipendenza dall’assistenza, di attese passive di un nuovo futuro. Una convinzione che non è solo di Angela Merkel.
un progetto coraggioso ed efficiente
Ci sono resistenze e contrarietà incendiarie in Germania, soprattutto dopo i fatti di Colonia, ma anche una straordinaria efficienza delle istituzioni e una diffusa mobilitazione della società civile. Lo scorso settembre è stata per prima la prestigiosa Università Humboldt ad aprire i suoi corsi agli immigrati, è bene che chi ha gli strumenti prenda immediatamente familiarità con il modello tedesco dell’alta formazione, partecipi alla comunità studentesca, possa da subito guardare oltre le emergenze dell’oggi. Informarsi, orientarsi, imparare, progettare, mettere a frutto titoli di studio e competenze professionali. Ankommen, che in tedesco vuol dire «arrivare», è l’App scaricabile gratuitamente sviluppata in poche settimane da Ministero degli interni, Ufficio immigrazione, Agenzia per il lavoro, Goethe Institut e Tv pubblica. Quattro lingue – arabo, farsi, francese, inglese – per l’essenziale sulle procedure di regolarizzazione, la formazione per il lavoro, le norme e i valori necessari alla convivenza, e poi anche per un corso di base di lingua tedesca. A partire dalla sesta settimana dall’arrivo, anche se la pratica di riconoscimento dello status di rifugiato non è stata ancora con- clusa e neppure processata, si può accedere a una formazione linguistica. E si può anche chiedere di far parte della Protezione civile volontaria, come ogni buon cittadino che al suo paese ci tiene.
Come in Svezia, bisogna fare in modo che l’accesso a qualche forma di lavoro sia possibile in tempi rapidi, quasi immediatamente (tutto il contrario che da noi dove ai richiedenti asilo è impedita ogni attività finché le procedure non siano completate, col risultato che nelle strutture di accoglienza capita che si consumino nell’ozio e nella depressione anche un paio d’anni). E come in ogni democrazia evoluta, le strategie per l’integrazione sono supportate, oltre che dalle istituzioni statali e decentrate, anche dalle reti dell’associazionismo civile, laico e di ispirazione religiosa. Circa 100mila sono i volontari in azione, con le chiese protestante e cattolica in ruoli organizzativi e gestionali di spicco, e con investimenti economici importanti (90 milioni, per esempio, solo da parte della chiesa cattolica).
promuovere e pretendere
Ma l’efficienza tedesca non si spiega solo con la storia di un paese che, dopo essersi misurato nei primi anni Novanta con gli sconquassi della riunificazione e con gli imponenti flussi migratori seguiti alla dissoluzione dell’impero sovietico, ha poi saputo far fronte anche alle migrazioni determinate dalla guerra nei Balcani. Questa volta, del resto, i numeri del flusso sono non solo molto alti, ma anche concentrati in un tempo relativamente breve, così non solo è difficile riuscire a sviluppare immediatamente tutti i servizi necessari (per fare un solo esempio, solo 200mila dei 325mila minori neoarrivati sono stati inseriti nel sistema scolastico perché mancano gli insegnanti, ed è stato necessario ricorrere anche a scuole improvvisate con insegnanti siriani), ma l’attuazione del programma di integrazione sta richiedendo anche iniziative di modifica normativa. Riforme, insomma, e non di poco conto. Prima di tutto la definizione di una nuova legge sull’immigrazione, con proposte assai controverse di modifica delle regole del mercato del lavoro, che dovrebbe essere approvata e diventare attuativa nei prossimi mesi.
«Promuovere e pretendere», ha sintetizzato così Angela Merkel. Promuovere significa farli andare avanti questi giovani che arrivano da noi in fuga da guerre, povertà, disastri ambientali, ma anche determinati a costruirsi una nuova vita. Pretendere è imporre regole di comportamento e impegni scambi difficilmente aggirabili. Il programma previsto per i prossimi cinque anni (93,6 miliardi di Euro l’investimento complessivo, tra alloggi, sussidi, formazione linguistica e professionale, creazione di nuovi posti di lavoro), prevede corsi obbligatori di lingua, di orientamento/integrazione, di formazione professionale (con perdita dei sussidi e della regolarizzazione per chi si sottrae, e viceversa regolarizzazione accelerata per chi eccelle). Ma soprattutto 100mila posti di lavoro per il primo anno – con la prospettiva di moltiplicarli in seguito. Ma come?
passaggi che scottano
La prima decisione è di far saltare provvisoriamente, per i prossimi tre anni, la priorità finora assegnata alle assunzioni di lavoratori tedeschi e di provenienza comunitaria. La seconda è di aggirare il salario minimo vigente – 8,50 Euro l’ora – con retribuzioni orarie di 1 solo Euro l’ora. Passaggi che scottano, che interrogano sulla fattibilità politica e sulle conseguenze sociali. Anche se oggi in Germania la disoccupazione è pressoché fisiologica (6,2%) e per di più in calo rispetto al 2014, non è affatto scontato che interventi di questo tipo non spalanchino pericolose concorrenze nel mercato del lavoro (se non tra tedeschi e profughi almeno tra immigrati stabilizzati e immigrati nuovi), e non abbassino per tutti tutele, diritti e retribuzioni medie.
Ma l’ipotesi, confortata da autorevoli studi economici anche internazionali, è che l’ingresso rapido nel mercato di una parte molto consistente dei nuovi arrivi, anche se con retribuzioni sotto soglia, dovrebbe produrre uno choc positivo sul piano economico e sociale: l’incremento della domanda di consumi, e quindi della produzione interna; l’avvio di numerosi processi virtuosi di miglioramento professionale e della produttività delle aziende; una nuova imprenditorialità; un nuovo gettito fiscale capace di cominciare a compensare il surplus di spesa sociale dovuto all’accoglienza e all’erogazione dei sussidi iniziali. Si tratta di giovani, comunque, che almeno inizialmente utilizzano di meno le strutture sanitarie e che per lunghi anni non peseranno sulla spesa pensionistica. E già oggi la loro presenza in Germania sta trascinando un incremento dell’occupazione nei servizi, a partire da quelli educativi per la prima infanzia e da quelli per lo sviluppo delle competenze professionali. La scommessa, dunque, è quella di un aumento del Pil.
può funzionare?
Possibile che oggi sia l’immigrazione il fattore scatenante di una svolta rispetto alle politiche europee – e tedesche – di austerità? Possibile che lo stesso fenomeno che in altri paesi fa costruire i muri di respingimento (o che, come in Italia, dà luogo a un’accoglienza generosa ma nuda di strategie di integrazione), in Germania sia vista come una risorsa primaria di sviluppo economico?
A sostenerlo non è solo Angela Merkel, perfino dal Fondo Monetario Internazionale arrivano analisi e indicazioni in questo senso. Argomentate da previsioni nerissime sugli effetti dell’invecchiamento progressivo della popolazione tedesca ed europea, quindi su una prossima carenza di forza lavoro, su precipitosi decrementi della domanda interna, su inedite scarsità di risorse professionali giovani e qualificate. Insomma, di un ormai vicinissimo inaridirsi delle potenzialità di crescita economica persino in quella Germania che è tuttora il primo motore economico europeo. Un ribaltamento secco, in sintesi, delle idee prevalenti su un’immigrazione foriera solo di impoverimento, di ulteriore debito pubblico, di pesi insostenibili di spesa sociale. Lo si osserva, fra l’altro, in quello che può sembrare un dettaglio, e invece non lo è, cioè l’attenzione tedesca al riconoscimento dei titoli di studio e delle competenze professionali dei rifugiati. Da noi non se ne parla affatto, e proprio perché si teme un’integrazione degli immigrati capace di scalzare, a colpi di lauree e diplomi, le rendite di posizione degli autoctoni, in Germania ci si aspetta invece che i giovani medici, agronomi, informatici, ingegneri siriani e di altri paesi del mondo portino nuova linfa all’economia. Vedremo presto i risultati o i contraccolpi di queste strategie innovative. È un fatto, comunque, che nel cuore dell’Europa si stanno facendo strada posizioni diverse da quelle che all’immigrazione guardano solo con paura. O che, come in Italia, coltivano un’accoglienza che non dà luogo a politiche intenzionali ed efficaci di integrazione. Ci sarebbe anche questo tema, tra i tanti cui la politica dovrebbe riconoscere assoluta priorità.
Un po’ di serietà signori!
Lo sconcerto delle élite e la mediocrazia
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto / 2 luglio 2016 / Economia & Lavoro/
Il voto britannico del 23 giugno ha avuto sulle èlite europee l’effetto di un calcio in bocca. Se con il nuovo ballottaggio delle presidenziali austriache dovesse vincere un neonazista, le razioni stizzite e di incomprensione si ripeteranno. Si è passati dall’incredulità al rancore. Si è arrivati a mettere in dubbio il suffragio universale, a negare il voto ai poveri e quelli che non hanno studiato. La ragione una sola: non sono persone razionali, sono preda del primo populista che passa. Viene da chiedersi, dove erano tutti questi razionali in questi anni?
Dove era quella sinistra che aveva ragion d’essere nella difesa di poveri e diseredati? La risposta: in club esclusivi, o cercando di farsi accogliere nei circoli che contavano. Evidentemente le fabbriche, i campi e le officine avevano senso solo nelle residue canzoni, nei riti stanchi degli scioperi. Loro i razionali erano nel tempo, la globalizzazione non si può fermare, dicevano e scrivevano. Se il lavoro scompare, tanto peggio per il lavoro. Mi ricordano un aneddoto raccontato da Sergio Quinzio che trovandosi in un refettorio di un convento alla sua affermazione sul mistero della resurrezione della carne ebbe sorrisi compatiti e la risposta dell’abate: “Quindi lei crede alla resurrezione della carne?” Poi solo scuotimenti di testa divertiti.
Allo stesso modo la sinistra ha creduto che la scomparsa dell’Urss fosse una re-apocalisse, una rivelazione al contrario, in questo caso, la legittimazione della propria inutilità. Ancora con questa lotta di classe? Siamo in piena post modernità, le classi non hanno più senso, bisogna teorizzare le comunità di destino. Marx sostituito da Nietzscke, l’innamoramento per lo stato di eccezione di Carl Schmitt per i più colti, gli altri nei programmi tv a fare gli autori di talk schow o della televisione di intrattenimento pomeridiana, teorizzando che lo spettatore e l’elettore avevano l’intelligenza di uno scolaro di prima media che stava negli ultimi banchi della classe. Oppure a discettare di intraprenditorialità, la precarizzazione degli altri. Loro, garantiti dai legami familiari, dalle loro appartenenze di ceto. Loro sicuri e gli altri nei marosi dell’incertezza, vivendo di contratti di un giorno e di voucer.
La fuori tagli pesanti all’istruzione e la ricerca, la sanità per chi può pagarsela, loro no, i figli nelle migliori scuole europee e le cure della sanità privata. E poi ci si meraviglia se i demagoghi hanno praterie su cui liberare i cavalli del risentimento popolare. Bisogna seguire la corrente del fiume.
Ma, porca di una miseria, siete stati eletti per questo? Vi hanno votati perché voi rappresentaste noi, e non quei signori che frequentate nei salotti. Perché cambiaste lo stato delle cose. Perché vi ricordaste da dove venite Tutto diventa destabilizzante, la richiesta di maggior giustizia sociale, per la Sardegna di atti minimi come una politica linguistica coerente per un sardo ufficiale, il muso duro con Roma sui trasporti, sulla ennesima svendita del nostro territorio, sull’appalto della sanità ai fondi sovrani del Qatar.
Non vi stiamo chiedendo chissà quale indipendenza, ma dignità, la possibilità di guardarci allo specchio senza piangere. No! Non sia mai che a Roma qualcuno pensi che siamo separatisti come una volta quelli della Lega. La puzza di localismo sardegnolo è insopportabile nei circoli che contano. Come è potuto accadere tutto questo? Me lo chiedo e trovo risposta nel filosofo canadese Alain Denault, docente di scienze politiche dell’università di Montreal che ha scritto un libro dal titolo eloquente: Mediocratie, mediocrazia. Il governo della rivoluzione anestetizzante, l’atteggiamento che induce a posizionarsi sempre al centro, all’estremo centro. Persone mediamente preparate, mediamente competenti, soprattutto affidabili per il sistema.
Chi conosce le organizzazioni sa che sono intimamente conservative, rifiutano i troppo competenti e gli incompetenti. Sono destabilizzanti, i primi soprattutto. Tutto deve essere standardizzato, sostiene Denault, e quindi la mediocrità come modello. È avvenuto nelle università, nelle imprese, ed infine nella politica. Adeguarsi al pensiero dominante e alla incarnazione nel leader. Si può continuare così? Si può agevolare una reazione popolare che potrebbe essere terribile?
Lo stesso Henry Kissinger dichiara che l’Europa potrà salvarsi se avrà un atto di identificazione, uscire da una visione solamente contabile ed amministrativa della realtà. Se questo è vero per la Ue lo è ancor di più per la Sardegna. Dateci un’idea, una prospettiva, abbiate uno slancio. Ci accontentiamo di poco.
Contaminazioni
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PICCOLO CONCERTO PER VIOLINO E CHITARRA
(in omaggio a Mario Napoli)
FRANCO LISO (Violino)
SONIA FERNÁNDEZ SANCHEZ (Chitarra)
Brexit
OPINIONI
La Brexit è la storia di una catastrofe annunciata.
John Foot, storico, su Internazionale
NO nel Referendum costituzionale
E’ online il manifesto sardo (n. 218)
Il numero 218. Ecco il sommario.
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Contorni: Il senso comune, l’antropologia e l’archeologia (1) (Giulio Angioni), Il Governo nazionale impugna la legge forestale sarda davanti alla Corte costituzionale (Stefano Deliperi), Il fenomeno dell’urbanizzazione e il problema delle periferie (Gianfranco Sabattini), La Brexit: un’illusione? (Gavinu Dettori), In Sardegna c’è chi dice No a Renzi (Graziano Pintori), Sulla lingua sarda uno stato fuorilegge e inadempiente (Francesco Casula), Lettera ad un comunista sardo (Cristiano Sabino), Nessuno parla di democrazia (Gianni Ferrara), Democrazia, civiltà possibile e nuove disuguaglianze in Europa (Gian Nicola Marras).
Il manifesto sardo dedica questo numero alle vittime della strage di Orlando e alla battaglia ancora aperta per i diritti Lgbt: Sardegna Pride: la gioia di affermare i diritti (Ottavio Olita), In memoria delle vittime di Orlando (Eleonora Puggioni), Le ragioni del Pride (Sandro Gallittu). La foto è di Renato d’Ascanio Ticca.
Periferie
Il fenomeno dell’urbanizzazione e il problema delle periferie
Gianfranco Sabattini su il manifesto sardo
Il fenomeno dell’urbanizzazione costituisce uno dei motivi di studio della storia contemporanea, ma anche uno dei problemi di più difficile soluzione; al contrario delle città del passato, che si sono sempre estese con andamento concentrico, oggi, quelle contemporanee, con la rivoluzione dei trasporti e delle tecnologie digitali, hanno preso a svilupparsi casualmente e disordinatamente (sprawl), generando l’urbanizzazione di vaste aree, dove zone agricole sono state riconvertite in insediamenti civili e produttivi, e dando origine al problema delle periferie.
A livello globale, un numero sempre più alto di persone preferisce vivere nelle aree urbane, piuttosto che in quelle rurali. Nel 2014, la popolazione mondiale residente nei centri urbani è stata pari al 54%, rispetto al 30% del 1950. Si calcola che per il 2050, la percentuale salirà fino al 66%. Oggi, le regioni più urbanizzate sono l’America Latina, in particolare i Caraibi (80%) e l’Europa (73%). Al contrario, Africa e Asia restano prevalentemente rurali, con l’urbanizzazione delle loro popolazioni compresa fra il 40 e il 48%.
Mentre la popolazione rurale del mondo, dal 1950 ad oggi, è cresciuta lentamente, la popolazione urbana, per contro, è aumentata rapidamente, passando da 746 milioni nel 1950, a 3.900 milioni nel 2014. Con la continua crescita demografica, l’urbanizzazione dovrebbe raggiungere, entro il 2050, 2,5 miliardi di persone. Quasi la metà degli abitanti delle città di tutto il mondo risiede in piccoli insediamenti, con meno di 500.000 abitanti, mentre solo uno su otto vive in 28 mega-città con più di 10 milioni di abitanti ciascuna.
Tokyo è la città più grande del mondo, con 38 milioni di abitanti, seguita da Delhi con 25 milioni, Shanghai con 23 milioni, Città del Messico, Mumbai e San Paolo, con circa 21 milioni di abitanti ciascuna. Entro il prossimo quindicennio, il mondo dovrebbe avere 41 mega-città; si prevede che nel 2030 Tokyo diventi la città più grande del mondo, con 37 milioni di abitanti, seguita “a ruota” da Delhi, dove la popolazione è destinata a salire fino a 36 milioni di abitanti. Considerando che diversi decenni fa la maggior parte dei grandi agglomerati urbani si trovava nelle regioni più sviluppate, oggi, invece, esse si concentrano nel Sud del mondo, con numerosi agglomerati a più rapida crescita (quelli di medie dimensioni, con 500.000 e fino a 1 milione di abitanti) situati in Asia e in Africa.
Le città sono importanti fattori di sviluppo, di miglioramento del livello di benessere e di riduzione della povertà, perché favoriscono livelli più alti di alfabetizzazione e di educazione, migliori condizioni di assistenza sanitaria e di accesso ai servizi sociali e maggiori opportunità di accesso al mercato del lavoro, di inclusione sociale e di partecipazione culturale e politica. Tuttavia, la crescita urbana, rapida e non pianificata, minaccia ora la sostenibilità dei migliorati livelli di vita conseguiti, se non saranno potenziate le infrastrutture necessarie o se non verranno attuate politiche che garantiscano vantaggi equamente condivisi della vita cittadina siano equamente condivisi. Oggi, infatti, nonostante questi vantaggi offerti dalle città siano indubbiamente maggiori rispetto al passato, le aree urbane sono caratterizzate da forti disuguaglianze, in quanto sono cresciuti i poveri “urbanizzati”, che vivono in condizioni molto al di sotto degli standard di una vita degna di essere vissuta. Nella stragrande maggioranza delle città, la rapida espansione urbana non regolata ha portato con sé il fenomeno della “periferia”, divenuto sinonimo di esclusione e devianza sociale, inquinamento, degrado ambientale e livelli di spesa pubblica insostenibili.
I governi dovranno impegnarsi ad attuare politiche idonee a garantire che il fenomeno della crescita continua dell’urbanizzazione diventi sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale, secondo le direttive emerse dalla Conferenza di Rio del 2012 (”Il futuro che vogliamo”); la Conferenza ha infatti riconosciuto che le città possono “aprire la strada” verso società sostenibili, sia socialmente ed economicamente, che ecologicamente, a patto che i problemi della loro espansione siano risolti secondo un approccio olistico, che abbracci cioè tutti contemporaneamente le criticità, in modo da tener conto degli esiti di tutte le loro reciproche relazioni; tutto ciò, in considerazione del fatto che un’urbanizzazione sostenibile richiede innanzitutto che, con l’espansione delle città, si potenzino di continuo le infrastrutture necessarie per i servizi igienico-sanitari, energia, trasporti, informazione e comunicazione; occorre, inoltre, che siano garantite pari opportunità di accesso ai servizi, che sia ridotto il numero di persone che vivono in condizioni degradate negli slum, che siano preservate le risorse naturali all’interno della città e delle zone circostanti e che siano realizzate politiche diversificate di pianificazione e gestione della distribuzione spaziale delle popolazioni residenti.
Per l’attuazione di queste politiche,lo scoglio maggiore da rimuovere è costituito dal fenomeno delle “periferie”. Come si è detto, esse sono nate con l’espansione casuale e disordinata delle città, originando, come viene osservato nell’”Editoriale” del n. 4/2016 di “Limes”, totalmente dedicato al problema, “pezzi di non città e di non campagna, nei quali si celebra l’impotenza dell’architettura nel forgiare l’abitato”. Battezzare, perciò, in senso urbano la nostra epoca è limitativo; più appropriato forse sarebbe definirla periferia, o suburban, “con il polisemico vocabolo inglese che nella sua sfera semantica include tanto i sobborghi di linde villette a schiera che punteggiano il paesaggio nordamericano quanto le favelas brasiliane, le villas miseria bonaerensi, gli slums terzomondiali, i casermoni nostrani”.
Tra l’altro, le difficoltà che si incontrano già nella definizione del fenomeno problema è dovuto al fatto che il sostantivo periferia “è lemma passpartout, di cui in un recente convegno del Massachusetts Institute of Technology sono state censite almeno duecento diverse, talvolta contraddittorie accezioni”. Le polemiche fra gli addetti ai lavori per la soluzione del problema della periferia sono perciò inevitabili, col risultato di portare solo all’elaborazione di progetti che “si pretendono scientifici, di scarsa pregnanza euristica. Rivelatori di un complesso di inferiorità nei confronti delle ‘scienze dure’, che induce a scimmiottarle”. A fronte dell’inconcludenza delle progettazioni che di continuo vengono formulate, di maggiore interesse sarebbe, invece, la riflessione sull’approccio politico da riservare alla soluzione del problema della “grande suburbanizzazione”, che sta investendo il mondo intero; un approccio, cioè, che sia meno interessato alle definizioni formali e alle soluzioni tecniche e più alla natura del metodo col quale tentare di definire quale dovrebbe essere la formula di governo più appropriata delle “sconfinate megalopoli in crescita incontrollata”.
Da quest’ultimo punto di vista, almeno con riferimento all’esperienza delle dinamica urbana sperimentata in Italia, si dovrebbe tener conto che nelle megalopoli la distinzione tra centro e periferia tende a svanire, perché, secondo Luca Molinari, docente di architettura contemporanea (“La periferia dopo la periferia”, in “Limes”, n. 4/2016), negli stessi luoghi urbanizzati, negli stessi quartieri e negli stessi caseggiati possono essere vissute entrambe le condizioni, proprie sia del centro che della periferia. La distinzione tra centro e periferia ha perso di significato anche per via delle modalità con cui sinora gli interventi pubblici sono stati effettuati, senza una metodologia che consentisse di rilevare la vera natura del problema da risolvere; è prevalsa una pianificazione dell’attività d’intervento che ha privilegiato talvolta il punto di vista del centro e talaltra quello della periferia, sulla base di una improbabile apertura democratica alle istanze provenienti dagli insediamenti periferici; il risultato, in mancanza di una precisa strategia d’intervento complessiva (olistica) è stato quello di determinare una perdita di identità del centro e la creazione di una moltitudine di insediamenti periferici alla ricerca di un’identità urbana.
Inoltre, il metodo privilegiato, sempre parziale, ha determinato il fallimento dello sforzo di ridurre il fenomeno della suburbanizzazione attraverso le numerose “politiche di welfare, attivate nel secondo dopoguerra da entrambi gli schieramenti ideologici”, con le quali è stato plasmato lo stile di vita urbano degli ultimi decenni. La causa del fallimento è da ricondursi principalmente, oltre che ai limiti del modello d’intervento, alla “crisi gestionale che ha colpito le amministrazioni pubbliche e la quasi impossibilità di elaborare modelli urbani capaci di competere con un idea stratificata di centro storico”; fatti, questi, che hanno decretato l’insuccesso sul piano culturale e su quello politico della strategia adottata.
Ciò che, in particolare, non è stato colto come causa del fenomeno della periferia urbana è stata la sua natura di esito della dinamica casuale e disordinata delle città, senza che si sia tenuto conto del fatto, a parere di Molinari, che i luoghi oggi considerati periferia sono diventati “la città vera, per dimensioni, consumo di suolo e presenza di una popolazione che da almeno tre generazioni ha colonizzato e trasformato questi luoghi dotandoli di storie, toponomastica e centralità”, che spesso si manca di riconoscere. Che fare allora? Come affrontare il fenomeno dello “sprawl”, cioè dell’espansione disordinata dei centri urbani?
Secondo molti urbanisti, l’assenza di una pianificazione strategica che avesse colto tutte le criticità dell’espansione urbana, in termini di un’area tanto vasta da comprendere tutte le localizzazioni insediative gemmate disordinatamente dal centro storico originario, è stata la causa principale del fallimento degli interventi riparatori. Conferire potere e centralità a un governo d’area vasta sulla dinamica del sistema insediativo urbano doveva costituire la condizione essenziale per ridurre gli sprechi e l’inefficacia degli interventi realizzati e la via maestra per acquisire il disegno futuro complessivo che si intendeva assicurare alla città, tenuto conto delle specifiche condizioni che concorrevano a caratterizzarla.
L’ostacolo all’adozione di una visione di area vasta per la soluzioni dei problemi delle conurbazioni è stato il prevalere dell’“egoismo localistico”; per contrastarlo efficacemente occorreva adottare un piano insediativo in grado di recepire le domande emergenti dalle criticità sociali, economiche e ambientali vissute da chi abitava/operava nelle singole aree vaste; in altri termini, doveva trattarsi di un piano insediativo conforme ad una visione condivisa del futuro delle singole città, desiderabile dai residenti. E’ questo un limite che occorrerà superare, se si vuole che, almeno in Italia, il riordino degli enti locali possa consentire ai responsabili del governo delle città di valersi delle capacità collettive dei territori urbani, attraverso il coordinamento dell’azione delle istituzioni, delle imprese e dei cittadini; mentre è destinata a sicuro insuccesso qualsiasi azione attuata senza una visione che integri, in termini unitari, le risposte, sul piano istituzionale, politico, sociale, economico e ambientale, alle domande dei territori investiti dallo sprawl urbano.
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Nuove Amministrazioni civiche e periferie
- Le dichiarazioni della Sindaca di Torino Chiara Appendino.