Monthly Archives: luglio 2016
Referendum
Spacchettare: quanta fantasia per salvare Renzi!
Più che un paese di santi, di naviganti ed eroi, l’Italia è un paese di pretesi giuristi. Ognuno interpreta e propone le soluzioni più strampalate e fantasiose e lo fa come se stesse dicendo cose serie, frutto di dottrina. In questi giorni l’invenzione è lo spacchettamento del referendum costituzionale: porre tanti distinti quesiti quanti sono i punti toccati dalla deforma Renzi-Boschi-Verdini. I radicali, che vogliono apparire sempre i primi della classe, hanno già depositato in Cassazione cinque blocchi di domande: 1) bicameralismo; 2) elezione e composizione del Senato; 3) elezione giudici Corte costituzionale; 4) Titolo V rapporti Stato-Regioni; 5) istituto referendario. A questo elenco dovrebbero aggiungersi i quesiti parziali sul procedimento legislativo e sull’abolizione del Cnel. - segue -
Il dibattito sul Brexit
Brexit, democrazia, costituzionalismo, istruzione
di Rosamaria Maggio su Democraziaoggi
L’ esito del Referendum tenutosi in Gran Bretagna lo scorso 23 giugno tiene banco nella stampa, nei programmi televisivi, nei discorsi della gente. È stato come un fulmine a ciel sereno, come se anche coloro che tifavano ”Leave” fossero rimasti spiazzati dal risultato. Perchè una cosa è fare “propaganda” per una posizione o l’altra, altra cosa è valutarne realmente gli effetti.
C’è chi dice che la generazione dei Beatles abbia tradito i giovani. C’è chi osserva che i giovani in realtà si siano in gran parte astenuti.
Le conseguenze di questo risultato non sono effettivamente conosciute neanche dagli esperti. Si vedrà, ma alcuni effetti si possono già ipotizzare. I giovani sono preoccupati per il loro futuro: potranno ancora andare in Gran Bretagna col progetto Erasmus? Gli inglesi potranno andare nelle Università dell’Unione Europea a studiare? I fondi per la ricerca, sempre abbondantemente finanziata in Gran Bretagna dall’Unione Europea, saranno confermati o sarà il Governo inglese a dover garantire lo stesso livello di finanziamenti?
Poi naturalmente ci sono le preoccupazioni per l’import ed export con dazi o senza, per la finanza e le grandi Banche. Resteranno o se ne andranno? Si dovranno esibire i passaporti per entrare in Gran Bretagna e gli inglesi ugualmente dovranno farlo per entrare nei paesi UE?
Le risposte piano piano saranno evidenti, ma stupisce che nessuno di chi era direttamente coinvolto si sia posto questi problemi in modo esplicito prima del voto.
Qualcuno sostiene che questa è la democrazia, la sovranità popolare prevista dalle nostre Costituzioni. Mi permetto di dissentire da questa visione.
È vero che la divisione dei poteri e la sovranità popolare sono garanzia di democrazia, ma che cosa si intende per democrazia?
Il mero voto popolare non è espressione sempre di democrazia. Il costituzionalismo ci insegna che la sovranità si esercita nei modi previsti dalla Costituzione. Questo è ciò che recita il nostro art. 1. Il che vuol dire che non sempre la Costituzione prevede il voto diretto per ogni tipo di questione.
Per esempio, esclude il referendum abrogativo in una serie di situazioni come le leggi tributarie o quelle di autorizzazione alla ratifica del trattati internazionali (art. 75 Cost.). Ragion per cui non credo che sarebbe possibile proporre un referendum di questo tipo nel nostro Paese e neanche a riguardo dell’eventuale uscita dall’euro. Ci sono ragioni superiori che hanno fatto sì che il legislatore costituente regolasse il principio di sovranità proprio al fine di evitare derive populiste di questo tipo.
E queste sono cose che a scuola si dovrebbero insegnare poiché fanno parte delle consapevolezze, seppure complesse, indispensabili al cittadino. Che poi ne farà l’uso che crede, ma intanto le dovrebbe conoscere.
Ripensando a quanto è accaduto, è inevitabile ripercorrere la storia dell’unità europea (altro tema rilevante di consapevolezza contemporanea): una unità ancora monca, che lascia insoddisfatti del grado di integrazione europea raggiunto.
In questi ultimi anni i paesi dell’Unione hanno sofferto le conseguenze delle decisioni delle nostre istituzioni prevalentemente orientate su politiche di austerità, che hanno pesato principalmente sui paesi più fragili e sugli strati più fragili delle loro popolazioni. È il caso della Grecia, ma anche dell’Italia, che stenta a riprendersi, soprattutto per quanto riguarda l’occupazione e il sostegno alle fasce più deboli. È pertanto ovvio che i ceti meno abbienti, più deprivati, di fronte a forti sperequazioni nella distribuzine della ricchezza e alle politiche di austerità volute dalle istituzioni europee, siano tentati di attribuire tutte le responsabilità a queste stesse istituzioni. Il che non è del tutto falso, ma non ci si può esimere dal considerare come la maggior parte delle istituzioni europee siano affette da deficit democratico in quanto istituzioni non elettive (fatta eccezione per il Parlamento Europeo), ed è quindi proprio in ultima istanza ai nostri Governi nazionali che dobbiamo chiedere conto di queste politiche e principalmente ognuno al proprio.
Si dice spesso che il vizio di fondo delle politiche europee sta nel fatto di essere orientate e governate più dall’economia che dalla politica. Del resto, com’è noto, tutta la vicenda europea ha avuto origine da comunità di natura economica, nel 1951, al tempo dell’istituzione della CECA, la comunità economica del carbone e dell’acciaio, istituita col trattato di Parigi tra i sei paesi fondatori, Italia, Francia, Germania, Belgio, Lussemburgo e Paesi Bassi.
Quella comunità aveva uno scopo ben preciso, e cioè il controllo delle risorse energetiche che erano state il presupposto degli scontri bellici della prima metà del secolo. Si trattava quindi di uno scopo ambizioso, diretto a mantenere la pace, ma realizzato su presupposti prioritariamente economici. Fu una scelta molto importante, che se fosse fatta ora per esempio fra i paesi produttori del petrolio, potrebbe contribuire a fermare molte guerre; quindi il fatto che si trattasse di un accordo economico non deve sminuirne l’importanza. Anche se i trattati non avevano come scopo ufficiale la pace, la assicurarono in Europa per ben 70 anni. Sempre auspicando che gli eventi attuali non aprano nuove conflittualità fra i paesi europei. Le ragioni successive di una unione economica più complessa, attraverso la istituzione della Comunità Economica Europea e poi attraverso Maastricht fino all’unione monetaria, all’eurozona, sono stati importanti passi verso l’integrazione.
Dal punto di vista istituzionale e politico, però, i passi fatti non sono stati sufficienti. E in questi ultimi anni da più parti si è denunciata la carenza democratica delle varie istituzioni e l’atteggiamento poco europeista dei vari Governi dei 28. Lo si è visto nell’incapacità di gestire il terrorismo internazionale, di affrontare la crisi economica dal 2008 e infine di gestire unitariamente il problema dei flussi migratori.
Questa incapacità è alla base di questo voto e della sfiducia dei cittadini europei. Ma nel contempo è probabile che questi non abbiano fatto i conti con gli effetti di una uscita dall’Unione. In queste ore ognuno di noi forse sta cominciando a rendersi conto che non si tratta di un gioco, che – come sempre – i forti cadranno in piedi e che i deboli pagheranno ancora una volta il prezzo più alto.
Qualche considerazione andrebbe fatta sugli elettori inglesi. Sembra che quelli fra i 18 ed i 24 anni abbiano votato “Remain”, ma essi rappresentavano solo il 36 % circa. Gli altri, quelli dai 25 anni in su (peraltro forbice troppo larga per poter essere considerato un campione di adulti) che hanno votato “Leave” hanno rappresentato oltre l’80%. Ricordiamo che la Gran Bretaga è entrata nella CEE solo nel 1973, con oltre 20 anni di ritardo rispetto ai Paesi fondatori: malgrado gli auspici di Winston Churchill, che è stato uno dei primi politici a parlare di Stati uniti d’Europa nel 1946 in un famoso discorso alla gioventù accademica all’Università di Zurigo, essa ha un trascorso di poco più di cinquanta anni senza mai aver aderito alla moneta unica.
Questi giovani, che hanno votato seppure in percentuale ridotta a favore del “Remain”, sono nati a ridosso dell’era euro e del processo di Copenaghen, che dal 2002 si è proposto di migliorare la qualità dell’istruzione e della formazione professionale dei paesi dell’Unione. È vero che non esiste una politica comunitaria unitaria in questo settore in quanto ogni Paese ha un suo sistema di istruzione, ma i vari Ministri europei si sono spesso espressi nel senso di una maggior cooperazione nel settore.
Le azioni che sono state portate avanti attraverso la progettazione europea hanno favorito lo scambio di esperienze, la mobilità fra studenti, la cooperazione per favorire l’apprendimento. E ora da insegnanti, non possiamo non chiederci quale politica per l’istruzione sia stata portata avanti dall’Unione in questi anni. I processi di Copenaghen e di Bologna per l’Università sono stato sufficienti a sviluppare nei giovani l’idea di una Europa solidale?
Evidentemente questo voto giovanile, soprattuto nella sua parte astensionista, ci dice che nei giovani non è maturata la consapevolezza di una cittadinanza euopea, e questo al di là dei risultati e degli effetti che si produrranno con questo voto. Gli altri 27 paesi dovranno molto riflettere sia sulle politiche dell’Unione sia sul messaggio che stiamo trasmettendo ai nostri ragazzi. Non basta che una grande percentuale di essi si spostino con facilità nell’Unione, conoscano le lingue, studino e lavorino lontani da casa. In Gran Bretagna, come negli altri Paesi della Unione Europea, c’è il fenomeno dei NEET (acronimo costruito proprio in lingua inglese), che indica come larghe fasce di giovani non studino, non lavorino non si formino. Sono ragazzi che hanno rinunciato a un progetto di vita. Sono ragazzi che non credono che l’Unione rappresenti quella opportunità in più che nella loro famiglia e nel loro paese non hanno avuto.
Quindi è da questa riflessione da cui dobbiamo ripartire. E la risposta certo non ce la potranno dare le forze politiche, sempre più populiste, diffuse in Europa. A chi ha a cuore l’uguaglianza delle opportunità e i diritti della persona spetta il compito di riflettere e di agire.
A PROPOSITO DI BREXIT
VABBE’ L’EUROPA OGGI NON TIRA, MA E’ SBAGLIATO DIMENTICARLA PER LE BUONE COSE CHE FA!
Unica Contamination Lab: indubbiamente un’ottima iniziativa che la Regione Sarda giustamente incoraggia e sostiene con i fondi europei della programmazione 2014-2020 e con il proprio cofinanziamento. Ecco, al riguardo segnalo una gravissima omissione (almeno a me così appare): quella di aver dimenticato l’Europa. Che almeno in questa circostanza fornisce un sostegno. L’Europa non appare se non per un marchietto, (la bandiera blu con le dodici stelle) peraltro obbligatorio, nella pagina di presentazione del progetto. Dimentica l’Europa perfino Raffaele Paci, assessore regionale alla Programmazione, nonché vice presidente della Regione, ascrivendosi d’ufficio ai british e/o agli americani (statunitensi). Nella circostanza mi sovviene una dichiarazione di Tim Parks scrittore e professore inglese a proposito dell’esito referendario inglese (Brexit):
“(…) il peggior fallimento dell’Unione è che, con tutto il libero movimento delle persone (un diritto splendido), non c’è stato un minimo di avvicinamento culturale tra i vari paesi membri. Governati, almeno fino a un certo punto, dalla Germania, dei tedeschi sappiamo poco o nulla. Leggiamo solo i nostri quotidiani nazionali, i quali, se ospitano un giornalista straniero, opteranno immancabilmente per un americano, un inglese o un francese. Mai un tedesco o un polacco, raramente uno spagnolo. Siamo rimasti in nazioni separate, ma vincolate da una volontà altrui. Accettiamo diktat sul debito da Bruxelles, ma leggiamo romanzi americani, guardiamo film americani, seguiamo le elezioni americane molto più attentamente che non quelle di qualunque paese dell’Unione. Non può dirsi, questa, una “comunità”. La nostra identità collettiva rimane quella nazionale, ma imbrigliata, castigata, tranne, ogni tanto, in 90 minuti di delirio calcistico (…)”. Ecco le omissioni dell’Università e della Regione riguardo all’Europa mi sembrano precisamente e coerentemente situate in questo contesto culturale.
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Paxit
Disastro
Disastro ferroviario – Tutti li a piangere e strapparsi i capelli per i poveri morti. Nessuno però dei politici intervistati ha detto l’unica cosa da dire. E’ vergognoso che esistano ancora in Italia delle tratte ferroviarie a binario unico. Basterebbe un semplice provvedimento da approvare in un paio d’ore per stabilire che, nel più breve tempo possibile, si dovrà provvedere al raddoppio dei binari. sull’intera rete ferroviaria. Che ci vuole?
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Un F35 o un secondo binario ferroviario? Un F35 o mettere in sicurezza qualche centinaio di scuole? Un F35 o alcune infrastrutture necessarie nel sud Italia?
Un TAV discutibile o tanti piccoli interventi nel territorio?
Governare significa fare delle scelte. Le avete sbagliate, spesso.
(marco meloni su fb)
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Strage ferroviaria Ruvo di Puglia, ma quale errore umano responsabile è l’austerità
Un articolo di Giorgio Cremaschi su L’antidiplomatico.
RIFLETTENDO e PROPONENDO. MISURE ANTICRISI. L’Università come «nuova agorà». “Le Università costituiscano «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo”.
L’università italiana si salva solo con la «terza missione». L‘università si proponga come una «nuova agorà»
di Pietro Greco*
Gli inglesi da un paio di decenni la chiamano Third Mission, terza missione, o, Third Stream, terzo flusso. Si riferiscono all’università e alla necessità che essa si dia un terzo compito – una terza missione, appunto – insieme ai due canonici della formazione e della ricerca. Questa terza missione è (deve essere) la diffusione fuori dalle sue mura delle conoscenze prodotte. La necessità nasce dal fatto che viviamo, ormai, nella «società della conoscenza» e che lo sviluppo culturale ed economico di ogni comunità a livello locale, nazionale e globale ha bisogno di essere alimentato con continuità da nuove conoscenze. Se non c’è questa immissione continua lo sviluppo dell’intera società ne è frenato, se non bloccato. La domanda sociale è rivolta ai luoghi dove la nuova conoscenza viene prodotta. E poiché le università sono i luoghi primari di formazione e di produzione delle nuove conoscenze, è a loro in primo luogo che «la società della conoscenza» chiede di essere alimentata. La richiesta è che l’università cambi. E dal modello chiuso e statico cui ha aderito nell’Ottocento, per soddisfare i bisogni di formazione di tecnici e di classe dirigente per la società industriale fondata sulla produzione di beni materiali, aderisca a un modello aperto ed evolutivo, per soddisfare i bisogni della società fondata sulla conoscenza e la produzione di beni immateriali. Per un certo tempo questa domanda sociale è stata interpretata in termini molto riduttivi, di semplice «trasferimento delle conoscenze» dalle università alle imprese. In Gran Bretagna, per esempio, il governo favorisce da tempo la Terza Missione delle sue università proprio attraverso una serie di iniziative di «trasferimento delle conoscenze» che includono lo Higher Education Innovation Fund, la Higher Education Reachout to Business and the Community Initiative, lo University Challenge, lo Science Enterprise Challenge. Negli Stati Uniti da almeno un quarto di secolo esistono leggi, come il Bayh-Dole Act, che stimolano l’università non solo a trasferire conoscenze alle imprese, ma – attraverso la valorizzazione e protezione della proprietà intellettuale – a diventare essa stessa impresa: a interpretare se stessa come entrepreneurial university, come università imprenditrice. In Italia non esiste l’università imprenditrice, ma dal novembre 2002 esiste un «Network per la valorizzazione della ricerca universitaria» che coordina decine di atenei di tutto il paese nel tentativo di trasferire conoscenza alle nostre imprese, così poco vocate alla ricerca e così poco consapevoli dell’era in cui siamo entrati. Ebbene, questa attività da sola non basta per entrare nella «società della conoscenza». È troppo riduttiva. È troppo economicista. Lo sostiene il Russell Group, un centro che coordina i due terzi delle università del Regno Unito, sulla base di una documentata indagine. Se il rapporto tra università e società non viene interpretato in una prospettiva molto più ampia e olistica, non solo l’ingresso nell’«era della conoscenza» si allontana, ma persino il trasferimento strumentale di conoscenze alle imprese ne viene minato e perde efficacia. Insomma, sostiene il Russell Group, per entrare nella «società della conoscenza» occorre un dialogo fitto e a tutto campo che promuova uno sviluppo complessivo – culturale ed economico – dell’intera società. In cosa deve consistere, questo dialogo? Dovessimo riassumerlo in una frase, potremmo dire: nella costruzione della cittadinanza scientifica. Che significa maggiore consapevolezza dei cittadini intorno ai temi della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico e maggiore partecipazione alle scelte tecniche e scientifiche, ivi incluse quelle ambientali e quelle «eticamente sensibili». Ma significa anche maggiore democrazia economica. Se i saperi sono ormai la leva principale per la crescita economica, costruire la cittadinanza scientifica significa (anche) fare in modo che la conoscenza non diventi un fattore di nuova esclusione sociale, ma un fattore attivo di inclusione sociale. In pratica significa che nell’aprirsi l’università si proponga coma una «nuova agorà», una delle piazze della democrazia partecipativa (dove i cittadini si riuniscono per documentarsi, discutere e decidere) e della democrazia economica (dove non solo le grandi imprese attingono conoscenza per l’innovazione, ma i cittadini tutti acquisiscono i saperi necessari per il loro benessere, per la loro integrazione sociale, persino per una imprenditorialità dal basso). Questo dialogo fitto e a tutto campo tra università e società non è un’aspirazione astratta. E neppure futuribile. Sta andando avanti, sia pure per prova ed errore. E ha assunto aspetti concreti non solo in Gran Bretagna o negli Usa. In Danimarca la Terza Missione dell’università è stata stabilita per legge. In Francia ci sono importanti iniziative sulla comunicazione pubblica della scienza. E anche nei paesi scientificamente emergenti come Cina, India e, di recente, Sud Africa molto impegno e molte risorse sono dedicate alla diffusione delle conoscenze e al rapporto tra «scienza e società». Un po’ ovunque il tentativo consiste nel fatto che le università cercando di aprirsi alla società – senza rinunciare al compito canonico dell’alta formazione e della ricerca scientifica – superando l’ambito, riduttivo, del trasferimento di conoscenze per l’innovazione tecnologica e costituendo «reti sociali» con associazioni, centri culturali, enti locali, cittadini, lavoratori, imprese (piccole, medie e grandi). Nel fare tutto questo da un lato promuovono la nascita di un’intera costellazione di nuovi attori culturali, che si interfacciano con la società, e dall’altra sviluppano nuova conoscenza intorno ai rapporti scienza e società, con appositi centri interdisciplinari di ricerca. In Italia c’è una domanda sociale ridotta di conoscenza. Ma c’è anche un’offerta insufficiente. Le università non sono ancora attrezzate per la Terza Missione. Occorre farlo. Perché l’università aperta è uno dei passaggi obbligati per entrare nella società della conoscenza. E per costruire una piena cittadinanza scientifica.
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* L’articolo di Pietro Greco, pubblicato per la prima volta su L’Unità il 12 marzo 2007, è stato più volte ripreso da Aladinews per chiarezza espositiva, per le proposte e per lo spirito innovativo che lo pervade. Tutto ciò lo rende dunque attuale e le sue proposte concretamente e utilmente percorribili.
Difendiamo la Costituzione: NO nel referendum costituzionale!
Difendiamo la Costituzione
Conferenza stampa
Maurizio Landini, segretario nazionale FIOM – CGIL
a domanda risponde sulle ragioni del NO nel referendum costituzionale
Giovedì 21 luglio 2016
ore 19
Hostel Marina Scalette di S. Sepolcro – Cagliari
Invitiamo tutti gli organi di informazione a partecipare. Dopo i giornalisti può fare brevi domande anche il pubblico.
Nota stampa (sulle ragioni del NO)
Dibattiti
Ecco come e perché il reddito di cittadinanza ci conquisterà
Quella proposta dal M5S è una misura economica antica, ed è già presente in molte forme in vari paesi del mondo. Ecco cos’è e come funziona
di Rick Deckard
Da LINKiesta 11 Luglio 2016 – 10:20
Nel dibattito politico italiano si è affacciato da poco il tema del cosiddetto reddito di cittadinanza universale. L’ipotesi, avanzata – sebbene in modo piuttosto generico dal Movimento Cinque Stelle, è stata – anche di recente – respinta in modo molto fermo da altre forze politiche. Ma di cosa si parla non è ben chiaro: quindi si rendono necessarie alcune puntualizzazioni.
L’idea alla base della misura è tutt’altro che nuova. Addirittura nel 1797, Thomas Paine, uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America. rifletteva sul fatto che per “comprare” consenso sociale per i diritti della proprietà privata, i governi avrebbero dovuto pagare a tutti i cittadini 15 sterline all’anno.
Il concetto non è né di sinistra né di destra. Si sono mostrati favorevoli al reddito di cittadinanza economisti ed intellettuali dalla più diversa formazione. Dal notissimo Milton Friedman della Scuola (ultraliberista) di Chicago a Charles Murray, libertario dell’American enterprise Institute; a Andy Stern, un noto rappresentante delle Unions americane, fino a Paul Mason visionario autore del recente saggio Postcapitalismo.
Il reddito di cittadinanza è un termine molto generico e ricomprende varie misure. Tanto che è presente – in varie e diversificate forme – in tutti i paesi europei, con la sola esclusione di Croazia, Grecia e – tanto per cambiare – Italia.
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Caro Sindaco ti scrivo
(…) La Cagliari d’oggi (…) Soprattutto richiede l’elaborazione di una nuova cultura. Che contenga in sé dei concetti assai più vasti di quelli fisico-spaziali assai cari a certi urbanisti o di quelli tecnico-funzionali di taluni ingegneri fanatici della mobilità lenta. Perché la Città di questo nuovo secolo è ben altra cosa che un insieme ben ordinato di metri-cubi o di invitanti rotonde: ha soprattutto bisogno d’essere sempre più civitas che solo urbs, come ha sostenuto autorevolmente Bernardo Secchi; è prima di tutto una comunità di famiglie, di uomini e donne che la vivono o la usano. A cui occorre saper dare un ordinamento urbano, fisico e virtuale, che sia rispettoso delle esigenze d’una modalità di vita che non è più quella di mezzo secolo or sono. (…)
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Sindaco Zedda, auguri. Ma ora dovete progettare la Città Nuova
di Paolo Fadda, su SardiniaPost, 10 luglio 2016 (Pronto intervento)
Credo sia molto giusto che tutti i cagliaritani accolgano la seconda amministrazione cagliaritana guidata dal riconfermato Sindaco Massimo Zedda. con un cordiale e sentito augurio di buon lavoro. Perché riesca a ridare alla città quella dignità di ruolo e quelle capacità di guida che indubbiamente dovrebbe possedere, come città capoluogo dell’isola dei sardi. Perché di problemi aperti, anche assai importanti, si stima che in città ce ne siano parecchi.
Si è infatti dell’avviso che Cagliari stia attraversando un periodo “grigio”, decisamente anodino, ed abbia quindi bisogno di ritrovare vigore, di riprendersi il suo ruolo di capitale a cui spetta il compito istituzionale di dover tracciare ed aprire la strada dell’isola verso il progresso.
Infatti, specie in questi ultimi tempi, è parsa una città demotivata, rimasta impaurita, smarrita e disarmata di fronte alle tante invidiose accuse che le sono state via via addebitate da ogni dove e per ogni pur minima causa (il cagliaricentrismo è divenuto, infatti, quasi un mantra da Palau a Calasetta). Di fronte a questi addebiti è parsa disorientata ed avvilita, incapace d’ogni reazione di fronte all’accusa d’essere il colpevole “untore” delle tante infezioni pestifere (nell’economia come nel sociale) di cui l’isola ne soffriva le pene. Non capendo, o non sapendo capire, che quelle accuse erano rivolte al suo mostrarsi più capitale parassitaria che autrice e propugnatrice di progresso.
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Lunedì 11 luglio 2016. NO al razzismo!
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- Oggi manifestazione a Cagliari. La pagina dedicata in fb.
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Da il manifesto sardo. Stasera sit-in antirazzista a Cagliari. Pubblichiamo l’appello degli organizzatori
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I GIOVANI E LA DISOCCUPAZIONE. LE SOLUZIONI NASCONO DALLA PARTECIPAZIONE
Quasi come un bollettino medico di un malato grave, i rapporti trimestrali dell’andamento dell’occupazione in Sardegna segnalano variazioni sui relativi dati, ora positive ora negative, che sostanzialmente confermano uno stato complessivo di perdurante infermità. L’ultimo, relativo al primo trimestre 2016, da conto di un aumento del tasso di disoccupazione dello 0,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno raggiungendo il 18,8% (1). Tra i dati, tutti disponibili sui siti dell’Istat e della Regione Sarda (Sardegna Statistiche), quello più disastroso si riferisce alla disoccupazione giovanile, pari al 56,4% (2), che assegna alla Sardegna un posto tra le peggiori regioni dell’Unione europea. Le serie storiche dei dati riferiti alla Sardegna mostrano una situazione di “ritardo di sviluppo” non riconducibile semplicemente all’attuale grave crisi dell’intero sistema economico a livello nazionale ed europeo, che, peraltro ne determina un aggravamento. Siamo infatti sempre più vittime dei nuovi equilibri a livello globale che si basano sulla progressiva diminuzione dell’occupazione, sulla perdita di tutele contrattuali, su un basso livello dei salari e su una distribuzione inequa del reddito, caratterizzata dall’acuirsi della forbice economica tra alti salari/rendite (concentrati nelle mani di pochi), mancanza di reddito o redditi di sussistenza (la maggioranza). Ne consegue l’aumento della povertà che colpisce sempre più vasti settori della popolazione, aggredendo anche i ceti medi, fino a qualche anno fa non colpiti. Come si è già osservato, questa situazione è generalizzata in quasi tutti gli stati a livello planetario. Limitando la nostra attenzione a quelli dell’Unione Europea, possiamo osservare diversi gradi di gravità nelle diverse regioni in cui sono articolati, in Sardegna tra i più accentuati.
Che fare allora? Per dirla con uno slogan di altri tempi, che potrebbe suonare massimalista: si può uscire dalla crisi solo se si esce dal capitalismo in crisi. Micca facile!
Se questa è la portata dei problemi, cosa possiamo fare noi, specificamente in Sardegna, che siamo piccoli e quasi irrilevanti nel mondo globalizzato? La risposta è che non dobbiamo rassegnarci, dobbiamo invece per quanto è possibile, come è realisticamente possibile, praticare al nostro livello soluzioni diverse o parzialmente diverse da quelle dominanti, che ogni giorno ci impongono con sistemi più o meno coercitivi. Come? Innanzitutto facendo resistenza sulla base dei nostri interessi di cittadini e di lavoratori. Cioè, dobbiamo partire da questi e non dalle “compatibilità” del sistema dominante. Usciamo dall’astratezza. Il lavoro è un diritto? Certo, ma è un diritto negato a vasti strati della popolazione. E allora organizziamo le leghe per il lavoro (o chiamatele come vi pare), appoggiandoci alle organizzazioni dei lavoratori (per quanto siano coinvolgibili) e alle Istituzioni più vicine ai cittadini, come i Comuni (per quanto sappiano rappresentare anche i ceti più deboli). E con queste organizzazioni difendiamo il lavoro esistente e creiamo nuovo lavoro, utilizzando tutte le possibili opportunità, per esempio quelle fornite dai fondi pubblici, specie europei, spesso inutilizzati o spesi male. Ma, si dirà, è una vecchia ricetta, che non ha dato in passato grandi risultati. E’ vero, ma il fatto nuovo, la carta vincente, è il coinvolgimento delle persone, che non devono delegare, se non in certa misura, ad altri la risoluzione dei loro problemi. E devono attivarsi in prima persona nei confronti di quanti detengono il potere, a tutti i livelli, per rivendicare politiche per il popolo. In sostanza, si tratta di praticare in tutti i campi la “partecipazione dal basso”, anche a piccoli gruppi, con il criterio delle isole che a poco a poco assumono la dimensione di arcipelaghi. Tutto ciò è riduttivo? Può darsi, ma è quanto si può fare, da subito, nella fiducia che solo il popolo salva il popolo. L’impostazione di questo nuovo protagonismo popolare, che non ci preoccupiamo possa essere irriso come “populismo”, ha un grande e credibile suggeritore: Papa Francesco, che nel solco della dottrina sociale della Chiesa, ci esorta a non rassegnarci e ad assumere iniziative creative con e per il popolo, che spiega con chiarezza nella parte dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium dedicata alla Crisi e alla Dimensione sociale dell’Evangelizzazione.
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(1) 18% per i maschi e 20% per le femmine.
(2) riferito alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni.
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* L’editoriale è apparso sul numero 14 di domenica 10 luglio 2016 del periodico della Diocesi di Ales-Terralba, “Nuovo Cammino”.
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Domenica 10 luglio 2016
Razzismo: il sonno della ragione
Il desiderio di abbandonare una triste realtà e portare il pensiero in un’altra dimensione. Il razzismo e il fascismo che non scompaiono.
Difficile, duro, drammatico commentare ciò che è accaduto nelle ultime trentasei ore. Il desiderio di non guardare, di scappare via lontano, di parlare di altro è fortissimo. Ma non parlarne, non riflettere sull’accaduto, sarebbe una forma inaccettabile di codardia, un atteggiamento che ci collocherebbe tra coloro che si limitano a osservare con rassegnazione gli accadimenti della società della quale fanno parte. Analogamente non si può assecondare la tendenza a farsi guidare, nell’analisi e nel racconto, da sentimenti di rabbia e rancore, da posizioni inclini al desiderio di incoraggiare o sostenere forme di giustizia sommaria che nulla modificano e poco concorrono alla soluzione dei problemi. Affrontare la realtà, per quanto dura essa sia, è la strada obbligata per chi desidera giustizia, libertà e democrazia. Partiamo da una considerazione molto amara. Il razzismo, come il fascismo, non è sconfitto, non è superato, non è una questione del passato. E’ ancora ben presente nella nostra società insieme al rifiuto di tutto ciò che appare diverso, di ciò che non si conosce adeguatamente e viene vissuto con ansia, paura e ostilità. Parliamo dei neri ma potremmo estendere il discorso all’omosessualità, alla diversità rappresentata da handicap psico-fisici, alle differenze religiose, alle scelte di vita individuali. Non sono bastati otto anni di presidenza Obama, il primo nero della storia a ricoprire tale prestigioso incarico, per far compiere passi avanti nel rapporto fra bianchi e neri in America e nel mondo. Omofobia, rifiuto del diverso, contrapposizioni pseudo religiose, conflitti storici in corso in alcune parti del mondo (in primis la irrisolta questione israelo-palestinese), il terrorismo internazionale, restano manifestazioni organiche alle società contemporanea. Si spiega cosi il fatto che la polizia bianca, in America, uccida ogni anno un numero notevole di neri spesso senza fondati motivi per farlo (ammesso che uccidere possa essere una pratica accettabile e giustificabile con esigenze di “ordine pubblico”). Accade che si continui liberamente ad insultare i neri e i diversi nelle più disparate circostanze. Lo fanno tutti, perfino esponenti delle istituzioni. Ricordiamo tutti il parlamentare e noto provocatore Calderoli che ha definito un orango una ministra nera del Governo italiano e se l’è cavata con qualche rimprovero e nessun provvedimento serio nei suoi confronti. Accade che talvolta coloro che ricevono insulti per il proprio stato reagiscano con conseguenza spesso drammatiche. Ciò che è accaduto in America e in Italia in questi giorni non può che essere letto in tale contesto. Sia l’uccisione per strada di individui apparentemente innocenti, sia la mattanza di poliziotti da parte di cecchini armati fin ai denti come risposta barbara alla barbarie della polizia. La lotta al terrorismo fondamentalista, che pure ha fatto registrare progressi in campo militare e in attività di prevenzione di attentati, sta li a dimostrare che non sarà certo il pugno di ferro a far accettare a una parte di popolazione del pianeta l’idea che altri individui possano praticare religioni differenti o essere perfino atei. Parliamo di episodi e di problemi di carattere straordinario per gravità e dimensione. Ma sono episodi che traggono fondamento e vengono supportati da comportamenti individuale e vicende che soltanto formalmente appaiono meno gravi pur facendo parte del vissuto quotidiano degli individui in differenti realtà e latitudini. Un esempio per tutti la diffusa abitudine dei tifosi negli stadi di calcio di coprire di insulti il giocatore di colore della squadra avversaria pur avendo nella propria squadra altrettanti giocatori neri. E’ diffusa la diffidenza verso gli stranieri, soprattutto se migranti, permangono nella cultura occidentale radicati pregiudizi e luoghi comuni sugli “altri”, sui diversi. Come si supera questo insieme di drammatici problemi nessuno può dirlo, certamente si tratta di questioni complesse e di difficile risoluzione. Penso comunque che il percorso obbligato non possa che essere la crescita culturale. La cultura della integrazione e della accettazione di chi appare diverso, la cultura della convivenza e della soluzione pacifica dei conflitti, la cultura dell’informazione corretta e, ultima ma non certo la meno importante, la lotta all’ignoranza che sta alla base di molte scelte e comportamenti decisamente condannabili ma che trovano una loro spiegazione razionale appunto nella condizione di non conoscenza, di ignoranza, di chi pratica tali comportamenti. Istruzione e cultura della convivenza sono le uniche armi a disposizione della parte migliore dell’Umanità per impedire la corsa verso la barbarie, la violenza e la guerra che rappresentano oggi la principale minaccia per il mondo intero.