Monthly Archives: luglio 2016
SharDNA
L’Identità, per me, è come il Tempo
di Franco Meloni, fisico e narratore, su SardegnaSoprattutto*
- seguono approfondimenti -
Oggi Conferenza stampa di Maurizio Landini per il NO nel referendum costituzionale
Oggi giovedì 21 luglio alle ore 19:00 all’Hostel Marina nelle Scalette di San Sepolcro a Cagliari si svolgerà la conferenza stampa dal titolo “Difendiamo la Costituzione” promossa dal Comitato per il NO nel referendum della Sardegna.
Parteciperà Maurizio Landini, segretario nazionale della FIOM – CGIL a domanda risponde sulle ragioni del NO al referendum costituzionale. Invitiamo tutti gli organi di informazione a partecipare. Dopo le giornaliste e i giornalisti può fare brevi domande anche il pubblico. Interverrà inoltre Riccardo Caoci, del movimento studentesco Link Cagliari sulle ragioni del No nell’Università.
Per informazioni:
Mail: referendumiovotono.cagliari@gmail.com
Facebook: www.facebook.com/comitatoperilnoreferendum/
Hashtag: #LaSardegnaVotaNO
Evento su Facebook: https://www.facebook.com/events/1104510599587975/
Web: www.iovotono.it
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Oggi Landini a Cagliari incontra stampa e cittadini
Storia sarda
IL DELITTO CAMARASSA
21 luglio 1668. Di ritorno in carrozza dalla festa del Carmine, diretto a Palazzo per la Carrer dels Cavaliers (oggi via Canelles) nel quartiere Castello, il marchese di Camarassa, vicerè di Sardegna, viene assassinato.
Il delitto avviene giusto un mese dopo l’assassinio del marchese di Laconi, Agostino di Castelvì, figura controversa, divenuto comunque esponente della nobiltà sarda in contrasto con l’autorità viceregia.
Per qualche mese si parla del delitto come esito di fatti erotici.
Il 26 dicembre giunge a Cagliari il nuovo vicerè, Francesco Tutavilla duca di S.Germano, che ristabilisce il potere della corona, intanto che accusa di congiura politica Iacopo di Castelvì, cugino di Agostino, Antonio Brondo fi Villacidro, Francesco Cao, Francesco Portoghese e Gavino Grixoni.
Povera Sardegna e povera Università della Sardegna
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DOCUMENTAZIONE
FINANZIAMENTI AGLI ATENEI, L’ESITO DELL’INCONTRO CON IL MINISTRO- Il resoconto sul sito di Unica. (a cura di Sergio Nuvoli).
(Dal sito web della RAS) Università, incontro con Ministro Giannini. Pigliaru: “Confermato riconoscimento insularità” – segue –
Domani. Conferenza stampa con Maurizio Landini “Difendiamo la Costituzione”
Giovedì 21 luglio alle ore 19:00 all’Hostel Marina nelle Scalette di San Sepolcro a Cagliari si svolgerà la conferenza stampa dal titolo “Difendiamo la Costituzione” promossa dal Comitato per il NO nel referendum della Sardegna.
Parteciperà Maurizio Landini, segretario nazionale della FIOM – CGIL a domanda risponde sulle ragioni del NO al referendum costituzionale. Invitiamo tutti gli organi di informazione a partecipare. Dopo le giornaliste e i giornalisti può fare brevi domande anche il pubblico. Interverrà inoltre Riccardo Caoci, del movimento studentesco Link Cagliari sulle ragioni del No nell’Università.
Per informazioni:
Mail: referendumiovotono.cagliari@gmail.com
Facebook: www.facebook.com/comitatoperilnoreferendum/
Hashtag: #LaSardegnaVotaNO
Evento su Facebook: https://www.facebook.com/events/1104510599587975/
Web: www.iovotono.it
Auguri a tutti i quindicimila ragazzi sardi che nel 2016 compiono vent’anni!
Millenials. Auguri, ventenni sardi!
di M. Tiziana Putzolu
By sardegnasoprattutto/ 19 luglio 2016/ Culture/
Auguri a tutti. Auguri a tutti i quindicimila ragazzi sardi che nel 2016 compiono vent’anni. Perché vent’anni sono un traguardo importante. Tra le mani le vostre fotografie con la prima candelina sulla torta. Vi vediamo gironzolare con tricicli e biciclette. Sentiamo presenti le vostre urla giocose mentre tiravate due calci al pallone e noi a tifare a bordo campo.
O mentre giocavate a pallavolo, pallacanestro, nuoto, tennis o sci. O mentre volteggiavate sui primi pliè con scarpette e tutù da ballo. Abbiamo nelle nostre menti i vostri primi successi scolastici o i richiami delle maestre infuriate per le vostre marachelle a scuola. I compiti non fatti. Una parolaccia di troppo. La nota sul diario.
Siete grandi, adesso. Avete, quest’anno, vent’anni. Non sono pochi. Vi chiamano Millenials o Generazione Y perché siete nati ed entrati nella vita adulta a cavallo tra i due secoli. Un ruolo importante nella storia degli uomini. Quelli nati tra i due secoli precedenti hanno visto due guerre. Hanno fatto cose buone e meno buone. Voi guiderete questo secolo, non so se la cosa vi è chiara. Spero che facciate cose migliori di quelle che abbiamo fatto noi, generazione dei vostri genitori. La nostra generazione l’hanno chiamata Generazione dell’Impegno e Generazione dell’Identità.
Ma spesso ho la netta sensazione che ci siamo impegnati poco, e che non ci guardiamo abbastanza dentro, perché forse non ci piacciamo affatto. Perché il mondo che vi abbiamo preparato, nonostante le premesse ideali, è forse migliore di quello dei nostri genitori, ma non poi così tanto ben riuscito. Voi potrete certamente solo renderlo migliore.
Qualcuno ha detto di voi e di quelli un po’ più grandi di voi, che siete bamboccioni, choosy e viziati. In parte forse è vero, non neghiamolo. Possedete molti oggetti. Chi è più fortunato viaggia. Ha accesso a molte informazioni. È in contatto con il mondo. Avete molti interessi, anche se noi non lo capiamo solo perché sono diversi dai nostri e soprattutto perché non vi ascoltiamo abbastanza. Vi piace il cinema, la musica e per nulla la televisione.
Non so bene se la politica vi interessi, ma forse è perché non vi piace lo spettacolo che dà, la politica. Che, diciamo, è più spettacolo che politica. Perché quelli della Generazione dell’Impegno e dell’Identità se la sono accaparrata. Pensano che sia roba loro e che voi non siate capaci. Di capire i problemi e di partecipare. O forse, alla fine, non vi interessa proprio. Inventerete qualcos’altro.
State attenti, perché voi Millenials sardi, siete pochi come numero. In Sardegna pochissimi rispetto ai vostri coetanei italiani. Che in tutto sono circa 580.000. Solo in Lombardia circa 90.000, in Emilia Romagna 38.000. Però dovete considerare che essere pochi non è sempre uno svantaggio. Perciò vi dovrete organizzare, ma in cambio avrete tante possibilità in più di riuscire nella vita. Mentre noi, quelli dell’Identità e dell’Impegno, siamo moltissimi e vi toccherà mantenerci, come pensionati, quando sarà il momento.
Non credete per nulla a quelli che, per dirla come avrebbe detto Gianni Morandi (cantante del secolo scorso) nella sua celebre canzone Uno su mille ce la fa. Perché a vent’anni è tutto ancora intero, come diceva invece Francesco Guccini (cantautore in voga tra quelli della Generazione dell’Impegno), anche se quante balle si ha in testa a quell’età. Ce la farete tutti, ognuno per la sua parte e per la sua strada. Certo dovrete impegnarvi, studiare molto perché le Pantere Grigie, cioè noi, non abbiamo perso il vizio della zampata e non vi regaleremo nulla, statene certi.
Infine, vi prego, tappatevi le orecchie e non ascoltate chi vi considera una generazione perduta. Non è vero. Vogliono mettervi paura, scoraggiarvi, ma voi non dovete demoralizzarvi. Non è mai stato facile per nessuno. O meglio, a dire il vero, è stato facile per qualcuno, ma erano quelli nati con la camicia. Ci sono sempre stati.
Sappiamo che siete aperti al mondo, che proteste lavorare a Londra o Stoccolma e considerarlo normale. Noi al massimo facevamo il viaggio della maturità percorrendo lo Stivale fermandoci a Firenze. Molti di voi partiranno, lo dicono statistiche poco incoraggianti, ma tornerete, perché la vostra terra è Itaca, bella, sconvolgente ed accogliente.
Infine, non permettete che nessuno vi chiami perdenti. Sappiate che quell’espressione è frutto di un banale meccanismo di proiezione. Voi siete invece pieni di energia perché siete Millenials. Siete solo all’inizio. Siete capaci di guardare al vostro futuro. Dovunque ed anche senza di noi.
Dunque gambe in spalla e buon compleanno, ventenni sardi. Tanti auguri a voi!
*Il tema delle generazioni e del rapporto tra essi è descritto nel Rapporto ISTAT 2016 a pag 39 al Capitolo ‘Le trasformazioni demografiche e sociali: una lettura per generazione’
C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico nelle immagini che arrivano dalla Turchia dopo il tentato golpe
Turchia – Intervento di Dacia Maraini (Corriere della Sera).
Era vero golpe o poco più di una drammatica messa in scena per rafforzare il potere di Erdogan ed eliminare radicalmente l’opposizione al regime e la resistenza democratica? Troppo presto per affermarlo con certezza. Molto interessante, fra i tanti commenti degli osservatori, quanto scrive Dacia Maraini sul Corriere della Sera. “C’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico nelle immagini che arrivano dalla Turchia dopo il tentato golpe”. Il riferimento è alle numerose immagini di brutali repressioni, alle punizioni corporali impartite dai miliziani del regime nelle piazze a favore di telecamera. Indubbiamente le immagini di uomini seminudi seduti per terra o sdraiati sul pavimento con le mani legate dietro la schiena fanno rabbrividire. Non di ritorno all’ordine costituito si tratta bensì di grave e palese violazione delle più elementari regole democratiche e di violazione dei diritti fondamentali dell’individuo. La Maraini fa notare che è in atto una formidabile operazione di repressione dell’opposizione realizzata attraverso lo strumento della vendetta che si erge a giustiziera e, giustamente, si domanda: “Ma la vendetta può chiamarsi giustizia?”. La vendetta del sistema utilizzata come vendetta purificatrice che dovrebbe rilanciare l’autorità del Capo con punizioni esemplari è ciò che sta accadendo in un paese che costituisce un pilastro dell’Alleanza Atlantica e che ambisce a diventare un paese dell’Unione Europea, per la quale svolge dei compiti importanti relativamente alla vicenda dei flussi migratori. Un argomento di fondamentale importanza, sostiene la Maraini, che segna il confine tra storia antica e storia moderna che è rappresentato dalla capacità di separare la giustizia dalla vendetta. La vendetta, in tutta la sua brutalità si ripropone sempre come il modo più rapido per rivalersi sul nemico, per ripagare oltraggi e offese subite. La storia del passato, le guerre realizzate in nome di vendette nazionali e diversi altri vicende umane degli ultimi secoli, hanno fatto maturare la convinzione che è fondamentale separare la giustizia dalla vendetta. La giustizia che risponde alle leggi, ai codici, al diritto degli accusati di avere giudizi imparziali da giudici il cui unico scopo deve essere quello di applicare la legge ignorando qualsiasi proposito di vendetta. In Turchia tutto ciò passa in secondo ordine, prevale invece il recupero dell’idea di vendetta che si spinge perfino nell’ipotizzare il ritorno alla pena capitale pur sapendo che tale scelta metterebbe la parola fine alle trattative per includere tale paese nell’Unione Europea. C’è poi un’altra considerazione che Dacia Maraini pone in evidenza, la questione delle donne in Turchia. Nelle immagini terribili della repressione anti golpe colpisce la totale assenza di figure femminili quasi come se Erdogan ritenesse la vendetta “una questione squisitamente maschile”. In un paese nel quale le donne studiano, lavorano, guidano l’auto, intervengono in dibattiti pubblici non vi è traccia di presenza femminile né tra gli arrestati né tra chi è sceso in piazza per sostenere il vecchio regime. E’ possibile che le donne turche siano state tutte messe a tacere o sta passando qualcosa di altro che tende a relegare ancora una volta la donna in un ruolo marginale e secondario nella società turca? In questo senso la Maraini afferma che: “c’è qualcosa di stantio e ferocemente arcaico in queste punizioni plateali che devono servire come esempio”. Lo scontro appare essere tra la condanna del mondo moderno caratterizzato dalla libertà di critica, dalla libertà sessuale, e di religione e, per contro, l’uso degli strumenti della modernità (soprattutto dei Media) per riaffermare le proprie ragioni. “Il massimo della spregiudicatezza tecnologica si sposa con il massimo dell’arcaismo storico. Per chi crede nei diritti dell’essere umano, sono forme di schizofrenia storica. Una malattia della fede e della memoria, una peste della ragione”. La questione turca diventa quindi anche un importante banco di prova per difendere, proteggere e tutelare conquiste fondamentali dalla società certamente irrinunciabili.
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- Per correlazione: Iniziativa sulla Turchia al Circolo ME-TI
Ricordando Paolo Borsellino insieme con Emanuela Loi e gli altri agenti della sua scorta. La forza delle Parole
“Grazie caro papà”
di Manfredi Borsellino, da fb
Il primo pomeriggio di quel 23 maggio studiavo a casa dei miei genitori, preparavo l’esame di diritto commerciale, ero esattamente allo “zenit” del mio percorso universitario. Mio padre era andato, da solo e a piedi, eludendo come solo lui sapeva fare i ragazzi della scorta, dal barbiere Paolo Biondo, nella via Zandonai, dove nel bel mezzo del “taglio” fu raggiunto dalla telefonata di un collega che gli comunicava dell’attentato a Giovanni Falcone lungo l’autostrada Palermo-Punta Raisi.
Ricordo bene che mio padre, ancora con tracce di schiuma da barba sul viso, avendo dimenticato le chiavi di casa bussò alla porta mentre io ero già pietrificato innanzi la televisione che in diretta trasmetteva le prime notizie sull’accaduto. Aprii la porta ad un uomo sconvolto, non ebbi il coraggio di chiedergli nulla né lui proferì parola.
Si cambiò e raccomandandomi di non allontanarmi da casa si precipitò, non ricordo se accompagnato da qualcuno o guidando lui stesso la macchina di servizio, nell’ospedale dove prima Giovanni Falcone, poi Francesca Morvillo, gli sarebbero spirati tra le braccia. Quel giorno per me e per tutta la mia famiglia segnò un momento di non ritorno. Era l’inizio della fine di nostro padre che poco a poco, giorno dopo giorno, fino a quel tragico 19 luglio, salvo rari momenti, non sarebbe stato più lo stesso, quell’uomo dissacrante e sempre pronto a non prendersi sul serio che tutti conoscevamo.
Ho iniziato a piangere la morte di mio padre con lui accanto mentre vegliavamo la salma di Falcone nella camera ardente allestita all’interno del Palazzo di Giustizia. Non potrò mai dimenticare che quel giorno piangevo la scomparsa di un collega ed amico fraterno di mio padre ma in realtà è come se con largo anticipo stessi già piangendo la sua.
Dal 23 maggio al 19 luglio divennero assai ricorrenti i sogni di attentati e scene di guerra nella mia città ma la mattina rimuovevo tutto, come se questi incubi non mi riguardassero e soprattutto non riguardassero mio padre, che invece nel mio subconscio era la vittima. Dopo la strage di Capaci, eccetto che nei giorni immediatamente successivi, proseguii i miei studi, sostenendo gli esami di diritto commerciale, scienze delle finanze, diritto tributario e diritto privato dell’economia. In mio padre avvertivo un graduale distacco, lo stesso che avrebbero percepito le mie sorelle, ma lo attribuivo (e giustificavo) al carico di lavoro e di preoccupazioni che lo assalivano in quei giorni. Solo dopo la sua morte seppi da padre Cesare Rattoballi che era un distacco voluto, calcolato, perché gradualmente, e quindi senza particolari traumi, noi figli ci abituassimo alla sua assenza e ci trovassimo un giorno in qualche modo “preparati” qualora a lui fosse toccato lo stesso destino dell’amico e collega Giovanni.
La mattina del 19 luglio, complice il fatto che si trattava di una domenica ed ero oramai libero da impegni universitari, mi alzai abbastanza tardi, perlomeno rispetto all’orario in cui solitamente si alzava mio padre che amava dire che si alzava ogni giorno (compresa la domenica) alle 5 del mattino per “fottere” il mondo con due ore di anticipo. In quei giorni di luglio erano nostri ospiti, come d’altra parte ogni estate, dei nostri zii con la loro unica figlia, Silvia, ed era proprio con lei che mio padre di buon mattino ci aveva anticipati nel recarsi a Villagrazia di Carini dove si trova la residenza estiva dei miei nonni materni e dove, nella villa accanto alla nostra, ci aveva invitati a pranzo il professore “Pippo” Tricoli, titolare della cattedra di Storia contemporanea dell’Università di Palermo e storico esponente dell’Msi siciliano, un uomo di grande spessore culturale ed umano con la cui famiglia condividevamo ogni anno spensierate stagioni estive.
Mio padre, in verità, tentò di scuotermi dalla mia “loffia” domenicale tradendo un certo desiderio di “fare strada” insieme, ma non ci riuscì. L’avremmo raggiunto successivamente insieme agli zii ed a mia madre. Mia sorella Lucia sarebbe stata impegnata tutto il giorno a ripassare una materia universitaria di cui avrebbe dovuto sostenere il relativo esame il giorno successivo (cosa che fece!) a casa di una sua collega, mentre Fiammetta, come è noto, era in Thailandia con amici di famiglia e sarebbe rientrata in Italia solo tre giorni dopo la morte di suo padre.
Non era la prima estate che, per ragioni di sicurezza, rinunciavamo alle vacanze al mare; ve ne erano state altre come quella dell’85, quando dopo gli assassini di Montana e Cassarà eravamo stati “deportati” all’Asinara, o quella dell’anno precedente, nel corso della quale mio padre era stato destinatario di pesanti minacce di morte da parte di talune famiglie mafiose del trapanese. Ma quella era un’estate particolare, rispetto alle precedenti mio padre ci disse che non era più nelle condizioni di sottrarsi all’apparato di sicurezza cui, soprattutto dolo la morte di Falcone, lo avevano sottoposto, e di riflesso non avrebbe potuto garantire a noi figli ed a mia madre quella libertà di movimento che negli anni precedenti era riuscito ad assicurarci.
Così quell’estate la villa dei nonni materni, nella quale avevamo trascorso sin dalla nostra nascita forse i momenti più belli e spensierati, era rimasta chiusa. Troppo “esposta” per la sua adiacenza all’autostrada per rendere possibile un’adeguata protezione di chi vi dimorava. Ricordo una bellissima giornata, quando arrivai mio padre si era appena allontanato con la barchetta di un suo amico per quello che sarebbe stato l’ultimo bagno nel “suo” mare e non posso dimenticare i ragazzi della sua scorta, gli stessi di via D’Amelio, sulla spiaggia a seguire mio padre con lo sguardo e a godersi quel sole e quel mare.
Anche il pranzo in casa Tricoli fu un momento piacevole per tutti, era un tipico pranzo palermitano a base di panelle, crocché, arancine e quanto di più pesante la cucina siciliana possa contemplare, insomma per stomaci forti. Ricordo che in Tv vi erano le immagini del Tour de France ma mio padre, sebbene fosse un grande appassionato di ciclismo, dopo il pranzo, nel corso del quale non si era risparmiato nel “tenere comizio” come suo solito, decise di appisolarsi in una camera della nostra villa. In realtà non dormì nemmeno un minuto, trovammo sul portacenere accanto al letto un cumulo di cicche di sigarette che lasciava poco spazio all’immaginazione.
Dopo quello che fu tutto fuorché un riposo pomeridiano mio padre raccolse i suoi effetti, compreso il costume da bagno (restituitoci ancora bagnato dopo l’eccidio) e l’agenda rossa della quale tanto si sarebbe parlato negli anni successivi, e dopo avere salutato tutti si diresse verso la sua macchina parcheggiata sul piazzale limitrofo le ville insieme a quelle della scorta. Mia madre lo salutò sull’uscio della villa del professore Tricoli, io l’accompagnai portandogli la borsa sino alla macchina, sapevo che aveva l’appuntamento con mia nonna per portarla dal cardiologo per cui non ebbi bisogno di chiedergli nulla. Mi sorrise, gli sorrisi, sicuri entrambi che di lì a poche ore ci saremmo ritrovati a casa a Palermo con gli zii.
Ho realizzato che mio padre non c’era più mentre quel pomeriggio giocavo a ping pong e vidi passarmi accanto il volto funereo di mia cugina Silvia, aveva appena appreso dell’attentato dalla radio. Non so perché ma prima di decidere il da farsi io e mia madre ci preoccupammo di chiudere la villa. Quindi, mentre affidavo mia madre ai miei zii ed ai Tricoli, sono salito sulla moto di un amico d’infanzia che villeggia lì vicino ed a grande velocità ci recammo in via D’Amelio.
Non vidi mio padre, o meglio i suoi “resti”, perché quando giunsi in via D’Amelio fui riconosciuto dall’allora presidente della Corte d’Appello, il dottor Carmelo Conti, che volle condurmi presso il centro di Medicina legale dove poco dopo fui raggiunto da mia madre e dalla mia nonna paterna. Seppi successivamente che mia sorella Lucia non solo volle vedere ciò che era rimasto di mio padre, ma lo volle anche ricomporre e vestire all’interno della camera mortuaria. Mia sorella Lucia, la stessa che poche ore dopo la morte del padre avrebbe sostenuto un esame universitario lasciando incredula la commissione, ci riferì che nostro padre è morto sorridendo, sotto i suoi baffi affumicati dalla fuliggine dell’esplosione ha intravisto il suo solito ghigno, il suo sorriso di sempre; a differenza di quello che si può pensare mia sorella ha tratto una grande forza da quell’ultima immagine del padre, è come se si fossero voluti salutare un’ultima volta.
La mia vita, come d’altra parte quella delle mie sorelle e di mia madre, è certamente cambiata dopo quel 19 luglio, siamo cresciuti tutti molto in fretta ed abbiamo capito, da subito, che dovevamo sottrarci senza “se” e senza “ma” a qualsivoglia sollecitazione ci pervenisse dal mondo esterno e da quello mediatico in particolare. Sapevamo che mio padre non avrebbe gradito che noi ci trasformassimo in “familiari superstiti di una vittima della mafia”, che noi vivessimo come figli o moglie di …, desiderava che noi proseguissimo i nostri studi, ci realizzassimo nel lavoro e nella vita, e gli dessimo quei nipoti che lui tanto desiderava. A me in particolare mi chiedeva “Paolino” sin da quando avevo le prime fidanzate, non oso immaginare la sua gioia se fosse stato con noi il 20 dicembre 2007, quando è nato Paolo Borsellino, il suo primo e, per il momento, unico nipote maschio.
Oggi vorrei dire a mio padre che la nostra vita è sì cambiata dopo che ci ha lasciati ma non nel senso che lui temeva: siamo rimasti gli stessi che eravamo e che lui ben conosceva, abbiamo percorso le nostre strade senza “farci largo” con il nostro cognome, divenuto “pesante” in tutti i sensi, abbiamo costruito le nostre famiglie cui sono rivolte la maggior parte delle nostre attenzioni come lui ci ha insegnato, non ci siamo “montati la testa”, rischio purtroppo ricorrente quando si ha la fortuna e l’onore di avere un padre come lui, insomma siamo rimasti con i piedi per terra. E vorrei anche dirgli che la mamma dopo essere stata il suo principale sostegno è stata in questi lunghi anni la nostra forza, senza di lei tutto sarebbe stato più difficile e molto probabilmente nessuno di noi tre ce l’avrebbe fatta.
Mi piace pensare che oggi sono quello che sono, ossia un dirigente di polizia appassionato del suo lavoro che nel suo piccolo serve lo Stato ed i propri concittadini come, in una dimensione ben più grande ed importante, faceva suo padre, indipendentemente dall’evento drammatico che mi sono trovato a vivere.
D’altra parte è certo quello che non sarei mai voluto diventare dopo la morte di mio padre, una persona che in un modo o nell’altro avrebbe “sfruttato” questo rapporto di sangue, avrebbe “cavalcato” l’evento traendone vantaggi personali non dovuti, avrebbe ricoperto cariche o assunto incarichi in quanto figlio di… o perché di cognome fa Borsellino. A tal proposito ho ben presente l’insegnamento di mio padre, per il quale nulla si doveva chiedere che non fosse già dovuto o che non si potesse ottenere con le sole proprie forze. Diceva mio padre che chiedere un favore o una raccomandazione significa mettersi nelle condizioni di dovere essere debitore nei riguardi di chi elargisce il favore o la raccomandazione, quindi non essere più liberi ma condizionati, sotto il ricatto, fino a quando non si restituisce il favore o la raccomandazione ricevuta.
Ai miei figli, ancora troppo piccoli perché possa iniziare a parlargli del nonno, vorrei farglielo conoscere proprio tramite i suoi insegnamenti, raccontandogli piccoli ma significativi episodi tramite i quali trasmettergli i valori portanti della sua vita. Caro papà, ogni sera prima di addormentarci ti ringraziamo per il dono più grande, il modo in cui ci hai insegnato a vivere.
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#Unlibrodascoprire
Annalisa Strada e la storia di Emanuela Loi, morta accanto a Borsellino
Emanuela Loi
Sono passati quasi venticinque anni da quel 19 luglio 1992 in cui il giudice Paolo Borsellino e la sua scorta “saltarono” in aria in via D’Amelio a Palermo.
Venticinque anni che non sono bastati a fare luce sui tanti interrogativi di quella strage. Come fece Cosa Nostra a conoscere in anticipo i movimenti di Borsellino? Qualcuno lo tradì? Furono sottratti i documenti riservati del giudice? Venticinque anni in cui, però, la memoria di Borsellino – e quella di Giovanni Falcone ucciso solo due mesi prima – non si è affievolita, anzi.
Se esiste un punto fermo, condiviso da tutti riguardo alla lotta contro la Mafia, ebbene quel punto è rappresentato dall’esempio e dai metodi dei due giudici che più di altri seppero colpire al cuore Cosa Nostra.
Per questa ragione è fondamentale raccontare soprattutto ai più giovani, a coloro che non erano ancora nati venticinque anni fa, la storia di Borsellino e Falcone e le tragedie di quel fatidico 1992.
Annalisa Strada, insegnante e autrice di molti libri per ragazzi, ha scelto di farlo partendo da una prospettiva diversa, più vicina probabilmente all’immaginario dei ragazzi a cui vuole rivolgersi.
Parte non dai processi, dalle indagini e dalle stragi, ma dalla vicenda umana di una giovane di quegli anni, Emanuela Loi, poliziotta destinata alla scorta di Borsellino e uccisa col giudice a poco più di vent’anni.
È nato così “Io, Emanuela – agente della scorta di Paolo Borsellino” (Einaudi Ragazzi, 2016, Euro 11, pp. 138), sorta di diario intimo, raccontato in prima persona da una giovane uguale a tante, nata a Sestu, non lontano da Cagliari sul finire degli anni Sessanta.
Emanuela è molto legata ai genitori, al fratello e soprattutto alla sorella Claudia, la sua migliore amica. Ha studiato da maestra, ma spinta proprio da Claudia partecipa a un concorso per entrare in polizia e diventa un agente.
È una poliziotta quasi per caso ma il suo lavoro le piace. Si sente utile, al servizio della comunità che contribuisce a proteggere.
I suoi giorni scorrono tra il servizio, le poche pause, i brevi rientri in famiglia e le vacanze con il fidanzato.
Intanto, attorno a lei, la guerra tra Mafia e Stato diventa sempre più cruenta ed Emanuela viene trasferita proprio in prima linea, a Palermo.
Non è un’eroina Emanuela, ha paura della realtà in cui si trova a vivere, spera in un trasferimento però non sfugge al proprio dovere, neppure quando le affidano il compito più pericoloso di tutti: proteggere Paolo Borsellino, il bersaglio numero uno della Mafia.
La giovane avverte che lei e i suoi colleghi possono fare poco, ha dubbi, sente che in qualche modo il giudice è stato abbandonato al suo destino.
Annalisa Strada dà allora voce – partendo dai ricordi dei famigliari della ragazza – alle ansie degli ultimi giorni di Emanuela. E lo fa senza enfasi, senza eccessi melodrammatici.
Lascia che Emanuela parli da sola e vada incontro al suo destino, consapevole che di fronte al Male le persone perbene non hanno che un’unica scelta: compiere fino in fondo il proprio dovere, senza eroismi e senza sotterfugi.
Ed Emanuela era questo, una persona perbene, che voleva essere felice, giusta e utile.
Non glielo hanno permesso ma quello che ha fatto non è stato dimenticato… e non sarà mai inutile.
Roberto Roveda, su L’Unione Sarda online del 19 luglio 2016
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Turchia
Una risata vi seppellirà!
La sedia di Vanni Tola
Ho scritto alcuni giorni fa un commento sulla vicenda della censura del film di Sabina Guzzanti definendo “ridicolo” il comportamento del sindaco Nizzi. Pubblico volentieri questa lettera, magistralmente ironica, del cantautore Piero Marras che, dovendo presentare in Olbia un suo spettacolo, “sottopone a censura preventiva” i testi delle sue canzoni. Grazie Benedetto per averla segnalata.
Vittorio Emanuele III, l’improbabile Imperatore degno di oblio
Vittorio Emanuele III e le sciagurate scelte
di Francesco Casula
Alcune motivazioni perché Vittorio Emanuele III di Savoia non è degno di essere intestatario di una Via, una Piazza o altri simili ed equivalenti “onori” e riconoscimenti nei paesi e nelle città della Sardegna.
Durante il suo regno (1900-1946) Vittorio Emanuele III fu connivente e spesso attivo sostenitore di scelte sciagurate e funeste per l’intera Italia e per la Sardegna in particolare, per le conseguenze devastanti che quelle scelte comportarono. Per cui il giudizio della storia sulla sua figura è spietato e senza appello. Egli infatti è, in quanto re e dunque capo dello stato, responsabile o comunque corresponsabile della partecipazione dell’Italia alle due grandi guerre e del Fascismo.
Anche durante il suo regno, fin dall’inizio del Novecento, continua la repressione violenta nei confronti della protesta popolare e dei movimenti di opposizione che aveva caratterizzato la fine dell’Ottocento, culminata con l’omicidio di Umberto I per mano dell’anarchico Gaetano Bresci, rientrato appositamente dagli Stati Uniti per “vendicare” la strage di Milano del 1898.
1. Repressione poliziesca agli inizi del Novecento in Sardegna
L’eccidio di Buggerru. La sommossa di Cagliari, Villasalto e Iglesias
Ricollegandosi al clima di repressione di fine secolo in Italia con la strage di Milano, nel romanzo Paese d’ombre Giuseppe Dessì scrive a proposito dell’eccidio di Buggerru: Bava Beccaris era nell’aria e con esso il suo demente insegnamento.
Anche a Buggerru, allora importante centro minerario, l’esercito, come a Milano nel 1898, sparò sulla folla inerme. Il 4 settembre del 1904 nel paese di Buggerru giunsero da Cagliari due compagnie del 42° reggimento di fanteria. La folla che gremiva la strada principale del paese li accolse in un silenzio ostile. Poco dopo i soldati con le baionette già cariche si schierarono in assetto da guerra all’esterno dell’Albergo dove alloggiavano. Le minacce e i tentativi di disperdere con la forza i manifestanti da parte dei soldati non sortirono alcun effetto. Fu allora che i soldati imbracciarono i moschetti e spararono sulla folla inerme. La tragedia si consumò in pochi minuti: sulla terra battuta della piazza giacevano una decina di minatori. Due, Felice Littera di 31 anni, di Masullas, e Giovanni Montixi di 49 anni, di Sardara, erano morti. Un terzo, Giustino Pittau, di Serramanna, colpito alla testa, morì in ospedale. Un mese dopo anche il ferito Giovanni Pilloni perì.
A Cagliari due anni dopo nel 1906, in seguito a una sommossa popolare contro il caro vita ci furono 10 morti.
“Alla notizia dei morti di Cagliari – scrive Natale Sanna – insorsero subito i centri minerari dell’Iglesiente con richieste varie, scioperi, saccheggi, scontri con i soldati, morti (due a Gonnesa e duie a Nebida) e feriti (17 a Gonnesa e quindici a Nebida) fra i dimostranti” (Natale Sanna, Il cammino dei Sardi, volume terzo, Editrice Sardegna, Cagliari, 1986, pagina 472).
Duramente repressi furono anche gli scioperi e le manifestazioni che si innescarono sempre dopo i fatti di Cagliari a Villasimius, San Vito, Muravera, Abbasanta, Escalaplano, Villasalto (con 6 morti e 12 feriti). Mentre a Iglesias nel 1920 i carabinieri sparano su una manifestazione di minatori causando 7 morti.
2. Vittorio Emanuele III e la Prima Guerra mondiale
La decisione di entrare in guerra fu presa esclusivamente dal sovrano, in collaborazione con il primo ministro Salandra, desideroso com’era di completare la cosiddetta “unità nazionale” con la conquista di Trento e Trieste, ancora in mano austriaca. il conflitto fu, come noto, tremendo per le forze armate italiane, che andarono incontro ad una spaventosa carneficina, tra il fango, la neve delle trincee e tra indicibili stragi e sofferenze.
Fu lo stesso Papa Benedetto XV a definire quella guerra una inutile strage. Ma in una enciclica del 1914 Ad Beatissimi Apostolorum Principis lo stesso papa era stato ancora più duro definendola una gigantesca carneficina.
Sarà il sardo Emilio Lussu, in una suggestiva testimonianza storica e letteraria come Un anno sull’altopiano a descrivere gli orrori di quella guerra. Egli infatti al fronte però sperimenterà sulla propria pelle l’assurdità e l’insensatezza della guerra: con la protervia e la stupidità dei generali che mandano al macello sicuro i soldati; con i miliardi di pidocchi, la polvere e il fumo, i tascapani sventrati, i fucili spezzati, i reticolati rotti, i sacrifici inutili.
Una guerra che comportò oltre a immani risorse (e sprechi) economici e finanziari immani lutti, con decine di migliaia di morti, feriti, mutilati e dispersi. A pagare i costi e il fio maggiore fu la Sardegna: “Pro difender sa patria italiana/distrutta s’este sa sardigna intrea, cantavano i mulattieri salendo i difficili sentieri verso le trincee, ha scritto Camillo Bellieni, ufficiale della Brigata” (Brigaglia, Mastino, Ortu, Storia della Sardegna, Editori Laterza, 2002, pagina 9).
Infatti alla fine del conflitto la Sardegna avrebbe contato bel 13.602 morti (più i dispersi nelle giornate di Caporetto, mai tornati nelle loro case). Una media di 138,6 caduti ogni mille chiamati alle armi, contro una media “nazionale” di 104,9.
E a “crepare” saranno migliaia di pastori, contadini, braccianti chiamati alle armi: i figli dei borghesi, proprio quelli che la guerra la propagandavano come “gesto esemplare” alla D’Annunzio o, cinicamente, come “igiene del mondo” alla futurista, alla guerra non ci sono andati.
La retorica patriottarda e nazionalista sulla guerra come avventura e atto eroico, va a pezzi. Abbasso la guerra, “Basta con le menzogne” gridavano, ammutinandosi con Lussu, migliaia di soldati della Brigata Sassari il 17 Gennaio 1916 nelle retrovie carsiche, tanto da far scrivere allo stesso Lussu – in Un anno sull’altopiano – Il piacere che io sentii in quel momento, lo ricordo come uno dei grandi piaceri della mia vita.
In cambio delle migliaia di morti – per non parlare delle migliaia di mutilati e feriti – ci sarà il retoricume delle medaglie, dei ciondoli, delle patacche. Ma la gloria delle trincee – sosterrà lo storico sardo Carta-Raspi – non sfamava la Sardegna.
Sempre Carta Raspi scrive: ”Neppure in seguito fu capito il dramma che in quegli anni aveva vissuto la Sardegna, che aveva dato all’Italia le sue balde generazioni, mentre le popolazioni languivano fra gli stenti e le privazioni. La gloria delle trincee non sfamava la Sardegna, anzi la impoveriva sempre di più, senza valide braccia, senza aiuti, con risorse sempre più ridotte. L’entusiasmo dei suoi fanti non trovava perciò che scarsa eco nell’isola, fiera dei suoi figli ma troppo afflitta per esaltarsi, sempre più conscia per antica esperienza dello sfruttamento e dell’ingratitudine dei governi, quasi presaga dell’inutile sacrificio. Al ritorno della guerra i Sardi non avevano da seminare che le decorazioni:le medaglie d’oro. d’argento e di bronzo e le migliaia di croci di guerra; ma esse non germogliavano, non davano frutto”. (Raimondo Carta Raspi, Storia della Sardegna, Ed. Mursia, Milano, 1971, pagina 904)
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