Monthly Archives: aprile 2016

Efis martiri gloriosu

Dal Cile a Sant'Efisio 30 4 16
- La pagina fb dell’evento.

Mercoledì 27 aprile 2016

Mirasola migranti
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Gramsci

Eutanasia, diritto a una libera scelta

Serafino Canepa è ancora con noi
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Oggi su iniziativa del Socialforum alle 17 nell’Aula Magna dell’ITI Marconi via V. Pisano 7 – Cagliari verrà ricordato Serafino Canepa. Lo si farà parlando di un tema delicato l’Eutanasia, il diritto ad una libera scelta sulla fine della vita. Serafino aveva fatto questa scelta ed è appunto nel suo nome che il tema verrà trattato da Andrea Deffenu, costituzionalista nell’Ateneo cagliaritano e Raffaelo Ugo, artista.
Insomma, Serafino è ancora con noi e ci fa ancora discutere, come ha fatto durante la sua vita di uomo semplice dai grandi principi e dalle grandi battaglie.
- segue brochure dell’iniziativa -

Sa die

Manifesto-Sa-Die-2016

Martedì 26 aprile 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413. .
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Il diritto al lavoro è insieme diritto alla sicurezza e alla salute

STRESS SICUREZZA LAVORO 28 4 16Valeria Casula fto microLa giornata mondiale per la sicurezza sul lavoro

di Valeria Casula*
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Il 28 aprile ricorre la giornata mondiale per la sicurezza e la salute sul lavoro, istituita dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro per promuovere la prevenzione degli infortuni sul lavoro e delle malattie professionali a livello globale.
Spesso le dimensioni del fenomeno infortunistico in Italia sono note solo agli addetti ai lavori, vale a dire a chi come me si occupa nelle organizzazioni di Ambiente, Salute e Sicurezza, eppure il fenomeno è assolutamente rilevante e investe tutte le aziende.
Dal 1951 al 2015 le vittime sul lavoro in Italia sono state superiori alle vittime civili italiane della seconda guerra mondiale (oltre 160.000 a fronte di 153.147 vittime civili del secondo conflitto mondiale) e gli infortuni oltre 70 milioni.
Ora, è pur vero che la seconda guerra mondiale è durata 6 anni a non 64, tuttavia il rapporto di 1 a 10 risulta comunque abnorme.
L’andamento infortunistico mostra una forte contrazione passando da oltre 4000 incidenti mortali l’anno negli anni ’60 a circa 1000 attuali (compresi quelli in itinere), grazie non solo all’evoluzione delle misure tecniche (macchinari e attrezzature intrinsecamente più sicuri), ma anche alle misure gestionali (modalità operative e processi, formazione, informazione e addestramento su corretto utilizzo di materiali e attrezzature e processi, sorveglianza sanitaria, …).
Occorre tuttavia uno sforzo continuo e maggiore per abbattere lo zoccolo duro degli infortuni, perché non è accettabile che si continui a morire, ammalarsi o farsi male di lavoro.
Tralascio il lavoro nero, ignominia di un paese civile, la cui incidenza infortuni e malattie professionali, benché sfugga in parte alle statistiche, è estremamente elevata, non solo perché coinvolge i settori a più elevato rischio “intrinseco” (es. edilizia, agricoltura) ma soprattutto perché tale rischio non è mitigato attraverso le misure tecniche e gestionali sopra citate.
Mi riferisco ad aziende degne di questo nome, aziende che utilizzano attrezzature a norma, che formano, informano, addestrano e sottopongono a sorveglianza sanitaria i propri lavoratori, insomma aziende che ottemperano alla normativa vigente in materia antinfortunistica; ebbene, anche tali aziende hanno difficoltà a contrarre ulteriormente il fenomeno infortunistico.
Tali difficoltà sono dovute ad un orientamento culturale sia manageriale che diffuso a vari livelli delle organizzazioni che vede la sicurezza confliggere con gli obiettivi economici e operativi d’impresa e individuali, unita ad un certo “fatalismo” secondo cui l’infortunio è inevitabile.
Da un lato infatti ci sono le aziende (per fortuna non tutte!) che considerano la sicurezza come un mero costo, che non hanno ancora capito nel 21esimo secolo che non è solo un dovere etico e morale salvaguardare la salute e la sicurezza dei lavoratori, ma è anche un dovere economico verso l’azienda stessa e verso la collettività, visto che l’INAIL stima che il costo complessivo di infortuni e malattie professionali nel nostro paese ammonta a quasi 50 miliardi di euro (oltre il 2% del PIL, a carico sia delle aziende che della collettività) e che le spese in sicurezza hanno un ritorno economico per le aziende pari al doppio del capitale investito.
Dall’altro c’è la cultura diffusa che “se tanto ti deve capitare ti capita e non puoi farci niente”, che “si sa che nel nostro lavoro ogni tanto ci si fa male”, che “sì, lo so che dovrei agganciare l’imbragatura ma sono di fretta, tanto scendo subito e sto attento”, che “noi dobbiamo pensare a far andare avanti il business, e non abbiamo tempo da perdere con queste cose”, che “lascia stare, non stare a segnalare che quel dispositivo fa uno strano rumore, tanto non sarà niente di ché”.
Inutile dire che davanti a comportamenti e affermazioni di questo tipo tutti noi, a prescindere dal ruolo che ricopriamo in un’organizzazione, abbiamo non solo il diritto, ma anche e soprattutto il dovere di intervenire e/o segnalare.
Questa cultura è il principale nemico da sconfiggere per abbattere gli infortuni, non solo sul lavoro ma in tutti gli ambiti della nostra esistenza. Basti pensare a tutti i comportamenti insicuri frutto di questa cultura che spesso o talvolta adottiamo in auto, quando per fretta o per “assuefazione” al pericolo superiamo i limiti di velocità, usiamo il telefonino alla guida o pur di non sentire le lamentele del pargolo diciamo “e va bene puoi slacciarti la cintura, tanto siamo quasi arrivati!”, ma anche quando non indossiamo il casco sulle piste di sci, in bicicletta o addirittura in moto.
Qualsiasi infortunio produce effetti non solo sulla persona che lo subisce ma su tantissime persone che lo circondano, la compagna/il compagno, i figli, i genitori, gli amici, i colleghi. Se poi si tratta di un infortunio grave l’effetto è devastante e compromette l’esistenza stessa oltreché dell’infortunato anche dei propri cari che dovranno prestare assistenza e comunque modificare abitudini e consuetudini.
In questa giornata vorrei ribadire con rinnovata determinazione che LA SFORTUNA NON ESISTE, che tutte le aziende che si sono impegnate seriamente su questo fronte hanno drasticamente ridotto il fenomeno infortunistico finanche a dimezzarlo in pochi anni, a dimostrazione che attraverso una cultura della sicurezza che sui traduce in comportamenti e ambienti sicuri GLI INCIDENTI SUL LAVORO POSSONO ESSERE EVITATI!
*Ingegnere ambientale

Ridiamo per non piangere…

Angolo dell’umorismo del 13 febbraio 2016
fp e ppDialogo immaginario. Protagonisti Francesco Pigliaru presidente della Regione e Paola Piras commissaria straordinaria della Camera di Commercio di Cagliari. Il presidente incrocia la commissaria nei corridoi della Regione e visibilmente alterato le dice: “Paola, ma che cazzo stai combinando in Camera di commercio?” La commissaria intimidita e contrariata: “Perché Francesco, cosa ho fatto di male?”. Francesco Pigliaru: “Hai chiuso il Laboratorio chimico-merceologico della Sardegna! E ora vorresti addiritura chiudere la Fiera di Cagliari!”. La replica di Paola Piras:“Ma Francesco ho dovuto farlo per il Laboratorio e sarò costretta a farlo anche per la Fiera per almeno due motivi: 1) perché la gestione politica di vertice era o è fatta da incompetenti e 2) costano veramente troppo rispetto ai rispettivi risultati”. “Ma, allora” – chiosa il presidente, nel mentre calmatosi: “Con questo ragionamento dovremmo chiudere anche la Regione!”.
Il dialogo è davvero immaginario. Ogni commento purché non sia troppo serio è autorizzato!
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Aggiornamento del 25 aprile 2016
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Ci scrive Nereide Rudas, presidente del Comitato Po ‘sa die de sa Sardigna’ 2016…

… e volentieri pubblichiamo e diffondiamo.

Cari Amici,
vi allego la locandina ed il comunicato per sa die 2016, convinta dell’impegno di tutti per la loro diffusione in vista della partecipazione alle iniziative comunemente promosse.
Un caro abbraccio
NEREIDE RUDAS, presidente
Po ‘sa die de sa Sardigna’ 2016
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Da vent’anni ritorna la festa nazionale del popolo sardo!
Sa die de sa Sardigna (28 aprile) congiunge la festa della liberazione dalla dittatura nazi-fascista (25 aprile) alla festa del lavoro (1 maggio) che in Sardegna è pure festa del martire testimone della fede cristiana, S. Efisio.
Nel loro svolgersi i Sardi sono chiamati a percorrere le strade delle città e dei paesi portando i segni che richiamano i significati dei propri valori: la libertà da ogni oppressione, l’affermazione della propria identità, la fede in valori metastorici.
Sa die de sa Sardigna, memoria del triennio rivoluzionario (1793- 96) e della cacciata dei Piemontesi il 28 aprile 1794, rappresenta la data d’inizio della Sardegna contemporanea per tre ragioni: la contestazione dell’ancien regime, comune alle rivoluzioni europee della fine del Settecento; la rivolta del popolo e della classe dirigente sarda per la riaffermazione della propria costituzione esprimentesi nel Parlamento stamentario; la volontà di dirigere l’economia, la società, la cultura.

Procurade de moderare, barones, sa tirannia… rappresenta il perenne grido dei diritti storici del Popolo sardo.

Giovedì prossimo, festa nazionale del Popolo sardo, a partire dalle ore 9,00, le associazioni culturali si riuniscono nel Salone del Palazzo Regio in Cagliari, il palazzo del potere conquistato allora dal popolo cagliaritano in rivolta in sa die de ‘acciappa.
Per le ore 11,30 il Comitato invita i cittadini a partecipare alla S. Messa celebrata in duomo dall’arcivescovo mons. Arrigo Miglio
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I Sardi di oggi vogliono essere i continuatori di quei valori di libertà, uguaglianza e fraternità, nell’impegno per l’affermazione della propria identità, di orgoglio del proprio passato e di coraggioso impegno per il futuro.

Buona festa:
per il 25 aprile, per sa die de sa Sardigna, per il 1° maggio 2016

IL COMITATO PER ‘SA DIE DE SA SARDIGNA’
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GIU’ LE MANI DALLA COSTITUZIONE!

Difendiamo1NO referendum costAppello del Comitato per il NO nel referendum costituzionale
Da oggi e fino ad ottobre mobilitiamoci contro la manomissione della Costituzione
DIFENDIAMO LA COSTITUZIONE!

10 buone ragioni per votare NO al referendum costituzionale di ottobre

Le modifiche di ben 47 articoli introdotte dal Parlamento:
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25 Aprile di Liberazione

25 aprile 2016 manif ANPI

Lunedì 25 aprile 2016 71° anniversario della Liberazione!

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NO referendum costAppello del Comitato per il NO nel referendum costituzionale
Da oggi e fino ad ottobre mobilitiamoci contro la manomissione della Costituzione
DIFENDIAMO LA COSTITUZIONE!

10 buone ragioni per votare NO al referendum costituzionale di ottobre
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Cagliari verso le elezioni di giugno

cq comune caLa Cagliari di Zedda e Pigliaru laboratorio del Partito della Nazione. Basterà per vincere?
di Vito Biolchini, by vitobiolchini.it

Vi ricordate cinque anni fa? Alla vigilia della presentazione delle liste per le elezioni comunali, Cagliari era letteralmente in ebollizione. Le primarie del centrosinistra avevano favorito il dibattito sui problemi della città, la stessa situazione politica italiana (con Berlusconi agonizzante al governo) ridava forza alle opposizioni (brillava l’astro di Nichi Vendola, vi ricordate?). Alla Regione governava Ugo Cappellacci e le elezioni nel capoluogo erano attese come un segnale nei confronti del governo di viale Trento. C’era voglia di fare politica, c’era mobilitazione.
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Storie di francesi nella Sardegna sabauda

cossu_storie_di_francesi-210x300Storie di francesi nella Sardegna sabauda. Spazi, risorse economiche e consoli alla vigilia dell’Unità. La ricerca di Sara Cossu pubblicata dalle Edizioni Parteolla.
- La recensione su L’Unione Sarda (23 aprile 2016) – segue -
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La legge sulle autonomie locali: né riforma né riordino, manca un’idea di Sardegna!

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300Sardegna. Che pastrocchio il “riordino” degli enti locali!

democraziaoggi loghettodi Andrea Pubusa su Democraziaoggi

Volete farvi una risata? Sentite questa: la legge sul sistema delle autonomie locali, approvata l’altro ieri, viene chiamata dalla giunta regionale legge di “riordino”! Sissignori di “riordino”! Sennonché la legge dispone…in attesa di un referendum! Ebbene sì, se il referendum costituzionale – come è probabile e desiderabile – boccia lo scasso costituzionale di Renzi, il riordino rimane in sospensione, a bagno maria! Un bel casino!
E allora cosa cambia? Nulla o quasi. Le province di Sassari, Nuoro e Cagliari rimangono perché sono previste nello Statuto speciale (articolo 43). Oristano rimane perché è prevista da una legge statale. Dicono i “riordinatori” della giunta: attendiamo il referendum costituzionale di ottobre per sapere se la soppressione delle province prevista nella proposta Renzi-Boschi-Verdini passerà. Intanto, è probabile che non passi. Ma cosa c’azzecca? La modifica del titolo V della Costituzione non tocca lo Statuto, che è legge costituzionale e non è, al momento, soggetta a revisione. Ergo, Sassari, Nuoro e Cagliari rimangono. Al più Renzi, se non si nasconde nella Garfagnana dopo il referendum di ottobre, potrà sopprimere la provincia di Oristano abrogando o modificando la legge che a suo tempo la istituì. Bell’avanzamento per quelle popolazioni! Rimangono senza una rappresentanza territoriale potenzialmente credibile. Ma Cagliari, Sassari e Nuoro rimarranno. E a quel punto, ve la immaginate la provincia di Cagliari…senza Cagliari? Non la possono neanche chiamare del Sud Sardegna perché lo Statuto speciale prevede la provincia di Cagliari, non del Sud Sardegna. Quindi, modificando la circoscrizione territoriale attuale, dovranno prevedere che nella provincia di Cagliari…non c’è Cagliari e che il capoluogo è, poniamo, Sanluri!
Un bel riordino con c’è che dire! Da far venire i capogiri!
E la rete metropolitana di Sassari, si sovrapporrà alla Provincia di Sassari? E le unioni di Comuni, piccole aggregazioni governate da consorterie locali e prive di qualunque peso nei riguardi dello Stato e della Regione? E così via riordinando.
Volete il senso politico di tutto questo o, se preferite, il prevedibile risultato? Creare casino nei territori, stravolgere e paralizzare qualsiasi iniziativa delle comunità locali, privarle di rappresentanza, nel caos istituzionale dare permanentemente le decisioni locali a gruppi e consorterie, dove anche i buoni amministratori sono neutralizzati.
Certo richiamare alla razionalità un ceto politico uscito di senno è difficile. Ma, di grazia, non sarebbe più sensato mantenere le province attuali e rinforzarle, delegando loro tutte le funzioni di area vasta, lasciando ai Comuni tutte le quelle a da esercitare a contatto coi cittadini? L’area metropolitana cagliaritana più che la provincia avrebbe sostituito i comuni nell’esercizio delle funzioni aell’area, senza intaccare quelle elementari, da esercitare sull’uscio di casa.
Il riordino vero passa anzitutto dalla Regione e si realizza prosciugandola attraverso un rafforzamento delle funzioni e della rappresentatività degli enti locali minori. Meno Regione più autonomie sub-regionali pienamente rappresentative, ecco la linea di una vera riforma, che voglia riattivare le comunità locali e la loro voglia di partecipare. Il “riordino” della legge Erriu è solo un pasticcio volto a mortificare la rappresentanza e le comunità locali. L’obiettivo? Ripeto: nel casino assegnare il potere decisionale sulle questioni locali a quel grumo oscuro, costituito dall’intreccio fra consorterie regionali e locali, accomunate dalla volontà di escludere i cittadini.

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Ferula
CAGLIARI “CITTÀ METROPOLITANA” MENTRE LA SARDEGNA CORRE VERSO IL SUICIDIO DEMOGRAFICO: QUALI ALTERNATIVE?
di Federico Francioni, su Fondazione Sardinia on line.

Sommario: Premessa – La situazione internazionale – La sfida – L’economista Thomas Robert Malthus smentito dallo storico John Day – Alcune tappe della dinamica demografica sarda – La forza simbolico-politica dall’Utopia – Una nuova capitale della Sardegna nell’ambito di un progetto più vasto – Conclusioni.

Premessa: si è discusso di “città metropolitana”, ma non della minaccia di “genocidio culturale” che incombe sulla Sardegna. Le polemiche su Cagliari e/o Sassari come città metropolitane, unitamente al dibattito in Consiglio regionale sulla “riforma” degli Enti locali, hanno – in genere – ignorato, trascurato o non hanno posto adeguatamente in risalto l’estrema, tragica gravità del problema demografico: l’isola è uno dei territori del pianeta col tasso meno elevato di natalità. Lo ha notato, fra gli altri, David Kertzer, storico americano, studioso della famiglia in Italia, vincitore del prestigioso Premio Pulitzer, il quale si è interrogato, in particolare, sui modelli culturali che guidano i percorsi di vita e le decisioni delle donne in Sardegna. Ma già negli anni sessanta Antonio Simon Mossa, geniale architetto ed intellettuale poliedrico, affermò – non era esagerazione, slogan o “sparata” la sua – che su questa terra incombe la minaccia di “genocidio culturale”. Il rischio è che potrebbe essere la nostra comunità a contribuire, in modo decisivo, al proprio annientamento, alla scomparsa pressoché completa di una storia, di una lingua, di una cultura, di una civiltà. Ciò si potrà verificare grazie anche al secolare, decisivo, letale contributo di ceti dirigenti politici ed intellettuali profondamente estranei – dal punto di vista psicologico ed esistenziale, prima che politico-ideologico – a determinate tematiche.

La situazione internazionale.

Da tempo in tutto il mondo la popolazione tende sempre più a concentrarsi nelle città; alla crescita delle aree urbane corrisponde l’abbandono di quelle rurali. Lo spopolamento investe particolarmente territori di Nord America, Europa, Russia e Giappone: si vedano al riguardo le cifre fornite da State of World Population 2011 dell’UNFPA (United Nations Populations Fund), ripresa (si veda la p. 68) dall’importante ricerca Comuni in estinzione. Gli scenari dello spopolamento, in Idms, Indice di deprivazione multipla della Sardegna, 2013. In questo studio figurano pagine di Antonello Angius, di due docenti dell’Ateneo cagliaritano, Gianfranco Bottazzi e Giuseppe Puggioni (da tempo impegnato nello studio di questa tematica) e di altri autori.

La città cinese di Chongqing, come ha scritto Salvatore Settis, è passata da 600.000 abitanti del 1930 ai 32 milioni di oggi. Il fenomeno dello spopolamento assume inoltre il rilievo specifico dello svuotamento di Venezia, studiato dallo stesso Settis, ma anche centri storici dell’isola, come nel caso di Alghero e di Sassari, perdono abitanti. Senza una critica calzante dei mostri urbani attuali non saremo assolutamente in grado di prefigurare e progettare alcunché di positivo per il futuro. L’assunzione acritica dei modelli dominanti potrà condurre solo a versioni minuscole e penose delle megalopoli esistenti. Cagliari è già capoluogo del sottosviluppo, nel senso più deteriore del termine. «La nostra Isola del futuro – ha scritto il 12 dicembre Salvatore Cubeddu nel sito della Fondazione Sardinia ed in quello di “Sardegna soprattutto” – sarà una Città-Stato con il nome di Cagliari e sullo sfondo un territorio in dissolvenza storicamente chiamato Sardegna»; con relativa scomparsa, dunque, anche di una parvenza di autonomia regionale. Ma si veda anche (cfr. “La Nuova” del 24 ottobre 2015) quanto ha scritto in proposito Giovanni Maciocco, già preside della Facoltà di Architettura dell’Università di Sassari, sede di Alghero, che ha preso le distanze dal concetto di città metropolitana.

La sfida.

La grande, vera sfida che la società sarda dovrà affrontare nei prossimi decenni è quella che riguarda la dinamica demografica, la quale va assolutamente considerata in relazione ad una più ampia dimensione storica, socioeconomica, politica, culturale e, soprattutto, ad un’idea di pianificazione e di progetto. Non si tratta di un problema che attanaglia solo le popolazioni dei Comuni dell’isola a rischio di scomparsa e di estinzione pressoché totale.

Da molto tempo il nodo che si vuole qui esaminare è stato posto lucidamente da vari amministratori, fra i quali in questa sede vanno almeno citati Bachisio Porru (già sindaco di Olzai) e Paolo Pisu (già sindaco di Laconi). Più di recente, nello scorso novembre, il tema è stato affrontato nel convegno di Sennariolo ad opera specialmente del sindaco di questo Comune, Giambattista Ledda e di Omar Hassan, sindaco di Modolo, presidente della Consulta dei piccoli Comuni, nonché da altri amministratori. Lo stesso problema affonda le sue radici in secoli endemicamente caratterizzati da spopolamento e sotto-popolamento. Una situazione ben diversa da quella di determinate regioni del Meridione d’Italia, che sono stati e sono invece “piene” di abitanti. Un altro buon motivo per non edulcorare e per non annegare i tratti specifici della questione sarda in un unico calderone o magma indistinto, chiamato genericamente Mezzogiorno. Operazione in passato – ed ancor oggi – propria di certa intellettualità accademica, poco o niente sensibile alle rigorose analisi di Antonio Gramsci, che ha sempre distinto Napoletano, Sicilia e Sardegna, per la quale egli aveva posto a Emilio Lussu il quesito concernente l’esistenza – o meno – di una valenza “nazionale”, in senso sardo, di determinate spinte e rivendicazioni. Purtroppo lo stesso Bottazzi ha sostenuto che la dimensione sarda non presenta un suo profilo originale, ma è Meridione, puramente e semplicemente. Una lettura che conduce al totale appiattimento: come si fa a comparare Cagliari e Sassari con la realtà napoletano-vesuviana, da secoli fra le aree con densità di popolazione fra le più alte d’Europa? Se si parte da premesse teoriche errate sarà possibile mettere a punto adeguate strategie di salvezza?

L’economista Thomas Robert Malthus smentito da John Day.

Day, storico franco-americano, grande e sincero amico della nostra isola, cui ha dedicato anni di studio e pagine dense di precisi dati quantitativi (si pensi soprattutto alle sue indagini sui villaggi scomparsi) ritiene che le vicende demografiche della Sardegna costituiscano la smentita più eloquente delle posizioni assunte dall’inglese Malthus (1766-1834): com’è noto, per questo autore l’aumento delle risorse naturali e materiali, indispensabili per la sussistenza e la sopravvivenza, non riesce a reggere, a seguire il tasso naturale di crescita delle popolazioni. Catastrofi naturali, carestie, pestilenze, guerre svolgono il triste, ma inevitabile ruolo di ricondurre la situazione ad equilibri meno precari. Secondo Malthus è indispensabile assecondare la ricerca di tale equilibrio non facendo, fra l’altro, l’elemosina ai poveri e raccomandando la castità alle coppie che non siano in grado di mantenere i propri figli. Queste tesi suscitarono violente critiche (si pensi a quelle dei socialisti utopisti Charles Fourier e Pierre-Joseph Proudhon, così come di Marx ed Engels) ma allo stesso tempo incontrarono sostanziali e perduranti consensi.

Day invece pubblica – in “Annales” (n. 4, 1975), la rivista di Marc Bloch, Lucien Febvre e Fernand Braudel, una delle più prestigiose nel panorama della storiografia internazionale – un saggio in cui si dimostra che, fra malaria, presenza-assenza di guerre e di altre calamità, la Sardegna è, comunque, perennemente spopolata e/o sotto-popolata. Una carenza di popolazione si accompagna ad un’ampia disponibilità di territori solo molto parzialmente sfruttati e non adeguatamente valorizzati.

Se in futuro si cambiasse rotta, ciò avverrebbe a tutto vantaggio dell’isola che potrebbe collocare – se non altro in importanti nicchie del mercato globale – risorse di pregio, inconfondibili, uniche, come, per esempio, il grano Cappelli: ne avevamo parlato nel novembre 2014 in un incontro ad Alghero, presso il Dipartimento di Architettura, presentando la rivista “Camineras” ed affrontando il nodo dello spopolamento, con l’economista Ivan Blecic, Tonino Budruni (docente e storico), Ninni Tedesco (direttrice della rivista); erano intervenuti, fra gli altri, Paolo Mugoni (redattore di “Camineras”), l’economista Andrea Saba e Tonino Baldino (ex-sindaco di Alghero) il quale metteva in luce già da allora che Cagliari, nella veste di città metropolitana, è destinata ad assorbire gran parte dei finanziamenti dell’Unione Europea, con relativa accentuazione degli squilibri esistenti.

Sarà indispensabile assumere consapevolezza piena – per il passato, il presente e, soprattutto, per il futuro – che determinate realtà demografiche non possono, non devono essere analizzate indipendentemente dai programmi e dalle opzioni politiche dei ceti dirigenti, italiani e sardi; si tratta di individuare al riguardo una precisa gerarchia di responsabilità. Solo così potrà essere esaminato e compreso il ruolo dei soggetti in gioco per creare e mantenere quei meccanismi della dipendenza che hanno reso la nostra isola un “laboratorio di storia coloniale” (espressione coniata da Day). Lo spopolamento, va ribadito, può essere affrontato solo con politiche ad hoc che siano parte integrante di un più ampio progetto di fuoriuscita dalla crisi, di rilancio, per l’emancipazione economica, socioculturale e politica della Nazione sarda.

Alcune tappe della dinamica demografica sarda.

Risulta oltremodo difficile ipotizzare la consistenza globale della popolazione durante il dominio romano: si è pensato che, durante il I secolo dopo Cristo, gli isolani fossero all’incirca 300.000 (circa 12 per Kmq). Attenzione, una densità bassa in rapporto a quella siciliana ed al Sud dell’Italia, alta però se paragonata al numero dei sardi nel Medioevo ed in alcuni tratti dell’Età moderna.

Agli inizi del Trecento la Sardegna è popolata da non più di 190.000 persone. Mai regione d’Europa è stata, più della nostra isola, duramente provata dalle carestie, dalle epidemie e dalla violenza del tardo Medioevo: lo sostiene Day. Tra la fine del XIV ed i primi anni del secolo successivo, quando muore, colpita dalla peste, Eleonora d’Arborea, lo spopolamento rurale tocca il punto più alto e tragico. Ma, avverte Day, si tratta delle ultime ripercussioni di un movimento cominciato in piena “prosperità pisana”: espressione che, con tutta evidenza, va rigorosamente virgolettata.

Nel Seicento, il saldo finale è passivo: infatti, intorno al 1627, la popolazione è di 310.000 unità che diventano 260.551 nel 1698. La Sardegna, fortunatamente, non conosce la peste di manzoniana memoria (quella del 1630). Tuttavia nel 1641 i sardi, in tutto, non dovevano essere più di 300.000. Il 1644 è un anno di carestia; il 1647 è segnato da un’invasione di cavallette che non è la prima e non sarà, purtroppo, neppure l’ultima, se appena pensiamo a quella del secondo dopoguerra, filmata dal regista ed etnoantropologo visuale Fiorenzo Serra. Soprattutto, del 1652-57 è la decisiva cesura stabilita dalla grande pestilenza: Sassari perde, nei confronti di Cagliari, quel primato demografico che non riconquisterà più, pur riavvicinandosi all’attuale capoluogo regionale tra fine Ottocento e primi del Novecento, come sosteneva il sindaco di allora, Pietro Satta Branca (lo scriveva Manlio Brigaglia nel suo libro sulla classe dirigente sassarese). Del 1680-81 è un altro durissimo colpo per i sardi, già duramente provati: si tratta della hambre y epidemia che fa scomparire circa 1/3 degli abitanti. Un quadro più preciso viene dagli atti degli Stamenti, l’antico Parlamento sardo di ordini privilegiati, del quale chi scrive (con altri studiosi) ha curato l’edizione critica su incarico del Consiglio regionale.

Nel Settecento la crescita è continua: in Sardegna non arriva la peste di Marsiglia del 1720-22 che fa sparire la metà della popolazione. Nell’Ottocento la dinamica demografica continua ad essere positiva, nonostante Sassari venga colpita dal colera che, nel 1855, uccide ben 6.000 sassaresi su 25.000. Pur in presenza di lebbra (sì, proprio la lebbra), malaria, tracoma ed altre malattie, alla fine del XIX secolo gli abitanti sono circa 830.000, come emerge dai lavori del primo Congresso dei Sardi, tenutosi nel 1914 in Roma, a Castel Sant’Angelo: lo abbiamo ricordato il 27 ottobre del 2014 in un incontro-dibattito nell’Università di Sassari, con il vicesindaco Gianni Carbini ed inoltre con Attilio Mastino, Gianfranco Ganau, Serafina Mascia, Paolo Pulina, Paolo Fois, Omar Chessa, Cubeddu e Vanni Lobrano.

Nel Novecento la crescita prosegue, nonostante alle malattie già ricordate si aggiunga, ai primi del secolo, un aumento dei casi di lebbra, per non parlare della tubercolosi che, nei primi decenni, colpisce particolarmente Sassari, per la quale, infine, negli anni novanta, si delinea la crescita zero. Ma per tanti altri centri la decrescita era cominciata dopo il 1951 con imponenti, quasi biblici flussi migratori, che si sommavano a quelli che, durante l’età giolittiana, si erano diretti verso l’America Latina; il picco, per l’Italia di allora, è costituito dal 1913. Un aspetto dell’emigrazione poco studiato, secondo la psichiatra Nereide Rudas, riguarda le migliaia di sardi finiti nei Cim (Centri di igiene mentale).

Fino al 1951 si era registrato un sostanziale aumento nella popolazione di tutti o quasi i Comuni sardi. In seguito cominciano a prendere corpo i ben noti fenomeni di concentrazione, soprattutto nell’area cagliaritana, in quella sassarese, più di recente in quella di Olbia; in generale, si verifica uno spostamento della popolazione verso le coste e verso le due principali città – Cagliari soprattutto – ma non si tratta di percorsi e traiettorie uniformi, come viene dimostrato dai dati e dalle tabelle della già ricordata ricerca Comuni in estinzione. Nel Capo di Sopra paesi importanti accusano emorragie di notevole consistenza: impressionano le cifre che accompagnano il percorso demografico di centri tradizionalmente operosi, dotati – e non da ieri – di energie imprenditoriali, come Thiesi, Bonorva, Ozieri, Berchidda. Comuni come Uri crescono invece assorbendo i transfughi di quelli viciniori.

In Provincia di Nuoro non sono solo Bitti ed Orune a perdere abitanti (diverso il caso di Orgosolo), ma anche Aritzo, Desulo e Tonara, da tempo noti per il turismo montano (e non solo). Ultimamente il sindaco di Orgosolo Dionigi Deledda è stato fra i pochi, mi pare, a mettere in evidenza che il nodo da affrontare e da sciogliere riguarda non la creazione di una o due città metropolitane, ma proprio il riequilibrio demografico. Nel Capo di Sotto una realtà che andrebbe studiata, per esempio, è quella di Villacidro – dove non a caso si verifica un incremento di popolazione – evidentemente in grado di mantenere un sostanziale equilibrio fra settori economici diversi (il commercio, il centro della rete distributiva di Nonna Isa, agricoltura, pastorizia), nonostante sia stata colpita dalla crisi di una fabbrica come la Keller.

Nel convegno promosso dalla Cisl e tenutosi a Mandas nell’ottobre del 2014 è stato ricordato che i piccoli Comuni isolani sono 313 su 377; 258 hanno meno di 3.000 abitanti; 31 sono quelli a rischio estinzione in un arco di tempo che va dai 10 ai 60 anni. Pur tuttavia queste realtà – cosiddette minori – hanno giacimenti archeologici, tesori d’arte e produzioni che potrebbero essere quanto mai valorizzate se appena si pensasse ad un tessuto produttivo, connettivo sardo: dovrebbe essere proprio questo l’obiettivo prioritario di ogni Giunta regionale. In effetti vengono stretti accordi con l’emiro del Qatar – che finanzia sottobanco l’Isis – e si firmano protocolli su Matrìca con un colosso come l’Eni, il primo a non rispettarli ed a sganciarsi. Una politica economica che non punti alla vocazione quasi naturale della Sardegna per la piccola struttura – agropastorale, artigianale, manifatturiera, industriale – e che non sia rigorosamente antimonopolistica vedrà infine la nostra società depauperata anche di uno straccio di autonomia decisionale, come in effetti è avvenuto.

Si è detto del convegno di Sennariolo in cui è stato ripercorso il calvario dei piccoli Comuni: chiudono l’ufficio postale, la stazione dei carabinieri, lo sportello bancario, la farmacia, la scuola elementare, il negozio di alimentari; è già molto se resiste qualche bar: le alternative? Fiscalità di vantaggio e alleggerimento del patto di stabilità, tanto per cominciare: sindaci di opposti schieramenti hanno più volte ribadito che solo uomini spinti da un mix di demenza e scelleratezza potevano pensare ad una legge che impone ad un ente di accantonare soldi – peraltro in cassa – per pagare la piccola impresa che ha eseguito qualche lavoro pubblico. Ma tutto ciò fa parte di quelle sciagurate politiche di austerity che tanto piacciono all’Unione Europea, al centro destra ed al centro sinistra e su cui neanche la cultura sardista e indipendentista ha mai fatto sufficiente chiarezza. Solo gli indipendentisti scozzesi e catalani le hanno condannate drasticamente.

La forza simbolico-politica dell’Utopia.

Un’alternativa allo svuotamento della Sardegna – puntando sull’idea di una nuova capitale – può essere delineata sia sul piano utopico, sia su quello progettuale. Utopia intesa non nel senso di un sistema sociale ideale, di un governo perfetto, fondato sulla comunione dei beni e delle donne, secondo una concezione che risale a Platone, prosegue con Thomas More, con Tommaso Campanella, per arrivare ai grandi utopisti dell’Ottocento (cui Marx deve molto di più di quanto sia disposto ad ammettere). Utopia, piuttosto, come prospettiva di uguaglianza, di giustizia, di speranza, da perseguire sulla base di quelle conquiste – economiche, sociali, politiche, culturali, spirituali – che hanno caratterizzato diversi cicli della storia dell’umanità: dalla predicazione di Gesù al primo cristianesimo, dai movimenti religiosi alle sette ereticali del Medioevo ed oltre, con la loro carica di millenarismo, sedimentatasi nella cultura popolare, presente nelle analisi dei gramsciani Quaderni del carcere; le due rivoluzioni inglesi del XVII secolo, quella del 1649 e la seconda, quella del Bill of Rights (1688-89); la rivoluzione americana e l’Ottantanove francese, che lo storico Robert Roswell Palmer considera come parte integrante di un’unica “rivoluzione atlantica”; per giungere all’Ottobre russo del 1917. Rotture epocali, che sono state indubbiamente accompagnate da un carico più o meno accentuato di violenza, da spargimenti di sangue, nonché dal rischio, ricorrente – ed assai esplicito con lo stalinismo – del rovesciamento dell’utopia nel suo esatto contrario, la distopia, cioè l’utopia negativa. Quanto fin qui detto si riscontra sostanzialmente in un’opera affascinante e significativa: Utopia. Rifondazione di un’idea e di una storia (pubblicata nel 1997 dall’editore Dedalo di Bari), che si deve ad Arrigo Colombo, animatore del Centro interdipartimentale di studi sull’utopia dell’Università di Lecce.

Di fronte ai drammatici problemi dell’isola, si rendono indispensabili proposte forti, decise, radicali, da formulare sia sul terreno dell’utopia, sia su quello del progetto. Non possiamo limitarci solo a chiedere la fondazione di una nuova capitale della Sardegna (versante utopico); l’idea era emersa ad opera della cultura sardista, secondo una proposta mutuata negli anni settanta da determinati ambienti sindacali (si veda al riguardo il libro L’ora dei Sardi, curato da Cubeddu, pubblicato nel 1999 dalla Fondazione Sardinia di Cagliari). Occorre abbinare a tale istanza un progetto, parola odiata dalle oligarchie autoreferenziali dominanti, che hanno ormai soggiogato tutti i partiti, chiuso le sezioni, impedito il dibattito e la partecipazione della base.

Una nuova capitale della Sardegna nell’ambito di un progetto più vasto.

A questo punto potrebbe balzare in primo piano il ruolo del Dipartimento di Architettura dell’Università di Sassari, sede di Alghero o di Ingegneria dell’Ateneo cagliaritano. In sinergia con altri soggetti, come la Fondazione Sardinia – o la stessa Unione dei piccoli Comuni – si potrebbero promuovere ricerche, tesi di laurea, di dottorato, per studiare il problema a partire da una riflessione, per esempio, sull’esperienza storica, architettonica ed urbanistica di Brasilia, che venne costruita durante la presidenza di Joscelino Kubitscheck, su progetto di Oscar Niemeyer: una vicenda che, per ovvie ragioni, non può essere meccanicamente applicata allo specifico contesto sardo.

Ma si potrebbe pensare anche ad indagini di economisti, sociologi, architetti, urbanisti, ingegneri civili e dei trasporti, che investano paesi e territori del centro della Sardegna, fra i quali, con razionalità, potrebbe essere scelta, dopo adeguati interventi e con opportune riqualificazioni, la nuova capitale dell’isola. Si potrebbe anche pensare ad un raccordo, su vari piani (dall’edilizia al sistema delle comunicazioni stradali) fra centri dell’interno, che possa condurre a quella “città ambientale” autorevolmente teorizzata ed auspicata da Maciocco.

Un’altra ipotesi, sottolineata da Cubeddu, potrebbe essere rappresentata dalla costruzione, presso il Monte Arci, di uno o più edifici come sedi sia del Congresso, cioè dell’Assemblea legislativa del Popolo sardo, sia dell’Esecutivo: si tratterebbe di un primo nucleo della futura “Città della Sardegna”.

L’importante è individuare – con una miscela di indagini, di tipo sia qualitativo che quantitativo – un Comune, un gruppo di Comuni o un territorio che ogni cittadina o cittadino possa raggiungere, partendo da qualsiasi luogo della Sardegna, in un’ora, un’ora e mezzo al massimo. Ciò dovrebbe essere infine oggetto di accorta disamina da parte di un’Assemblea costituente, tema da riprendere e rilanciare dopo che intorno a questa prospettiva aveva preso corpo, negli anni novanta / inizi del 2000, un movimento poi purtroppo frammentatosi ed andato verso la dispersione.

Una borsa di studio, un premio, un concorso di idee potrebbero diventare economicamente appetibili non solo con donazioni personali, ma anche lanciando una sottoscrizione, attesa, fra l’altro, la pressoché completa indisponibilità della Fondazione Banco di Sardegna verso richieste di finanziamento avanzate per ben motivati progetti culturali.

L’idea di un riequilibrio affonda le sue radici in un ordine di considerazioni storiche che non riguarda solo ed esclusivamente la demografia. Sin dal Medioevo, proseguendo con l’Età moderna, per arrivare alla contemporaneità ed alla situazione presente, recarsi a Cagliari ha costituito per gran parte degli abitanti dell’isola un sacrificio insopportabile, una penalizzazione ormai non più tollerabile. Gli atti degli Stamenti, l’antico Parlamento sardo – che ho avuto l’onore e l’onere di curare per conto del Consiglio regionale – dimostrano inequivocabilmente che la collocazione geografica di Cagliari e la sua lontananza da altre parti dell’isola determinava quasi sempre la rinuncia, per moltissimi, per i più, a recarsi colà per adire le sedi giudiziarie più alte onde vedere soddisfatte, almeno in parte, le proprie istanze (cfr. in particolare Il Parlamento del viceré Nicola Pignatelli duca di Monteleone (1688-89), a cura di F. Francioni, Consiglio Regionale della Sardegna, Cagliari, 2015, 3 tomi di circa 670 pagine l’uno). Per non parlare dell’ancor più grave e penalizzante centralizzazione su Cagliari del commercio granario.

Bisogna tornare in qualche modo all’esperienza dell’industriale Adriano Olivetti e dell’economista sassarese Gavino Alivia, che avevano concertato un piano per il ripopolamento della Nurra (lo ricordava Giulio Sapelli in un volume sull’impresa nel Nord Sardegna). Occorre una riflessione non superficiale sulla cultura delle città, partendo dalle pagine di Lewis Mumford, che era stato ripreso dal nostro Michelangelo Pira ne La rivolta dell’oggetto. Lo stesso Pira si interrogava su Cagliari, su ciò che la rende davvero bella, “Città del Sole” (si pensi al libro di Francesco Alziator) e sulle sue brutture. Cagliari ha comunque le caratteristiche geofisiche, ambientali, artistiche e culturali per diventare una delle autentiche capitali del Mediterraneo (cfr. Cagliari tra passato e futuro, a cura di G. G. Ortu, Cuec, Cagliari, 2004).

Si rende altresì indispensabile una rilettura attenta di quanto l’economista, giornalista e ambientalista Giuseppe De Marzo ha scritto sulle cosiddette Casitas Auschwitz di Città del Messico, sugli squilibri, le contraddizioni, gli obbrobri dell’urbanesimo attuale. Occorre considerare i volumi di quegli studiosi – il geografo urbano Edward Soja e John Friedman, studioso delle città, ricordati da Maciocco – che sono critici dei modelli metropolitani oggi dominanti.

All’utopia va dunque affiancata una progettualità, che contempli: a) il rilancio dell’agricoltura e della pastorizia abbinato agli obiettivi strategici della sovranità alimentare ed energetica; b) la creazione e/o il rafforzamento di un tessuto industriale e produttivo locale da avviare verso una riconversione ecocompatibile, incardinata sulla piccola impresa (si veda in proposito un succoso volumetto del già citato Sapelli); c) la realizzazione delle bonifiche a Porto Torres, Ottana, Macchiareddu, Porto Vesme, insomma, nei siti fra i più inquinati d’Europa (se non del mondo), aprendo così una concreta prospettiva di lavoro per i cassintegrati e per gli espulsi dai processi dell’industrializzazione selvaggia; d) un sistema bancario sardo; e) una rete commerciale che non sia dipendente dalla grande distribuzione, la quale dirotta verso il Nord della penisola e dell’Europa i profitti derivanti dalle spese e dai consumi dei sardi; f) il rifiuto netto dei monopoli calati in Sardegna, mossi solo dalla logica dello spremi e getta (la vendita di Versalis ed il tendenziale disimpegno dell’Eni dal progetto Matrìca dovrebbero renderci quanto mai edotti che con i monopoli è bene non firmare protocolli che non vincolano mai il più forte); g) un piano di opere pubbliche, infrastrutture e trasporti in grado di collegare i vari territori, evitando una centralizzazione ormai esasperata su Cagliari (si tratta di un nodo saldamente intrecciato alla creazione di un nuovo polo di gravitazione dell’isola); h) il ripensamento ed il rilancio della cooperazione e del mutualismo che, per il ripopolamento, unisca, in particolare, donne sarde e donne immigrate, le quali possano usufruire del microcredito.

A questo punto sarebbe essenziale esaminare in qual modo potrebbe essere applicata alla Sardegna la visione del premio Nobel per la pace Muhammad Yunus, che sosteneva la necessità di prestiti alle donne, per quanto povere, in quanto esse si fanno carico, si prendono cura – delle cose, dei problemi, delle persone – non solo della prole (cfr. il contributo di chi scrive, su “Camineras”, n. 3, maggio 2012, pp. 63-83, in particolare le pp. 67-69).

Appare evidente che i punti salienti di questa progettualità sono dettati non dalle logiche del liberismo selvaggio, ma da quelle di tipo keynesiano, dall’esigenza di un New Deal di cui la Sardegna dovrebbe dotarsi, come ha più volte auspicato Cubeddu, per guardare con meno angoscia ad un futuro in cui la minaccia di spopolamento non pesi come oggi.

L’Ocse ha riconosciuto come buona prassi quella seguita nello Stato finlandese. Nel giro degli ultimi vent’anni, nei territori dei Lapponi, con una densità di abitanti fra le più basse d’Europa, sono stati realizzati interventi cofinanziati in gran parte con fondi comunitari: agevolazioni fiscali ed incentivi per incrementare le nascite e per l’acquisto della prima casa; concessione di terreni a titolo gratuito; diffusione della banda larga; incentivi al telelavoro; accorpamento, integrazione e messa in rete dei servizi alle popolazioni locali; incentivi per la creazione di reti pubblico-private; decentramento amministrativo delle funzioni pubbliche; decentramento dei servizi alle imprese; efficientizzazione del sistema dei trasporti; e-learning nelle scuole non soltanto dell’obbligo. I risultati, incoraggianti, costituiscono spunti validi anche per il nostro contesto.

Conclusioni.

Le città metropolitana, quella voluta specialmente dall’assessore Cristiano Erriu, non ha incontrato fino ad oggi alternative credibili. I problemi della Sardegna non si risolvono nella scelta di Cagliari e/o Sassari, ma affrontando il nodo decisivo del riequilibrio demografico e territoriale. Sono state prospettate in questo articolo le seguenti, possibili scelte: 1) l’idea di una nuova capitale dell’isola; 2) la scelta di un paese al centro da riqualificare come nuova capitale; 3) un raccordo, una rifunzionalizzazione fra piccoli Comuni dell’interno per una “città ambientale” come capitale; 4) l’edificazione di una nuova sede del Congresso (cioè del Parlamento) e dell’Esecutivo in un luogo strategico (la “Città della Sardegna”). Temi e problemi che richiedono approfondimenti, competenze specifiche ed anche interdisciplinari.

Quanto è possibile fare sul piano dell’indagine razionale non è invece spendibile immediatamente nella prassi politica “ufficiale”. Qualsiasi forza (indipendentisti compresi) si troverebbe in grave difficoltà nel gestire una proposta che potrebbe alienare simpatie e consensi elettorali nel Capo di Sotto. A ciò si aggiungano le gravi responsabilità di un ceto di intellettuali sostanzialmente teracu. Bisogna dunque fare in modo che tali proposte diventino oggetto di studio, di ricerca e che possano collegarsi quanto prima al dibattito politico ed alla dimensione progettuale.

La possibilità di cominciare a studiare seriamente il problema è realizzabile. Si tratta di suscitare entusiasmi ed energie soprattutto giovanili, con un concorso di idee, con un premio, con una o più borse di studio, per cominciare a indicare una prospettiva non avulsa da un più generale moto di radicale cambiamento.

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