Monthly Archives: gennaio 2016
CAGLIARI 2016. Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali.
Cagliari: e se il vero candidato della destra fosse Zedda?. Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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Lobina: “Massidda, hai già governato con Berlusconi: fatti da parte” - Su Casteddu online.
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Il 2016 della politica. Per il centrosinistra (e Zedda) il test delle Comunali
Alessandra Carta su SARDINIA POST.
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Le sfide di Massimo Zedda. Tra di esse assenti il lavoro, la casa, la partecipazione popolare… Su L’Unione Sarda di sabato 2 gennaio 2016.
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Caro Massimo, ora giochi al trasformismo!?
Amsicora su Democraziaoggi
Caro Massimo,
ora proprio mi hai rotto, a che gioco stai giocando? Cinque anni fa ti sei presentato ai cagliaritani come il protagonista di una nuova stagione, collettiva e alternativa al vecchio modo di amministrare della destra e della sinistra moderata. Avevi anche lanciato lo slogan ”Ora tocca tocca a noi“, e noi avevamo inteso che quei ”noi” eravamo proprio noi movimenti, organizzazioni, associazioni stanchi della piatta gestione dei Delogu, dei Floris, sensibili agli interessi forti più che alle esigenze dei ceti popolari. E invece? E invece, ahinoi!, abbiamo scoperto che quel “noi” si riferiva a “voi“, alla cricchetta dei tuoi compagnucci di SEL, sintonizzati sui piccoli e grandi vantaggi del potere (incarichi istituzionali o da portaborse, poco importa) più che ai problemi della gente. Questi bisogni sono stati sempre estranei al vostro orizzonte e “noi” anziché essere chiamati a dare una mano per trasformare la città e l’amministrazione siamo rimasti fuori dalla porta, chiusa in faccia rumorosamente. Ora, completi il percorso all’insegna dello strappo dalle decisioni di SEL nazionale, che si è sciolta per confluire in Sinistra italiana, per confermare l’alleanza col PD. E così, mentre “Sinistra italiana” rompe col PD e si pone come alternativa a Renzi, tu, insieme a Uras, ed ad una parte di SEL sarda rompi con Vendola e ti allei con Renzi. Non è un caso che Renzi ti abbia citato nella conferenza di fine anno: un sindaco di SEL che si mantiene in posizione subalterna al PD, pur di rimanere al potere, è un esempio da mostrare alla sinistra, come Alfano e Verdini lo sono per la destra. Prende forma il “Partito nazionale”, un aggregato degli opportunisti di tutte le bandiere agli ordini di Renzi. E tu sei lì anziché con “noi”. - segue -
La città che vogliamo per i cagliaritani e per tutti i sardi
Cagliari ha bisogno di una Ricostruzione, di sgomberare le macerie di un’epoca finita, quella del sogno industriale, della crescita e dello spreco, dei soldi facili dalla politica, e di gettarsi come nel dopoguerra, proiettandosi in avanti condividendo scopi e speranze con i suoi abitanti: per farlo ha bisogno di ricostruire il legame solidale tra i quartieri, il rapporto tra la Città, il mare e gli stagni che la circondano, tra la Città e la Sardegna, che tante intelligenze, culture e risorse le ha dato, tra la Città e il suo hinterland, che si riversa quotidianamente al suo interno. E in questo destino riscoprire i valori di solidarietà e condivisione per ricreare una città accogliente e vivace.
L’amministrazione della “Razza Mandrona”
di Gian Franco Bitti *
– Malgrado la sua Grande Bellezza, Cagliari è una città incapace di attrarre talenti.
Dal dopoguerra in poi, grazie alla nascita della Regione Autonoma, del boom economico, della industrializzazione, dell’Università, dei commerci, ha richiamato ed accolto a braccia aperte talenti da tutta l’Isola.
Alla fine degli anni 70’ era ancora una città in crescita, ricca di opportunità per chi aveva voglia di impegnarsi nelle arti, nelle professioni, nel commercio.
Poi la città si è persa, preda di una classe politica provinciale, gretta ed incapace di iniziativa, più divisa e sempre meno autorevole: la fine della stagione autonomista, del sogno industriale, la lentezza nel trasformarsi in una città dedita al terziario, hanno schiacciato gli slanci degli innovatori in un angolo.
Vent’anni di governo della destra hanno fatto il resto, distruggendo il tessuto sociale con la pratica caritatevole e clientelare nei quartieri popolari, il sostanziale blocco nell’accesso alle professioni, l’eccessiva apertura ai centri commerciali (occasione di speculazione edilizia piuttosto che di innovazione distributiva). I figli della buona borghesia cagliaritana si sono rammolliti, e gli emergenti si sono accontentati e chiusi a riccio, in una cultura clientelare egoista e miope.
Infine la novità e le speranze suscitate dal Sindaco Zedda.
Zedda vinse contro un competitore fighetto e incolore, è stato votato dai Cagliaritani disperati per il sacco indecente della città, spinta al declino dalle politiche di rapina e manomorta della destra.
Ma il cambiamento promesso dagli slogan elettorali, e sognato dalla buona e ingenua sinistra dei Cagliaritani non c’è stato.
Rifiuti e Abbanoa, Ente lirico, Capitale Europea della Cultura, crisi economica ed abitativa, spopolamento, ecco i buchi neri in cui si è persa l’amministrazione Zedda. Abbiamo le piazze ed il lungomare del Poetto rifatti a nuovo, grazie a un Sindaco che ha scimmiottato Mariano Delogu e le sue politiche pilatesche e asfaltatrici, senza però averne il carisma.
La giunta del Mojito, degli hipsters e dei lounge bar, di una cagliaritanità autocompiacente e provinciale, dei festival letterari in una città che non legge, ha sostituito quelle degli oreris da Tennis Club, dei circoli imprenditoriali nati dai soldi facili della regione e delle banche amiche, ma non è stata capace di una vera svolta: hanno vinto ancora le prassi municipali di una burocrazia soffocante e matrigna, l’indolenza davanti ai drammi della crisi economica, che ha svuotato le vetrine dei negozi del centro e immiserito le periferie, di una Cagliari che allontana le competenze e le energie giovanili, che si svuota inesorabilmente di abitanti e di senso.
Siamo di fronte all’assenza di un disegno politico e, in fondo, del desiderio di averlo. Intanto la città si è spaccata: un centro nel quale le professioni languono per mancanza di ricambio, una borghesia del commercio e delle arti impoverita dalla crisi, i quartieri popolari assediati dalla miseria, una università che perde iscritti e prestigio e non è in grado di promettere più nulla.
“Ora tocca a noi”, recitava lo slogan di Zedda, e infatti è toccato a loro, che si sono dimenticati di una città che aveva bisogno di una nuova direzione politica.
L’amministrazione comunale si è persa nella rude lotta di sottogoverno scambiandola per Politica, ha evitato il confronto con le associazioni, i quartieri, i comitati, le categorie, i sindacati, chiudendosi in una prassi burocratica/amministrativa che elimina il rischio, la fatica, il lavoro: una nuova Razza Mandrona, appunto.
Cagliari ha bisogno di una Ricostruzione, di sgomberare le macerie di un’epoca finita, quella del sogno industriale, della crescita e dello spreco, dei soldi facili dalla politica, e di gettarsi come nel dopoguerra, proiettandosi in avanti condividendo scopi e speranze con i suoi abitanti: per farlo ha bisogno di ricostruire il legame solidale tra i quartieri, il rapporto tra la Città, il mare e gli stagni che la circondano, tra la Città e la Sardegna, che tante intelligenze, culture e risorse le ha dato, tra la Città e il suo hinterland, che si riversa quotidianamente al suo interno. E in questo destino riscoprire i valori di solidarietà e condivisione per ricreare una città accogliente e vivace.
Non è certo la Sardegna degli speculatori edilizi e sanitari di Cappellacci e Floris, o dei soliti finti imprenditori-sponsor di Pigliaru, che ci tirerà fuori dal pantano, ma lo sarà la capacità dei Sardi e dei Cagliaritani di essere prima di tutto coscienti del disastro, delle macerie, e poi di rimboccarsi le maniche.
Tutte le ricostruzioni sono faticose, e piene di insidie ed errori, ma non si affidano ai mandroni.
Quelli hanno fallito, trascinandoci verso il declino e la smemoratezza.
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*Gianfranco Bitti, esponente di Cagliari Città Capitale
Auguri Sardegna!
Auguri Sardegna!
di Raffaele Deidda
By sardegnasoprattutto/ 1 gennaio 2016/ Società & Politica/
Cara Sardegna, è passato un altro anno. Non è stato come quello precedente, di poche soddisfazioni e di molte delusioni ma migliore, vero? Sicuramente hai potuto rilevare nei tuoi amministratori un nuovo senso dell’onore nel servire la propria terra con competenza, onestà morale e sacrificio.
Hai certamente notato la serietà e l’affidabilità della tua classe dirigente, eletta o nominata, che ha evitato l’espandersi dello spirito di sfiducia da parte dei cittadini verso i loro rappresentanti e quindi verso le istituzioni.
Hai potuto verificare un agire politico nel segno del servizio e non del potere, del bene comune e non di quello di parte. Hai apprezzato la nuova missione politica che ha prodotto forme di vita migliore per tutti e senso della collettività, non autoreferenzialità.
Ah, dici che non è andata così? Ancora troppi sardi non possono pagare le bollette. Tantissime le famiglie che non possono comprare i libri scolastici, che chiedono aiuto alla Caritas. Troppe le persone che non possono sottoporsi a cure essenziali. Troppi i padri di famiglia che hanno perso il lavoro. Buona parte dei giovani istruiti ti abbandonano.
Dici che questa è la situazione mentre chi governa prosegue nei giochi di palazzo avendo garantiti, per sè e i propri collaboratori, compensi elevatissimi. Dici che i parlamentari, i politici regionali e anche quelli comunali dovrebbero dare l’esempio con gesti forti sul piano personale, rinunciando a prebende e benefici, accontentandosi di un dignitoso stipendio da pubblico dipendente?
Sei preoccupata? Si avverte. Vedi chiudere migliaia di attività produttive e commerciali, desertificati paesi e territori. Assisti allo sfilare delle marce per il lavoro e la salute nell’indifferenza dei responsabili che le vivono come quinte sceniche qui da te e a Roma.
Sei percorsa dalle molte manifestazioni a favore dell’ambiente contro folli progetti di sfruttamento delle tue risorse naturali eterodiretti, che arricchiscono pochi e impoveriscono irrimediabilmente la qualità del tuo territorio. Ancora una volta vedi parte della tua dirigente comportarsi da ascara senza che ne abbia neppure consapevolezza.
Ti ripeti che per fare politica bisogna amare la propria terra e che bisogna usare il cuore per governarla. Ancora una volta sei un pò ingenua, cara Sardegna. Eppure alcuni tuoi figli hanno prodotto sagge riflessioni come: “Mraxiani ia fattu votu de fai unu conillu, ma cando ia biu su fillu, fudi mraxiani e totu”. (La volpe aveva fatto voto di generare un coniglio, ma una volta nato aveva visto che era comunque volpe).
Che cosa augurarti e augurarci, quindi, per il 2016?
Che non sia governata da volpi e da conigli ma da uomini, che nella consapevolezza delle difficoltà a individuare e perseguire il bene comune non siano supponenti e arroganti.
Che avendo avuto l’onore e la ventura di essere scelti come decisori si assumano l’onere di farlo avendo come unico obiettivo il bene tuo e dei tuoi figli, e non gli interessi propri e le volontà d’altri.
Che sappiano attendere con rispetto e con attenzione ai veri problemi dell’isola.
Che sappiano dire la verità sempre, senza esibire se stessi.
Che sappiano finalmente distinguere l’interesse proprio da quello della comunità regionale.
I migliori auguri, Sardegna.
Pace, Felicità, Vita… per tutti e per ogni giorno
“Puoi aver difetti, essere ansioso e vivere qualche volta irritato, ma non dimenticare che la tua vita è la più grande azienda al mondo. Solo tu puoi impedirle che vada in declino. In molti ti apprezzano, ti ammirano e ti amano. Mi piacerebbe che ricordassi che essere felice, non è avere un cielo senza tempeste, una strada senza incidenti stradali, lavoro senza fatica, relazioni senza delusioni.
Essere felici è trovare forza nel perdono, speranza nelle battaglie, sicurezza sul palcoscenico della paura, amore nei disaccordi.
Essere felici non è solo apprezzare il sorriso, ma anche riflettere sulla tristezza. Non è solo celebrare i successi, ma apprendere lezioni dai fallimenti. Non è solo sentirsi allegri con gli applausi, ma essere allegri nell’anonimato.Essere felici è riconoscere che vale la pena vivere la vita, nonostante tutte le sfide, incomprensioni e periodi di crisi.Essere felici non è una fatalità del destino, ma una conquista per coloro che sono in grado viaggiare dentro il proprio essere.
Essere felici è smettere di sentirsi vittima dei problemi e diventare attore della propria storia.È attraversare deserti fuori di sé, ma essere in grado di trovare un’oasi nei recessi della nostra anima.
È ringraziare Dio ogni mattina per il miracolo della vita. Essere felici non è avere paura dei propri sentimenti.
È saper parlare di sé.
È aver coraggio per ascoltare un “No”.
È sentirsi sicuri nel ricevere una critica, anche se ingiusta.
È baciare i figli, coccolare i genitori, vivere momenti poetici con gli amici, anche se ci feriscono.
Essere felici è lasciar vivere la creatura che vive in ognuno di noi, libera, gioiosa e semplice.
È aver la maturità per poter dire: “Mi sono sbagliato”.
È avere il coraggio di dire: “Perdonami”.
È avere la sensibilità per esprimere: “Ho bisogno di te”.
È avere la capacità di dire: “Ti amo”.
Che la tua vita diventi un giardino di opportunità per essere felice …
Che nelle tue primavere sii amante della gioia.
Che nei tuoi inverni sii amico della saggezza.
E che quando sbagli strada, inizi tutto daccapo.
Poiché così sarai più appassionato per la vita.
E scoprirai che essere felice non è avere una vita perfetta. Ma usare le lacrime per irrigare la tolleranza.
Utilizzare le perdite per affinare la pazienza.
Utilizzare gli errori per scolpire la serenità.
Utilizzare il dolore per lapidare il piacere.
Utilizzare gli ostacoli per aprire le finestre dell’intelligenza.
Non mollare mai ….
Non rinunciare mai alle persone che ami.
Non rinunciare mai alla felicità, poiché la vita è uno spettacolo incredibile!”
AUGURO A TUTTI VOI DI VIVERE UN FELICE 2016
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di ALBIO TIBULLO. Elegiae. L’amore per la pace (I, 10)
Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano, allora sorsero le guerre, allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa, noi abbiamo volto a nostro danno quello, che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni, e il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere, e già forse qualche nemico produce dei dardi destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma patri Lari proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato, quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno: così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora con più sincerità (gli uomini) mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma: e colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo e avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa con una veste disadorna e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi, e atterri col favore di Marte i comandanti avversari, in modo che mentre sto bevendo un soldato possa raccontarmi le sue imprese e disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna, ma l’audace Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige: ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli, e la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così e mi sia concesso veder sul capo divenir bianchi i miei capelli e vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare: la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva, perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro: durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga
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Quis fuit, horrendos primus qui protulit enses?
Quam ferus et vere ferreus ille fuit!
Tum caedes hominum generi, tum proelia nata,
Tum brevior dirae mortis aperta via est.
An nihil ille miser meruit, nos ad mala nostra
Vertimus, in saevas quod dedit ille feras?
Divitis hoc vitium est auri, nec bella fuerunt,
Faginus astabat cum scyphus ante dapes.
Non arces, non vallus erat, somnumque petebat
Securus varias dux gregis inter oves.
Tunc mihi vita foret, Valgi, nec tristia nossem
Arma nec audissem corde micante tubam.
Nunc ad bella trahor, et iam quis forsitan hostis
Haesura in nostro tela gerit latere.
Sed patrii servate Lares: aluistis et idem,
Cursarem vestros cum tener ante pedes.
Neu pudeat prisco vos esse e stipite factos:
Sic veteris sedes incoluistis avi.
Tunc melius tenuere fidem, cum paupere cultu
Stabat in exigua ligneus aede deus.
Hic placatus erat, seu quis libaverat uvam
Seu dederat sanctae spicea serta comae:
Atque aliquis voti compos liba ipse ferebat
Postque comes purum filia parva favum.
At nobis aerata, Lares, depellite tela,
Hostiaque e plena rustica porcus hara.
Hanc pura cum veste sequar myrtoque canistra
Vincta geram, myrto vinctus et ispe caput.
Sic placeam vobis: alius sit fortis in armis,
Sternat et adversos Marte favente duces,
Ut mihi potanti possit sua dicere facta
Miles et in mensa pingere castra mero.
Quis furor est atram bellis accersere Mortem?
Imminet et tacito clam venit illa pede.
Non seges est infra, non vinea culta, sed audax
Cerberus et Stygiae navita turpis aquae:
Illic peresisque genis ustoque capillo
Errat ad obscuros pallida turba lacus.
Quin potius laudandus hic est quem prole parata
Occupat in parva pigra senecta casa!
Ipse suas sectatur oves, at filius agnos,
Et calidam fesso comparat uxor aquam.
Sic ego sim, liceatque caput candescere canis
Temporis et prisci facta referre senem.
Interea Pax arva colat. Pax candida primum
Duxit araturos sub iuga curva boves:
Pax aluit vites et sucos condidit uvae,
Funderet ut nato testa paterna merum:
Pace bidens vomerque nitent, at tristia duri
Militis in tenebris occupat arma situs.
At nobis, Pax alma, veni spicamque teneto,
Profluat et promis candidus ante sinus.
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Chi fu colui, che per primo inventò le terribili armi?
Quanto malvagio e feroce quello fu!
Allora nacquero le stragi a danno del genere umano, allora sorsero le guerre,
allora venne aperta una via più breve alla terribile morte.
Eppure quell’infelice non ebbe alcuna colpa, noi abbiamo volto a nostro danno quello,
che egli ci aveva dato contro le bestie feroci.
Questo è colpa del ricco oro, e non vi furono guerre
finché una tazza di legno di faggio era posta davanti ai banchetti.
Non vi erano fortezze, non bastioni,
e il pastore si addormentava senza preoccupazione tra pecore di vari colori.
Dolce sarebbe stata allora per me la vita, Valgio, e non avrei conosciuto
le funeste armi, né avrei udito la tromba con il cuore palpitante.
Ora sono trascinato a forza a combattere, e già forse qualche nemico
produce dei dardi destinati a configgersi nel mio corpo.
Ma patri Lari proteggetemi e salvatemi: voi stessi mi avete allevato,
quando ancora bambino correvo qua e là.
E non abbiate vergogna di essere fatti di antico legno:
così voi abitaste le sedi dell’antico avo.
Allora con più sincerità (gli uomini) mantenevano la parola data, quando con scarso ornamento
il dio stava in una modesta nicchietta.
Questo era soddisfatto, sia che qualcuno avesse fatto libagioni con uva
sia che qualcuno avesse offerto una corona di spighe alla santa chioma:
e colui che è padrone di qualcosa offriva delle focacce
dietro di lui come compagna la piccola figlia offriva un favo intatto.
Tenete lontano da noi, Lari, i dardi di bronzo
e avrete come rustica vittima una scrofa del mio porcile pieno.
Io stesso col capo cinto di mirto accompagni questa con una veste disadorna
e porti canestri ornati di mirto.
Così io possa piacere a voi: sia pure un altro valoroso nelle armi,
e atterri col favore di Marte i comandanti avversari,
in modo che mentre sto bevendo un soldato possa raccontarmi le sue imprese
e disegnare col vino gli accampamenti sulla mensa.
Che pazzia è mai quella di chiamare a sé con la guerra la nera morte?
La morte ci sta sopra e segretamente arriva con passo silenzioso.
Non campo coltivato v’è nel mondo sotterraneo, non vigna, ma l’audace
Cerbero e il turpe nocchiero delle acque dello Stige:
ivi una pallida turba con le gote dilaniate e i capelli arsi
erra presso le nere paludi.
In quanto è più da lodarsi colui che coglie la sua tarda vecchiaia
nella sua umile capanna in mezzo ai suoi figli!
Egli stesso conduce al pascolo le pecore, il figlio invece gli agnelli,
e la moglie prepara l’acqua calda al marito stanco.
Possa anch’io esser così e mi sia concesso veder sul capo divenir bianchi i miei capelli
e vecchio raccontare i fatti della giovinezza.
Frattanto la Pace coltivi i canti. La Pace ha insegnato
a condurre sotto i gioghi ricurvi i buoi per arare:
la Pace ha sostentato le viti e ripose il succo d’uva,
perché l’anfora di terracotta del padre versasse il vino puro:
durante la pace brillano il bidente e il vomere, la ruggine
ricopre le funeste armi dell’insensibile soldato nei nascondigli.
Orsù vieni a noi, benefica Pace, e terrai una spiga
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