Monthly Archives: gennaio 2016
CAGLIARI 2016. Dibattito su/per la città dentro la campagna per le elezioni comunali
Il problema di Zedda? Non certo il processo ma essere diventato la controfigura di Renzi
07/01/2016 alle 18:00
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it
Contrariamente a quanto afferma Sardinia Post, la condanna per abuso di ufficio per il sindaco di Cagliari Massimo Zedda nel processo sul Teatro Lirico non è per niente la “speranza non dichiarata dei suoi avversari” e questo per un motivo molto semplice, anzi due.
Il primo è che è opinione comune in città che il sindaco sarà assolto, così come fu assolto Renato Soru nel caso Saatchi & Saatchi. Da dove arriva tanta sicurezza? I cittadini leggono le cronache del processo dai giornali e si fanno la loro idea, mentre i politici hanno qualche informazione in più e non è un caso che il Pd, prima di dare il via libera alla ricandidatura di Zedda, abbia atteso la deposizione di alcuni teste chiave del processo. Il Pd è strasicuro che il sindaco sarà assolto, altrimenti non avrebbe commesso la follia di ricandidarlo correndo il rischio, in caso di condanna, di dover tornare alle urne dopo pochi mesi dalla rielezione. E dopo le recenti vicende che tutti abbiamo letto sui giornali in questi giorni, l’impressione che Zedda verrà assolto si è fatta ancora più forte.
Il secondo motivo è che gli avversari di Zedda non contrastano la sua figura o la sua persona ma la sua politica, ovvero quella del Pd sulla quale il sindaco si è via via appiattito. Quindi se anche Zedda dovesse cadere per mano della magistratura, difficilmente questo potrebbe portare nel centrosinistra alcuni schieramenti che, né per storia personale dei loro leader né per collocazione, possono essere avvicinati al centrodestra.
L’avversario dunque non è Zedda (esponente di un partito che esiste fittiziamente solo in Sardegna e amministratore silente su tutti i temi più importanti: dalla fuga di Ryanair all’istituzione della città metropolitana, dalla crisi della Camera di Commercio fino alla riforma della sanità, per non parlare della gestione dei rifiuti) ma il Pd di Renzi, che per il sindaco di Cagliari ha avuto recentemente parole generose. Quindi Zedda o un altro candidato, non fa nessuna differenza.
Piuttosto Sardinia Post dovrebbe chiedere agli alleati di Zedda che duramente contrastarono la candidatura dell’indagata Francesca Barracciu alle ultime elezioni regionali, come mai adesso non battono ciglio nel sostenere un amministratore addirittura sotto processo. Che si tratti di quella doppia morale applicata ad una donna legittimata dal voto delle primarie a tutto favore dei suoi colleghi maschi legittimati, forse, da una superiorità di genere negata nelle enunciazioni di principio ma praticata nella quotidianità
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Cagliari Capitale della Sardegna? Un titolo meritato sul campo, da confermare sul campo
Quando Cagliari divenne città egemone
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di Francesco Cocco
Non intendo in alcun modo entrare nelle vicende politiche attuali. Mi interessa esclusivamente riferirmi ad un evento storico di cui nel 2016 ricorre il 110° anniversario. La grande rivolta del maggio 1906 non espresse solo la rabbia repressa di Cagliari e del suo hinterland, fu anche “l’ottantanove cagliaritano”, come lo definì il sindaco Ottone Bacaredda, parafrasando la rivoluzione francese.
In riferimento alla realtà sarda fu vera rivoluzione. L’Isola finalmente aveva una città egemone. Non più soltanto una “capitale burocratica e militare”, come era stata per secoli, ma una città in grado d’indicare gli indirizzi politici, e le conseguenti lotte sociali. Quasi tutta la Sardegna, unendosi all’“ottantanove cagliaritano”, si ribellò alle condizioni di sfruttamento e di miseria. Insorsero le zone minerarie dell’Iglesiente e del Sarrabus-Gerrei, con numerosi morti e feriti. La rivolta non risparmiò il centro Sardegna. Arrivò sino a Bonorva, quasi alla periferia di Sassari, la capitale del “Capo di Sopra”, che non restò insensibile alle sollecitazioni provenienti dal Sud dell’Isola.
Con la rivolta del 1906 si creava l’humus perché Cagliari potesse assolvere ad una funzione di direzione politica generale, conquistata con pesanti sacrifici. Restava però l’antico distacco dal complessivo territorio isolano. Né a superarlo giocava in positivo certa sicumera degli abitanti della città nei confronti di quelli dei paesi (in gergo dispregiativo chiamati “biduncoli”). Quanto ha pesato un quarto di secolo fa certa “boria urbana” nella mancata realizzazione della città metropolitana? Certamente era la miopia politica degli amministratori del tempo ma la stessa era suffragata da una radicata mentalità.
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Come cambia la democrazia
Un’interessante analisi di Ritanna Armeni sul ruolo giocato dall’Unione Europea nella restrizione degli spazi di democrazia negli stati aderenti. Su ROCCA n. 2 del 15 gennaio 2016
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Come cambia la democrazia. Una democrazia senza partiti
di Ritanna Armeni
La democrazia è in crisi? Sono in molti a rispondere di sì, anche se le risposte ai motivi di questa crisi si differenziano.
Da qualche anno, secondo una parte consistente della intellettualità critica italiana, la riduzione della democrazia nasce dalle responsabilità di un uomo – il premier – che con le sue leggi, le sue iniziative tende a soffocare l’ordinamento democratico a ridurre la Costituzione, a limitare i diritti dei cittadini. È una convinzione che si è formata ai tempi dei governi di Silvio Berlusconi, che si è persino rafforzata negli anni del renzismo e che contiene alcuni elementi di verità. Ma non è la verità. La sua affermazione assoluta anzi può provocare una sorta di strabismo intellettuale che impedisce di cogliere tutti gli aspetti di un fenomeno che scuote uno dei fondamenti del nostro vivere civile nelle moderne società occidentali.
La crisi della democrazia ha molte origini e cause. E ce le ha innanzitutto a livello planetario. Quanto contribuisce a un suo forte ridimensionamento, ad esempio, la risposta quasi esclusivamente securitaria che l’occidente sta opponendo al terrorismo di matrice islamica? E quanto quest’ultimo ha bloccato in un modo che per il momento appare definitivo, l’evoluzione democratica del mondo arabo?
Sono domande importanti alle quali sarebbe troppo lungo dare una risposta in questa sede. Le pongo solo per rendere chiara quanto ampia, profonda sia oggi la crisi della democrazia e come sia riduttivo vederne solo una parte.
Torniamo quindi a come questa si manifesta in Europa e, più specificatamente, in Italia. Un fondamento considerevole sta sicuramente nella riduzione del potere degli stati nazionali non seguito dalla costruzione di un’Europa politica. Nel ridimensionamento del potere di decisione dei cittadini italiani (ma non solo, ovviamente) ha un peso decisivo il fatto che esso sia ormai in mano ad un gruppo di tecnocrati o burocrati estranei, oltre che ai processi nazionali, a un sistema democratico europeo che, al di là delle molte parole, non si è ancora costituito.
Se si guarda con attenzione alla mancata costruzione europea e all’avvenuto ridimensionamento delle politiche nazionali ci si può facilmente rendere conto che gran parte degli atti che tendono a ridurre la democrazia italiana sono indotti dalle decisioni di Bruxelles. Queste hanno bisogno di decisioni impopolari, di leggi rapide, di costituzioni nazionali non eccessivamente vincolanti o che – com’è avvenuto nel caso italiano – creino i vincoli da loro ritenuti necessari. I governi di questi ultimi decenni, Silvio Berlusconi e Matteo Renzi (caratteri, psicologia e difetti caratteriali a parte), con alcune ribellioni di facciata, prima che feroci distruttori del sistema democratico sono degli obbedienti esecutori delle decisioni prese dai centri finanziari ed economici europei. Se si vuole essere cattivi si possono definire esecutori più che despoti.
Si può dire allora che la crisi della democrazia ha origine in Europa più che a Roma? Con qualche approssimazione possiamo rispondere di sì, ma dobbiamo aggiungere che anche gli stati nazionali hanno fatto la loro parte. Salta agli occhi, infatti, un’altra causa: la difficoltà, la mutazione, la progressiva estinzione dei partiti.
I partiti oggi contano poco, i cittadini nutrono in loro una scarsa fiducia e, infatti, le iscrizioni crollano mentre l’astensione elettorale aumenta e le divisioni, gli abbandoni e le scissioni sono all’ordine del giorno. La loro crisi si è manifestata con chiarezza dopo gli anni ’70 con la fine delle ideologie e del rapporto sociale «di massa». Non si tratta di una difficoltà episodica che possa essere facilmente recuperata. Essa nasce dall’esaurirsi di un ruolo. I partiti non sono più rappresentanti d’interessi collettivi seppure «di parte», non sono più portatori di un’identità e, quindi, d’importanti valori. Non sono più quelle robuste macchine che nel dopoguerra producevano idee e programmi e coinvolgevano milioni di uomini e di donne. Strumenti che consentivano l’esercizio di quella volontà popolare che senza di loro può essere facilmente dirottata nelle vie del populismo e persino di un condiviso autoritarismo.
Ed ecco allora il punto: la democrazia, così come l’abbiamo conosciuta in occidente e soprattutto nell’occidente europeo può vivere senza partiti?
Le vecchie organizzazioni erano sicuramente inadeguate a una moderna società, da molti anni non sapevano più rispondere alle nuove domande dei cittadini. Ma la loro presenza fino ad un certo punto ha consentito il corretto svolgimento di un processo democratico. E ora? È possibile mantenere un assetto democratico? E se è possibile in che modo? Con quali nuovi strumenti? Con quali modalità? Possiamo oggi costruire dei luoghi di ascolto, di dibattito, di sintesi fra i diversi interessi presenti nella società? E pensare, com’è avvenuto in un passato non troppo lontano, di influenzare e determinare le decisioni dei rappresentanti e dei governi non solo al momento elettorale, ma nello svolgimento quotidiano della vita pubblica? Sono domande fondamentali perché se non si trova una risposta a esse diventa inevitabile il ridimensionamento della democrazia così come si è intesa almeno dal dopoguerra in Europa.
Oggi la scena politica è dominata da partiti liquidi o di plastica, privi di strutture adeguate, senza gruppi dirigenti autorevoli, senza un radicamento nella memoria, senza un aggancio a valori precisi. Eppure la loro presenza nelle istituzioni è forte. Non è sbagliato in alcuni casi definirla occupazione. Questa presenza, privata del legame ideologico e sociale, li ha trasformati in gruppi di potere, non interessati ad ascoltare i cittadini quanto piuttosto a difendere i propri interessi o al massimo quelli di alcune corporazioni che ne garantiscono l’esistenza. Gli scandali, la corruzione – anche questi – traggono la loro origine dalla trasformazione dei partiti, dalla crisi del loro rapporto con i cittadini. E a loro volta, come in un serpente che si morde la coda, il diffondersi degli scandali e della corruzione allontana i cittadini da quelle organizzazioni che avrebbero dovuto garantire la formazione e l’affermazione della volontà popolare provocando altra «liquidità» e creando un distacco ancora maggiore.
Nella lunga agonia dei vecchi partiti e nella moderna società «liquida» nessuno si è ancora misurato con la possibilità di costruire nuovi strumenti di democrazia. I social network hanno sicuramente un potere di controllo, riescono a svelare quel che fino a qualche anno fa rimaneva occulto e a mobilitare l’opinione pubblica su grandi temi, ma non hanno alcun ruolo nella formazione delle decisioni. Così in questi anni si è affermato il potere del leader, dell’uomo solo al comando che, sostenuto in alcuni casi (a dire il vero rari e, in Italia, inesistenti) dal carisma, in altri casi dall’assenza di alternative politiche culturali, e, soprattutto, da un controllo sociale e civile tende a occupare gli spazi della politica. Un leader senza un partito che ne controlli le decisioni è un vulnus per la democrazia. Ancor più pericoloso oggi perché quel leader non prende quasi più decisioni autonome, ma, come abbiamo visto in questi anni, quasi sempre stabilite in altre sedi – quelle europee – prive a loro volta di luoghi e di partiti che rappresentino la volontà della società civile. Impegnarsi a contrastare il leaderismo senza partiti è un obiettivo importante purché si abbia coscienza che è solo il più visibile dei danni provocati della crisi della democrazia. Non il più importante. E tanto meno l’unico.
Ritanna Armeni, su Rocca 2/2016
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State sereni! Parola del trombettiere di Rignano
di Gonario Francesco Sedda*
1. Forzare i dati di breve periodo o addirittura di una singola congiuntura durante l’anno corrente per ricavarne previsioni attendibili porta quasi sempre a conclusioni sbagliate, ma non per questo inutili. Con la propaganda truffaldina si può governare e dominare.
In particolare, per Matteo Renzi è decisivo o comunque sempre importante mostrare che il suo governo non solo è veloce (sbrigativo) nella decisione, ma anche appropriato nella sua azione. Il “comunicatore persuasivo” ha bisogno di mostrare che quando finalmente si decide (“sono decenni e decenni che si aspettano le riforme …”) e quando si promuove la fiducia (“è ora di finirla coi gufi …”) si è anche creato il contesto giusto perché “la nostra bella Italia” svolti e riparta e corra e acceleri sempre più. Ma in tempo di crisi prolungata e incerta è molto difficile che il movimento reale segua con stringente corrispondenza gli stimoli di uno sgangherato volontarismo. Il “cavallo non beve” nonostante le miracolose riforme “strutturali” e l’ottimismo a buon mercato di Matteo Renzi.
E tuttavia dalla crisi si uscirà. È iniziata una lenta e incerta ripresa.
Certamente, mettere in riga il Parlamento con ripetuti voti di fiducia e sotto la minaccia di scioglimento delle Camere è stato molto più facile.
2. Dunque, il “grande balzo” previsto ottimisticamente nel settembre 2015 con la Nota di aggiornamento del DEF 2015 sembra ridimensionarsi in una più realistica “leggera scossa”. Nel delirante clima trionfalistico di EXPO il primo trombettiere Matteo Renzi e il suo governo hanno annunciato che l’Italia del fare e non delle chiacchiere era ripartita e avrebbe accelerato: la previsione del PIL passava da +0,7% a +0,9%. E non hanno nascosto di aspettarsi ancora di più (+1,0%).
Ma nel mese di dicembre:
- l’ISTAT (sulla base dei dati corretti per giorni lavorati) ha previsto per il 2015 un PIL al +0,7% (il PIL grezzo – senza la correzione per giorni lavorati – dovrebbe essere leggermente più grande e confrontabile con il +0,9% grezzo del DEF 2015 aggiornato);
- l’OCSE (Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico) ha previsto per il 2015 un PIL al +0,8%;
- il Centro studi di Confindustria ha previsto per il 2015 un PIL al +0,8% (due decimali in meno rispetto al +1% indicato a settembre e in linea con le ultime attese alle quali si è rassegnato il governo);
- il MISE (Ministero dello Sviluppo Economico) nella sua ultima raccolta trimestrale dei dati Eurostat ha rivisto le previsioni del Pil per il 2015 “lievemente” al ribasso: +0,8% invece del +0,9% del DEF 2015 aggiornato.
3. Secondo i dati Eurostat raccolti dal MISE nel suo “Cruscotto congiunturale” l’Italia della mitologia renziana è la più lenta nel recupero di ciò che ha perso nella crisi.
L’Italia ha recuperato solo il 3% della produzione industriale rispetto ai minimi toccati durante la recessione, mentre il Regno Unito ne ha recuperato il 5,4%, la Spagna il 7,5%, la Francia l’8% e la Germania il 27,8%.
Nonostante che il tasso di disoccupazione sia diminuito all’11,5% nel terzo trimestre del 2015 (con la Germania al 4,5%, il Regno Unito al 5,2% e la Francia al 10,8%), l’Italia è rimasta indietro per tasso di occupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni con il suo 15,1% (contro il 17,7% della Spagna, il 28% della Francia, il 43,8% della Germania e il 48,8% del Regno Unito) e rispetto ai minimi toccati durante la crisi ha recuperato solo 0,9 punti (contro il recupero di 1,9 punti della Spagna, di 2,7% della Germania e di 4,2 del Regno Unito).
Ma a dispetto del molto che va male, è cresciuto nei sei mesi fino ad ottobre del 2015 l’indice di fiducia dei consumatori e delle imprese (effetto “disneyland” dell’EXPO?). Addirittura tra i consumatori la fiducia è salita come non succedeva dal 2008 segnando +7,7 punti, meglio che in Francia, Regno Unito e Spagna. In Germania poi l’indice di fiducia è diminuito con -7,5 punti. E tuttavia chi oserebbe dire che nell’Italia molestata dal cinguettante e coatto ottimismo di Matteo Renzi le cose siano andate meglio che in una Germania afflitta dalla tristezza?
4. Forse il pericoloso statista di Rignano sull’Arno comincia a intossicarsi con la sua stessa pozione magica.
Febbraio 2015 (Hangar Bicocca di Milano): per l’Italia questo «è un anno felix, che non vuol dire semplicemente felice, ma fertile», un anno in cui «ci sono tutte le condizioni per tornare a correre».
Maggio 2015: « … la speranza torna a mettere la residenza in Italia. Non siamo più il malato d’Europa. E se ce la mettiamo tutta possiamo tornare a guidare l’economia del vecchio continente come abbiamo fatto fino agli anni Novanta».
Settembre 2015 (Cernobbio): «Vogliamo maglia rosa in Ue».
Sia pure attraverso un’interpretazione opaca e misteriosa dei “segnali positivi” Matteo Renzi puntava alto, lanciava una sfida europea. Ma appena i dati Eurostat hanno mostrato che in quel confronto era perdente, ha preferito tornare a quello casalingo coi propri “compagni di merenda” M. Monti ed E. Letta.
«Ma dico: scherziamo? Abbiamo avuto tre anni di recessione sconosciuta in altri Paesi. Pensi al nostro Pil: -2,3 con Monti, -1,9 con Letta e con me -0,4 l’anno scorso. Quest’anno siamo cresciuti dello 0,8%, nel 2016 lo faremo del doppio. L’Italia è ripartita … » [La Stampa, 04-01-2016]. Ora per me M. Monti, E. Letta e M. Rienzi pari sono; ma sarebbe illogico anche per un estremo avversario come me pensare che quel -2,3% del PIL sia venuto tutto dalla politica di M. Monti e quel -1,9% tutto dalla politica di E. Letta. Neppure quel -0,4% più favorevole per M. Renzi può essere imputato alla sua politica … quando ancora non poteva vantarsi delle sue miracolose riforme strutturali!
Comunque la sua previsione di crescita del PIL per il 2016 è di +1,6% (il doppio di 0,8% del 2015): più alta di quella dell’ISTAT, dell’OCSE, del FMI e … del Mago di Masua. State sereni!
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* anche su Democraziaoggi
Oggi lunedì 11 gennaio 2016
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- Domani:
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Progetto Iscol@, incontro di presentazione.
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Quando Cagliari divenne città egemone
Quando Cagliari divenne città egemone.
di Francesco Cocco
Non intendo in alcun modo entrare nelle vicende politiche attuali. Mi interessa esclusivamente riferirmi ad un evento storico di cui nel 2016 ricorre il 110° anniversario. La grande rivolta del maggio 1906 non espresse solo la rabbia repressa di Cagliari e del suo hinterland, fu anche “l’ottantanove cagliaritano”, come lo definì il sindaco Ottone Bacaredda, parafrasando la rivoluzione francese.
In riferimento alla realtà sarda fu vera rivoluzione. L’Isola finalmente aveva una città egemone. Non più soltanto una “capitale burocratica e militare”, come era stata per secoli, ma una città in grado d’indicare gli indirizzi politici, e le conseguenti lotte sociali. Quasi tutta la Sardegna, unendosi all’“ottantanove cagliaritano”, si ribellò alle condizioni di sfruttamento e di miseria. Insorsero le zone minerarie dell’Iglesiente e del Sarrabus-Gerrei, con numerosi morti e feriti. La rivolta non risparmiò il centro Sardegna. Arrivò sino a Bonorva, quasi alla periferia di Sassari, la capitale del “Capo di Sopra”, che non restò insensibile alle sollecitazioni provenienti dal Sud dell’Isola.
Con la rivolta del 1906 si creava l’humus perché Cagliari potesse assolvere ad una funzione di direzione politica generale, conquistata con pesanti sacrifici. Restava però l’antico distacco dal complessivo territorio isolano. Né a superarlo giocava in positivo certa sicumera degli abitanti della città nei confronti di quelli dei paesi (in gergo dispregiativo chiamati “biduncoli”). Quanto ha pesato un quarto di secolo fa certa “boria urbana” nella mancata realizzazione della città metropolitana? Certamente era la miopia politica degli amministratori del tempo ma la stessa era suffragata da una radicata mentalità.
L’atteggiamento sprezzante era fenomeno presente in quasi tutte le città italiane che prima del 1861 avevano assolto ad un ruolo di capitale nei vari stati della Penisola. Per capire un tale atteggiamento è interessante la letteratura orale sviluppatasi in Sardegna a partire dalla metà dell’Ottocento con al centro della narrazione il paesano arguto (quasi sempre impersonata dal “seddoresu” abitante del centro agricolo del Campidano) che sfugge ai raggiri del cittadino imbroglione.
Il Secondo Conflitto Mondiale se proprio non riesce a porre fine a certa mentalità ottusamente provinciale, in qualche modo pareggia le due diverse condizioni di cittadino e di paesano. Il primo in una Cagliari distrutta dai bombardamenti diventa “sfollato” e spesso deve vivere da “sopportato” nei centri isolani. Ma da quella condizione nacque un nuovo legame, fatto di rispetto e solidarietà, tra il cittadino ed il paesano.
Cagliari era uscita dalla guerra distrutta non solo nel suo tessuto edilizio, ma anche nel ruolo egemone che si era conquistata nel 1906. Segno di questa nuova realtà la proposta dell’avv. Giuseppe Musio di trasferire a Sassari il capoluogo della Sardegna. Di fatto la proposta di Musio ebbe la funzione positiva d’incitare ad una celere ricostruzione della Città. Così nel febbraio del ‘44 l’alto commissario per la Sardegna, generale Pinna, fissò a Cagliari la sede del suo ufficio ed optò perché la città divenisse il capoluogo dell’istituenda Regione autonoma.
Il ruolo dell’attuale capoluogo ancora oggi non è accettato pacificamente specie nel nord dell’Isola. Ecco perché questo 110° anniversario dev’essere occasione di attenta riflessione. Anche le città per mantenere la proprie funzioni hanno bisogno di un continuo impegno. La funzione egemone che Cagliari si seppe conquistare con le lotte del 1906 e poi con la veloce ricostruzione post-bellica ha bisogno di un nuovo slancio. Le elezioni della prossima primavera potranno essere per tutte le forze politiche un’occasione di riflessione e di ricerca per rinnovare su basi nuove un tale ruolo per la Città.
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Altri interventi sul tema di Francesco Cocco
- Su Democrazia oggi 24 maggio 2011 .
- Su Democraziaoggi 23 maggio 2011.
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Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
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Come anticipato ieri pubblichiamo un saggio di Aldo Cappai su Sinnai, di cui è concittadino. Lo facciamo non solo per il pregio delle informazioni e analisi contenute, che hanno valore in sé e per le considerazioni che fa l’Autore nell’introduzione, ma anche per contribuire alla creazione della “città metropolitana di Cagliari”, che ha senso solo se realizzata con e per la valorizzazione di tutte le realtà che la dovranno comporre, della loro identità, della loro storia, del riconoscimento del ruolo e dell’importanza… nell’area vasta e in Sardegna (la macroarea Isola di Sardegna, come la chiama Aldo).
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Sinnai. Una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
di Aldo Cappai
Introduzione
Questo lavoro vuole essere un contributo personale alla ricerca su Sinnai e la sua realtà socioeconomica e culturale, nell’ambito del filone di studi definiti microstoria, incentrati sull’analisi dell’evolversi dei processi storici nelle realtà comunitarie locali al di dentro della macroarea Isola di Sardegna.
La riflessione vuole evidenziare, in primis, come sino alla metà del secolo ventesimo i processi di sviluppo siano stati, nella comunità Sinnaese ed in
quelle delle altre realtà sarde agropastorali, con particolare riferimento a quelle dell’interno, essenzialmente caratterizzati da immobilismo, da stagnazioni o, meglio, da sedimentazioni millenarie. In questo contesto verrà focalizzato il ruolo sociale della figura economica dominante, il pastore sardo, il peculiare sviluppo della comunità sinnaese ed uno spaccato della vita sarda al 1863, appena due anni dopo l’unità d’Italia. Si tratterà, quindi, dei forti processi di crescita che hanno trasformato radicalmente la nostra comunità negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale, ponendo infine le basi per stimolare un nuovo processo di riflessione su una società frutto della globalizzazione dei processi di produzione e di scambi sviluppatisi in maniera così veloce ed improvvisa da indurre un attento pensatore contemporaneo a vederla come vita liquida.
Per la stesura della relazione odierna mi sono state d’ausilio alcune pubblicazioni di nostri concittadini che ho trovato raccolte nei miei scaffali, ancora non riordinati.
- Figura 1 foto del menhir, pubblicata nel volume Sa festa de tunditroxi, commedia in lingua dardo di Don Giovanni Cadeddu. La pietra fitta è simbolo fallico e la V nella parte alta riandai alla sessualità femminile.
I millenni bui della società sarda
I Menhir rappresentano la divinità dei primi popoli che hanno vissuto in Sardegna: una divinità contenente in sé il principio dell’Essere, sia maschile che femminile. Sono simbolo di un periodo che, ab immemore, e sino alla prima metà del secolo scorso, ha caratterizzato la storia della nostra comunità nella sua sostanziale stabilità di mezzi di produzione, di attività economiche, di cultura e di rapporti sociali.
Tracce salienti e significative della rappresentazione della divinità per mezzo di elementi litici e lignei hanno caratterizzato anche le antiche civiltà del mediooriente e quelle mediterranee che si basavano sulla caccia e sulla pastorizia, prima, e sulla agricoltura, poi.
Ma, mentre già da diversi secoli prima di Cristo il popolo ebraico viveva l’esperienza religiosa del monoteismo, in Sardegna il rapporto diretto tra elementi naturali e divinità perdura: ancora nella seconda metà del VI secolo dopo Cristo, il Papa Gregorio Magno definisce i Barbaricini come uomini, che «ut insensata animalia vivant, Deum verum nesciant, ligna et lapides adorent»[1] (vivono come animali privi di intelligenza, senza riconoscere il vero Dio ed anzi rappresentandolo nelle pietre e negli alberi).
Il dominio delle diverse civiltà che nei secoli hanno colonizzato le popolazioni sarde ha comportato, sostanzialmente, l’esclusione radicale delle stesse dai processi di sviluppo economico, politico, sociale e culturale: le attività produttive nei settori dell’allevamento, caratterizzati dalla pastorizia allo stato brado e transumante, quelle del settore agricolo, ancora retto da strumenti di produzione e tecniche colturali primitive, i diversi ed insopportabili prelievi imposti dai diversi dominatori accompagnati dall’assenza di adeguate vie di comunicazione e dalle ferree regole di ordine pubblico che costringevano le popolazioni ad una forzata immobilità, hanno comportato una solidificazione delle diverse realtà, specie culturali, i cui contenuti e valori venivano ancora elaborati, trasmessi e conservati in modo quasi esclusivamente orale.
Figura 2: Lazzaro Perra di Sinnai e il suo giogo di buoi con aratro in legno, 1920.
È il caso delle testimonianze musicali e poetiche che possiamo ritrovare nell’utilizzo, ancora oggi presente, delle launeddas, della poesia estemporanea, dei canti religiosi, delle pregadorias e delle filastrocche.
Le città vivevano una vita radicalmente isolata e impermeabile alla campagna che ad esse (ed ai diversi dominatori che vi si sono insediati), era asservita. Bisogna comunque ricordare che Sinnai rappresenta, per certi aspetti un’ eccezione (che merita di essere approfondita), dovuta alla permanenza o alla frequentazione nel tempo di diversi esponenti cittadini delle classi nobiliari e borghesi cagliaritane, per motivi legati al suo clima salubre (dovuto fondamentalmente alla presenza di acque salutari ed alla scarsa presenza delle zanzare, portatrici della malaria).
Uno spaccato dell’isola al 1863: la relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro .
Uno spaccato dell’isola al 1863, si trova nella relazione del prefetto di Cagliari Carlo Torre al Ministro dell’Interno Ubaldino Peruzzi.
«La relazione trae spunto dalla ridotta leva sarda, a causa dell’alto numero di rivedibili e di “scartati”. Il Prefetto Torre, preciso funzionario, non si accontentava di indicare sommariamente le cifre e a descrivere per sommi capi le cause, ma tentò di spiegare i motivi della cattiva salute, di quel “penoso spettacolo sulla struttura e condizione fisiologica” dei giovani sardi. Di più, egli descrisse le generali condizioni degli abitanti dell’isola e i loro costumi “barbari”. Il suo punto di vista, in alcuni tratti, somiglia a quello di un colonizzatore: si chiedeva, infatti, se, come era uso degli antichi romani, non fosse auspicabile la deportazione di detenuti in Sardegna, che avrebbe comportato il doppio vantaggio di “purgar la penisola e rifornir l’isola” di un maggiore incremento demografico e di una più solida e robusta costituzione fisica. Anche il clima e il territorio venivano chiamati in causa: analogamente al caso dell’agro romano, si riteneva infatti che molte delle malattie a cui gli abitanti dell’isola erano esposti, dipendessero da elementi che la medicina, solo dopo molti decenni, avrebbe depennato come cause di malattie. Addirittura il prefetto riteneva che anche i fichi d’india fossero frutti “di provata malsania”».
Il prioritario interesse dello Stato Unitario alla leva militare
A seguito del commento sopra riportato e ritrovato nel sito del Ministero degli Interni alcuni anni fa, riprendo una selezione delle dirette considerazioni scritte dal Prefetto Torre:
«E per entrare in materia ( verifica iscritti alla leva militare), lo scrivente ha dunque l’onore di esporre a codesto Ministero che il totale degli iscritti ascendeva a N. 4282, e che la precisa metà di questi, computati i rivedibili (perché avviene, massime in Sardegna, che rade volte un rivedibile sia negli anni o nell’anno appresso trovato buono) sono stati riformati e trovati rivedibili al N. 2140. E per venire ai motivi delle riforme e rivedibilità, si desume dagli elenchi avuti che i riformati per difetto di statura ascendono al N. 878, ossia a poco meno di un quarto della somma totale degli Inscritti, che i riformati per malattie diverse salgono a N. 793, ossia a più che la quinta parte del totale, e che i rivedibili sono stati N. 649, ossia il nono del complesso».
Figura 3 foto di due panificatrici di Sinnai negli anni ’50. Tratta dall’archivio digitale della Regione Autonoma della Sardegna.
L’alimentazione dei Sardi
Tra le cause, il Prefetto Garibaldino ricorda tra l’altro che «il cibo, quello del basso popolo, che è la gran generalità, è piuttosto ferino che umano, perché, massime nei luoghi montuosi, in difetto di grani, perché anche non ne seminano, si nutrono in inverno con erbe crude e scondite, o con carni di pecora, capra o bue appena rosolate sulle bragie e ancora sanguinolenti, ed in estate vivono per intere settimane di semplici frutti, come fave verdi, fichi, pesche, uva, pere, prugne, ecc. e, quel che è peggio, inghiottiscono con barbara avidità una quantità enorme del frutto di un Cactus detto Fico d’India, e qui appellato Da Figu Morisca, frutto di provata malsania ma che è facile ad aversi per nulla, perché nasce e matura spontaneo per le colline e per le sponde dei campi. Da ciò diarree, dissenterie, coliche, febbri, e le madri che allattano e che porgono ai neonati una sostanza formata con simili perniciosi ingredienti, inoculano, senza avvedersene, nei loro bambini, per lo più la morte, e in quei pochi che sopravvivono innestano la cachessia, la denutrizione, il marasmo».
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Sinnai, una comunità pastorale tra il secondo ed il terzo millennio
di Aldo Cappai
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Pubblicheremo domani un saggio di Aldo Cappai su Sinnai, di cui è concittadino. Lo facciamo non solo per il pregio delle informazioni e analisi contenute, che hanno valore in sé e per le considerazioni che fa l’Autore nell’introduzione, ma anche per contribuire alla creazione della “città metropolitana di Cagliari”, che ha senso solo se realizzata con e per la valorizzazione di tutte le realtà che la dovranno comporre, della loro identità, della loro storia, del riconoscimento del ruolo e dell’importanza… nell’area vasta e in Sardegna (la macroarea Isola di Sardegna, come la chiama Aldo).
Riportiamo di seguito, come anticipazione, la citata introduzione al saggio.
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Introduzione
Questo lavoro vuole essere un contributo personale alla ricerca su Sinnai e la sua realtà socioeconomica e culturale, nell’ambito del filone di studi definiti microstoria, incentrati sull’analisi dell’evolversi dei processi storici nelle realtà comunitarie locali al di dentro della macroarea Isola di Sardegna.
La riflessione vuole evidenziare, in primis, come sino alla metà del secolo ventesimo i processi di sviluppo siano stati, nella comunità Sinnaese ed in
quelle delle altre realtà sarde agropastorali, con particolare riferimento a quelle dell’interno, essenzialmente caratterizzati da immobilismo, da stagnazioni o, meglio, da sedimentazioni millenarie. In questo contesto verrà focalizzato il ruolo sociale della figura economica dominante, il pastore sardo, il peculiare sviluppo della comunità sinnaese ed uno spaccato della vita sarda al 1863, appena due anni dopo l’unità d’Italia. Si tratterà, quindi, dei forti processi di crescita che hanno trasformato radicalmente la nostra comunità negli anni seguiti al secondo conflitto mondiale, ponendo infine le basi per stimolare un nuovo processo di riflessione su una società frutto della globalizzazione dei processi di produzione e di scambi sviluppatisi in maniera così veloce ed improvvisa da indurre un attento pensatore contemporaneo a vederla come vita liquida.
Per la stesura della relazione odierna mi sono state d’ausilio alcune pubblicazioni di nostri concittadini che ho trovato raccolte nei miei scaffali, ancora non riordinati. (a.c.)
Anno nuovo. Che nuovo anno sia!
Ecco l’anno nuovo. Bilanci e riflessioni.
Inizia un nuovo anno, tempo di bilanci e riflessioni, di programmi e di agende di lavoro per l’anno appena cominciato. Riflessioni solitamente standardizzate e scontate. Talvolta sembra di rileggere cose dette e ridette anche negli anni precedenti, programmi vecchi quanto inutili ai quali ormai pochi mostrano di credere. Proposte peraltro fortemente condizionate anche dalla perenne campagna elettorale in corso nel paese. C’è un argomento, tra i tanti sui quali di dovrebbe avviare una seria riflessione. Il mito della “naturalità”. Un tema abbastanza importante per individuare e comprendere i limiti dei programmi e delle forze politiche dell’area progressista che tanta influenza hanno, o meglio potrebbero avere, nell’attivare concreti processi di cambiamento della realtà socio economica del paese e della regione. Il mito della “naturalità” dei programmi e il peso che tale concetto sta avendo nella (non) definizione di azioni credibili e realizzabili è davvero consistente. Senza nulla concedere agli schematismi ideologici e partitici, talvolta devianti, penso si possa affermare con certezza che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la sinistra o, se preferite, l’area liberale e progressista dalla società, ha sempre perseguito il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani contribuendo a diffondere i progressi scientifici e tecnologici che la scienza produceva e determinava. La conservazione, l’irrazionalità, la difesa aprioristica del conosciuto rispetto al nuovo che avanzava, erano tutti elementi del pensiero conservatore e di destra. Oggi l’area progressista percorre altre strade, sembra essersi rifugiata in un conservatorismo che si richiama a tradizione e natura, che è certamente molto rassicurante, ma altrettanto sicuramente non progressista. Oggi, l’atteggiamento di coloro che si definiscono di sinistra o comunque appartenenti all’area progressista, nei confronti di tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica, è fortemente condizionato da un pregiudiziale rifiuto in nome dalla “naturalità” dell’agire che raramente è accompagnato da considerazioni oggettive. Giusto per fare alcuni esempi basta pensare all’idea di chimica verde e alla biochimica viste con sospetto e ostilità ignorando che perseguono l’obiettivo (questo si naturalista) di sostituire produzioni derivanti da sostanze fossili (petrolio e carbone in primis) con altre prodotte con materie prime di origine vegetale, solitamente riciclabili biodegradabili e compostabili. Un indubbio vantaggio per l’ambiente e la natura. La bioingegneria, che tanta parte ha nella moderna produzione alimentare, farmacologica e in altri comparti produttivi, viene solitamente identificata con l’operato, certamente malavitoso, dei contraffattori e alteratori di prodotti piuttosto che con la ricerca di nuove e più organiche forme di produzione certamente riconducibili a un miglioramento della naturalità dei prodotti e delle condizioni di vita della gente. Per non parlare poi del rapporto con le nuove tecnologie relative alla produzione di energia utilizzando fonti energetiche alternative. Le centrali solari, ideate dal nobel per la fisica, l’italiano Carlo Rubbia, sono una realtà in molte parti del mondo, come le serre solari, gli impianti eolici, la geotermia, la produzione di energia dal riciclo di materiali di rifiuto, la ricerca di prodotti agricoli alternativi, (per esempio il cardo e la canna comune in Sardegna). Tutte attività considerate con sospetto e diffidenza per paure talvolta solo parzialmente fondate (operazioni puramente speculative della malavita, sfiducia nell’operato delle multinazionali della chimica) ma molto spesso per pregiudizi radicati verso tutto ciò che non si conosce o si conosce soltanto parzialmente. Non ne voglio fare una questione semantica ma è un dato oggettivo l’uso improprio che si fa di alcuni termini. Per esempio il termine “chimica” è solitamente e naturalmente associato a qualcosa di negativo dimenticando che grazie ai progressi della chimica e della bioingegneria oggi disponiamo di farmaci molto efficaci, di materiali più efficienti, di macchine migliori, di combustibili meno inquinanti che in passato. Per contro il termine “naturale”, al quale si riferisce gran parte degli appartenenti all’area cosiddetta progressista, non sempre è sinonimo di genuinità e buona qualità. Pensiamo ai prodotti di agricoltura biologica spesso dichiarati tali soltanto dallo stesso produttore ma non adeguatamente certificati, penso al vino o all’olio del contadino venduto nelle fiere con etichette approssimative e controlli igienico sanitari talvolta inesistenti, ai prodotti alimentari conservati e via dicendo. In Sardegna, in particolare, poi al mito della “naturalità”, si accompagna solitamente quello di “su connotu” , del noto, dell’agire come si faceva prima, nei tempi passati, con le modalità e le tecnologie povere dei nostri avi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte fondamentalmente a un pregiudizio, romantico e poetico quanto i vuole, ma sempre un pregiudizio. Le condizioni di vita, nel passato, erano decisamente peggiori, si moriva di parto, c’era malnutrizione e elevata mortalità infantile, mancavano quasi totalmente medicine e vaccini che tanto hanno contribuito alla difesa della salute, i controlli sulla qualità degli alimenti erano pressoché inesistenti. Una condizione di vita non certo invidiabile. Il mito del ritorno al passato, alle buone pratiche di una volta è spesso diffuso soprattutto da chi gode oggi di una condizione sociale favorevole e consolidata e può permettersi di fare voli pindarici sulle ali della fantasia e del mito. Dovremmo rifletterci sopra. Il nostro giornale, da sempre aperto al confronto delle opinioni, certamente darà spazio alla discussione e all’approfondimento sul tema.
L’augurio che rivolgo alla Sardegna è che il nuovo anno induca i progressisti sardi a fare pace con la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Auspico l’individuazione di linee guida per un programma di rinascita e sviluppo dell’isola realistico, che tenga conto delle reali potenzialità e risorse della regione e che individui interventi di adeguamento delle attività produttive alla realtà nella quale viviamo. Uno sviluppo e una crescita in sintonia con le caratteristiche del contesto economico e politico nel quale l’isola è collocata, in rapporto con i mercati internazionali, finalizzato a soddisfare le esigenze della popolazione, la conservazione dell’ambiente e la crescita socio-culturale del popolo sardo.
Auguri Sardegna!
di Franco Meloni*
By sardegnasoprattutto/ 9 gennaio 2016/ Culture/
E’ tempo di auguri. Quali per la nostra Sardegna? Come a Natale si finge naturale bontà, a Gennaio si deve fingere un naturale ottimismo nell’immaginare il futuro. Ma l’ottimismo ha un senso, secondo Gramsci, solo se è rivolto alla volontà, che significa impegno derivante da una chiara consapevolezza della realtà.
Quale è la visione generale della posizione della Sardegna in un’Italia frammentata in una Europa che vede crescere le fughe dall’idea di Comunità che aveva fatto sperare, alla fine della seconda guerra mondiale, ideali di concordia nella pace?
Quello che regna ovunque è un senso di precarietà giustificato dalla violenza delle idee che si contrappongono, come ai tempi delle Crociate, con proclami e non con accurate e impegnative discussioni. E il sangue scorre. Personalmente auguro ai Sardi di riacquistare la consapevolezza di sè. Della coscienza di mantenere e difendere il patrimonio del quale spesso dimentichiamo di essere responsabili. Della certezza che solo la competenza può farci stare al passo di nazioni che privilegiano l’istruzione e la cultura. Millenni di storia ci guardano dall’alto delle torri nuragiche.
Abbiamo fuso metalli e creato arte con antichi saperi. Eravamo al centro di miti e abbiamo danzato con moltissimi Odissei. Abbiamo inventato poesie per sconfiggere l’ignoto e intrecciato tappeti che facevano percorrere arditi viaggi nella fantasia. Sotto olivi secolari abbiamo dettato codici di comportamento che ponevano regole. Abbiamo accordato i tempi dell’agricoltura secondo lo studio degli astri, e la sacralità della natura era rispettata.
Ora dobbiamo rivendicare il nostro ruolo di ponte tra culture nel Mediterraneo, e per farlo dobbiamo richiamare i nostri figli emigrati, e sconfiggere il pessimismo della ragione con costruttivi progetti di accoglienza e di pace in un’etica che ispiri la sostenibilità delle scelte. L’identità si rafforza solo con il confronto con chi viene da fuori. La decisione è facile: fare il contrario dei regimi sempre più antistoricamente fascisti che la vecchia e stanca Europa sta rigurgitando.
L’alternativa ci relega al ruolo subalterno che permetterà di trattare la nostra Isola, che ha il diritto di essere felice, come contenitore di rifiuti, non solo materiali e magari smaltibili in migliaia di anni. La nostra terra, nella più infausta conclusione, potrà essere un efficiente campo per raffinati giocatori di golf o violenti simulatori di guerre, tra esclusivi centri benessere che vedrebbero i Sardi come silenziosi servi. E magari, capovolgendo la sfera che ci conterrà, potrà cadere la neve anche ad Agosto. Abbiamo il dovere di pretendere di più. Auguri Sardegna!
*Fisico e Narratore
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ITA DD’HAP’A NAI
di Fanny Cocco
Ita dd’hap’a nai a filla mia
Chi hat a teni bint’annus
In su Duamila.
Ita dd’hap’a nai
A pustis chi eus abbraxau
Padentis e cracchiris A pustis chi eus alluau
COSA LE DIRO’
Cosa dirò a mia figlia che avrà vent’anni nel Duemila.
Cosa le dirò
dopo che abbiamo bruciato
rovereti e boschi di ghiande
dopo che abbiamo avvelenato sorgenti e ruscelli
A filla mia dd’hap’a nai
A no si fai imboddicai Cument’a nos
Chi eus donau a fidu Su mundu nostru
A is luziferrus de sa chimica e de s’atomu. Nos si dd’eus donau Nos vittimas buginus e complicis.
A filla mia dd’hap’a
di non farsi lusingare come abbiamo fatto noi
che abbiamo venduto per niente
il nostro mondo
ai diavoli della chimica e dell’atomo Noi gliel’abbiamo dato
noi vittime carnefici e complici
Mizzas e arrius
A pustis chi eus accaddozzau Pranus e montis
A pustis chi eus struppiau
Costeras e marinas A pustis chi eus incravau
Matas e bestias.
dopo che abbiamo trasformato in letamai pianure e montagne dopo che abbiamo rovinato
coste e spiagge dopo che abbiamo messo in croce alberi e animali.
nai
Ca no est prus tempus De passienzia “Torrandi a pigai sa terra tua
E perdona a su tempus nostru
Chi t’hat lassau
In eredidari Muntronaxus e bombas”.
A mia figlia dirò
che non è più tempo di portare pazienza. “riprenditi la tua terra e perdona la nostra generazione
che ti ha lasciato
in eredità immondezzai e bombe”.
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* di Fanny Cocco, ITA DD’HAP’A NAI
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Clab – Contamination Lab. Unica Contamination Lab
La nuvola del lavoro
di Corriere – @Corriereit
E l’impresa contamina (finalmente) l’Università
7 GENNAIO 2016 | di Silvia Pagliuca
di Silvia Pagliuca
Chi l’ha detto che l’Università è lontana dal mondo reale? Che è sempre e solo libri e cattedre? A Cagliari accade qualcosa in più. Si chiama Clab – Contamination Lab – ed è un esperimento para-universitario che parte da un motto inequivocabile: «Forget your limits. Let your ideas fly», «Dimentica limiti. Fa volare le tue idee».
Come? Partecipando a un campus di formazione per veri innovatori, per chi ama l’imprenditoria ma non sa come muovere i primi passi. Per chi dal percorso di laurea desidera qualcosa in più.
«Trasformiamo le conoscenze in ciò che interessa al mercato, facciamo in modo che i ragazzi mettano in pratica ciò che hanno appreso tra le aule. Perché la nostra è una scuola di vita, un modo nuovo di interpretare la formazione universitaria» – chiarisce la professoressa Chiara Di Guardo (a destra nella foto con Michela Loi), coordinatrice del progetto, che nelle prime due edizioni ha già portato alla nascita di 15 nuove imprese, molte delle quali finanziate da investitori privati.
Tra queste, IntendiMe, startup sociale fondata da Alessandra Farris per migliorare la vita delle persone sorde rendendole indipendenti e sicure, dentro e fuori casa.
«Ho pensato ai miei genitori, entrambi sordi. Con il team del Clab sono riuscita a tirare fuori questa idea dal cassetto e a renderla viva» - racconta lei, studentessa di Lettere Antiche oggi alle prese con la creazione di speciali placche che possono rilevare i suoni dalle abitazioni e avvisare l’utente direttamente sul proprio smartphone, tablet o dispositivo da polso.
Un progetto a cui ha lavorato con i colleghi incontrati al Clab anche quattordici ore al giorno e che adesso inizia a portare i primi frutti: «Abbiamo vinto diversi premi, stiamo crescendo e abbiamo buone speranze di poter rendere IndendiMe la nostra principale attività» – confida.
Un desiderio molto simile a quello di Mario Fanari, CEO di Snuplace, il servizio che aiuta studenti e freelance a trovare un posto comodo in cui lavorare.
«Siamo partiti da un problema nostro e ci siamo accorti che era condiviso da molte altre persone: non avevamo un ufficio, una stanza, neanche un garage in cui portare avanti la nostra attività. Così è nato Snuplace che oggi offre moltissimi spazi a Cagliari e che a breve ne offrirà altrettanti anche a Milano» – assicura Mario, laureato in Economia, che il suo «salto nel buio» in un certo senso l’ha già fatto, abbandonando il vecchio lavoro per dedicarsi interamente a quello che definisce il suo «piccolo bambino» e che ai futuri temerari del Clab ha un consiglio da dare:
«Lavorate sodo, non abbandonate alla prima difficoltà e anche se alla fine la vostra idea non diventerà un’impresa, questa sarà comunque un’esperienza che potrà tornarvi utile in moltissime altre occasioni, anche le più improbabili».
Così è accaduto a Nicola Usala, infatti, ingegnere elettronico nonché partecipante «vittorioso» del Clab, che dall’avventura cagliaritana ha creato Babaiola, un sito dedicato all’organizzazione di viaggi per la comunità LGBT.
«Anche in questo caso siamo partiti da una necessità: ci siamo accorti che mancava un servizio dedicato ai viaggiatori del mondo gay. Al momento ci rivolgiamo al pubblico italiano e abbiamo località principalmente europee, ma l’obiettivo è coprire tutto il mondo» – spiega lo startupper.
Che assicura: «L’aspetto più interessante del Clab? La competizione, certo, ma soprattutto la cooperazione. La possibilità di conoscere persone diverse da me, con idee a forte vocazione imprenditoriale e molto stimolanti. Una vera e propria contaminazione dalla quale è impossibile non trarre il meglio».
E adesso, non resta che attendere le finali della terza edizione che vede in gara 18 idee di imprese. L’appuntamento con i vincitori per febbraio 2016.
twitter@silviapagliuca
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Oggi venerdì 8 gennaio 2016
PRESENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo LEDDA
Il Centro Servizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo oggi venerdì 8 gennaio alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924.
Lo presentano Italo Ortu già consigliere e assessore regionale nonché leader storico sardista e Francesco Casula storico e scrittore, autore il primo dell’Introduzione storica e il secondo della Prefazione (riportata su Aladinews del 7 gennaio 2016).
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Noi sardi abbiamo il diritto di usare la nostra lingua nella Messa. Lettera di Gianni Loy al Vescovo Arrigo Miglio, presidente della Conferenza Episcopale Sarda
LETTERA APERTA
A MONS. ARRIGO MIGLIO,
ARCIVESCOVO DI CAGLIARI e PRESIDENTE DELLA CONFERENZA EPISCOPALE SARDA
Caro Arrigo
Don Mario Ledda ha appena impartito la benedizione. Dopo aver varcato la soglia della chiesetta di San Lorenzo, ci siamo ritrovati nella sommità del colle del Buon Camino, all’ombra della vecchia struttura carceraria. Ite missa est. La messa è finita, andate in pace. O piuttosto: la messa incomincia, andate a viverla. Fine o inizio che sia, è stata una cerimonia strana e triste. A tratti surreale. Si è trattato di una celebrazione che ha profondamente umiliato me ed altri.
Può la celebrazione dell’Eucarestia umiliare?
Può!
E possibile, certamene, se al giorno d’oggi ancora sei costretto a ricordare il sacrificio della Croce alternando, con bizantino equilibrio, tre diverse espressioni linguistiche, il sardo, il latino e l’italiano. E’ stata una pena!
Mentre Don Mario, scrupoloso nell’obbedienza, pronunciava la formula: Hoc est enim corpus meum, piuttosto che pensare al sacrifico mi chiedevo: se il celebrante, tenendo il pane tra le mani e mostrandolo all’assemblea, avesse invece pronunciato la formula: “custu est su corpus meus”, forse che il mistero non si sarebbe ripetuto?
E quando due sacerdoti si sono alternati nella lettura dello stesso vangelo di Matteo, leggendolo prima in italiano e, subito dopo, in sardo, mi sono chiesto: ma tutto questo ha un senso?
Il senso di quella sofisticata mescolanza di idiomi era, ed è, soltanto quello di impedire che espressioni della mia lingua materna, a differenza di quanto accade per le altre lingue del mondo, possano evocare il mistero dell’ultima cena.
Non riuscivo, non riesco, a capire in nome di quale comandamento del Signore, la lingua che è stata dei miei padri, la lingua e che ho trasmesso ai figli miei, non possa essere utilizzata per il canone.
La risposta che mi attendo, se avrai la bontà di aiutarmi a dissipare i miei dubbi, non è di carattere liturgico, burocratico, ma di carattere teologico.
Per poter comprendere a fondo la mia sofferenza, devi sapere che a mio padre, secondo una cultura che affonda le sue radici nell’epoca dell’antico testamento, è stato dato il nome di Arremundiccu, che è nome, nostro, di santo, e così l’hanno sempre chiamato i suoi genitori. Per poter ottenere il sacramento del battesimo i genitori hanno dovuto accettare che il suo nome diventasse Raimondo.
Mio nonno, a sua volta, si chiamava “Afineddu” ma per battezzarsi ha dovuto prendere il nome di Serafino. Il padre di lui si chiama “Pissenti” ma per poter trovar posto nei Quinque libris ha dovuto prendere il nome di Vincenzo. E così via di generazione in generazione.
Credo che comprenderai la sofferenza di chi vede aggredita la linfa vitale rappresentata, per larga parte, dalla lingua materna. Maria di Nazareth, del resto, crebbe Gesù con la propria lingua materna e non con quella degli occupanti.
Se avrai la pazienza di interrogare alcuni dei vescovi che, assieme a te, compongono la conferenza episcopale sarda, qualcuno di essi potrà riferirti delle severe punizioni che, in altri tempi, venivano inflitte ai seminaristi scoperti ad utilizzare la lingua materna! E’ follia, incultura, lo so. Non è rimpiangendo il passato, recriminando, che si fa la storia, neppure quella della salvezza. La conoscenza, però, aiuta a guardare il futuro. Non ho rancori. Perdono gli autori di atti finalizzati a sradicare da questa mia terra la lingua e la cultura che sono state, per secoli, di mio padre e di mia madre (in su celu sianta), e dei loro padri e delle loro madri prima di loro per i secoli dei secoli.
Forte della mia coscienza, consapevole del dovere di lasciare in eredità ai miei figli la natura così come l’ho ricevuta, comprensiva sia delle sue componenti materiali che di quelle culturali, come la lingua, ho libertà di espressione nella lingua che è stata dei miei padri ed oggi è la mia.
Essa, la lingua sarda, è l’unica con la quale comunico con i miei figli. Mi è consentito scrivere, pubblicare, leggere, Svolgo, in lingua sarda, una parte del mio lavoro di insegnante. Chi lo ritiene può elaborare, in lingua sarda, la propria tesi di laurea.
Posso persino pregare, in lingua sarda.
L’unica cosa che mi è impedita in questa lingua, cioè che tu, in quanto vescovo, mi impedisci, è di partecipare con la lingua dei miei padri, al mistero eucaristico.
Lo trovo, arcaico, inconcepibile, paradossale. Se don Mario recitasse il canone in una lingua sconosciuta, in ucraino, in olandese, in friulano, senza che né lui né l’assemblea comprenda una sola parola, magari con una pronuncia che neppure riflette correttamene il testo, il vescovo non avrebbe niente da ridire, l’ortodossia sarebbe rispettata?
L’unica cosa che sembra importare alla Chiesa sarda è che non si pronunci, in lingua sarda, la sacra formula: “pigai e buffaindi tottus, custu est su calixi de su sanguni miu, po s’alliantza noa e eterna …”.
E’ possibile che la chiesa sarda non abbia altro più importante di cui preoccuparsi?
Caro Arrigo, il vescovo è il “pastore” del gregge o è il “supervisore”, il “sorvegliante”, secondo l’etimologia del termine επίσκοπος (episcopos)?
Secondo la tradizione della mia terra, il “pastore” conosce le proprie pecore ad una ad una, parla con loro nella loro lingua. Condivide la loro condizione.
Il “sorvegliante”, invece, ha il solo compito di garantire il rispetto di regole esterne alla comunità, dettate in nome di una ortodossia il cui significato, francamente, mi sfugge.
Non ho né il diritto né la competenza per addentrarmi nei particolari di questo “diritto”.
Eppure, pensando proprio al Codice di diritto canonico, che ti riconosce quale successore degli Apostoli, e pensando al Papa che, liberamente, ti ha nominato per santificare, insegnare e governare, mi chiedo se davvero la proibizione di recitare il canone in lingua sarda, possa essere in qualche modo ispirata o riferibile all’insegnamento degli Apostoli.
Mi chiedo anche se Papa Francesco, succeduto al Papa che ti ha nominato, sia al corrente del fatto che ai sardi è oggi impedito di celebrare la Santa messa nella propria lingua materna. Mi chiedo se pensi che Papa Francesco, se ne fosse informato, potrebbe condividere una decisione del genere.
So che la questione non riguarda una sola diocesi, bensì la Chiesa sarda nel suo complesso, la sua conferenza episcopale. Ho persino il sospetto che, come purtroppo la storia insegna, i maggiori responsabili della emarginazione della nostra lingua e della nostra cultura, in ambito religioso, non siano coloro che, come te, arrivano dal continente, ma proprio i vescovi nostri conterranei, o almeno una parte di essi, quelli che dovrebbero essere più sensibili al dovere di onorare il padre e la madre.
Non riesco ad immaginare alcun particolare motivo di diffidenza, da parte tua, da parte del Vescovo di Cagliari, nei confronti dell’utilizzazione della lingua sarda nella celebrazione del sacrificio di Cristo.
Ma sei tu il vescovo, vescovo che preferisco nelle vesti di pastore piuttosto che in quelle di episcopo, pertanto è a te che devo porgere due semplici domande che richiedono un’altrettanto semplice risposta: “si o no?”.
1. Esiste alcuna ragione, di carattere teologico, che possa giustificare il divieto di celebrare il sacrificio della messa in lingua sarda?
2. Il vescovo, il pastore, della diocesi di Cagliari, davvero proibisce che possa celebrarsi la Santa Messa in lingua sarda?
Cagliari 6 gennaio 2016
Un abbraccio
Gianni Loy
Sardegna
PRESENTAZIONE A ORISTANO DEL LIBRO “SARDEGNA” di Pantaleo LEDDA
Il Centro Servizi Culturali Unla di Oristano e la casa editrice Edpo domani venerdì 8 gennaio alle 16.30, presso l’Unla di Via Carpaccio, 9 a Oristano, presentano il libro “Sardegna” di Pantaleo Ledda, copia anastatica dell’originale dell’Almanacco per ragazzi del 1924.
Lo presentano Italo Ortu già consigliere e assessore regionale nonché leader storico sardista e Francesco Casula storico e scrittore, autore il primo dell’Introduzione storica e il secondo della Prefazione (riportata di seguito).
Prefazione a SARDEGNA, sussidiario di Pantaleo Ledda
di Francesco Casula
La Lingua sarda, dopo essere stata lingua curiale e cancelleresca nei secoli XI e XII, lingua dei Condaghi e della Carta De Logu, con la perdita dell’indipendenza giudicale, si tenta di ridurla al rango di dialetto paesano, frammentata ed emarginata, cui si sovrapporranno prima i linguaggi italiani di Pisa e Genova e poi il catalano e il castigliano e infine di nuovo l’italiano con i Savoia prima e l’Italia unita poi.
Nel 1720, quando i Savoia prendono possesso della Sardegna,la situazione linguistica isolana è caratterizzata da un bilinguismo imperfetto: la lingua ufficiale – della cultura, del Governo, dell’insegnamento nella scuola religiosa riservata ai ceti privilegiati – è il castigliano, mentre la lingua del popolo, in comunicazione subalterna con quella ufficiale è il Sardo.
Ai Piemontesi questa situazione appare inaccettabile e da modificare quanto prima, nonostante il Patto di cessione dell’Isola del 1718 imponga il rispetto delle leggi e delle consuetudini del vecchio Regnum Sardiniae. Per i Piemontesi occorre rendere ufficiale la lingua italiana. Come prima cosa pensano alla Scuola per poi passare agli atti pubblici. Ma evidentemente le loro preoccupazioni non sono di tipo glottologico. Attraverso l’imposizione della lingua italiana vogliono sradicare la Spagna dall’Isola, rafforzare il proprio dominio, combattere il “Partito spagnolo” sempre forte nell’aristocrazia ma non solo. Questo il vero motivo: non quello “ideologico” della civilizzazione, accampato da Carlo Baudi di Vesme che nell’ opera Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna, scritta, su incarico del re Carlo Alberto tra l’ottobre e il novembre 1847 ma completata nel febbraio 1848, scrive che “Una innovazione in materia di incivilimento della Sardegna e d’istruzione pubblica, che sotto vari aspetti sarebbe importantissima, si è quella di proibire severamente in ogni atto pubblico civile non meno che nelle funzioni ecclesiastiche, tranne le prediche, l’uso dei dialetti sardi, prescrivendo l’esclusivo impiego della lingua italiana…E’ necessario inoltre scemare l’uso del dialetto sardo ed introdurre quello della lingua italiana anche per altri non men forti motivi; ossia per incivilire alquanto quella nazione, sì affinché vi siano più universalmente comprese le istruzioni e gli ordini del Governo…”. – segue –
Arriva l’anno nuovo. Che nuovo anno sia!
Arriva l’anno nuovo. Bilanci e riflessioni.
Inizia un nuovo anno, tempo di bilanci e riflessioni, di programmi e di agende di lavoro per l’anno appena cominciato. Riflessioni solitamente standardizzate e scontate. Talvolta sembra di rileggere cose dette e ridette anche negli anni precedenti, programmi vecchi quanto inutili ai quali ormai pochi mostrano di credere. Proposte peraltro fortemente condizionate anche dalla perenne campagna elettorale in corso nel paese. C’è un argomento, tra i tanti sui quali di dovrebbe avviare una seria riflessione. Il mito della “naturalità”. Un tema abbastanza importante per individuare e comprendere i limiti dei programmi e delle forze politiche dell’area progressista che tanta influenza hanno, o meglio potrebbero avere, nell’attivare concreti processi di cambiamento della realtà socio economica del paese e della regione. Il mito della “naturalità” dei programmi e il peso che tale concetto sta avendo nella (non) definizione di azioni credibili e realizzabili è davvero consistente. Senza nulla concedere agli schematismi ideologici e partitici, talvolta devianti, penso si possa affermare con certezza che, dalla Rivoluzione Industriale in poi, la sinistra o, se preferite, l’area liberale e progressista dalla società, ha sempre perseguito il miglioramento delle condizioni di vita degli esseri umani contribuendo a diffondere i progressi scientifici e tecnologici che la scienza produceva e determinava. La conservazione, l’irrazionalità, la difesa aprioristica del conosciuto rispetto al nuovo che avanzava, erano tutti elementi del pensiero conservatore e di destra. Oggi l’area progressista percorre altre strade, sembra essersi rifugiata in un conservatorismo che si richiama a tradizione e natura, che è certamente molto rassicurante, ma altrettanto sicuramente non progressista. Oggi, l’atteggiamento di coloro che si definiscono di sinistra o comunque appartenenti all’area progressista, nei confronti di tutto ciò che è stato prodotto dalla ricerca scientifica e tecnologica, è fortemente condizionato da un pregiudiziale rifiuto in nome dalla “naturalità” dell’agire che raramente è accompagnato da considerazioni oggettive. Giusto per fare alcuni esempi basta pensare all’idea di chimica verde e alla biochimica viste con sospetto e ostilità ignorando che perseguono l’obiettivo (questo si naturalista) di sostituire produzioni derivanti da sostanze fossili (petrolio e carbone in primis) con altre prodotte con materie prime di origine vegetale, solitamente riciclabili biodegradabili e compostabili. Un indubbio vantaggio per l’ambiente e la natura. La bioingegneria, che tanta parte ha nella moderna produzione alimentare, farmacologica e in altri comparti produttivi, viene solitamente identificata con l’operato, certamente malavitoso, dei contraffattori e alteratori di prodotti piuttosto che con la ricerca di nuove e più organiche forme di produzione certamente riconducibili a un miglioramento della naturalità dei prodotti e delle condizioni di vita della gente. Per non parlare poi del rapporto con le nuove tecnologie relative alla produzione di energia utilizzando fonti energetiche alternative. Le centrali solari, ideate dal nobel per la fisica, l’italiano Carlo Rubbia, sono una realtà in molte parti del mondo, come le serre solari, gli impianti eolici, la geotermia, la produzione di energia dal riciclo di materiali di rifiuto, la ricerca di prodotti agricoli alternativi, (per esempio il cardo e la canna comune in Sardegna). Tutte attività considerate con sospetto e diffidenza per paure talvolta solo parzialmente fondate (operazioni puramente speculative della malavita, sfiducia nell’operato delle multinazionali della chimica) ma molto spesso per pregiudizi radicati verso tutto ciò che non si conosce o si conosce soltanto parzialmente. Non ne voglio fare una questione semantica ma è un dato oggettivo l’uso improprio che si fa di alcuni termini. Per esempio il termine “chimica” è solitamente e naturalmente associato a qualcosa di negativo dimenticando che grazie ai progressi della chimica e della bioingegneria oggi disponiamo di farmaci molto efficaci, di materiali più efficienti, di macchine migliori, di combustibili meno inquinanti che in passato. Per contro il termine “naturale”, al quale si riferisce gran parte degli appartenenti all’area cosiddetta progressista, non sempre è sinonimo di genuinità e buona qualità. Pensiamo ai prodotti di agricoltura biologica spesso dichiarati tali soltanto dallo stesso produttore ma non adeguatamente certificati, penso al vino o all’olio del contadino venduto nelle fiere con etichette approssimative e controlli igienico sanitari talvolta inesistenti, ai prodotti alimentari conservati e via dicendo. In Sardegna, in particolare, poi al mito della “naturalità”, si accompagna solitamente quello di “su connotu” , del noto, dell’agire come si faceva prima, nei tempi passati, con le modalità e le tecnologie povere dei nostri avi. Anche in questo caso ci troviamo di fronte fondamentalmente a un pregiudizio, romantico e poetico quanto i vuole, ma sempre un pregiudizio. Le condizioni di vita, nel passato, erano decisamente peggiori, si moriva di parto, c’era malnutrizione e elevata mortalità infantile, mancavano quasi totalmente medicine e vaccini che tanto hanno contribuito alla difesa della salute, i controlli sulla qualità degli alimenti erano pressoché inesistenti. Una condizione di vita non certo invidiabile. Il mito del ritorno al passato, alle buone pratiche di una volta è spesso diffuso soprattutto da chi gode oggi di una condizione sociale favorevole e consolidata e può permettersi di fare voli pindarici sulle ali della fantasia e del mito. Dovremmo rifletterci sopra. Il nostro giornale, da sempre aperto al confronto delle opinioni, certamente darà spazio alla discussione e all’approfondimento sul tema.
L’augurio che rivolgo alla Sardegna è che il nuovo anno induca i progressisti sardi a fare pace con la scienza, la ricerca e l’innovazione tecnologica. Auspico l’individuazione di linee guida per un programma di rinascita e sviluppo dell’isola realistico, che tenga conto delle reali potenzialità e risorse della regione e che individui interventi di adeguamento delle attività produttive alla realtà nella quale viviamo. Uno sviluppo e una crescita in sintonia con le caratteristiche del contesto economico e politico nel quale l’isola è collocata, in rapporto con i mercati internazionali, finalizzato a soddisfare le esigenze della popolazione, la conservazione dell’ambiente e la crescita socio-culturale del popolo sardo.