Monthly Archives: dicembre 2015

CAGLIARI. Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali.

PaoloMatta 12 dic15
La QuintaA

CAGLIARI. Dibattito su/per la città alla vigilia delle elezioni comunali.

AladinDibattito-CAUn nuovo modello di sviluppo sostenibile: da Cagliari città metropolitana alla Sardegna

di Pierluigi Marotto

– Ci sono state e ci saranno discussioni e critiche all’impostazione politica e culturale che Cagliari Città Capitale ha dato e sta dando alla propria sfida. I principi di Autodeterminazione e di Sostenibilità segnano uno spartiacque netto tra il passato e il futuro, tra destra e sinistra, tra vecchio e nuovo. I più acuti osservatori sollevano questioni di intangibilità giuridica della nostra Costituzione sul primo dei due principi e tendono a banalizzare il tutto relegandolo nel mare magnum dell’indipendentismo protestatario e negazionista. Ma su questo avremo modo di ritornarci, non dimenticando di richiamare la legittimazione giuridica internazionale di tale principio rispettivamente affermata nella Carta delle Nazioni Unite (26 giugno 1945; art. 1, par. 2 e 55) e nell’Atto Finale di Helsinki del 1975 “Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa” (CSCE), in cui si afferma il diritto per tutti i popoli di stabilire in piena libertà, quando e come lo desiderano, il loro regime politico senza ingerenza esterna e di perseguire come desiderano il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
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UNIVERSITÀ della SARDEGNA – UNIVERSITÀ degli STUDI SASSARI

Inaugurazione del 454° dell’Università degli Studi di Sassari ANNO ACCADEMICO 2015-2016
CALVINO
EDITORIA E CULTURA NEL MONDO DIGITALE

di MASSIMO BRAY*
L’avvento della rivoluzione digitale ha avuto e sta avendo un impatto enorme sulla nostra vita quotidiana, sui nostri modi di informarci, di comunicare, di affrontare i problemi: definite dall’ingegnere statunitense Douglas Engelbart, inventore del mouse, «molto più significative dell’invenzione della scrittura o addirittura della stampa» – affermazione forse eccessiva nelle conclusioni, ma certamente corretta per il paragone che istituisce –, le tecnologie digitali, al pari delle altre grandi invenzioni che hanno cambiato il corso della storia, contribuiscono a plasmare nuovi modelli di comportamento e nuove strutture sociali, cambiando la realtà in cui viviamo e il modo in cui ci rapportiamo ad essa.
Tenendosi parimenti lontani – per riprendere la celeberrima formula di Umberto Eco – tanto da un atteggiamento ‘integrato’ di elogio e accettazione acritica del nuovo, quanto da un suo rifiuto ‘apocalittico’ derivante da eccessivi allarmismi e dalla chiusura aprioristica del laudator temporis acti, è invece utile interrogarsi con equilibrio e senso critico sulla misura e sui modi nei quali l’enorme cambiamento in atto sta ridefinendo le nostre idee di conoscenza, di sapere e di cultura: e a questo tema vorrei dedicare le brevi riflessioni che seguono, e che tengono conto dell’esperienza che ho avuto occasione di maturare sia come responsabile editoriale di un istituto a forte vocazione culturale come la Treccani, sia nei dieci mesi nei quali ho avuto l’onore di servire il Paese in qualità di Ministro dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo.
Vorrei prendere le mosse da un libro che, pur essendo stato scritto tre decenni fa, credo rappresenti una guida estremamente preziosa per la comprensione del tempo che stiamo vivendo: mi riferisco alle Lezioni americane di Italo Calvino, il volume che raccoglie – come è noto – il testo di cinque delle sei lezioni che l’Autore avrebbe dovuto tenere durante un soggiorno ad Harvard nell’anno accademico 1985-1986 nell’ambito delle Charles Eliot Norton Poetry Lectures, e che non poté tenere a causa della prematura scomparsa. Non a caso, del resto, il titolo cui aveva pensato Calvino – come racconta la moglie Esther –, era «Six Memos for the Next Millennium», che sarebbe divenuto poi il sottotitolo dell’opera, pubblicata postuma («Sei proposte per il prossimo millennio» in italiano).
Appaiono quasi profetiche, in particolare, le parole che Calvino dedica all’idea di «rapidità», non appena pensiamo all’impatto che l’immediatezza consentita dalle tecnologie digitali ha in tutte le nostre attività quotidiane e soprattutto – per quello che ora maggiormente importa – su alcuni dei nostri modi di rapportarci alla cultura. Basti pensare, ad esempio, a come si sono trasformati le modalità di accesso ai libri e l’atto stesso del leggere: da un lato, oggi è possibile leggere in ogni situazione, non più soltanto a casa o in biblioteca; dall’altro, un normale computer o persino un piccolo strumento che si può tenere nel palmo di una mano ci mettono a disposizione, dovunque e in qualsiasi momento, un numero sterminato di libri, un numero che possiamo considerare di fatto infinito se rapportato alla durata limitata della nostra esistenza. Ed è un patrimonio, questo, accessibile a sua volta in qualsiasi luogo e in qualsiasi condizione: in viaggio, durante gli spostamenti urbani, sul luogo di lavoro, nei tanti momenti di pausa e di attesa.
Eppure, a fronte di tali immensi, oggettivi vantaggi, che offrono alla nostra e alle future generazioni opportunità impensabili per quelle precedenti, occorre anche chiedersi quanto sia di fatto diverso leggere un romanzo, una poesia, un saggio nel contesto di un tempo e di un luogo espressamente dedicati e riservati alla lettura – sia esso la biblioteca, il proprio studio o anche, più semplicemente, la propria abitazione – dal leggere quelle stesse opere in una condizione oggettivamente diversa e caratterizzata, inevitabilmente, da un differente grado di concentrazione. E ancora: il tempo della lettura, che è naturalmente più soggettivo rispetto a quello proprio dell’ascolto musicale o della visione di uno spettacolo teatrale o cinematografico, ma che è anch’esso scandito da un suo ben preciso ritmo e caratterizzato da una sua specifica durata, quanto viene modificato, nella sua essenza profonda, dai nuovi modi di leggere? «Il racconto – scrive Calvino – è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo, contraendolo o dilatandolo»: questo incantesimo si può realizzare ugualmente, e di fatto si realizza e in che misura, con i moderni strumenti di lettura?
Un’altra parola-chiave delle Lezioni americane che mi sembra cogliere un aspetto cruciale della contemporaneità è «visibilità»: nella lezione eponima Calvino si chiede: «quale sarà il futuro dell’immaginazione individuale in quella che si usa chiamare la “civiltà dell’immagine”? Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate?»; e, poco più avanti, denuncia «il pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini». Sono parole scritte, evidentemente, molti anni prima della diffusione mondiale di Internet e della conseguente moltiplicazione esponenziale di quel flusso ininterrotto e onnipervasivo delle immagini, che Calvino definiva già allora come un vero e proprio «diluvio».
Si era da tempo affermata, all’epoca in cui egli scriveva, quella «civiltà delle immagini» che già dalla metà del secolo scorso aveva visto l’umanità dei Paesi occidentali investita da un flus- so continuo di immagini di ogni genere e che tanti intellettuali, filosofi, sociologi – dal Vance Packard dei Persuasori occulti alla Scuola di Francoforte, fino alla «cattiva maestra televisione» di Karl Popper – avevano denunciato nei suoi aspetti deteriori. Oggi, tuttavia, questo processo è giunto a uno stadio successivo, dal momento che la Rete ci mette a disposizione in modo immediato e gratuito una quantità incalcolabile di immagini, con la possibilità di visualizzare istantaneamente qualsiasi oggetto, monumento, luogo, personaggio – vero o immaginario – che abbiamo il desiderio di vedere.
Occorre essere consapevoli che la differenza non è semplicemente quantitativa, perché oggi siamo non più soltanto spettatori passivi di questa enorme quantità di immagini: una condizione che esponeva ed espone già di per sé al rischio, da un lato, di un isterilirsi della capacità di immaginazione individuale, e dall’altro – nelle letture più ‘apocalittiche’ – a quello di un controllo o comunque di un condizionamento ‘dall’alto’ delle idee e dei comportamenti da parte di più o meno concreti poteri di vario genere, sulla scia delle distopie huxleyana e orwelliana. Oggi non si tratta più soltanto di questo, perché la possibilità di accedere di nostra iniziativa pressoché a qualsiasi immagine abbiamo la necessità o il desiderio di vedere espone a rischi di tipo diverso, a cominciare da quello rappresentato da una conoscenza fai-da-te che si illude, questa volta ‘dal basso’, di poter fare a meno di qualsiasi confronto con le opinioni informate e competenti, così come di qualsiasi riscontro con quelli che sono, molto banalmente, i dati di fatto; e che di conseguenza rischia di dare origine a un caos incontrollato nel quale non è più possibile distinguere il vero dal falso, ciò che è attendibile da ciò che è frutto di fantasia o di malafede, ciò che è documentato da ciò che è soltanto immaginato o persino inventato.
La perdita della capacità di «pensare per immagini» paventata da Calvino, dunque, non costituirebbe soltanto un oggettivo impoverimento della nostra capacità di apprendere e di comprendere, e in definitiva delle nostre stesse esistenze, che ne sarebbero gravemente depauperate; essa rischia di risolversi anche in un venir meno del pensiero critico e della capacità di conoscere e comprendere in profondità. Esattamente lo stesso rischio che denunciava Platone nel Fedro a proposito dell’invenzione della scrittura, attribuendo al re egizio Thamus il celebre giudizio per il quale «la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da se medesimi»; così che gli uomini, divenuti «uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti».
In che modo occorre rispondere – ci si potrà e dovrà chiedere – a questi e a siffatti rischi oggettivamente impliciti nella vertiginosa diffusione dei media digitali, ai quali d’altra parte sarebbe anacronistico e irragionevole rinunciare alla luce dei molti e indiscutibili vantaggi che essi apportano alle nostre vite? La giusta risposta non può che venire dal ruolo della cultura, intesa come conoscenza rigorosamente scientifica e come riflessione critica. E cruciale diviene allora il ruolo delle università, dei centri di ricerca, degli istituti culturali e delle case editrici: perché la diffusione del sapere non può fare a meno di quella indispensabile funzione di filtro e certificazione delle nozioni e della loro interpretazione che è affidata da un lato e innanzitutto alla comunità scientifica, ma dall’altro – in misura non meno rilevante – all’editoria, che alla prima si affida per la realizzazione e il controllo dei contenuti, ma in assenza della quale il patrimonio di conoscenze e di saperi che essa produce non avrebbe modo di essere comunicato a un pubblico più ampio di quello dei soli addetti ai lavori.
A questo proposito credo che sia anche necessario e urgente riscoprire la ‘funzione sociale’ del libro e della lettura: strutture come le biblioteche, iniziative come i festival letterari, la semplice circolazione spontanea dei libri, delle idee e delle storie che essi contengono, tutte queste cose sono veicolo di valori positivi, di coesione sociale, di responsabilizzazione e integrazione, e in definitiva uno strumento potenzialmente in grado di migliorare la qualità della vita dei singoli e delle comunità. In Elogio del ripetente Eraldo Affinati racconta un episodio che mi sembra illustri con la massima chiarezza questa funzione sociale che i libri possono svolgere, in particolare in ambito educativo: per riuscire a far leggere Se questo è un uomo alla sua classe, lo scrittore racconta – cito, per ragioni di sintesi, da una recente intervista – di aver deciso «di far venire tutti i ragazzi alla libreria della stazione Termini di Roma per comprare ciascuno la sua copia del libro. Già il fatto di essere lì era una piccola rivoluzione perché molti ragazzi non erano mai usciti dalle borgate. L’iniziativa - racconta Affinati – li ha motivati, hanno capito che ciò che stavano facendo era mantenere un patto che avevano fatto con me. Quella prima lezione all’aperto, con passeggiata per Roma e sosta al MacDonald’s inclusa, è stata determinante».
I buoni libri in particolare, così come la buona informazione, possono dare un contributo di importanza fondamentale nel combattere i pregiudizi e le false credenze: sul terreno culturale e valoriale, innanzitutto, sottoposto in questi mesi e in queste settimane alla fortissima pressio- ne esercitata dai tragici eventi legati ai fenomeni migratori e alla minaccia del terrorismo; ma anche, ad esempio, su quello medico-scientifico, aiutando a colmare le gravissime carenze che stanno emergendo in tale ambito nell’opinione pubblica, come hanno recentemente mostrato ben noti fatti di cronaca e, più in generale, la crescente diffidenza di tante persone, anche alta- mente scolarizzate, nei confronti della scienza e della medicina cosiddette ‘ufficiali’.
Nel mio lavoro in Treccani, non avrei esitazioni nell’affermare che è proprio questo il compito al quale è chiamato oggi un istituto di cultura, a maggior ragione se deputato, come la Treccani, alla produzione e alla divulgazione del sapere enciclopedico: il compito cioè di garantire, grazie alla competenza e all’autorevolezza dei propri autori e collaboratori, innanzitutto la correttezza e la completezza delle informazioni, e poi l’attendibilità delle pur molteplici e differenti interpretazioni che di esse si possono dare. E precisamente questa è la ragione profonda della scelta compiuta in questi ultimi anni dall’Istituto della Enciclopedia Italiana, di mettere a disposizione sul web una parte importante delle proprie opere e della propria banca dati, con l’ambizione di rispondere così ancor meglio al compito dell’Istituto quale è enunciato nello statuto: vale a dire non soltanto «la compilazione, l’aggiornamento, la pubblicazione e la diffusione della Enciclopedia Italiana di Scienze, Lettere ed Arti iniziata dall’Istituto Giovanni Treccani, e delle opere che possono comunque derivarne, o si richiamino alla sua esperienza», ma anche contribuire agli «sviluppi della cultura umanistica e scientifica» e rispondere a «esigenze educative, di ricerca e di servizio sociale».
«Segno dei tempi, nella società presente – si scriveva nel 1955 nella Prefazione al Dizionario Enciclopedico Italiano – è venuta propagandosi un’ansia di maggiore conoscenza, che è pure un’ansia di riscatto. Se non che l’accompagnano esigenze inquiete e delusorie, immaginazioni confuse. È l’ora di rammentare che, tra le varie libertà anelate, precipua è la libertà dalla ignoranza». Per quanto possa essere a prima vista sorprendente alla luce degli enormi mutamenti avvenuti nel lasso di tempo che ci separa da quegli anni, sono parole ancora attuali: con l’avvertenza tuttavia che all’epoca di Internet, della conoscenza ‘fai-da-te’, del flusso continuo e indiscriminato di notizie, immagini, informazioni e interpretazioni, il compito del sapere enciclopedico non può che risolversi, almeno in gran parte, nel mettere a disposizione del vastissimo pubblico costituito dagli utenti di Internet – da identificare, in prospettiva, con tutti i cittadini alfabetizzati – alcuni indispensabili strumenti di orientamento che consentano loro di usufruire con consapevolezza e senso critico di queste nuove realtà e di saper distinguere, nella miriade di informazioni presenti in Rete, ciò che merita di essere conosciuto e preservato; impedendo, allo stesso tempo, che l’incessante succedersi di notizie e di stimoli sempre nuovi e sempre diversi dal quale siamo quotidianamente investiti finisca, prima o poi, per farci perdere il contatto con la dimensione del passato e della storia, che è fondamento non soltanto della nostra cultura, ma anche della nostra identità di individui e di comunità.
Quest’ultimo pensiero offre lo spunto per una riflessione di carattere più generale, che vorrei brevemente sviluppare sulla scorta dell’esperienza maturata nei dieci mesi durante i quali ho avuto l’opportunità di occuparmi di tanti aspetti e problemi della cultura in Italia in veste di Ministro: un impegno che ho voluto intraprendere a partire innanzitutto da una convinzione forte, quella della necessità strategica, per il nostro Paese, di un forte investimento per la tutela e la valorizzazione della cultura, in riferimento sia alla conservazione del patrimonio, sia alla produzione culturale, intesa quest’ultima come arte, musica, letteratura, teatro, cinema, ma anche – allargando la prospettiva ad abbracciare un panorama più completo – come ricerca scientifica e alta divulgazione.
«È nel nostro patrimonio artistico, nella nostra lingua, nella capacità creativa degli italiani – affermava in un discorso del 2003 l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi – che risiede il cuore della nostra identità, di quella Nazione che è nata ben prima dello Stato e ne rappresenta la più alta legittimazione. L’Italia che è dentro ciascuno di noi è espressa dalla cultura umanistica, dall’arte figurativa, dalla musica, dall’architettura, dalla poesia e dalla letteratura di un unico popolo. L’identità nazionale degli italiani si basa sulla consapevolezza di essere custodi di un patrimonio culturale unitario che non ha eguali al mondo». Ed è certamente vero che la consapevolezza del fatto che la cultura è il fondamento della nostra identità nazionale deve indurci innanzitutto a una forte assunzione di responsabilità: con riferimento in particolare allo studio, alla tutela e al restauro delle opere d’arte, dei monumenti, dei testi letterari, dei documenti d’archivio; ma anche alla necessità, divenuta urgente sotto l’incalzare della crisi economica mondiale, di non lasciare che si interrompano e si esauriscano tradizioni plurisecolari, ad esempio nell’ambito della musica, delle arti visive, dell’artigianato, dell’industria culturale.
Non si tratta, tuttavia, soltanto di preservare il passato: credere e investire nella cultura significa anche, allo stesso tempo, dotarsi della volontà e della capacità di pensarsi come società e come Paese, di immaginare in termini creativi e progettuali il proprio futuro. A tale proposito mi piace ricordare una frase dell’antropologo Clifford Geertz, secondo il quale «non diretto da modelli culturalisistemi di simboli significantiil comportamento dell’uomo sarebbe praticamente ingovernabile, un puro caos di azioni senza scopo incapace di pensare il futuro, la sua esperienza sarebbe praticamente informe. La cultura, la totalità accumulata di questi modelli, non è un ornamento dell’esistenza umana ma – base principale della sua specificità – una condizione essenziale per essa».
Resto convinto che una conoscenza critica e consapevole del nostro passato e della nostra identità culturale sia il presupposto indispensabile per poter affrontare con serietà e con qualche speranza di successo le grandi questioni del nostro tempo, a cominciare da quella, davvero cruciale, dell’incontro tra le diverse culture, che è oggi posta con particolare forza da una parte dagli ingenti fenomeni migratori che investono, spesso con esiti tragici, le coste e le frontiere italiane ed europee, e dall’altra – con drammaticità ancor maggiore – dalla gravissima minaccia rappresentata per le nostre vite quotidiane dal terrorismo di matrice fondamentalista. Molti saranno pronti ad obiettare – forse a ragione, del resto – che la cultura da sola non può bastare per risolvere crisi di tale portata; ma è altrettanto vero che al contributo della cultura – intesa come studio del passato, come riflessione critica sul presente e come possibilità di immaginare un futuro diverso – non si può rinunciare, se si vuole continuare ad avere speranza nella possibilità di trovare delle risposte positive, e che non siano soltanto contingenti, a questi problemi. D’altra parte – e con questo mi ricollego più direttamente alla mia esperienza istituzionale – anche sul piano dello sviluppo economico il settore dei beni e delle attività culturali può giocare un ruolo fondamentale per il rilancio del Paese. È un’osservazione che potrà apparire persino ovvia, ma vale la pena ricordare che, se quello della ricerca scientifica e tecnologica è un ambito essenziale e irrinunciabile per l’Italia così come per tutte le altre economie avanzate del mondo, altri settori costituiscono invece una specificità italiana, ed è anche e soprattutto su questi che occorre investire in funzione della ripresa economica. Penso in particolare all’idea di bellezza e alle sue molteplici declinazioni, dall’arte al paesaggio, dai monumenti alla musica; penso ai molti modi nei quali questa idea può contribuire a definire l’identità e l’immagine dell’Italia ed avere, di conseguenza, importanti ricadute positive sul settore turistico. Ma si pensi anche a quelle aree di eccellenza nella produzione culturale italiana – ad esempio l’architettura, il design, alcuni settori della ricerca scientifica e umanistica – e a quegli aspetti della nostra tradizione culturale – come le lingue e le letterature classiche, oppure la tradizione esecutiva e interpretativa in campo musicale – nei quali l’Italia può proporsi come un modello e un punto di riferimento, o se non altro come un polo di attrazione, per culture anche assai lontane dalla nostra.
Mi avvio a concludere. Da queste brevi riflessioni che ho voluto sottoporre alla vostra paziente attenzione credo emerga il ruolo strategico della cultura – in tutte le sue manifestazioni, dal sapere enciclopedico alla conservazione del patrimonio storico-artistico, dalla ricerca scientifica alle molteplici espressioni creative – per il presente e il futuro delle nostre società, con particolare riferimento a quelle che credo possano e debbano rappresentare due fondamentali e irrinunciabili idee-guida: memoria e pensiero critico.
UNIVERSITÀ DELLA SARDEGNA – UNIVERSITÀ DEGLI STUDI SASSARI

Per il 2017 candidiamo Is Mirrionis per l’intervento del G124 di Renzo Piano e del suo gruppo di lavoro sulle periferie e la città che sarà

Renzo Piano a 1:2 ora 29 nov 15ape-innovativaCI VORREBBERO MOLTI RENZI (PIANO).
Nel dare notizia della bella la trasmissione 1/2 ora di Lucia Annunziata andata in onda domenica 29 novembre (Ecco il link con la registrazione della trasmissione con Renzo Piano: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-7936e6bf-fe75-4636-ae1e-464510fb27bb.html), avevo scritto che se Giorgio Seguro (con il quale insieme e con il coordinamento di Ottavio Olita stiamo curando il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis) ed io fossimo stati in trasmissione non avremmo avuto dubbi a suggerire al senatore Piano la risposta all’ultima domanda. Domanda (vera): “Allora senatore quale sarà il prossimo intervento suo e del suo team?” Risposta (immaginaria) “Stiamo studiando il caso di Is Mirrionis, quartiere della periferia di Cagliari. Sa, lì c’è un gruppo di ex giovani che a partire da un’esperienza di scuola popolare degli anni 70 vogliono riprendere, con il pieno coinvolgimento degli abitanti, un lavoro di animazione culturale che fa un tutt’uno con gli interventi di risanamento del quartiere… Vediamo”. Beh! Noi ci proviamo!
Oggi abbiamo appreso da un articolo di Andrea Plebe* che il prossimo intervento (2016) di Renzo Piano e del suo gruppo G124 sarà su Marghera-Mestre. Beh, che dire? Che ce ne rallegriamo e ci mettiamo in fila per il 2017. Un anno passa in fretta e il quartiere di Is Mirrionis avrà tra un anno ancora molti, molti problemi da risolvere. Intanto cerchiamo di stabilire un rapporto di collaborazione con Renzo Piano e il suo gruppo di lavoro. Se possibile a iniziare da un loro intervento nel libro sulla Scuola che stiamo cucinando…
scuolapopolareismirrionis bisvia Is Mirrionis segue numerazione
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* Piano per i giovani e le città da cambiare
(pubblicato su Il Secolo XIX di venerdì 27 novembre 2015 e ripreso sul sito G124)
di Andrea Plebe
ROMA. Prossima fermata, Marghera-Mestre. Il cantiere in movimento del G124, il gruppo di lavoro dell’architetto-senatore Renzo Piano sulle periferie e la città che sarà, fissa il nuovo obiettivo per il 2016 intorno al grande tavolo di Palazzo Giustiniani. Sul muro, all’ingresso, c’è un foglio con venti punti-guida indicati da Piano: dalla crescita per implosione e non più per espansione, “ormai insostenibile” ai “finanziamenti europei a cui non si accede per ignavia”.
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Oggi sabato 12 dicembre 2015

Auguri senza Auguri aladin
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Fiera Natale 2015

Dove va l’Università? E dove va l’Università della Sardegna? BISOGNA OSARE DI PIU’ !

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Dal sito web dell’Università della Sardegna – Università di Cagliari il servizio di Sergio Nuvoli sull’inaugurazione del 395° anno accademico dell’Ateneo di Cagliari, in particolare una sintesi della relazione del Rettore Maria Del Zompo.
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Cagliari, 10 dicembre 2015 – “Le cose, per essere fatte bene, devono essere fatte insieme. E si fanno insieme se con la città, con le imprese e con le istituzioni troviamo obiettivi comuni. Vogliamo continuare a lavorare insieme”. Con queste parole il Magnifico Rettore dell’Università di Cagliari, Maria Del Zompo, ha chiuso la sua relazione questa mattina durante la cerimonia di inaugurazione del nuovo Anno accademico. Dopo la sua relazione, gli interventi dei rappresentanti del personale, Roberta Silvagni, e degli studenti, Francesca Serra. Quindi la prolusione del professor Enrico Berti.
“ORGOGLIOSI DELLA FIDUCIA DI STUDENTI E FAMIGLIE”
“La cultura come strumento per uscire dalla crisi, come mezzo per cambiare il destino della propria famiglia e di tutta la società” è stato invece il punto di partenza di un discorso ad ampio raggio in cui il Rettore ha elencato le ombre e le luci del sistema universitario. Tra le prime certamente quelli che la prof.ssa Del Zompo ha definito “prelievi forzosi dal Fondo di finanziamento ordinario” operati dal Governo: “è un gioco al massacro, e noi non ci stiamo – ha detto – E’ un percorso ad ostacoli che equipara in base a parametri iniqui atenei profondamente diversi tra loro”.

Sul numero di iscritti totali in calo pesa la crisi economica, come pure sul numero degli esonerati per reddito e per merito, passati dal 16% dell’anno scorso al 18% dell’anno appena cominciato. Diminuisce il numero dei laureati, passati dai 4002 del 2014/15 ai 3586 attesi alla fine di quest’anno; a Cagliari si registra un docente ogni 51 studenti, contro la media di uno a 18 di Padova o uno a 4 di Yale.

Anche il personale è in costante diminuzione numerica, e sconta il blocco degli stipendi e il mancato riconoscimento economico della propria professionalità: “Un problema quest’ultimo – ha detto il Magnifico – che intendo affrontare al più presto. Siamo i paria della Pubblica amministrazione italiana”. Tra le luci, il fatto che l’Università di Cagliari si confermi research university, con la sua multidisciplinarietà che permette di offrire 38 corsi di laurea triennale, 34 magistrale e 6 a ciclo unico.

“C’è qualcosa di nuovo e di positivo – ha proseguito il Rettore – Il numero degli immatricolati cresce: è un segnale di fiducia dei ragazzi e delle loro famiglie che ci responsabilizza, perché vuol dire che la cultura universitaria è ancora vista come ascensore sociale. Vogliamo agire, nei limiti del possibile, anche sul diritto allo studio: abbiamo cercato di attutire l’effetto iniquo delle nuove fasce ISEE sulle famiglie sarde, e vogliamo migliorare la qualità dei nostri corsi di laurea”.

L’internazionalizzazione procede spedita “fiore all’occhiello delle nostre attività”. “Stiamo migliorando sulla terza missione, nel rapporto con imprese e territorio”. Quindi le opere: la nuova biblioteca del Polo di Piazza d’Armi (“contiamo di inaugurare presto”, l’impegno della prof.ssa Del Zompo), la nuova spina dipartimentale e il Centro per la ricerca nella Cittadella di Monserrato.

Quindi un passaggio sul rapporto con il Comune: “L’Università di Cagliari è la città di Cagliari – ha detto il Rettore – C’è perfetta identità tra l’Ateneo e la città che lo ospita: vogliamo proseguire nel rapporto intrapreso a vantaggio degli studenti”. Spazio nella relazione di inaugurazione anche per i progressi nel completamento del “Duilio Casula” di Monserrato e per il “Contamination Lab”, il riuscito progetto che punta sulla cultura di impresa cui hanno partecipato 350 studenti e ha generato 15 startup (tra cui “IntendiMe”, che ha vinto recentemente il Premio Nazionale per l’Innovazione).

Infine “Unica Social”, cioè la presenza dell’Università di Cagliari sui social media: “il nostro è il secondo ateneo pubblico in una recente classifica – ha concluso il Rettore – in base al numero dei like e per il livello di interattività mostrato con gli utenti”.
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uniss anno acc 15-16INAUGURAZIONE ANNO ACCADEMICO UNIVERSITA’ DELLA SARDEGNA – UNIVERSITA’ DI SASSARI. La relazione del Rettore Massimo Carpinelli.
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Gli studenti italiani voltano le spalle all’università: in sette anni -20%
[di A. D. G.]
By sardegnasoprattutto / 11 dicembre 2015/ Conoscenza /

Corriere della sera.it 10 dicembre 2015. Il Rapporto della Fondazione Res. Dal 2008, 66mila matricole in meno: in fuga dagli atenei del Sud il 30% degli studenti. Diritto allo studio: nel Meridione 40% di idonei non ricevono borse di studio

Se il Paese non investe sull’Università, l’università si restringe. Una pozza d’acqua che si asciuga. Per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola di circa un quinto. Lo conferma il Rapporto 2015 della Fondazione Res «Nuovi divari. Un’indagine sulle Università del Nord e del Sud» curato da Gianfranco Viesti e presentato giovedì a Palermo.

Contrazione. Rispetto al momento di massima espansione nel 2008, scrivono i ricercatori, la tendenza alla contrazione ha raggiunto oggi il momento più critico: gli studenti immatricolati si sono ridotti di oltre 66mila (-20%); i docenti sono scesi a meno di 52mila (-17%); il personale tecnico amministrativo a 59mila (-18%); i corsi di studio a 4.628 (-18%). E la tendenza a disinvestire è evidente nei dati sul Fondo di finanziamento ordinario, diminuito, in termini reali, del 22,5%. In valore: sette miliardi, che vanno comparati agli oltre 26 miliardi della Germania. Una tendenza opposta a quelle in corso in tutti paesi avanzati. L’obiettivo europeo di raggiungere, al 2020, il 40% di giovani laureati sembra decisamente fuori dalla portata dell’Italia che, con il 23,9%, è all’ultimo posto fra i 28 stati membri.

Effetto «palla di neve». La situazione è drammatica soprattutto per gli atenei del Centro-Sud, e peggio ancora va nelle isole: il Fondo di finanziamento, ripartito in modo assai diverso negli ultimi anni, ha visto tagli, al Sud, di circa il 12% e nelle Isole di oltre un quinto. I cambiamenti introdotti nei meccanismi di ripartizione dei finanziamenti, con un aumento fino al 20% della quota premiale legata a risultati conseguiti nella didattica e nella ricerca, paradossalmente aggravano il quadro perché penalizzano le università del Mezzogiorno per la loro inefficienza, senza spingerle realmente su un sentiero di miglioramento e di maggiore responsabilizzazione. Un meccanismo «a palla di neve», dice la Fondazione: posizione sfavorevole e riduzione delle risorse finanziarie e umane peggiorano offerta didattica e immatricolazioni: «tutti elementi che si contraggono contemporaneamente o in sequenza, ciascuno rinforzando l’effetto degli altri».

Studenti in fuga. Dell’esercito di giovani che non si iscrivono più a un corso di laurea, oltre il 50% disertano atenei del Mezzogiorno: (37mila matricole in meno dal 2003 al 2014). Maggiore, nel Meridione, la quota di studenti che abbandona gli studi universitari dopo il primo anno (il 17,5% al Sud, contro il 12,6% al Nord e il 15,1% al Centro).
La mobilità studentesca, che potrebbe essere anche letta in positivo, mostra invece solo il volto triste della «migrazione»: il 30% degli immatricolati meridionali si iscrivono in università del Centro-Nord. Un flusso a senso unico. Tra le cause, va considerata anche la scarsa disponibilità di borse di studio e di servizi per gli studenti nelle regioni meridionali: nel 2013-14, il 40% degli idonei non beneficiava di borsa per carenza di risorse (60% nelle Isole).

Il gap. Per sottolineare il gap ci sono anche i dati sul tempo medio di completamento di un corso triennale: 5,5 anni al Centro e al Sud, e 4,5 al Nord. O quelli sulla diminuzione del personale docente di ruolo: 18,3% nel Mezzogiorno, 11,3% al Nord e 21,8% nelle università del Centro. Per qualità della ricerca, poi, tutti gli atenei meridionali presentano valori inferiori alla media nazionale.

Serie A e serie B. Alberto Campailla, portavoce di LINK – Coordinamento Universitario mette sotto accusa soprattutto i servizi del diritto allo studio, che «si rivolgono solo al 10 % del totale degli universitari. «Tra gli idonei a ricevere la borsa di studio – dice – uno su quattro non la ottiene per mancanza di fondi. Anche i servizi mensa e alloggio sono a dir poco carenti: solo il 2% degli studenti è assegnatario di un posto alloggio nelle residenze universitarie, mentre è disponibile un posto in mensa ogni 35 studenti iscritti». «Queste profonde differenze derivano in larga parte – afferma Campailla – da un sistema di riparto dei fondi che insistendo su ambigui criteri di merito sta finendo per concentrare le risorse e gli investimenti in pochi atenei di serie A che coprono un triangolo di 200 chilometri di lato con vertici Milano, Bologna e Venezia (e qualche estensione territoriale a Torino, Trento, Udine); mentre la serie B, cioè gli altri atenei, copre il resto del Paese».

Accuse che Francesca Puglisi, responsabile Scuola, Università e Ricerca del Pd, cerca di smontare: «Dopo anni di tagli nella legge di stabilità in discussione alla Camera dei deputati il Governo Renzi torna ad investire nell’Università e nel diritto allo studio. È vero, come argomenta la Fondazione Res i divari che attraversano il Paese nascono anche dalla diversa attenzione che le Regioni del centro nord tradizionalmente hanno dedicato all’istruzione, all’innovazione e al diritto allo studio. Oggi il Governo aumenta di 50 milioni di euro il diritto allo studio perché tutti i capaci e meritevoli privi di mezzi possano accedere ai più alti gradi di istruzione, sblocca la possibilità di assumere giovani ricercatori a tempo determinato e realizza un piano straordinario di assunzioni di 1000 ricercatori». «Ma le Regioni che secondo la riforma costituzionale dovranno promuovere il diritto allo studio devono fare la loro parte», aggiunge.

«Programma pluriennale per il rilancio». Per Jacopo Dionisio, coordinatore nazionale dell’Unione degli Universitari «è necessario un programma pluriennale per il rilancio dell’università italiana, specie nel Mezzogiorno – conclude -. Noi lo denunciamo da tempo e continueremo la nostra campagna sulla “questione meridionale” realizzando una serie di iniziative in tutt’Italia. Scuola, università e diritti sono i punti di partenza per il rilancio del Meridione e di tutto il Paese».
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Sa die de sa Sardigna martedì 28 aprile 2015

Sa die de sa Sardigna martedì 28 aprile 2015


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Tempo di Presepio

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La Natività secondo Carlo Maratta (1625-1713).
Uno dei grandi esponenti della seconda metà del ’600,
nell’ ambito della pittura italiana. Nel forte luminismo dell’ immagine, si può riscontrare l’ influenza del Caravaggio e il gusto per i “notturni” tipico della pittura fiamminga post-caravaggesca. (LL)

Parte il treno. Finalmente!

treno ca ssTreno veloce, si parte: oggi il viaggio inaugurale Cagliari-Sassari
11 dicembre 2015/ Economia, su SardiniaPost - La notizia sul sito della RAS.
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Sono stati necessari 503 giorni affinché le competenti autorità nazionali effettuassero i collaudi e rilasciassero tutte le autorizzazioni per immettere in servizio il treno Atr 365, il convoglio veloce che collegherà Cagliari e Sassari e oggi 11 dicembre effettuerà la prima corsa. La partenza del viaggio inaugurale è fissata alle 10.40 dalla stazione di Cagliari, con arrivo previsto a Sassari intorno alle 13,05. Lunedì prossimo saranno invece inaugurati i collegamenti tra Cagliari e Sassari con Olbia.

Per il momento l’Atr 365 potrà raggiungere una velocità massima di 150 km/h, legata alle attuali caratteristiche tecniche del tracciato ferroviario, come hanno spiegato i vertici di Rfi (Rete ferroviaria italiana). Non è però escluso che la velocità di punta possa aumentare fino a 180 km/h: “In Toscana sono già in corso dei test per certificare l’idoneità dei treni diesel a questa velocità – si legge in una nota di Rfi – e i convogli potranno raggiungere questa velocità al termine di queste prove tecniche e a conclusione dei lavori di potenziamento infrastrutturale e tecnologico della rete ferroviaria dell’Isola”.

Alla corsa inaugurale parteciperanno il ministro dei Trasporti Graziano Delrio, il presidente della Regione Francesco Pigliaru, l’assessore regionale ai Trasporti Massimo Deiana, accompagnati dal sindaco di Sassari Nicola Sanna.
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ape-innovativaE perché no i Rettori dell’Università Sarda (di Cagliari e di Sassari)?

Oggi venerdì 11 dicembre 2015

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Martini: hic manebimus optime

H M O Martinihic manebimus optime
ape-innovativaHic manebimus optime. E’ il titolo che avevamo dato all’articolo di Rosamaria Maggio (ripreso dal sito di Vito Biolchini e pubblicato da Aladinews il 12 ottobre scorso) con il quale si apriva di fatto la vertenza per la permanenza dell’Istituto Martini nella sua sede storica di via Sant’Eusebio.
La frase (“Signifer, statue signum, hic manebimus optime”, vessillifero, pianta l’insegna, qui resteremo benissimo) è attribuita dallo storico latino Tito Livio a un centurione romano, come risposta alle intenzioni del Senato, che proponeva il trasferimento della capitale da Roma a Veio, dopo l’incendio di Roma a opera dei Galli (390 a. C.). Tale espressione, divenuta proverbiale e ripetuta anche in altre occasioni storiche, si usa per indicare la ferma volontà di non abbandonare un luogo o una determinata posizione.
E, appunto con questo significato io l’ho riportata volendo dare conto della ferma volontà dei ragazzi, delle famiglie, dei docenti e del personale tutto del Martini, di quanti vissero quei luoghi in passato come studenti o operatori della scuola, e, aggiungiamo, della gran parte dei cittadini cagliaritani, di opporsi all’allontanamento del Martini dalla sua sede storica. Non mi ero accorto che tale espressione è iscritta in testa a una lapide all’ingresso dell’Istituto, dedicata agli studenti del Martini che perserò la vita nella prima guerra mondiale. Dell’esistenza di questa lapide ci ha parlato alcuni giorni fa su Democraziaoggi Gianna Lai: “Ma avete visto la lapide degli studenti dell’Istituto Tecnico Commerciale morti durante la Prima Guerra mondiale? Si, quella di marmo posta all’ingresso, nell’androne, spettacolo commovente e monito contro tutte le guerre, picioccheddus costretti a abbandonare la aule per andare a morire in trincea? Trasferiamo anche quella al Besta o la regaliamo direttamente ai carabinieri, che la mostrino ai turisti in occasione di Cagliari musei aperti, insieme all’elenco degli ultimi 670 studenti, quelli di quest’anno, che hanno vissuto in questa scuola?”. Sono stato per cinque anni studente del Martini (dal 1964 al 1969) ma quella intitolazione proprio non me la ricordavo. Forse perché noi studenti gli ultimi scalini all’uscita dalla scuola, al termine dei quali sta la lapide, li facevamo con la massima fretta, a volte volandoci sopra, quando al suonar della campana lasciavamo le aule, dopo aver a malavoglia subito la costrizione di stare irregimentati (e rallentati), rigorosamente in fila per tre, secondo l’ordine impartito dal severissimo preside Remo Fadda! Però evidentemente quella frase l’avevo letta e introiettata. Questa mattina sono passato davanti al mio vecchio Istituto, sono entrato nell’androne per vedere la lapide e l’ho piacevolmente scoperta. Obbligatoria la foto, che trovate in testa a questo scritto. E dunque “hic manebimus optime”!
Con questa premessa che ribadisce il nostro impegno per il Martini e per tutte le scuole che sono in situazioni analoghe, riportiamo la lettera del Comitato Salviamo il Martini, che cogliendo l’occasione di una risposta alla lettera pubblicata su L’Unione Sarda di ieri da Francesca Ghirra (non riassumo nulla perché le pubblichiamo entrambe, integrali), aggiorna e rilancia la vertenza. Noi ci siamo e ci saremo. (Franco Meloni)
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Lettera aperta alla Pres.Commissione Cultura del Comune di Cagliari Francesca Ghirra
Salviamo il Martini… subito!!!

Cara Presidente,
la ringraziamo per la sua attenzione al problema dello spostamento delle scuole in periferia ed in particolare all’urgente questione dello storico Istituto “P.Martini”.
Diamo atto anche al Sindaco di aver espresso la sua sensibilità con la partecipazione alla iniziativa pubblica organizzata dal Forum delle Associazioni Professionali degli Insegnanti, lo scorso 2 Dicembre.
Ciònonostante, al di là del titolo molto significativo della sua Lettera, rileviamo che ancora una volta ci si nasconde dietro il tema delle competenze amministrative, che ovviamente noi conosciamo molto bene.
In questo caso però non si tratta di competenze amministrative bensì di scelte politiche in una dimensione inter-istituzionale tra Comune, Regione e quel che resta della Provincia. – segue –

DIBATTITO. Il neocentralismo regionale e statale strangola la Costituzione

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Sovranisti di tutto il reame uniamoci! Il neocentralismo regionale e statale strangola la Costituzione
10 Dicembre 2015

democraziaoggi loghettodi Andrea Pubusa su Democraziaoggi

Leggo sui giornali dell’accentramento su Cagliari dell’Autorità portuale di Olbia, dell’accentramento su Cagliari, Nuoro e Sassari dei Tribunali di Lanusei e Oristano, dopo che sono stati soppressi quelli decentrati di Iglesias e Carbonia, di Sorgono, di Macomer e altri ancora. Leggo della nomina di commissari straordinari nelle province, da enti esponenziali delle rispettive comunità, ormai ridotte ad appendici amministrative della Regione. Leggo di proposte di legge che s’inventano una città metropolitana, dove non c’è metropoli, leggo di unioni di Comuni per far fuori con un solo colpo gli stessi comuni e le province (già fatte fuori!). Leggo tante altre amenità in campo istituzionale, il cui senso è uno solo: far fuori le autonomie locali e accentrare i poteri su Stato e Regioni. Leggo della restaurazione di rapporti di gerarchia fra il primo e le seconde.
Oltre che del governo nazionale questa recrudescenza neocentralistica è opera anche di una sgangherata e micidiale politica regionale. Eppure Francesco Pigliaru non deve andar lontano per sapere cos’è l’autonomia, quella vera. Gli basta leggere un saggio sull’autonomia, che certo ha nella sua biblioteca, del suo omonimo Antonio, “L’autonomia come riforma democratica dello Stato e della sovranità e come momento di estinzione democratica dello Stato“, uno scritto che consiglio anche ai tanti confusi sovranisti nostrani. Lì trovano un riferimento teorico al loro sovranismo o, più semplicemente, uno strumento per capire il senso dei principi dell’autonomia locale e del decentramento, sanciti nell’art. 5 della Costituzione come sviluppo del principio democratico e della sovranità popolare posto nell’art. 1.
Da quella riflessione emerge anche la distanza siderale fra la situazione attuale e la prospettiva autonomistica nella versione più avanzata, che certamente Antonio Pigliaru esprime fin dal titolo del suo lavoro. L’autonomia non solo è la manifestazione a livello locale della sovranità popolare, ma determina quella spinta originaria, dal basso, al processo democratico di cui lo Stato non è il soggetto unico, ma uno dei protagonisti, insieme alle autonomie locali, secondo le competenze stabilite e distribuite dalla Carta costituzionale. In questo contesto, che non è indipendentista, ben si può parlare di sovranità anche con riferimento alle comunità locali e dunque anche di sovranismo a livello regionale. In questa prospettiva prende concretezza anche l’estinzione dello Stato, preconizzata da Karl Marx, e che molti hanno visto come ricaduta del filosofo tedesco nell’utopia, ma che invece manifesta tutta la sua concretezza e il suo realismo pensando alla integrale autonomia delle comunità territoriali e dei singoli come processo che estingue la vecchia macchina statuale chiusa e oppressiva. Questa viene spezzata in favore di un ordinamento veramente democratico perché ispirato al principio di eguaglianza delle comunità locali, dei gruppi e degli individui, cioè propriamente ad uno Stato senza classi.
Bene, rispetto a questa riflessione, che è anche un programma di lotta concreto, immediato e di lungo periodo, cosa fa Pigliaru figlio e cosa fa il governo Renzi? Avviano la più radicale e rozza controriforma istituzionale dal 1948 ad oggi, battendo insieme le autonomie locali e il decentramento. E gli argomenti a supporto? Sono i più beceri e banali, riassunti come sono nell’esigenza di contenere la spesa pubblica e di assicurare la governance, come. con provincialismo di ritorno, si ama dire oggi. Ma, a ben vedere, la democrazia ha sempre avuto un costo e, comunque, nel conto profitti e perdite, la democrazia è sempre in attivo rispetto all’autocratismo, anche se la democrazia poer essere tale dev’essere sobria e contenuta nelle spese. Quanto all’efficacia del governo è certo che le forme accentrate o peggio autoritarie non danno mai prova di buon governo: presto o tardi finiscono negli scandali di regime e nell’inconcludenza. Del resto mai come oggi il Paese è in preda ad un’immoralità politica e amministrativa diffuse quanto incocludenti! Nemico del buon governo non è la democrazia, ma quella degenerazione chiamata “democraticismo”, ossia quelle forme, solo apparentemente democratiche, caratterizzate da procedure decisionali barocche e costose, fatte di privilegi e prebende, da cui si esce non con forme di governo autocratiche, ma con la messa a punto dei meccanismi effettivamente democratici.
Francesco Pigliaru e il governo nazionale sono avviati invece sulla strada opposta. I sindaci protestano, ma sono anch’essi parte del meccanismo, in quanto difendono il loro status e la loro funzione podestarile. Gli amici sovranisti o si alleano ai loro boia (Maninchedda, Muledda, Sale & C.) o, salvo pochi, vanno a farfalle, perseguendo un sovranismo confuso, velleitario ed astratto.
Non c’è dunque alternativa? Beh, l’alternativa ci sarebbe, ma ad alcune precise condizioni: gli indipendentisti e i sovranisti dovrebbero almeno fare concretamente… gli autonomisti, proprio così dovrebbero essere autonomi dalle forze neocentraliste, dovrebbero opporsi senza se e senza ma al PD, anziché allearsi con lui in funzione subalterna per lucrare un assessorato o un seggio nell’assemblea regionale o in quelle comunali. Occorrerebbe poi lanciare un progetto serio con al centro non la Regione, che va disintegrata come ente neocentralistrico, per pensare in chiave sovranistica alla Pigliaru (Antonio s’intende!) l’insieme dell’ordinamento regionale, a partire dai Comuni e da un ente intermedio elettivo (se non lo vogliamo chiamare Provincia, chiamiamolo distretto, contea o… giudicato!), con una redistribusione equilibrata delle funzioni in riferimento alle esigenze delle comunità locali.
Il rapporto con lo Stato non può essere di supina subordinazione, ma in questa fase, se vuole essere sutonomista-sovranista alla Antonio Pigliaru, deve necessariamente essere conflittuale. Lo Stato accentratore deve essere svuotato delle funzioni di livello non nazionale, e dunque deve essere “estinto” come soggetto di accentramento e di oppressione. Quanto c’è da fare anche a livello regionale e locale per difendere e far avanzare la nostra democrazia!

Internet tra libertà e terrorismo

oggi 101215MASSIMO MANTELLINI 9 DICEMBRE 2015
La sinistra che vuole chiudere Internet

Quando dieci anni fa ci furono gli attentati alla metropolitana di Londra le maggiori reazioni, da un punto di vista legislativo, si ebbero curiosamente in Italia. Il governo di allora si inventò una norma, il cosiddetto decreto Pisanu, piuttosto facile da riassumere: la lotta al terrorismo attraverso una sciocca norma burocratica che caricava di oneri, firme e fotocopie chiunque desiderasse fornire o utilizzare un accesso wireless a Internet. I terroristi erano serviti, abbattuti a colpi di burocrazia.
Quando alcuni anni prima gli USA accettarono di buon grado il Patriot Act di George Bush, norma liberticida approvata poche settimane dopo l’11 settembre, nessuno da quelle parti si sognò di proporre di chiudere Internet o di limitare gli accessi wi-fi. Era chiaro, agli americani allora ed agli inglesi qualche anno dopo, che la sicurezza nazionale non poteva passare attraverso la limitazione degli strumenti di comunicazione di tutti i cittadini. – segue –

Oggi giovedì 10 dicembre 2015

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Emergenza, sicurezza, diritti fondamentali

Banner mese diritti umani
Domani 10 dicembre, alle ore 17 nell’Aula Arcari della Facoltà di Giurisprudenza
in viale S. Ignazio n. 86 si terrà un dibattito su
Emergenza, sicurezza, diritti fondamentali
Presiede Antonello Murgia - ANPI
Relatori:
Fiorella Pilato – Magistrato
Emergenza e libertà
Andrea Pubusa - Università di Cagliari
Guerra e diritti fondamentali
Segue Dibattito

“Scienza in nuvole, da Paperino a Nathan Never. I fumetti come mediazione linguistica nel dibattito sulle scienze”

locandinaVIGNA sankara Incontro dibattito con Bepi Vigna, creatore di Nathan Never, (mercoledì 9 dicembre, ore 19 nel circolo Sankara (via Napoli 62) nel quartiere Marina. – segue –