La preziosa eredità di Piero Sraffa e Antonio Gramsci
Piero Sraffa e Antonio Gramsci, un’amicizia non del tutto compresa
di Gianfranco Sabattini
Ricorrendo l’anniversario della morte di Gramsci, avvenuta il 27.4.1937, piace ricordare il senso del rapporto amicale che egli ha intrattenuto con Piero Sraffa. I due sono tra i grandi intellettuali del Novecento europeo; la figura e le idee dell’uno, capo del Partito Comunista, sono state una stella polare per generazioni di pensatori e militanti politici. La originale cultura economica dell’altro è valsa a renderlo parte di una rete intellettuale che includeva pensatori come Keynes e Wittgenstein. Per vent’anni, i due sono stati legati da una grande amicizia, conservatasi e approfonditasi anche dopo che Gramsci è stato rinchiuso nel carcere fascista. Cosa univa questi “due grandi”? Per rispondere occorre considerare l’origine della loro amicizia, cercando di capire quali circostanze hanno permesso l’incontro di due pensatori così diversi. [segue]
Negli anni del carcere, Sraffa e Gramsci si sono mantenuti in contatto, oltre che con le lettere che Gramsci scriveva a Sraffa, anche con l’aiuto che Sraffa, avvalendosi dell’accreditamento sociale della propria famiglia, ha prestato a Gramsci nella gestione dei suoi problemi legali (il suo difensore, Saverio Castellet, era collaboratore del padre di Sraffa), prodigandosi anche per fare ottenere provvedimenti a favore dell’amico (uno zio di Sraffa, Mariano D’Amelio, era Senatore del Regno e primo Presidente della Corte di Cassazione). Infine, negli anni del carcere, Sraffa ha provveduto a “stimolare” l’amico carcerato facendogli pervenire pubblicazioni su materie che, a suo giudizio, potevano interessare il carcerato, affinché, attraverso lo studio e la scrittura, potesse conservare il cervello funzionante e creativo.
Sul piano politico, Sraffa e Gramsci avevano (fatta eccezione per la formazione economica che non era un punto di forza in Gramsci) molti tratti in comune dal punto di vista della formazione intellettuale e politica. Entrambi nutrivano un grande interesse per i classici del marxismo; ciò non significa che i due amici concordassero su tutto, per via del fatto che Sraffa era meno propenso di Gramsci a lasciarsi influenzare da ragioni idealistiche.
Su un elemento fondamentale, però, le vedute dei due amici convergevano: sull’identica interpretazione del materialismo storico. Essi, infatti, non condividevano l’interpretazione meccanicistica del “rapporto struttura-sovrastruttura”; ovvero, non condividevano l’idea che ci fosse una totale e assoluta subordinazione della seconda alla prima e che elementi sovrastrutturali (come la cultura e la conoscenza scientifica) non potessero reagire sulla struttura.
Nonostante la convergenza su questo importante aspetto della loro adesione al marxismo, diversa era l’origine del perché Sraffa e Gramsci non condividevano l’idea di una rigida subordinazione della sovrastruttura alla struttura. L’adesione alla concezione materialistica della storia, a differenza di quanto forse era accaduto per Gramsci, non derivava per Sraffa da influenze idealistiche, ma dalla sua contrarietà alla teoria economica del marginalismo (teoria sviluppatasi tra il 1870 e il 1889, ancora oggi dominante rispetto a quella classica e marxiana); tale teoria era da Sraffa “combattuta”, perché portatrice di una concezione meccanicistica della distribuzione del prodotto sociale.
Sraffa negava che la distribuzione fosse determinata – come egli stesso diceva – da circostanze naturali tali da rendere futile qualunque azione, da una parte o dall’altra, per modificarla; in altri termini, la sua avversione al marginalismo conduceva Sraffa a negare che la distribuzione del prodotto sociale avesse “leggi ferree” naturali e ad affermare che, per la spiegazione del fenomeno distributivo, fosse necessaria una ricostruzione della teoria economica attraverso il ricupero della teoria classica e marxiana del sovrappiù, con conseguenze non di poco conto sul piano delle regole sottostanti il funzionamento del sistema economico-sociale.
Secondo la critica di Sraffa, tutte le grandezze economiche (quantità da produrre, consumo, salario, profitto, ecc.) non erano fenomeni ricadenti all’interno dell’economia; essi andavano invece ricondotti all’interno di “approcci procedurali”, la cui insufficiente formalizzazione ed istituzionalizzazione legittimava il ruolo e la funzione del “conflitto sociale”. Ciò implicava che quasi tutte le grandezze economiche fossero calcolate su “basi tecniche” (come avveniva per il foraggio destinato all’alimentazione del bestiame e per il combustibile necessario per il funzionamento delle macchine), mentre il profitto fosse determinato residualmente e identificato in ciò che restava del prodotto sociale dopo avere rimunerato il lavoro e reintegrato i capitali anticipati.
Secondo Sraffa, perciò, nella prospettiva della ricostruzione della teoria economica, la spiegazione tradizionale del processo distributivo del prodotto sociale, proprio della teoria marginalista, doveva essere completamente abbandonata; ciò in quanto le quote distributive non dipendevano più dalle condizioni tecniche della produzione, ma dai rapporti di forza tra i detentori della forza-lavoro e i detentori dei beni-capitale.
In conclusione, secondo Sraffa, il conflitto sociale sottostante la determinazione della distribuzione del prodotto sociale tra le varie categorie di operatori economici non era un “elemento di disturbo”; piuttosto che un “vizio” del sistema sociale, esso andava considerato una “virtù”: sin tanto che non fosse stata formalizzata una nuova teoria economica più generale (che spiegasse, in modo coerente e non contraddittorio, la dinamica del consumo, delle forme d’impiego del capitale e delle modalità di distribuzione del prodotto sociale), il conflitto costituiva un elemento fisiologico senza del quale il sistema sociale non avrebbe potuto stabilmente operare.
Nella prospettiva critica sraffiana, tuttavia, il conflitto, sebbene costituisse un elemento importante per dare positive risposte al problema distributivo, non era uno strumento idoneo a garantire condizioni di operatività stabile ed efficiente del sistema socio-economico; ciò perché, il conflitto, per quanto necessario, costituiva, non solo una fonte ingiustificata di costi e di sprechi, ma anche la negazione della possibilità che esso (il conflitto) potesse essere “affievolito”, attraverso modalità processuali compatibili con l’interpretazione del materialismo storico che accomunava Sraffa e Gramsci.
Pur mancando documenti che attestino ciò di cui Sraffa e Gramsci hanno discusso negli incontri occorsi tra i due nel breve periodo 1924-1926 (prima che Gramsci fosse arrestato), si può tuttavia dire che i due amici non abbiano parlato sino a tarda notte solo del più e del meno; se è improbabile che essi abbiano discusso di teoria economica in senso stretto (argomento sul quale Gramsci mancava di competenza), avranno certamente parlato di questioni politiche di attualità, e assai probabilmente anche di questioni relative all’interpretazione del materialismo storico di origine marxiana, cioè di quelle questioni economiche che i marxisti consideravano il terreno proprio del pensiero di Marx, e il campo in cui tale pensiero mostrava la sua superiorità rispetto alla “teoria economica marginalista”.
Il materialismo storico di Marx era però strettamente connesso al determinismo economico, implicante l’assunto che la sovrastruttura (la cultura e la conoscenza scientifica in generale) fosse sempre determinata da eventi materiali; un assunto, quello marxiano, che contraddiceva l’equivalenza tra fatti materiali e idee, affermata da Sraffa e da Gramsci. E’ stato forse Gramsci, competente a trattare la prassi del processo politico più di quanto lo fosse Sraffa, a formulare la possibilità, partendo dalla loro comune interpretazione del materialismo storico, che la fuoriuscita dal capitalismo potesse essere realizzata al di fuori dell’idea tradizionale della conquista violenta del “potere centrale”, quindi a teorizzare un movimento sociale fondato sul riconoscimento della diversità delle posizioni politiche, che considerasse la conquista del potere da parte di un gruppo sociale non come dominio, ma come capacità di esercitare un ruolo egemonico, con cui perseguire la fuoriuscita dalla logica distributiva capitalistica, in presenza di un generalizzato consenso sociale.
In conclusione, Sraffa e Gramsci, pur gravati dell’accusa di “perversione idealistica”, hanno lasciato in eredità della sinistra un lascito intellettuale e conoscitivo, dal quale poter mutuare le idee per predisporre un progetto di rinnovamento politico, sociale ed economico, utile a superare le contraddizioni del capitalismo; la sinistra ha preferito però seguire tutt’altra tattica politica, riducendosi così a mosca cocchiera dell’ideologia neoliberista.
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