Editoriali
Guerra e Pace
Proviamo a ragionare di pace
25 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi
La guerra in Ucraina continua da tempo, senza che si veda alcuna prospettiva di soluzione. Giustamente, dice Kissinger, se non si trova una soluzione con le armi allora bisogna ricorrere alla via diplomatica, politica.
Ma il problema sta proprio qui; al momento nessuno sembra avere un’idea di come sia possibile fare la pace. Qualcuno, compreso il nostro Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, parla di pace giusta.
Ora la pace giusta, per chi sta dalla parte dell’Ucraina e ne ascolta la voce, consiste nella riconquista di tutti i territori perduti, Crimea compresa; in altre parole, guerra sino alla vittoria.
Ma che questa vittoria non sia a portata di mano ormai lo pensano in molti, particolarmente nelle alte sfere USA (che, non dimentichiamo, sono i veri protagonisti della guerra, perché se l’Ucraina mette gli uomini, la maggior parte delle armi, dei finanziamenti e delle comunicazioni vengono dall’America).
L’alternativa è alzare il tiro, elevare il livello dello scontro: è ciò a cui chiaramente tende Zelensky, che chiede più armi (ne occorrono dieci volte di più di quelle che arrivano oggi) e che vorrebbe un più diretto coinvolgimento di altri Stati, perché oggi la guerra interessa l’Ucraina, ma domani potrebbe riguardare altri, perché è una battaglia comune per la democrazia, ecc…
E così il rischio dell’escalation procede: l’Inghilterra propone munizioni con uranio impoverito, un ministro tedesco parla della possibilità di colpire centri russi, Stoltenberg esprime la possibilità di inviare aerei e da ultimo Borrell pensa a un intervento delle marine dei Paesi europei nientemeno che a Taiwan per proteggerne il canale.
Quest’ultima affermazione, che sembra solo un’esagerazione fuori luogo, in quanto è molto probabile che non sia raccolta da nessuno, offre però plasticamente l’idea della situazione.
L’Ucraina è l’epicentro, ma in fondo è una realtà limitata; sempre di più il vero teatro dello scontro è il mondo intero (e la battuta di Borrell è illuminante in proposito).
La guerra in Ucraina è direttamente o indirettamente la causa maggiore dell’inflazione che pesa su tutti i popoli e tutte le famiglie, ci siamo procurati l’energia necessaria ma i costi sono cresciuti, tanti paesi poveri sono diventati poverissimi, le migrazioni aumentano per soddisfare necessità elementari, ogni Stato ha deciso di spendere di più in armamenti, le catene produttive e distributive sono entrate in crisi producendo fenomeni di protezionismo (vedi USA).
Sono scoppiate nel frattempo altre tensioni mondiali, non solo a Taiwan, ma anche in Sudan, dove si fronteggiano due gruppi armati, ma dove hanno interessi sia gli USA che la Russia (che è presente con la Wagner).
La Cina, che non partecipa alla guerra in Ucraina, intanto estende la sua influenza in Africa, ma ora sempre di più anche nei paesi arabi; e un’alleanza Cina-paesi arabi non è certo una prospettiva rassicurante.
Le relazioni internazionali stanno decisamente peggiorando per l’Occidente, l’area di cui facciamo parte stabilmente e organicamente (basterebbe pensare a cosa sarebbe un’ipotetica difesa dell’Italia senza la NATO).
Qui sbaglia Conte che parla di pace, ma separandosi dagli alleati; al contrario occorre parlare di pace, rimanendo saldamente uniti agli alleati e all’Ucraina.
Detto questo, sembra ragionevole cercare immediatamente la pace.
Certamente significa rinunciare almeno a una parte dei territori in questione, ma la soluzione alternativa è solo una guerra ben più pesante che non sappiamo dove possa arrivare, con pericoli enormi fuori da ogni controllo.
La rinuncia di qualche parte del territorio sembra presentarsi come un male minore rispetto ai danni già provocati dalla guerra e a quelli incorso a livello mondiale.
L’Ucraina, che è dalla parte della ragione e che merita tutta la nostra stima e l’incondizionato appoggio, avrà come contropartita un’accoglienza fra gli stati europei democratici e un accordo europeo e internazionale che le garantisca la sicurezza per il futuro.
Ora però è necessario che qualcuno si muova; un piccolo passo l’ha fatto la Cina, qualcosa dovrebbe fare l’America (su cui pesa purtroppo il prossimo inizio della lunga lotta presidenziale); dopo di che potrebbe essere l’ONU, coi suoi limiti ma con un necessario atto di coraggio, ad aprire la strada per i colloqui di pace.
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Le Chiese ortodosse e la guerra in Ucraina
di Adalberto Mainardi
Sul blog di Enzo Bianchi
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Venerdì 28 aprile 2023
Sa Die de sa Sardigna
TORRAMUS A CAMMINARE PO SA DIE BENIDORA, di Salvatore Cubeddu su Fondazione Sardinia.
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Sabato 29 aprile 2023
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Lunedì 1° maggio 2023
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“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”
“Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione”.
Parte conclusiva di un celebre, forse del più celebre discorso che nel 1955 Piero Calamandrei tenne a Milano, nel Salone degli affreschi della Società Umanitaria. Un discorso sulla Costituzione in cui il celebre giurista si rivolgeva agli studenti universitari e medi approfondendo il senso è la funzione della Carta. Di seguito il suo discorso per esteso, che ci piace proporre in occasione del 25 aprile:
«La Costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La Costituzione è un pezzo di carta, la lascio cadere e non si muove: perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile; bisogna metterci dentro l´impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla Costituzione è l´indifferenza alla politica. È un po´ una malattia dei giovani l´indifferentismo.
“La politica è una brutta cosa. Che me n´importa della politica?”. Quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina che qualcheduno di voi conoscerà: di quei due emigranti, due contadini che traversano l´oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l´altro stava sul ponte e si accorgeva che c´era una gran burrasca con delle onde altissime, che il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda ad un marinaio: “Ma siamo in pericolo?” E questo dice: “Se continua questo mare tra mezz´ora il bastimento affonda”. Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno. Dice: “Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare il bastimento affonda”. Quello dice: “Che me ne importa? Unn´è mica mio!”. Questo è l´indifferentismo alla politica.
È così bello, è così comodo! è vero? è così comodo! La libertà c´è, si vive in regime di libertà. C´è altre cose da fare che interessarsi alla politica! Eh, lo so anche io, ci sono… Il mondo è così bello vero? Ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi della politica! E la politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l´aria. Ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent´anni e che io auguro a voi giovani di non sentire mai. E vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, vigilare dando il proprio contributo alla vita politica…
Quindi voi giovani alla Costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come vostra; metterci dentro il vostro senso civico, la coscienza civica; rendersi conto (questa è una delle gioie della vita), rendersi conto che nessuno di noi nel mondo non è solo, non è solo che siamo in più, che siamo parte, parte di un tutto, un tutto nei limiti dell´Italia e del mondo. Ora io ho poco altro da dirvi.
In questa Costituzione c´è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato, tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre gioie. Sono tutti sfociati qui in questi articoli; e, a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane…
E quando io leggo nell´art. 2: “l´adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale”; o quando leggo nell´art. 11: “L´Italia ripudia le guerre come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli”, la patria italiana in mezzo alle altre patrie… ma questo è Mazzini! questa è la voce di Mazzini!
O quando io leggo nell´art. 8: “Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge”, ma questo è Cavour!
O quando io leggo nell´art. 5: “La Repubblica una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”, ma questo è Cattaneo!
O quando nell´art. 52 io leggo a proposito delle forze armate: ” l´ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica”, esercito di popoli, ma questo è Garibaldi!
E quando leggo nell´art. 27: “Non è ammessa la pena di morte”, ma questo è Beccaria! Grandi voci lontane, grandi nomi lontani…
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti! Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì o giovani, col pensiero, perché li è nata la nostra Costituzione».
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Ciò che i ragazzi non sanno
“I ragazzi delle scuole imparano chi fu Muzio Scevola o Orazio Coclite, ma non sanno chi furono i fratelli Cervi. Non sanno chi fu quel giovanetto della Lunigiana che, crocifisso ad una pianta perché non voleva rivelare i nomi dei compagni, rispose: «Li conoscerete quando verranno a vendicarmi», e altro non disse. Non sanno chi fu quel vecchio contadino che, vedendo dal suo campo i tedeschi che si preparavano a fucilare un gruppo di giovani partigiani trovati nascosti in un fienile, lasciò la sua vanga tra le zolle e si fece avanti dicendo: «Sono io che li ho nascosti (e non era vero), fucilate me che sono vecchio e lasciate la vita a questi ragazzi». Non sanno come si chiama colui che, imprigionato, temendo di non resistere alle torture, si tagliò con una lametta da rasoio le corde vocali per non parlare. E non parlò. Non sanno come si chiama quell’adolescente che, condannato alla fucilazione, si rivolse all’improvviso verso uno dei soldati tedeschi che stavano per fucilarlo, lo baciò sorridente dicendogli: «Muoio anche per te… viva la Germania libera!». Tutto questo i ragazzi non lo sanno: o forse imparano, su ignobili testi di storia messi in giro da vecchi arnesi tornati in cattedra, esaltazione del fascismo ed oltraggi alla Resistenza”.
Piero Calamandrei
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Buon 25 aprile! A Cagliari 9,30 Piazza Garibaldi – Piazza del Carmine
25 Aprile 2023. A Cagliari alle ore 9,30 appuntamento in Piazza Garibaldi – Corteo e conclusione in Piazza del Carmine, con interventi e canti del Coro dell’ANPI 2023
Che succede?
Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023
STEREOTIPI CADUTI
Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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ORIGINI VICINE E LONTANE DELLA GUERRA IN UCRAINA
19 APRILE 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Dalla concezione belluina dello Stato “sovrano” ai documenti sulla strategia nazionale della sicurezza e della difesa degli Stati Uniti. Nascita e fallacia di un Impero
Pubblichiamo dal sito web di Costituente Terra la relazione di Raniero La Valle per la presentazione a Brescia il 13 aprile 2023 al Centro Comboni per “I giovedì della Missione” del libro: “Leviatani, dov’è la vittoria?”
Parafrasando il grido di Isaia, “Sentinella, quanto resta della notte?” che Giuseppe Dossetti riprese in un celebre discorso per la commemorazione di Giuseppe Lazzati, dobbiamo gridare: a che punto è la notte?, a che punto è la notte nella quale siamo sprofondati con questa guerra in Europa e in Ucraina?
Perché questa notte non accenna affatto a finire, anzi diventa sempre più fonda, una a una si spengono le stelle del cielo e le costellazioni spariscono tra le nubi; non siamo nemmeno d’accordo tra noi che la guerra debba finire, non c’è un giornale, tranne due, che ancora dicano che ci voglia la pace, perfino la cultura torna al pessimismo antropologico, dice con Kant che la guerra è secondo natura e la pace invece è un artificio, ma nessuno mette in atto questo artificio, perché i cuori si sono induriti.
E non è solo una questione di cuore. È che anche le menti si sono perdute. I linguaggi, la stampa, la televisione, le radio che maneggiano le notizie, impongono un unico pensiero, veicolano una sola opinione, e fanno sì che perfino il tassista dica che Putin è una belva, e che le armi bisogna mandarle.
In tal modo viene propagata una fede. Ma non è la fede pasquale, non è la fede che arriva alla parola inaudita dell’amore dei nemici, perché siamo “fratres omnes”, fratelli tutti, ma è la fede nelle armi; sono loro che stanno al comando, sono loro che decidono quante guerre si devono fare, e quanto devono essere lunghe perché i profitti salgano e le scorte siano consumate, e le armi di vecchia generazione siano distrutte sui campi di battaglia, e siano sostituite con armi sempre nuove, con tecnologie tali che i soldati devono andare in Germania, in Inghilterra, o venire in Italia, a Sabaudia e in Sardegna, per addestrarsi, per imparare l’arte della guerra, come la chiama Isaia, per imparare ad uccidere con queste armi.
E armi, sempre più armi, si mandano da tutto il mondo in Ucraina, sicché ci sono più armi che soldati, e mentre i soldati finiscono e muoiono, le armi non finiscono mai, perché sono sempre rimpiazzate. E Zelensky, che sempre più ne chiede, non sa cosa farsene, e allora progetta piani per riconquistare perfino la Crimea, compresa la base navale russa di Sebastopoli; ed è anche prevista la distruzione del ponte che unisce la Russia alla Crimea, un ponte di 16 chilometri, da poco costruito, il più lungo d’Europa; questi piani potrebbero attuarsi però solo attraverso una completa disfatta della Russia; il New York Times scrive che gli americani sono “entusiasti” di aiutare l’Ucraina a conquistare la Crimea, e ciò conferma che appunto per annientare la Russia essi stanno sostenendo e prolungando la guerra in Europa.
E con le armi mandate dagli inglesi la guerra si farà sporca e contaminerà e deturperà la popolazione del Donbass, eventualmente liberata, per i prossimi millenni, perché sono armi ad uranio impoverito che come ha spiegato lo stesso “Corriere della Sera”, per migliaia di anni restano nell’ambiente, modificano il DNA e causano linfomi, leucemie e malformazione di feti. Ma nessuno pensa al bene del popolo, questo vuole l’irredentismo ucraino, questo vuole l’amor proprio, il mito della nazione. l’importante è che il Donbass stia con l’Ucraina e non con la Russia, anche se ha una popolazione russofona, sicché per il Donbass e per la Crimea combattono due sanguinosi nazionalismi, quello russo e quello ucraino; ed è per riconquistare il Donbass che i carri armati tedeschi avanzano in terra ucraina come i Panzer tedeschi della seconda guerra mondiale, quando invasero la Russia nell’operazione Barbarossa nella quale trovarono il gelo e la morte almeno 90.000 soldati del Corpo di spedizione italiano.
Ed è per questo infinito profluvio di armi mandate dall’America, dall’Europa e dall’Italia che quella che, secondo la sconsiderata e arbitraria offensiva di Putin non doveva essere nemmeno una guerra, ma solo un colpo di mano militare, è diventata una guerra ad oltranza fino al rischio di una guerra nucleare mondiale.
Ed oggi siamo a tragedie senza fine. Città distrutte, centinaia di migliaia di soldati caduti, civili uccisi. Respinto, senza nemmeno una lettura, il piano di pace della Cina, che pure per la sua equità poteva essere un’ottima base di trattativa. Martedì della scorsa settimana poi la Finlandia è entrata nella NATO, e la Russia ha annunciato inquietanti contromisure sulla sua frontiera occidentale, mentre ai missili a uranio impoverito risponde minacciando di usare armi atomiche tattiche. Intanto a san Pietroburgo una statuetta imbottita di tritolo fa saltare in aria un certo Tatarsky nella sala dove egli teneva una conferenza, e non si sa se i mandanti siano stati gli ucraini o russi dissidenti.
La tragedia diventa ancora più severa per il coinvolgimento delle Chiese. Zelensky arriva a infliggere gli arresti domiciliari al metropolita Pavel del monastero ortodosso delle Grotte e a mettergli un braccialetto elettronico ad una caviglia, sotto l’accusa di collaborare con la Russia; e questa accusa equivale all’accusa di esistere come Chiesa, perché il metropolita arrestato appartiene alla Chiesa unita al patriarcato di Mosca, a differenza della Chiesa autocefala che si è separata da Mosca per divenire una Chiesa nazionale ucraina. D’altra parte il patriarca russo Kirill ha dato all’Ucraina il pretesto dello scisma e a Zelensky l’alibi per arrestare Pavel, avendo sposato la politica di Putin e facendosi, come ha detto col suo vivido linguaggio papa Francesco, chierico di Stato e addirittura “chierichetto di Putin”, suscitando del patriarca moscovita le ire. Così la guerra ha portato una divisione anche tra le Chiese, e in Ucraina si è tornati ai fasti della “Chiesa del silenzio” di sovietica memoria.
E allora bisogna chiedersi come siamo arrivati a questo punto, quali sono le origini vicine e lontane della guerra in Ucraina.
Le origini lontane sono quelle a cui allude il titolo di questo libro quando parla dei Leviatani. I Leviatani sono dei mostri biblici, delle bestie feroci di terra o di mare, evocate nei libri sapienziali e profetici della Bibbia, ed è questo il nome che il filosofo Thomas Hobbes ha dato allo Stato moderno nell’illustrarne la genesi. Fino ad allora la comunità politica era declinata in categorie teologiche, ma con Thomas Hobbes nel XVII secolo si teorizza e si consuma il passaggio dalle categorie teologiche alle categorie politiche, si passa dalla trascendenza divina al nomos umano. Dice Hobbes che lo Stato è il Dio mortale, è il Leviatano; esso è ormai una costruzione totalmente artificiale, è la grande macchina che inaugura l’età della tecnica. Lo Stato nasce, secondo Hobbes, come reazione ad una situazione di pericolo e di paura in cui si trovano gli uomini nello stato di natura dell’homo homini lupus; nasce da una scintilla di ragione degli uomini che, per superare questa condizione di uccidibilità generalizzata, che poi in realtà era lo stato delle guerre civili in atto in quel momento in Europa. decidono di fare un patto, da cui nasce lo Stato; essi rinunciano a difendersi da sé, e trasferiscono a un’altra entità, a una persona sovrana, allo Stato, la loro sicurezza, la loro sopravvivenza. Così nasce lo Stato; e siccome lo Stato deve assumere i poteri di questi cittadini per garantirli, prende obbedienza e restituisce protezione; esso nasce pertanto nelle forme dell’assolutismo; nasce con la polizia all’interno e la guerra all’esterno; e nasce assumendo la nazione come suo fondamento, come materia della sua identità, come sua legittimazione o, come dice qualcuno, come suo alibi[1]. Ma le nazioni sono straniere le une alla altre, gli stranieri diventano nemici, e la soluzione del loro conflitto è la guerra. Essa è frutto della sovranità, che Jean Bodin aveva teorizzato come la summa in cives ac subditos legibusque soluta potestas, vale a dire come potestà “assoluta”, cioè sciolta dalle leggi, nei confronti dei cittadini e dei sudditi; ed era stato Francisco De Vitoria che, per legittimare la guerra degli spagnoli che avevano conquistato (o, come si dice, “scoperto”) l’America, aveva introdotto la legittimazione della guerra, come espressione esterna della sovranità. Il domenicano spagnolo aveva fatto questo ragionamento: il sovrano rappresenta la perfezione e l’autosufficienza della comunità politica, intesa aristotelicamente come perfetta, come societas perfecta. Pertanto egli non può riconoscere alcuna autorità al di sopra di sé, superiorem non recognoscens, allora quando ha da affermare un proprio diritto, si fa giustizia da sé, non può appellarsi a nessun altro, il sovrano è giudice nella sua causa; e il modo in cui egli si fa giustizia, la forma della sua giurisdizione, è la guerra; e quindi la guerra, come estremo modo di rapporto tra poteri sovrani, viene posta a fondamento e cardine del diritto internazionale inteso appunto come norma di rapporti tra poteri sovrani. E dal ‘500 al 1945 la guerra è precisamente questo; sta dentro il diritto internazionale, non è una patologia, non è un catastrofico accidente, è la forma culminante di un rapporto internazionale considerato come un rapporto pattizio fra Stati sovrani; nel momento in cui questo patto si rompe, non c’è altro modo di risolvere la controversia se non la guerra; quindi guerra perfettamente legittima. Questo è il Leviatano.
Ma la storia è anche sempre piena di sorprese, di altre possibilità. Perché nello stesso tempo si sviluppa il diritto, come monopolio sì dello Stato, ma anche come suo limite, il diritto che è una forza simmetrica alla violenza. E la lotta per il diritto che si sviluppa in tutti questi secoli fino a noi, mina le basi dell’assolutismo, mette vincoli alla forza, cerca di dare limiti e regole alla guerra, scopre e proclama, di rivoluzione in rivoluzione, i diritti fondamentali e universali dell’uomo.
È con queste premesse che si giunge alla grande crisi del ‘900. Con la I e la II guerra mondiale, con il nazifascismo, con la Shoà, prevalgono le categorie della distruzione, della guerra, della sovranità incondizionata, della demonizzzione dell’altro, dello straniero; tutte queste cose giungono alla loro estrema aberrazione, portano l’umanità alla più grande tragedia mai conosciuta. E qui c’è il colpo di reni, qui c’è la grande svolta, la grande revisione del 1945, l’anno in cui tutto sembra dover cambiare, dover cominciare di nuovo. Si mette fuori legge la guerra, viene dichiarata come “un flagello”, nella Costituzione italiana sarà addirittura “ripudiata”, si ridimensiona la categoria della sovranità, perché si stabilisce un ordinamento internazionale che dovrebbe vincere anche l’assolutezza delle prerogative sovrane, si afferma l’uguaglianza di tutte le persone, senza distinzione di razza, sesso, religione, nazionalità ecc., ma non solo delle persone, anche delle nazioni grandi e piccole, tutte sono eguali, dice la Carta dell’ONU, si fondano le Nazioni Unite, si inaugura, con la Carta dell’ONU, un nuovo diritto internazionale, che non è più solamente pattizio, nato da un contratto, ma che aspira a diventare uno ius cogens, un diritto cogente per tutti; si sanziona il delitto di genocidio, addirittura si inventa una parola che prima non esisteva, i popoli venivano sterminati ma ancora nessuno aveva definito questo delitto con un termine specifico, genocidio; si dà avvio alla decolonizzazione, si sogna la nuova comunità universale delle nazioni.
Ma è, come ben sappiamo, una rivoluzione incompiuta. Subito, a partire da quello stesso anno, vengono seminati i germi della nuova crisi; irrompe la bomba atomica sui cieli del Giappone, si riaccende lo scontro irriducibile tra i sistemi, l’Europa è divisa, si formano i blocchi, comincia la guerra fredda, la decolonizzazione si impantana in sanguinosi conflitti. C’è anche chi cerca di fondare un mondo diverso: nel 1986 Gorbaciov e il leader dell’India Rajiv Gandhi firmano la dichiarazione di New Delhi per un mondo libero dalle armi nucleari e non violento, ma l’Occidente non la raccoglie. E nell’ultimo decennio del secolo, con la dissoluzione dell’impero sovietico, mentre nasce la grande speranza che si possa costruire un mondo diverso, la storia prende un altro corso. La grande speranza dell’89 svanisce. Viene ripristinata la guerra, la quale con la guerra del Golfo riceve una nuova legittimazione, tornano i nazionalismi, si riaffaccia il mito dello Stato nazione, si fomenta la divisione dei vecchi Stati secondo linee che sono insieme etniche e religiose, si torna a legittimare il principio cuius regio eius et religio, come negli accordi di Dayton per l’ex Jugoslavia che stabiliscono confini che passano tra etnia e etnia, tra religione e religione, mentre ci sono moltitudini di migranti, di stranieri, che premono sulle frontiere dell’Europa; decadono e deperiscono le vecchie sovranità statuali, anche la nostra, assorbite in contesti più ampi, e si erge, di nuovo affermandosi come legibus soluta, una nuova sovranità universale, che non è più quella dell’ONU, ma è quella della NATO che tende a sostituirsi ad essa, mentre esplode il mercato globale.
E proprio la globalizzazione intesa come deregulation e competizione di tutti contro tutti, ripristina quello stato di natura da cui, secondo Hobbes si doveva uscire con il Leviatano, ripristina quello stato di guerra civile che però, nel villaggio globale, è ormai guerra civile mondiale.
Tutto quello che ne segue, fino alla guerra d’Ucraina, è raccontato in questo libro. Ma in esso manca l’ultimo tassello: quello che è successo nell’ottobre del 2022, dunque pochi mesi fa, là dove questo libro si arresta. È a quel punto che escono due documenti cruciali dell’amministrazione americana.
Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana enuncia le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è la “National Security Strategy” del Presidente Biden, il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” firmata dal capo del Pentagono Lloyd Austin,
Questi due documenti,investono il destino del mondo come tale, e non solo di una sua parte.
Essi infatti postulano un unico potere che si protende alla totalità del mondo, e presumono che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale e corrispondere a un unico modello di convivenza umana; questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti hanno posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, come era concepito dagli Stati Uniti. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale.
A questo punto io potrei illustrarvi nei dettagli questi due lunghi documenti, che porto qui con me; ma non ne abbiamo il tempo e non credo che lo gradireste. Perciò vi racconto solo le grandi scelte che con essi vengono fatte. Sono documenti che ben pochi conoscono in Italia e in Occidente, perché sono stati occultati dalla stampa e nascosti dai governi, per l’effetto negativo che avrebbero sull’opinione pubblica riguardo ai rapporti con l’America.
In Italia e nel Mondo
Costituente Terra Newsletter n. 113 del 19 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri n. 294 del 19 aprile 2023
STEREOTIPI CADUTI
Cari amici,
lo smantellamento della protezione speciale per gli immigrati, appassionatamente perseguito dal governo, in realtà era stato sancito nel decreto legge varato dal macabro Consiglio dei ministri riunito a Cutro dopo il tragico naufragio. Si trattava di un messaggio rivolto ai cadaveri appena finiti sulla riva. Diceva loro: “siete venuti per godervi la protezione speciale, e noi ve la togliamo”. Di questa norma, in attuazione della linea Piantedosi, nessuno, tranne l’Avvenire, si era accorto, mentre l’attenzione generale si era rivolta alle fantasiose norme penali che la presidente Meloni voleva andare a far valere in tutto l’orbe terracqueo. Se ne sono accorti ora, quando il decreto legge è arrivato all’aula del Senato, e a questo punto l’unica speranza è che non sia convertito in legge. Le norme abrogate sono quelle, non a caso chiamate umanitarie (sicché è ora disumano abolirle), per le quali anche gli immigrati che non godevano della protezione internazionale ordinaria in virtù del diritto di asilo, non potevano essere espulsi dall’Italia se si erano inseriti in modo “effettivo” nella sua vita sociale, e se vi avevano contratto o potevano eccepire effettivi vincoli di natura familiare, sicché il loro allontanamento coatto avrebbe comportato “una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare del migrante”. Mettere ora i migranti fuori del diritto, significa renderli clandestini, ascritti a una “regola non bollata”, non più “occupabili”, se non in nero, e ridurli a “paria” (come i russi per Biden), esiliati e apolidi.
Aggiunto alla proclamazione dello stato di emergenza, alla lettura come errori di grammatica del fascismo di ritorno celebrato al vertice delle istituzioni, e a tutto il resto, lo smantellamento della protezione per i naufraghi, i profughi , i migranti e i loro familiari, fa cadere anche l’ultimo stereotipo della celebre definizione che Giorgia Meloni in spagnolo ha dato di se stessa. Infatti una donna non si fa chiamare “il Signor Presidente del Consiglio”, una madre non manda armi che imparzialmente vanno a uccidere bambini e altri figli di mamma che si combattono tra loro, una italiana non fa la sovranista in Italia e la suddita (o vassalla, come dice Macron) degli Stati Uniti e del norvegese Stoltenberg, e una cristiana non toglie protezione a nessuno, anzi addirittura dovrebbe soccorrere il prossimo, amare i nemici e considerare fratelli gli stranieri. E non va in Abissinia (come i fascisti chiamavano l’Etiopia) ad abbracciare i bambini neri “a casa loro”.
Resta però una domanda che riguarda Silvio Berlusconi. Le sue condizioni sono migliorate e l’augurio sincero (non come quello di certi “coccodrilli” troppo precipitosi) è che guarisca del tutto e torni al suo ruolo e alle sue responsabilità politiche. E la domanda è: che cosa c’entra Berlusconi con queste impietose politiche del governo? Non voleva interpretare una destra liberale, democratica, inclusiva, non voleva con le sue televisioni e promesse di governo raccontare un mondo di felicità e festose relazioni? Che cosa c’entra con l’accanimento contro i migranti e i naufraghi, cosa c’entra con la guerra ad oltranza che uccide l’Ucraina e vuole eliminare la Russia, che cosa c’entra con la riabilitazione del fascismo il cui abbandono da parte di Fini a Fiuggi consacrò sdoganando il Movimento Sociale-Alleanza Nazionale? Che c’entra con questo governo di destra retrodatata? Nella sua esperienza di governo egli ne ha fatte molte di cattive e sbagliate, ma come non vedere che quest’ultima, tenendo in piedi questo governo, è la peggiore, e perfino tradisce la coscienza che egli ha di sé? Non lo diciamo per tornare sulla sua vicenda personale, ma perché ne va della democrazia italiana.
Nel sito pubblichiamo di Gaetano Azzariti un articolo su “Un altro regionalismo è possibile”, di Domenico Gallo un articolo su “Guerra e finzione di guerre”, di Raniero La Valle una relazione a Brescia su “Origini vicine e lontane della guerra in Ucraina” e di Alessandro Marescotti un articolo sul fallimento dell’invio di armi e di Mauro Castagnaro un ricordo di Vittorio Bellavite.
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri – Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Dati drammatici
L’INVIO DELLE ARMI IN UCRAINA È STATO UN FALLIMENTO
19 APRILE 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
Invece di far diminuire le vittime l’invio delle armi in Ucraina le ha accresciute al punto tale che oggi è ufficialmente vietato dalle autorità fornire i dati. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa.
Alessandro Marescotti*
Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente
Mai come ora, dopo l’inutile strage di Bakhmut, la guerra si sta dimostrando un fallimento, per entrambi gli attori.
Su Youtube si susseguono dibattiti e approfondimenti fra esperti militari. C’è modo di documentarsi da una pluralità di fonti bucando il muro della propaganda a reti unificate. Si trova di tutto su Internet, con aggiornamenti quotidiani. Cartine digitali dell’Ucraina, mappe geolocalizzate del Donbass, dettagliate ricostruzioni dei combattimenti con l’uso dei satelliti. E poi testimonianze oculari raccolte da giornalisti freelance, inchieste di approfondimento della stampa internazionale. Dopo mesi e mesi di attenta ricerca, osservazione e verifica ho imparato a distinguere le fonti più affidabili da quelle che non lo sono.
Top secret il numero dei morti
Tantissimi elementi consentono di comprendere quello che avviene sui campi di battaglia. Possiamo conoscere giorno per giorno i movimenti delle truppe con una precisione straordinaria. I morti invece no: quelli non ce li dicono. Sono segreto militare. Né i governi occidentali li chiedono. Non li conoscono i parlamentari, i quali votano l’invio delle armi come puro atto di fede, senza alcuna possibilità di sapere se quelle armi hanno effettivamente salvato le vite umane degli aggrediti tenendo alla larga gli aggressori. Se non si hanno i dati dei morti in guerra nessuna verifica è possibile circa l’efficacia dell’invio delle armi, né si può verificare la coerenza degli effetti dell’invio delle armi rispetto ai fini auspicati in origine. Piaccia o non piaccia, anche la guerra ha una sua scienza statistica e si possono fare sofisticati calcoli prendendo come riferimento copiosi database con i dati delle vittime subite e di quelle inferte.
Il vero scopo dell’invio delle armi
Il fatto che non ci vengano comunicati i dati delle vittime la dice lunga sui veri fini della guerra e dell’invio delle armi. Che non sono più quelli di una romantica difesa della popolazione. Si combatte in realtà per sconfiggere la Russia, per ottenerne la capitolazione così come avvenne nella prima guerra mondiale quando la potente Germania nel 1918 stramazzò nella polvere, stremata, assieme all’Austria, il cui impero finì per smembrarsi. Se questo è il vero scopo della guerra in Ucraina, è ovvio che vengono messe nel conto vittime a non finire, da non conteggiare per non deprimere il morale della popolazione ucraina che dovrà immolarsi per una vittoria strategica dell’Occidente, il tutto in palese contraddizione con quanto dicono di voler fare i nostri governanti europei con l’invio delle armi.
Quello che emerge è drammaticamente evidente nell’assurdità di ciò che si è consumato a Bakhmut. Quelle armi inviate dall’Occidente sono servite per mandare allo sbaraglio e alla morte un numero impressionante e imprecisato di giovani, spesso privi di esperienza.
Lo sgomento degli esperti militari
Mai come ora gli esperti militari sono imbarazzati di fronte all’insensata serie di scelte fatte in questa lunghissima battaglia condotta alla fine per mere ragioni di immagine, senza rilevanza militare. Con effetti persino controproducenti rispetto agli obiettivi dichiarati e perseguiti settimana dopo settimana. Gli esperti e gli stessi militari – di ottimo livello tecnico – che partecipano a questi webinar sono stupiti e avviliti per l’insensata sequenza di scelte compiute con enormi sacrifici umani. Scelte compiute a volte varcando il labile confine che divide la ragion militare dall’idiozia. Noi pacifisti questa strage la vediamo sotto il profilo della “crudeltà”. Loro, gli esperti della guerra, la vedono sotto il profilo dell’inefficacia ai fini pratici del successo militare. Perché questa guerra è un affastellarsi di frustrazioni dall’una e dall’altra parte, con risultati attesi che non arrivano a fronte di enormi perdite umane e di mezzi.
Dall’una e dall’altra parte vengono annunciate offensive e controffensive che si traducono in avanzate di poche centinaia di metri alla settimana e in capovolgimenti militari di modesta rilevanza che le vanificano. E nel frattempo si scavano doppie e triple linee di trincee. Lo spettro che si profila è quello di una guerra infinita. Altro che difesa della popolazione civile, si raschierà il fondo andando ad arruolare vecchi barbuti e giovani imberbi per buttarli nel tritacarne.
La guerra: da medicina amara a veleno
Quello che sta accadendo è il disvelamento dell’assurdità. La guerra, proposta come medicina amara ma necessaria, si sta rivelando veleno. Dopo averla trangugiata fa morire il paziente invece di guarirlo.
C’è materia di riflessione per gli interventisti democratici che, dopo oltre un secolo dalla fine della prima guerra mondiale, ricalcano oggi pari pari gli errori di cent’anni fa. L’interventismo democratico che spaccò il fronte del socialismo pacifista europeo risorge oggi per commettere gli stessi errori, come se la storia non fosse mai stata studiata.
Elly Schlein e il “Washington Post”
Contrariamente a ciò che alcuni avevano sperato, la nuova segretaria del PD continua a sostenere le ragioni dell’invio delle armi. Lo scopo è apparentemente semplice e non sembra fare una grinza: fermare l’aggressore e proteggere l’aggredito.
Nella lettera aperta a Elly Schlein ho cercato tuttavia di fornire qualche elemento di riflessione: le ho scritto (senza ottenere ad oggi risposta) evidenziando che le armi inviate, alla lunga, non hanno fermato il massacro ma hanno illuso Zelensky della vittoria. E da questa illusione nasce la mostruosa situazione descritta dal Washington Post. Battaglioni di 500 uomini, con 100 morti e 400 feriti, rimpiazzati da ragazzi di leva che, quando possono, scappano. Tutte cose a cui occorre dare risposta perché se l’obiettivo dell’invio delle armi è quello di difendere le persone in Ucraina allora esiste un solo modo di verifica: conteggiare le vittime. Ma le vittime della guerra sono coperte dal segreto di Stato in Ucraina. Perché se ci fosse una verifica trasparente e oggettiva si vedrebbe che all’aumentare dell’invio di armi non è seguita una diminuzione delle morti ma al contrario un crescendo impressionante. Stiamo proteggendo l’aggredito o lo stiamo mandando allo sbaraglio?
I dati drammatici del “Kyiv Independent”
L’invio di armi doveva difendere i civili ma è diventata la ragione di nuovi arruolamenti forzati che avvengono rastrellando i giovani a Kiev e in altre città dell’Ucraina. Sono tantissimi i giovani che fuggono alla leva e che stanno diventando renitenti. Se ne parla poco ma il problema c’è, ed è vasto
Qualcuno dirà che quei giovani servono a difendere altri civili indifesi. La verità è un’altra. Vengono impiegati in missioni suicide simili a quelle che ordinava il generale Cadorna nella prima guerra mondiale. Ecco qui qualche sprazzo di questa lucida follia. “Il battaglione è arrivato a metà dicembre… tra tutti i plotoni eravamo 500”, racconta Borys, un medico militare della regione di Odessa che combatte intorno a Bakhmut. “Un mese fa eravamo letteralmente 150”, confessa a The Kyiv Independent. “Quando si va in posizione, non c’è nemmeno il 50% di possibilità di uscirne vivi”, afferma un altro soldato. È più un 30/70″.
Capovolgere la narrazione
Più si fa ricerca e più si scopre che la narrazione della guerra si discosta dalla realtà della stessa. E la contraddice.
E’ pertanto il momento di rivendicare orgogliosi la nostra scelta di pacifisti. Occorre capovolgere la narrazione della guerra come scelta dolorosa ma necessaria, perché quella narrazione oggi non regge più alle dure smentite dell’evidenza. Siamo nel pieno di una “battle of narrative”, e la Nato presta molta attenzione allo storytelling della guerra.
La giusta “guerra di difesa”, la retorica dell’aggressore e dell’aggredito, tutto sta saltando perché la guerra diventa pluriennale, rischia di diventare come la prima guerra mondiale. Siamo di fronte alla logica della faida, non alla guerra di difesa e spiace vedere gente intelligente, che ha scritto libri, perdersi di brutto pensando per di più di indicare la strada agli altri.
Persino Luttwak è sconfortato dallo stallo militare e ha parlato di referendum nelle zone di guerra per uscire dal pantano. Ci hanno illuso che bastassero poche settimane di sanzioni per far collassare economicamente la Russia e l’invio delle armi doveva servire il tempo necessario ad aspettare che arrivasse l’effetto delle sanzioni. Non è stato così.
La tenuta militare della Russia
La Russia – basta studiare, ricercare e approfondire i dati – ha armi, uomini, consenso e risorse economiche per continuare per molto tempo. Ha dimostrato una resilienza notevole. Il resto è propaganda per convincerci che Putin si può scalzare e che un altro invio di armi o altre sanzioni possano fare la differenza. L’unica differenza è se entrano in campo gli F-16 o i missili a lungo raggio per colpire la Crimea o le basi nel territorio della Russia. Ma in questo caso andiamo dritti verso lo scontro nucleare. Dunque la guerra contro la Russia non può essere vinta. E va chiusa al più presto perché non ha senso mandare al massacro altri soldati per non ottenere alcun risultato, tanti costi per zero benefici. I militari lo dicono, lo dice lo stesso generale Milley, capo del Pentagono.
Gli anarchici interventisti
Per concludere, un cenno a chi – di fronte all’aggressione russa verso l’Ucraina – ha sentito sinceramente intollerabile la situazione fino al punto di rinnegare i propri principi pacifisti pur di salvare gli aggrediti.
Di fronte alla prima guerra mondiale, oltre alla fine dell’internazionale socialista, si verificò un’altra crisi interna ad un fronte che tradizionalmente era contro gli eserciti: gli anarchici. La Germania invase il Belgio neutrale e lo devastò brutalmente. Lo definirono “lo stupro del Belgio”. La cosa scosse chi credeva nella neutralità. Fu così che Pëtr Kropotkin e altri 15 intellettuali anarchici si espressero a favore della guerra contro la Germania, sostenendo che la Germania rappresentava una minaccia per la libertà e la democrazia, e che l’intervento alleato sarebbe stato giustificato per difendere l’Europa dal militarismo tedesco. Fu criticato dall’anarchico italiano Errico Malatesta.
Quante similitudini!
Kropotkin poi si pentì. Ma ormai era troppo tardi.
* Alessandro Marescotti
Presidente di PeaceLink
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Eventi segnalati
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Venerdì 21 aprile 2023
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Martedì 25 aprile 2023 Festa di Liberazione
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Venerdì 28 aprile 2023 Sa Die de sa Sardigna
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Lunedì 1 maggio 2023 Festa del lavoro e dei lavoratori
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Lunedì 1 maggio 2023 Sagra di Sant’Efisio
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Disastro sanità
Gli italiani situano la salute in cima alle loro preoccupazioni. Giustamente.
Hanno grande considerazione del Sistema sanitario pubblico, nonostante tutto. Nonostante gli episodi di malasanità, il complessivo peggioramento dei servizi sanitari e la progressiva privatizzazione degli stessi. La pandemia ha messo a nudo tutte le criticità. E svelato l’indebolimento delle strutture sanitarie, che nel tempo sono state ridimensionate, in taluni casi smantellate, private di adeguati finanziamenti… A subirne le conseguenze sono stati i ceti più poveri, ma anche il ceto medio. Molte morti potevano essere evitate, non solo nel periodo più acuto della pandemia. Il potere politico, di tutti gli schieramenti, massimo responsabile dello stato passato e presente della sanità, ha cercato con colpevole ritardo di escogitare qualche rimedio, difficile in relazione alla inadeguatezza dell’organizzazione sanitaria, spezzettata nei molteplici centri di potere (regionali e non solo) che esso stesso aveva creato. Una terribile confusione, alimentata da inefficienze e assurdi carichi burocratici, a tutti i livelli, nonché dalle consuete irresponsabili speculazioni politiche. Con relativa tempestività sono state trovate le risorse, anche ingenti, in gran parte di provenienza europea (PNRR in primis). I danni sono stati davvero tanti e diffusi in tutto il Paese e le sofferenze della popolazione terribili. Costretti dagli eventi si è messo mano al potenziamento degli ospedali e all’attivazione di presidi sanitari sul territorio, anche con l’assunzione di nuovi medici e unità di personale socio-sanitario. Qualcosa è stata migliorata, ma ancora nessuna radicale soluzione in grado di arrestare il degrado e restituirci un sanità adeguata alle esigenze. Gli interventi non sono stati di uguale portata, efficienza ed efficacia in tutto il Paese. Continuano drammaticamente a pesare le differenziazioni tra Nord e Sud, in una prospettiva di ulteriore aumento delle distanze a sfavore del Sud, come fanno temere le sciagurate misure dell’autonomia differenziata. Perché qualcosa cambi davvero occorre lottare in un percorso di lunga durata: uniti e organizzati nella ricerca e nella pratica politica. Anche noi daremo il nostro contributo. Non mi dilungo. Per quanto riguarda la situazione sarda, non solo sanitaria, siamo messi male: basta leggere l’intervento odierno (14/4/23) di Andrea Pubusa sul blog Democraziaoggi. I sardi sopportano. Come sono purtroppo abituati a fare da millenni. La grande parte non si ribella. Non sottovaluto certo l’impegno eroico di movimenti, comitati popolari, sindacati, anche qualche buon politico… che si battono contro la chiusura di ospedali, per più risorse e personale alla sanità e così via, ma l’establishment politico non sembra rispondere alle pressioni popolari. Tutto sommato tiene, anche nei consensi, e poco si preoccupa del calo della partecipazione, di quella dei cittadini attivi, organizzati nelle associazioni democratiche di base e di quella elettorale, tanto se si è eletti dalla minoranza della popolazione non cambia il peso del potere. Ovviamente tutti i partiti all’indomani delle elezioni esprimono formale dispiacere per il crescente astensionismo, ma non mettono in campo alcuna volontà e relative proposte concrete per modificare le leggi elettorali che lo determinano in rilevante misura. Così capita che in Sardegna abbiamo la peggiore tra le leggi elettorali regionali, voluta e mantenuta dall’unanimità delle forze politiche, salvo meritori dissenzienti. Torniamo alla sanità. Da segnalare che del persistente disastro nessuno intende assumersi le responsabilità: per la coalizione di centrodestra, che governa oggi la Regione, è tutta colpa della precedente gestione di centrosinistra. Non ne dubitiamo, ma allora che fa il centrodestra in maggioranza? Più che altro provoca ulteriori danni, considerato che il suo impegno quasi si esaurisce nel creare e distribuire posti di potere, a questo fine determinati a modificare assetti organizzativi, che creano più problemi che buone soluzioni. Basta riferirsi alla recente decisione di spostare due importanti reparti dell’Ospedale Brotzu (Centro Antidiabetico e Centro per l’Autismo) ad altri nosocomi. Al riguardo bastano e avanzano le pesanti critiche al provvedimento assunto dall’assessore regionale alla sanità, formulate dal mio omonimo e amico Franco Meloni, medico ed ex dirigente sanitario di alto rango, nonché autorevole politico di maggioranza, nelle pagine de L’Unione Sarda del 13 c.m. In conclusione del suo convincente ragionamento (a cui rimandiamo) Franco Meloni, anche facendosi portatore delle istanze dei pazienti e dei familiari “vittime” del provvedimento assessoriale (per fortuna non ancora eseguito) ne chiede la revoca. Vedremo come va a finire. Speriamo bene! Per parlare ancora di prospettive, specificamente di programmi della sanità regionale (piani nazionale e sanitari regionali e dintorni) giova segnalare come questi, in certa parte condivisibili, restino in gran parte “sulla carta”. Su tali tematiche, al tempestivo e interessante recente Convegno promosso dall’Aimos a Cagliari, di cui abbiamo dato conto in un apposito articolo, i massimi dirigenti amministrativi e sanitari della Regione hanno ampiamente relazionato, ma si tratta allo stato di “cose da fare”, in minima parte in attuazione. Per esempio per quanto riguarda la costituzione delle Case della salute e degli Ospedali di Comunità. I soldi ci sono, medici e personale socio-sanitario molto meno, le strutture non ancora del tutto individuate e pronte alla bisogna… la spesa va a esasperante rilento. Come si può essere soddisfatti? Come possono esserlo le migliaia di cittadini in fila per le prestazioni sanitarie specialistiche, con tempi di risposta assolutamente inaccettabili? Come avere fiducia in una classe politica che non riesce a portare avanti programmi e progetti in tempi ragionevoli? Chiudo, provvisoriamente s’intende, con un solo esempio (di inefficienza).
L’amministrazione comunale di Cagliari dispone da diversi anni (dal 2016!) di un finanziamento per realizzare un Centro della salute dedicato ai quartieri di San Michele e Is Mirrionis, erogato dall’Unione Europea e dalla Regione Sarda in attuazione del Programma ITI Is Mirrionis. A fronte dei programmi definiti, dei soldi disponibili, dell’individuazione dello stabile (ex Scuola di Via Abruzzi), di un bel programma organizzativo/gestionale redatto dal Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis (tutto registrato e documentato) nulla risulta si sia ulteriormente fatto. Gli abitanti di San Michele e Is Mirrionis, soprattutto gli anziani, i giovani, i poveri… possono aspettare o anche morire! Chiediamo conto di questa inaccettabile inerzia al Sindaco Paolo Truzzu e agli assessori competenti. E, ovviamente, chiediamo che i consiglieri comunali della maggioranza e dell’opposizione prendano posizione.
Non finisce qui! È una promessa e, se volete, anche una minaccia, ma una buona minaccia, che tiene in conto e vuole approfittare dell’approssimarsi del periodo elettorale, perché per una buona causa, in favore della gente, specie della povera gente (fm).
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Eventi consigliati
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Sabato 15 aprile 2023
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Venerdì 21 aprile 2023
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Che succede in Israele e Palestina? La situazione volge al peggio. Tuttavia s’intravede qualche segnale positivo.
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Israele e Palestina
di Franco Meloni
«Per il popolo palestinese non c’è fine al dolore, all’oppressione, al sacrificio, alla negazione della libertà e dell’indipendenza, ma solo muri, divieti, repressione e segregazione che dura dal 1967. #FreePalestine». Non sono certo un fan di Beppe Grillo e neppure appartengo al Movimento 5 Stelle da lui fondato, ma devo dire che condivido totalmente questo tweet da lui scritto il 7 aprile scorso e riportato sul suo blog, a commento di un articolo, che pure ho apprezzato, scritto da Torquato Cardilli, dal titolo “Sacrilegio e orrore in Terrasanta”, sugli episodi di violenza perpetuati dalla polizia e dall’esercito israeliano nei confronti di fedeli musulmani che pregavano nella “spianata delle moschee”.
Il tweet è stato pubblicato poche ore prima dell’attentato terroristico di Tel Aviv in cui ha perso la vita il giovane avvocato italiano Alessandro Parini. Fino a quel momento i commenti al tweet di Grillo erano stati del tutto positivi, a sostegno della causa palestinese. Dopo hanno prevalso commenti di dileggio e insulto nei confronti di Grillo.
Noi non abbiamo avuto nessuna esitazione a condannare duramente l’atto di terrorismo che ha ucciso Alessandro Parini, sempre che di questo si sia trattato (come nella versione delle autorità israeliane). Ma questo esecrabile episodio, come pure i lanci dei razzi da Gaza, non cancellano le pesanti responsabilità del Governo israeliano che alimenta un clima di violenza, prima causa degli episodi di terrorismo destinati a ripetersi, come prevede la gran parte dei commentatori politici internazionali.
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In questo quadro di disperazione, spunta tuttavia qualche segno positivo, a cui vogliamo aggrapparci. Ci riferiamo alla notizia del calo di consensi del capo del governo israeliano Netanyahu e, ancor più al
Sondaggio Gallup a favore dei palestinesi – La prima volta nella storia!
Un blog di un movimento internazionale pro Palestina ci informa che ai primi di marzo, Gallup, una delle più grandi organizzazioni di sondaggi di opinione pubblica al mondo, ha reso noto un’indagine sulle “simpatie in Medio Oriente”, secondo cui il 49% dei democratici statunitensi ha espresso le proprie simpatie per i palestinesi, a fronte dell’oltre 38% per gli israeliani [la prima volta nella storia del sondaggio con un risultato a favore dei palestinesi]: “Guardando a tutti gli adulti statunitensi, indipendentemente dall’affiliazione partitica, il divario tra la preferenza verso Israele e la Palestina è il più stretto da quando sono iniziati i sondaggi sulla questione”. Al sondaggio Gallup nello stesso periodo se n’ è aggiunto un altro del Pew Research Center che ha mostrato che “più americani condividevano opinioni favorevoli che sfavorevoli sugli ebrei”. Come ha sottolineato lo scrittore e analista politico palestinese-americano Yousef Munayyer in un recente Tweet.
Scorrendo i dati degli ultimi dieci anni, Munayyer ci avverte che gli atteggiamenti democratici nei confronti degli ebrei sono rimasti relativamente fermi, mentre le loro simpatie per i palestinesi sono aumentate. Questi due sondaggi (Gallup e Pew) presi insieme sono significativi perché offrono prove concrete che “simpatizzare con la situazione palestinese sotto l’oppressione delle sistematiche violazioni dei diritti umani da parte di Israele non dovrebbe avere nulla a che fare con l’atteggiamento della gente nei confronti degli ebrei o di qualsiasi gruppo”.
Secondo il citato movimento pro Palestina, questo significa che “il mondo sta prendendo coscienza del fatto che il sostegno ai palestinesi e le critiche a Israele non hanno nulla a che fare con il proprio atteggiamento nei confronti del popolo ebraico”. Si dirà: si tratta di un sondaggio che riguarda solo gli USA. Ma tutti sappiamo quanto contano gli USA per Israele, se solo pensiamo al flusso di aiuti americani che beneficiano Israele e che potrebbero rischiare un ridimensionamento!
Cogliamo allora questi segnali positivamente, enfatizzandoli, perché vanno nella direzione giusta, da noi auspicata in sintonia con i movimenti pacifisti e di impegno sociale di cui parlava anche il patriarca latino di Gerusalemme, Pierbattista Pizzaballa, in uno dei suoi illuminanti interventi che tra i tanti abbiamo ripreso nella nostra News.
Torneremo sulla questione, per opportuni approfondimenti, come nei nostri programmi.
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- Nella foto in testa l’ingresso al campo profughi Aida di Betlemme (dicembre 2022).
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Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO
UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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Solidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.
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Un sabato santo pieno di tensioni. Colloquio con il patriarca latino di Gerusalemme mons. Pierbattista Pizzaballa. Su formiche.net:
https://formiche.net/2023/04/conflitto-medio-oriente-patriarca-latino-gerusalemme/
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———Eventi segnalati————————-
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Evento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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———————13 aprile 2023—
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Auguri di buona Pasqua di Resurrezione con l’ottimismo della volontà
di Franco Meloni
Piova, grandini, nevichi o splenda il sole, faccia freddo o caldo… Auguri! In situazioni di tremenda guerra perché finisca o nella serenità della Pace perché continui… Auguri! Comunque Auguri di Pasqua di Resurrezione! Che per tutti possa essere Resurrezione! Che il Cristo risorto possa portare a tutti la Pace! In certa misura dipende da ciascuno di noi. Almeno per un momento in questa Santa Pasqua troviamo gioia e conforto nel sentirci fratelli e sorelle, in sintonia nella Terra nostra patria.
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Sappiamo bene quanto questo comune anelito di Pace contrasti con le situazioni di conflittualità diffuse nel Pianeta. Non solo quindi nell’Ucraina, sconvolta da un’inutile sanguinosa guerra cominciata formalmente un anno fa con l’aggressione russa. Tra tutti i conflitti soffermiamoci di quello in atto in Israele e Palestina.
Tutti gli osservatori internazionali da tempo sostengono che sarà sempre peggio. E così è! L’ultimo attentato terroristico di venerdì, dove è rimasto vittima il nostro connazionale, con almeno sette feriti, lo conferma. Condanna senza attenuanti dell’atto terroristico, di quanti lo hanno attuato e provocato. E insieme richiesta pressante perché cessino i comportamenti di quanti determinano i presupposti della situazione conflittuale. In modo particolare evidentemente ci riferiamo alle politiche del governo israeliano, che vanno in direzione contraria alla ricerca della pacifica convivenza dei popoli di Israele e Palestina. Per quanto ci riguarda, come italiani, chiediamo che il nostro governo si attivi in tal senso, quello virtuoso, del rispetto dei diritti democratici, unitamente agli altri governi europei. Ieri il nostro ministro degli Esteri ha dichiarato: “Fino a quando Hamas continua a soffiare sul fuoco c’è il rischio di una impennata” rimarcando che “bisogna lavorare affinché ciò non accada” e “fare di tutto perché la situazione sia meno tesa”. Ma non si tratta solo di Hamas. Considerando le forze in campo, il primo che deve assumersi tale responsabilità è appunto il governo israeliano! In questa direzione anche noi ci esprimiamo in sintonia con i movimenti pacifisti israeliani e palestinesi. E di tutto il mondo. In argomento vogliano ancora una volta fare nostre le parole di mons. Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme, nel messaggio inviato di recente a una comunità ecumenica di Bergamo, impegnata a sostegno della Pace in Israele e Palestina.
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“Voglio unirmi a voi qui da Gerusalemme per la vostra preghiera per la pace in Terrasanta. Una pace molto attesa e voluta, non so se sempre da tutti ricercata, e che comunque resta il bene più prezioso che ci manca e di cui abbiamo estremo bisogno. La vostra preghiera è un momento di grande solidarietà che apprezziamo, di cui abbiamo bisogno e che forse è l’unica risorsa che in questo momento abbiamo.
Divisioni e violenza
Stiamo vivendo momenti difficili dal punto di vista politico e sociale: si va verso un deterioramento delle già quasi inesistenti relazioni tra i due popoli e soprattutto a una frammentazione della vita sociale.
Abbiamo da un lato – ed è la cosa che più preoccupa – una sempre più profonda sfiducia tra le due popolazioni, quella israeliana e palestinese. Ormai, è molto difficile parlare di pace, prospettive, speranza. Sono cose necessarie ma è difficile essere credibili quando si parla di questo proprio a causa della profonda sfiducia che è frutto di tanti fallimenti, tradimenti anche, dei cosiddetti accordi di pace.
I due popoli sono divisi e divise sono al loro interno la comunità israeliana e quella palestinese
Preoccupa anche la divisione all’interno delle due società: di quella israeliana spaccata in due, tra religiosi e laici, non soltanto per motivi partitici ma soprattutto per la divisione sull’idea stessa della identità che lo Stato d’Israele deve avere. Ma anche nella società palestinese: la frammentazione ormai è sempre più evidente non solo fra Gaza e la Cisgiordania ma anche all’interno della Cisgiordania.
Ecco, questa situazione alimenta una sempre maggiore violenza. In questo periodo abbiamo avuto un numero di morti che ci riporta ai tempi della seconda Intifada e purtroppo temo che la violenza continuerà e aumenterà di molto. Non sarà una nuova Intifada come l’abbiamo vista nelle due precedenti ma sarà comunque una violenza organizzata dai diversi gruppi a causa proprio della frammentazione di cui parlavo e della mancanza di una leadership unitaria da entrambi i lati.
In questa situazione, i cristiani
Tutto questo è preoccupante e pone alla nostra piccola comunità cristiana tanti problemi e domande: come stare dentro queste situazioni? Cosa deve dire come Chiesa? Abbiamo già parlato tanto ma possiamo ripetere sempre le stesse cose contro l’occupazione, a favore della sicurezza e così via? Siamo in una fase in cui un po’ tutti sentiamo il bisogno di ripensare il linguaggio e ripensare anche il nostro atteggiamento dentro queste vicende molto gravi e difficili. Però non disperiamo.
Ho visto e continuo a vedere – visitando le parrocchie e le realtà del territorio – tantissime associazioni, movimenti, persone che hanno voglia di mettersi in gioco, che non rinunciano a voler credere che si possa fare qualcosa, nei quali la sfiducia non ha attecchito. La preoccupazione principale è proprio questa, che la sfiducia, che la violenza entri dentro il cuore delle persone e diventi un modo di pensare.
Bisogna mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio
Credo che la prima cosa che dobbiamo fare sia lavorare con tutte le persone possibili – cristiani, ebrei, musulmani – perché si possa mantenere una piccola rete di anticorpi nel territorio che, nonostante tutto, lavorano non per costruire barriere ideologiche o fisiche ma per dare vita a relazioni e in futuro serviranno a ricostruire le prospettive di questo Paese, in modo diverso da quelle del passato. Un futuro con l’idea di due popoli, quello ebraico e palestinese, che non sono destinati ma chiamati dalla Provvidenza a vivere l’uno accanto all’altro nel modo più pacifico e sereno possibile.
La vostra preghiera è dunque molto importante. Celebriamo quest’anno i sessant’anni della Pacem in Terris, che è stato il documento che ha cambiato il modo della Chiesa di stare nel mondo e di parlare della pace e noi oggi, a distanza di allora, dobbiamo essere figli credibili di quel documento, che è stato così importante e che ancora oggi accompagna la vita di molte comunità. Sono sicuro che anche da Bergamo potremo ricevere contributi nella riflessione e soprattutto nella preghiera, perché questa piccola comunità di Terrasanta possa continuare a dare la sua piccola ma bella testimonianza di fede ma soprattutto di speranza.
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Buona Pasqua a tutte e tutti con i *14 GRAZIE* con cui Papa Francesco ha voluto concludere la via Crucis del venerdi santo:
*Grazie*, Signore Gesù, per la mitezza che confonde la prepotenza.
*Grazie*, per il coraggio con cui hai abbracciato la croce.
*Grazie*, per la pace che sgorga dalle tue ferite.
*Grazie*, per averci donato come nostra Madre la tua santa Madre.
*Grazie*, per l’amore mostrato davanti al tradimento.
*Grazie*, per aver mutato le lacrime in sorriso.
*Grazie*, per aver amato tutti senza escludere nessuno.
*Grazie*, per la speranza che infondi nell’ora della prova.
*Grazie*, per la misericordia che risana le miserie.
*Grazie*, per esserti spogliato di tutto per arricchirci.
*Grazie*, per aver mutato la croce in albero di vita.
*Grazie*, per il perdono che hai offerto ai tuoi uccisori.
*Grazie*, per avere sconfitto la morte.
*Grazie*, Signore Gesù, per la luce che hai acceso nelle nostre notti e riconciliando ogni divisione ci ha reso
tutti fratelli, figli dello stesso Padre che sta nei cieli.
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Israele e Palestina
Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci legano consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO
UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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Solidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.
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———Eventi segnalati————————-
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Evento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Israele e Palestina
Il direttore di Rocca, Mariano Borgognoni, nell’editoriale dell’ultimo numero di Rocca preannuncia, a partire dal prossimo numero, un approfondimento della questione israelo-palestinese, anticipando questo impegno con la copertina della rivista: “Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. (…) approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo”. In piena sintonia con gli amici di Rocca e della Pro Civitate Christiana di Assisi, ai quali ci leganoo consolidati rapporti di amicizia e collaborazione, vogliamo con Aladinpensiero unirci a tale programma, sia “rimbalzando” gli articoli che Rocca proporrà, sia proponendone altri di carattere documentale, di analisi e opinioni. In questo contesto siamo anche impegnati a segnalare e sostenere le iniziative della Caritas diocesana di Cagliari che al termine di un Pellegrinaggio in Terrasanta, tenutosi tra la fine dello scorso dicembre e l’inizio del nuovo anno, ha deciso di partecipare a programmi di solidarietà con il popolo palestinese, proposti dalla Caritas di Gerusalemme, rivolti soprattutto ai giovani palestinesi e alle persone di quelle zone in situazione di particolare disagio. Non solo quindi documentazione, dibattito e confronto di idee ma anche concreta operatività, per quanto possiamo fare.
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Cominciamo questa attività con la segnalazione di un importante documento, un dossier su “Apartheid in Israele – Appello urgente alle Chiese di tutto il mondo” redatto da Kairos Palestina e Global Kairos for Justice – 2022 e così firmato:
e, di seguito, alcuni articoli di Avvenire che danno conto di importanti iniziative di solidarietà in Palestina.
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APPELLO URGENTE
ALLE CHIESE
DI TUTTO IL MONDO
UN DOSSIER SU APARTHEID IN ISRAELE Per scaricare il testo pdf dell’Appello: https://smips.org/2023/03/24/appello-urgentealle-chiesedi-tutto-il-mondo/
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Solidarietà. Caritas-Focsiv insieme in Terra Santa per ripartire dai giovani
Luca Geronico, inviato a Gerusalemme e Betlemme sabato 1 aprile 2023
L’accesso per tutti all’istruzione, in Cisgiordania come in Israele, è la chiave dei progetti che si sviluppano intono alle nuove generazioni. «Quello che hanno smarrito è la speranza»
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L’iniziativa. Betlemme: pane, amore e sviluppo
Luca Geronico, inviato a Betlemme martedì 4 aprile 2023
Il forno dei salesiani da più di un secolo è punto di riferimento nella città. Le Ong: «Un’impresa sociale da seguire» Martedì 4 aprile su Tv2000 e Radio InBlu la maratona di solidarietà «Insieme per gli ultimi»
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Democrazia fragile in Israele. Speranza nei giovani
3 Aprile 2023 by Fabio | su C3dem.
La democrazia in Israele è fragile, i giovani la salveranno:
Francesca Caferri, In piazza con Grossman “La democrazia è fragile i giovani la salveranno” (la Repubblica).
- David Grossman.
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———Eventi segnalati————————-
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Evento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Riflessioni & Dibattito
Impegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici devono impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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Gli interventi nel dibattito su L’Unione Sarda
1) 02/3/2023 Antonello Menne, I cattolici e la politica.
2) 04/3/2023 Sergio Nuvoli, L’impegno dei cattolici.
3) 11/3/2023 Tonino Secchi, La diaspora dei cattolici.
4) 14/3/2023 Luca Lecis, Valori, non partiti.
*5) 1/04/2023 Franco Meloni, I cattolici tornino in mare aperto. Su Aladinpensiero/Editoriali e L’Unione Sarda/Il dibattito dell’1/4/2023.
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E’ online Rocca n.8 del 15 aprile 2023.
L’Editoriale di Mariano Borgognoni
Se fossi andato a votare ai gazebo piddini non avrei avuto dubbi nel mettere la mia croce sul nome di Elly. La rianimazione del partito (p rigorosamente minuscola) richiedeva infatti uno shok. Qualsiasi scelta che anche lontanamente somigliasse alla continuità sarebbe stata letale. Quel partito infatti era ormai diventato una sorta di partito tecnico, il cui segretario naturale sarebbe potuto essere Mario Draghi o Mario Monti o proprio mari e monti, come quelle cucine che scelgono di non scegliere. Con i rischi conseguenti: ricordate la storia dell’asino di Buridano? Gli iscritti sono andati dritti… pel tratturo antico. Gli elettori hanno dato uno schiaffo di correzione. Salutare. I primi frutti si intravedono dopo la glaciazione lettiana, una sorta di tutti a nanna nel supremo interesse nazionale, dell’Occidente (con la O rigorosamente maiuscola), della nuovo soggetto politico, appena Nato. Né riforma elettorale, né campo largo, né orizzonte lungo. Così il Pd, sorto con il proposito di mettere a frutto i riformismi comunista, socialista e cristiano, tenuti lontani dalla guerra fredda, li ha semplicemente rimossi. Anzi li ha fatti marcire, mischiati e irriconoscibili, nella poltiglia di correnti, divenute via via stagni di potere bisognosi, per sopravvivere fuori dal cimento del consenso, di qualunque porcellum elettorale. Oh! naturalmente non è tutta responsabilità di Letta. Molti sono andati ai gazebo, molti altri no. Anzitutto perché credono, questi ultimi, che a votare, in questo sistema elettorale, bisognerebbe andare per scegliere i candidati al Parlamento. Non i leader di partito. Per come la vedono costoro, che comprendo molto, i partiti sono associazioni in cui gli iscritti dovrebbero contare, se no perché consumare la suola delle scarpe per andare in sezione o nei circoli? Bisogna ammettere però che a partito mezzo morto è stato meglio chiamare il medico che il becchino. E stavolta sembra che l’elettore si sia messo il camice bianco piuttosto che il mantello nero. L’inatteso successo della Schlein non è stato tanto il frutto della scelta tra opzioni diverse che, per la verità, nella competizione con Bonaccini non sono apparse così nettamente, ma di un robusto voto di protesta, da parte di coloro che hanno resistito o desistito alle elezioni, contro il ceto politico che ha guidato il partito soprattutto in questi ultimi anni. Abili guidatori di un aereo mai decollato. Non ha vinto quindi una linea, ha perso una linea. Proprio per questo ora viene la prova più difficile e in essa impareremo a conoscere meglio la fisionomia politico-culturale di Elly Schlein e le sue doti di leader. Oltre al volto del nuovo Partito Democratico. Molti commentatori molto approssimativi hanno parlato di una ricollocazione del partito su posizioni di sinistra-sinistra. A parte l’inconsistenza della definizione non mi pare affatto che Schlein possa essere ricondotta ad un chiaro posizionamento ideologico. Lo stesso termine di radicalità, più volte evocato, è variamente declinabile; potrebbe per esempio riferirsi all’idea di dar vita ad un partito liberal o ad un partito radicale di massa o ad un partito laburista e popolare moderno. Non si tratta della stessa cosa. Nelle prime riunioni mi è parso di notare che la Schlein non usa il termine compagni, non evoca mai la parola socialismo, non fa riferimento al concetto di persona. Non sono affatto considerazioni banali come qualcuno astutamente obietterà: quasi sempre il linguaggio dice la cosa. I termini che ho citato, insieme ai simboli delle lotte per il lavoro e la libertà, sono lingua in uso in tutti i partiti socialisti, socialdemocratici e della sinistra europea. Si vuole rimanere creativamente o uscire da questo orizzonte? Che fa riferimento anche ad una base sociale tipica, sia pure profondamente cambiata, nel mondo del lavoro, nella centralità dei diritti sociali e nella capacità di proteggere gli strati sociali più fragili, senza sottovalutare i diritti civili ma anche senza prender su ogni pratica solo perché presente; ad un modo di stare in occidente aperto all’idea di un mondo multipolare e pacifico che veda nella prospettiva il recupero del ruolo di una Europa di cui siano parte, in qualche modo, sia l’Ucraina che la Russia; ad un governo delle migrazioni che salvi ed integri ma che si accompagni alla cooperazione internazionale e all’impegno internazionalista per l’emancipazione dei popoli e la liberazione da regimi corrotti sostenuti dalle classi dominanti dei Paesi dominanti. Dentro questo orizzonte si tratta altresì di attingere al patrimonio del solidarismo cristiano e a quell’idea di persona e di comunità che mette in discussione le opposte derive del collettivismo senza libertà e dell’individualismo senza uguaglianza che già Maritain da una parte e Adorno dall’altra avevano visto molti decenni fa. Si vuole far riferimento a queste fonti che sono sotto la pelle della nostra storia nazionale ed europea, si pensa ad un partito radicato nel territorio, comunità democratica organizzata e solida o si tenta una carta diversa che guarda all’esperienza americana, all’idea di un partito leggero, fortemente interclassista, molto tattico, veloce e iperleaderistico che marca la sua differenza prevalentemente sui diritti civili? Insomma quello che di solito viene definito un partito radicale di massa con un insediamento borghese colto largamente prevalente. In fondo il primo corso del Pd veltroniano si collocava lungo questa traiettoria ed anche la primitiva collocazione del Pds occhettiano tentava con un doppio salto di guadagnare la sponda liberal, immaginando lì la collocazione della cosa nuova. Ma oggi è lo stesso Occhetto che nell’intervista a noi rilasciata, oltre che nel titolo del suo ultimo libro, spiega «perché non basta dirsi democratici». Insomma avremo tempo per studiare la fenomenologia di Elly Schlein. Le prime schermaglie sui capigruppo di Senato e Camera e sugli assetti esecutivi piddini ci rimettono davanti la forza d’inerzia del corpaccione dei collocati da una parte e dall’altra il mandato che la nuova Segretaria sente essergli venuto dall’opinione democratica di dar vita a un vero mutamento. Anche se la domanda: quale mutamento? è quella sulla quale si registrano le maggiori opacità. E d’altra parte è ancora presto per poter dare una valutazione fondata. Insomma chi vivrà vedrà. Noi cercheremo di monitorare il cammino. Con questo editoriale, un po’ ruvido, si voleva solo aprire un confronto che non ci può vedere indifferenti. Per chi continua a credere nella fatica della democrazia l’alternativa alla politica può essere solo una politica alternativa, per cambiare la società nel segno che hanno lasciato sulla nostra Costituzione coloro che coltivarono l’ambizione di tenere insieme libertà ed uguaglianza.
P.S. Abbiamo voluto dedicare la copertina a quella grande parte del popolo israeliano che, con una mobilitazione senza eguali nella storia di quel Paese, ha per ora bloccato la riforma di Netanyahu, volta ad azzerare i poteri della Corte Suprema (il Parlamento, oltre a scegliere i giudici, potrebbe annullare le decisioni della Corte). La partita tuttavia rimane drammaticamente aperta. Nel prossimo numero approfondiremo la questione con l’attenzione che merita per l’importanza che, da diversi punti di vista, rivestono quel Paese e quella tormentata area del mondo.
ROCCA 15 APRILE 2023 l’editoriale di Mariano Borgognoni
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Evento venerdì 21 aprile 2023.
L’incontro, dal titolo “Laicità e laicismo: una questione aperta”, si terrà venerdì 21 aprile 2023, alle ore 17.30, nell’Aula magna della Facoltà Teologica della Sardegna. Dopo i saluti del Preside della Facoltà, Mario Farci, interverrà Luca Diotallevi, docente ordinario di Sociologia all’Università Roma Tre. Modererà il giornalista Franco Siddi. L’evento è organizzato dalla Facoltà Teologica della Sardegna e dall’Associazione Suor Giuseppina Nicoli, con la collaborazione degli Amici del Cammino sinodale.
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Cattolici e Politica
Impegno nella Chiesa e subito andare in “mare aperto”
di Franco Meloni*
Nel dibattito su “Cattolici e Politica”, meritoriamente lanciato da L’Unione Sarda, concordo con quanti ritengono oggi improponibile una riedizione di un partito politico cattolico o che si ispiri ai principi cristiani, sulle orme del Partito Popolare di don Sturzo e della Democrazia Cristiana. Beninteso, queste esperienze sono state positive, fondamentali, se solo pensiamo che i cattolici sono stati determinanti nella grande alleanza antifascista che ci ha dato la democrazia e la Costituzione. Pur ritenendo legittime tali proposte, dubito di consistenti successi elettorali, nonostante recenti sondaggi secondo cui circa il 25% degli elettori italiani sarebbero favorevoli alla nascita di un partito cattolico. Interpreto questo dato non come ricerca di un nuovo soggetto politico, bensì come un’esigenza di recupero dei valori fondamentali per il “bene comune”. Dove la politica deve ri-trovare il suo fondamento. A questo fine i cattolici devono impegnarsi, più di quanto facciano attualmente, senza separarsi dal resto del mondo. In fondo seguendo l’esortazione di Papa Francesco: “partecipare, in mezzo agli altri e con gli altri, a costruire la casa comune, che richiede fraternità, giustizia, accoglienza, amicizia sociale”. Questo messaggio attualmente trova tanti cattolici impegnati soprattutto nel volontariato, mentre l’agone più propriamente politico viene da essi disertato, ingrossando le fila degli astensionisti. E’ ora di invertire la rotta, anche in Sardegna, dove è urgente rilanciare proposte coraggiose, non importa se considerate utopistiche. Cosa possono fare i cattolici insieme con tutte le persone di buona volontà disposte a un percorso comune? Partire dalla fiducia. La Sardegna ne ha bisogno più che di risorse materiali: creare un clima di fiducia che consenta di affrontare i problemi e di risolverli mettendo a frutto le capacità personali e delle comunità di appartenenza. Tutto ciò sembra banale, ma non lo è affatto. Sicuramente è difficile. Pensate cosa significa creare fiducia nel mondo della politica: praticare rapporti di scambio intellettuale e collaborazione fattuale tra persone che nella ricerca del bene comune, nel confronto e nello scontro dialettico, arrivino a soluzioni ottimali. La condizione è che si pratichi l’ascolto reciproco e che si persegua l’obbiettivo della massima partecipazione. Cosa abbastanza diversa da quanto accade oggi, laddove la politica tende a selezionare le idee e le scelte sulla base degli interessi dei gruppi prevalenti e la partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica è sempre più ristretta. Allora occorre allargare gli spazi di partecipazione democratica sia per quanto riguarda l’accesso alle rappresentanze istituzionali (riforma delle leggi elettorali), sia per la promozione della cittadinanza attiva, sia per la valorizzazione delle competenze che devono prevalere sulle appartenenze. E’ la “partecipazione” la chiave giusta per ridare speranze di rinascita al popolo sardo e i cattolici devono essere in prima fila nell’impegno concreto per favorirla, avendo come chiaro e virtuoso riferimento la nostra Costituzione. Ma i cattolici dove possono trovare le ragioni e la forza del loro impegno? La risposta è nella Chiesa, nelle sue innumerevoli espressioni organizzative, nelle parrocchie come negli altri ambiti aggregativi, formali o spontanei, praticando spazi pubblici reali, contigui e non opposti a quelli liturgici, in cui, come dice il monaco Enzo Bianchi: “delineare le istanze evangeliche irrinunciabili, che poi i singoli cattolici con competenza e responsabilità tradurranno in impegni e azioni diverse a livello economico, politico, giuridico”. Esattamente come previsto dai percorsi sinodali, sulla scia degli insegnamenti del Concilio Vaticano II, in cui da due anni è impegnata la Chiesa universale unitamente alle Chiese particolari, ovviamente sorretti da spirito evangelico e da correlato ottimismo della volontà! In conclusione i cattolici devono ripartire dall’impegno nella Chiesa, come detto, e subito andare “in mare aperto” (la “Chiesa in uscita” di papa Francesco) per navigarvi e operare insieme con tutti gli uomini e le donne di buona volontà. In definitiva per la Salvezza dell’Umanità e di tutto il Creato.
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* Anche su L’Unione Sarda/Il dibattito, del 1° aprile 2023 (pag. 44)
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L’etica della cura: una nuova prospettiva.
26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi
Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.
Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.
La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).
C3dem. L’etica della cura: una nuova prospettiva
L’etica della cura: una nuova prospettiva.
26 Marzo 2023 by Fabio | su C3dem
di Sandro Antoniazzi
Che cos’è l’etica della cura?
La parola cura ha molti significati.
Alcuni più medico-sanitari, altri più sociali, ma il carattere comune più significativo è indubbiamente quello relazionale.
La parola americana “care” è indubbiamente più espressiva, perché significa “prendersi cura di…”, ”interessarsi di…”, “preoccuparsi di…” (“I care” era il motto che don Milani che opponeva a “me ne frego”).
Dunque, cura dice che nelle relazioni è contenuto un interesse per l’altro, una preoccupazione per l’altro da noi.
Ogni attività sociale – in famiglia e nelle convivenze, coi vicini e nel quartiere, nel lavoro, nei servizi, nelle istituzioni – è fatta di relazioni; l’etica della cura se ne occupa in modo integrale, cioè sia a livello soggettivo che in quello collettivo-sociale.
Consideriamo alcune di queste situazioni.
Il campo delle attività e dei servizi sociali è di fatto un settore marginale, femminilizzato, considerato come un costo e quindi mal sopportato, accettato per necessità.
Non produce surplus e dunque si presenta economicamente povero, dotato di scarse risorse perché dipendente dai contributi pubblici (sempre lesinati) e dalla spesa delle famiglie. E’ in corso anche un processo di privatizzazione che però riguarda solo i ceti benestanti che se lo possono permettere (basta guardare le rette delle RSA).
E’ tradizionalmente un settore con occupazione femminile, sia perché si pensa che la cura sia un’espressione più propria delle donne, sia perché è quasi “naturale” pagare le donne meno degli uomini.
Le ristrettezze delle risorse economiche e il carattere personale del lavoro, fa sì che si esprima una forte pressione nei confronti dei lavoratori (spesso cooperative di immigrati) perché rendano il più possibile; così i lavoratori vengono a trovarsi in conflitto tra le esigenze di rendimento massimo e quelle di un lavoro di cura che richiede attenzione alle persone da curare.
Ecco, dunque, un settore dove si manifesta in modo evidente l’esigenza di un’attenzione primaria alla dimensione della cura.
Passando al lavoro domestico, si può dire che tradizionalmente esisteva una divisione del lavoro per cui l’uomo lavorava fuori casa guadagnando un salario e la donna rimaneva in casa ad allevare i figli e svolgere i lavori casalinghi.
Questo sistema è stato in larga misura superato dall’evoluzione della società e dalle lotte delle donne (a partire da quelle sul salario domestico).
Ma nella realtà non è cambiato molto e la maggior parte del lavoro domestico è tuttora a carico delle donne.
L’etica della cura spinge a una profonda revisione di questo stato di cose: da una parte sostenendo che dove l’attività svolta in casa costituisce un vero e proprio lavoro sociale deve essere riconosciuto e pagato (riguarda il mantenimento e l’allevamento dei figli e l’accompagnamento degli anziani e dei disabili che hanno bisogno di cura), dall’altra affermando che il lavoro di cura che ora continua a gravare prevalentemente sulle donne, venga più equamente ripartito e condiviso anche dagli uomini.
Procedere in questa direzione porterebbe a un profondo cambiamento della nostra vita sociale e personale, a una condizione di maggiore giustizia e anche a più democrazia (perché una più giusta redistribuzione del lavoro di cura permetterebbe anche alle donne di partecipare maggiormente).
Esiste poi un campo, per certi versi nuovo, dove il lavoro di cura viene oggi richiamato: si tratta della dimensione relazionale (e intellettiva) che sta assumendo una parte del lavoro recente.
Le trasformazioni tecnologiche ed economiche tendono a ridurre il lavoro manuale (svolto sempre più dalle macchine) e a sviluppare un lavoro, quello terziario (commercio, finanza, servizi alle imprese e alla persona, consulenza) in cui assume importanza primaria il lavoro della persona.
Ora il lavoro della persona è fatto di intelligenza e di sentimento che necessariamente si esprimono nel lavoro; anzi spesso costituiscono fattori essenziali per l’esecuzione del lavoro stesso, fattori che secondo alcuni il padrone “sfrutta” per il suo profitto.
Esistono diversi lavori, dunque, dove si manifesta questa dimensione “relazionale” come caratteristica inerente al lavoro e in questi casi appare evidente che il tradizionale sistema di remunerazione in base alle ore di lavoro non è più adeguato.
Come tenere conto nella valutazione del lavoro di questa dimensione relazionale di cura?
Questi sono alcuni esempi, in settori fondamentali, di applicazione dell’etica della cura nel campo sociale e del lavoro, ma è stata avanzata anche un’altra problematica non meno rilevante; gli ambientalisti definiscono spesso il loro impegno ecologico con il termine “cura del pianeta”.
E’ evidente che qui la parola cura è usata in una forma ben diversa, si può dire in modo prevalentemente simbolico. Si apre così una serie di problemi importanti.
La cura della persona comporta, si può dire logicamente, anche la cura dell’ambiente in cui si vive; si tratta però dell’ambiente prossimo.
Questa cura dell’ambiente porta a sua volta riconsiderare il rapporto uomo-natura, rapporto personale, ma che stimola una riflessione filosofica.
Addentrandosi in questi problemi, dato che la questione ambientale riveste un carattere mondiale, si apre l’esigenza di confrontarsi con culture diverse, dei tanti popoli che abitano il pianeta.
E poi come far concordare questa cura per il pianeta con quella più strettamente relazionale tra persone, al di là degli accostamenti logici e di linguaggio?
Insomma, l’ordine di problemi che si pongono all’etica della cura è estremamente vasto, ma nello stesso tempo affascinante perché affronta i problemi in una prospettiva nuova che può offrire nuove soluzioni, nuovi modi di vedere, intuizioni inedite.
Nascita e sviluppo dell’etica della cura
Si fa giustamente risalire la nascita dell’etica della cura a Carol Gilligan, psicologa allieva di Lawrence Kohlberg, e al suo libro “Con voce di donna”.
Criticando la concezione del proprio maestro che considerava i maschi più maturi sul piano della razionalità etica, perché più capaci di astrazione, Gilligan dimostrava che questo dipendeva dalla scala di valori usata: in realtà l’approccio degli uomini e delle donne era semplicemente diverso e dunque diversa era anche la loro valutazione morale, più relazionale per le donne, più astratta per gli uomini.
Ma mentre questa differenza veniva tradizionalmente usata per sostenere una condizione di inferiorità delle donne, Gilligan ne fa la base per sostenere un diverso approccio morale, basato sulla relazione più che su principi astratti.
Gilligan, almeno inizialmente, riferiva questo modo di vedere come proprio delle donne, ma il dibattito sviluppatosi sulla sua tesi e soprattutto il contributo di Joan Tronto, ha spostato decisamente il discorso su un piano generale.
Ogni persona è vulnerabile e ha bisogno di relazioni e di cura e dunque l’etica della cura ha un valore universale: se l’etica della giustizia, che rimane necessaria e ineludibile, si basa su principi astratti, l’etica della cura è altrettanto necessaria perché invece più aderente alla condizione in cui si trovano le persone.
Il dibattito che poi si è sviluppato nel mondo femminista ha riguardato in particolare il confronto con l’etica della giustizia, soprattutto quella di Rawls, criticando in particolare le sue carenze nell’affrontare le situazioni reali.
Le critiche che si rivolgono all’etica della cura manifestano la preoccupazione che serva a riproporre e quasi a confermare una diversità/inferiorità della donna e inoltre vi sono tesi delle femministe marxiste che tendono a contrapporre all’etica della cura il modello della “riproduzione”.
Che la riproduzione sia essenziale al capitalismo è un fatto indiscutibile (siamo in un sistema capitalistico e tutto è necessariamente integrato e funzionale al sistema), ma l’etica della cura è però, forse, più in grado di rispondere ai problemi sociali che ne derivano.
Dunque, l’etica della cura è cresciuta, ha chiarito i suoi fondamenti, le sue distanze ma anche la sua compatibilità con l’etica della giustizia; deve ora, anche se nata in ambiente femminista, andare oltre e dimostrare nella pratica di saper affrontare in modo convincente i molti problemi della società attuale.
La cura in campo sociale
Il campo più naturale in cui l’etica della cura può trovare applicazione è certamente quello sociale.
Consideriamo il lavoro domestico. Le battaglie storiche delle donne erano partite dal salario per il lavoro svolto a casa, sostenendo che il loro non era un’attività naturale morale dovuta al ruolo di madre e di moglie, ma che si trattava di un lavoro vero e proprio, secondo alcune “produttivo” a tutti gli effetti.
Questa via teorica è stata abbandonata perché infruttuosa e anche l’idea del salario è andata perdendosi a favore del più popolare Reddito di base.
Queste proposte sottintendono problemi teorici importanti.
Intanto se si sostiene il Reddito di base, il quale è indipendente da qualsiasi attività, si rinuncia in pratica alla tesi del lavoro domestico, che è un lavoro vero e proprio il quale va ricompensato: rinuncia negativa di un’acquisizione importante.
In secondo luogo, il lavoro domestico non è un lavoro “produttivo, né in senso marxiano né per l’economia capitalistica; è un lavoro a tutti gli effetti, ma è un lavoro sociale, un lavoro utile, un lavoro di utilità sociale che, in quanto tale, va retribuito dal pubblico o dalla società.
In questo senso è molto più propria la proposta del “care income”, sostenuta da femministe americane (un contributo elevato per ogni figlio sino alla maggiore età e per ogni anziano bisognoso di cura).
Per il lavoro sociale istituzionalizzato si possono prendere le RSA come l’esempio più chiaro su cui sviluppare la riflessione.
L’economia di queste strutture è povera: il settore pubblico riconosce un contributo che è inferiore al 50% e il resto è a carico della famiglia (per un costo che attualmente in Lombardia si aggira tra i 2.000 e i 3.000 euro mensili). L’inflazione recente ha ulteriormente aggravato l’onere familiare.
Così le direzioni aziendali cercano di far tornare i conti assumendo cooperative di immigrati al costo più basso possibile e sfruttando al massimo questi lavoratori, chiedendo tempi e carichi di lavoro a limite delle loro possibilità. Ma le RSA non sono fatte per prendersi cura degli anziani, coi tempi e i modi necessari?
Dunque, il problema delle RSA è trovare un equilibrio finanziario che non spinga a questa produttività esasperata che contraddice la finalità dell’ente e, inoltre, una sua “collocazione” nella città o paese come un luogo centrale della vita sociale comune.
Del resto, la “Ca’ Granda”, l’ospizio o albergo dei poveri di Milano, non era stata costruita al centro della città di Milano?
E poi la responsabilità pubblica/sociale non è solo quella dello Stato. Perché non pensare a una responsabilità sociale attraverso una proposta di finanziamento mutualistico regionale o provinciale? Basterebbe qualche centinaio di euro a testa per abitante per coprire l’attuale spesa di ricovero, insostenibile per la maggior parte delle famiglie.
Infine, la componente relazionale del lavoro attuale: qui i problemi di principio sono molti e trattandosi di problemi nuovi si presentano più complessi e variegati, perché molte e creative sono le ipotesi in circolazione. Vediamo quelli principali.
Il primo riguarda un classico problema teorico (“teoricissimo” per la quantità di dibattiti che ha sollevato nel tempo), quello del valore-lavoro.
Secondo un gruppo di economisti di sinistra la teoria del valore-lavoro di Marx non sarebbe più valida, perché non in grado di misurare l’attuale lavoro, intellettivo e affettivo.
In verità il limite del pensiero di Marx non è considerare il lavoro come generatore di valore, ma invece di pensare che questo potesse essere considerato come strumento di misura; non lo era neppure ieri, lo è tanto meno oggi.
Ma questi nuovi intellettuali di sinistra criticando il valore-lavoro, non criticano solo lo strumento di misura, ma rigettano il lavoro: il lavoro non è più un valore.
Invece il lavoro riveste un valore rilevante, ieri come oggi, tanto per Marx quanto per noi (lo dimostrano, se ce ne fosse bisogno, la presenza di 3,5 miliardi di lavoratori nel mondo).
E si può aggiungere rispetto a Marx, e soprattutto alla tradizione marxista, non solo e non tanto per lo sfruttamento (concetto “economico” che indica la differenza tra il lavoro dell’operaio e il suo prodotto complessivo), ma prima e ancor più per l’oppressione, cioè per la condizione di dipendenza in cui si trova il lavoratore, che limita la sua libertà e dignità.
L’altra tesi fondamentale, sempre collegata all’interpretazione del lavoro intellettivo e affettivo come carattere dominante dell’economia attuale, è che ormai sarebbe difficile distinguere tra lavoro e vita; praticamente l’intera vita costituirebbe un contributo/partecipazione all’economia capitalistica.
Si può riconoscere un minimo di plausibilità a questa tesi, ma indubbiamente entro limiti ben più ristretti da quelli invasivi sostenuti da questi pensatori.
Prendiamo, ad esempio, un tipico lavoro moderno, quello effettuato al computer: molti di questi lavori sono ripetitivi e non vanno al di là dell’inserimento di dati, registrazioni standard, controlli predefiniti, invii periodici, ecc… In pratica, per molti versi, si presenta come un lavoro tayloristico, col computer invece della catena di montaggio.
Se ci sono lavori dove il contributo intellettivo e affettivo è rilevante questo va adeguatamente retribuito: ma in realtà le imprese lo sanno bene e retribuiscono in modo congruo questi lavoratori, spesso essenziali per la produzione aziendale.
Se la motivazione a giustificazione del Reddito di base, individuata nel contributo generale all’economia e alla società, si presenta debole, non mancano altre motivazioni a sostegno: il paese è ricco e dunque una parte della ricchezza può essere distribuita a tutti, il sistema di redistribuzione della ricchezza attraverso la contrattazione non funziona più e quindi sono necessarie altre soluzioni, si favorirebbe l’eguaglianza, si consentirebbe maggiore libertà nella scelta del lavoro, ecc…
Non entriamo nel merito di tutte queste giustificazioni, che in genere tendono ad accumularsi tra loro, limitandoci a sostenere che per quanto la proposta possa presentarsi allettante, incontra una difficoltà impeditiva al momento insuperabile, che è rappresentata dall’onere finanziario della misura.
Pur calcolando un’ipotesi bassa di reddito garantito – quantificabile in 500 euro mensili – si avrebbe una spesa annua di 360 miliardi (500 euro x 60 milioni di persona x 12 mesi), che rappresenta più della metà delle entrate previste dallo Stato per il 2023 (672 miliardi); spesa chiaramente insostenibile.
Peraltro, il paese sarà ricco a livello dei privati, ma non certamente a livello pubblico, perché come è noto lo Stato italiano ha un debito molto elevato (in Europa siamo secondi, superati solo dalla Grecia).
Sono proposte che vanno tenute presenti anche se al momento impraticabili, magari utilizzabili per soluzioni parziali e comunque da discutere bene, soprattutto per non perdere il valore del lavoro, di cui si deve certamente avere cura.
La cura del pianeta
Il termine “cura del pianeta” propone immediatamente uno scenario vastissimo cui corrisponde un ipotetico programma altrettanto smisurato.
Se alla base si esprime un’istanza etica indubbia, prevale però lo spessore politico della proposta: si tratta, si può ben dire, di cambiare il mondo e ciò chiama in causa tutti, le organizzazioni internazionali, i governi, le imprese, le singole persone.
Ognuno ha la sua responsabilità e il suo compito in quest’opera, ognuno non solo è utile, ma necessario, se si intende salvare il pianeta.
Naturalmente diverso è il contributo che si chiede alle persone da quello che si chiede alle istituzioni: alle persone si chiede di estendere la loro “cura” dalle persone all’ambiente in cui vivono; verso le istituzioni si svolge un’opera di pressione con documenti, manifestazioni, sit-in, proteste perché accolgano le raccomandazioni di intervento a favore dell’ambiente.
L’esempio e la forza che viene dalle esperienze di base è una condizione essenziale per essere credibili e per poter contare nei confronti delle istituzioni.
Ma non è mai facile per il singolo cittadino comprendere i grandi problemi a livello mondiale, spesso complessi anche tecnicamente; e poi gli Stati hanno tante posizioni diverse in base al loro grado di sviluppo economico delle loro risorse, della loro collocazione geopolitica.
A livello delle persone l’etica della cura dovrebbe preoccuparsi di formare una cultura (una coscienza) sui problemi ambientali, sapendo che per curare il pianeta sarà necessario modificare il nostro modello di vita facendo anche delle rinunce (come sta già avvenendo per l’energia e come già si sta programmando per l’auto o per l’acqua).
E significa anche aver presente che nel mondo esistono tante culture diverse, che vanno comprese e con cui bisogna dialogare, se effettivamente si ha a cuore l’intero pianeta.
Sui problemi ambientali, e più in generale sui temi in cui sono coinvolte le istituzioni, è preminente senza dubbio l’etica della giustizia.
Ora il confronto tra l’etica dominante e quella della cura diventa più stringente e più determinante, perché la cura ha molto da dire sulle decisioni che si assumono e sul modo di vedere i problemi.
Giustamente alcune associazioni di provenienza femminista e ambientalista parlano di “società della cura”, come una finalità a cui tendere nel proprio impegno: una società fatta di persone che si curano degli altri e dell’ambiente e una società dove le decisioni sulla vita comune sono prese insieme con cura.
L’etica della cura non ha un modello di società da proporre, anche la “società della cura” non è una forma di società definita; se tutti ci preoccupiamo, ci prendiamo cura, allora la vita di tutti e la convivenza certamente migliora.
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Costituente Terra Chiesadituttichiesadeipoveri News
EROI DI UNO SCEMPIO MILLENARIO
Newsletter n. 110 del 29 marzo 2023 Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 291 del 29 marzo 2023.
Cari amici,
A Zelensky che chiede sempre nuove armi, l’Inghilterra ha risposto annunziando l’invio di un milione di proiettili all’uranio impoverito. Non risulta che Zelensky li abbia rifiutati, mentre al fronte ispeziona i carri armati tedeschi giunti in Ucraina a combattere la Russia come i panzer tedeschi che la attraversarono per la loro invasione nella seconda guerra mondiale. Intanto tornano al campo di battaglia i militari ucraini inviati in Germania, in Inghilterra e in Italia per imparare l’arte delle nuove tecnologie dell’industria di guerra.
I proiettili ad uranio impoverito sono armi anticarro a bassa potenzialità nucleare, come di ridotta radioattività sono le armi atomiche tattiche rispetto a quelle strategiche. Come ha spiegato il 23 marzo il Corriere della Sera, giornale che sostiene la fornitura di armi all’Ucraina, l’uranio impoverito, il “DU (depleted uranium)” causa “un aerosol micidiale che permane nell’ambiente migliaia di anni e intossica chi lo inala o lo ingerisce, e si sospetta che arrivi a modificare il DNA causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”. Noi conosciamo questi effetti nei soldati italiani contaminati nelle missioni all’estero, come quella in Bosnia Erzegovina e Kosovo, e sono note le conseguenze a lungo termine delle atomiche sul Giappone; e fu per l’orrore di quelle armi che l’Imperatore del Giappone decise di porre termine alla guerra. Ma qui non c’è nessun imperatore che pensa alla sorte del popolo, e non sappiamo che cosa accadrà nella annunciata battaglia di primavera nel teatro di guerra del Donbass, che l’Ucraina vuole riconquistare come condizione per mettere fine alla guerra; ma se pure l’uranio impoverito non arriverà a contaminare il resto d’Europa, certamente produrrà lo scempio previsto e potrà permanere per migliaia di anni nella popolazione del Donbass. E allora perché preferire che muoia pur di non perderla, devastarla per farla stare da una parte o dall’altra del confine? Si vede qui tutta la nequizia, che noi già conosciamo, del nazionalismo irredentista: per far sventolare una bandiera si mandano al macero centinaia di migliaia (e in una guerra mondiale, milioni) di persone.
Tutto ciò mette a nudo la mistificazione di cui la povera Ucraina è vittima. Si esalta infatti il popolo ucraino che combatte fino alla morte (come viene celebrato in Televisione e nei collegamenti da remoto) per la sua indipendenza e libertà, ragione per cui si rifiutano i negoziati e il cessate il fuoco, perché, come dice Biden e sulla sua scia dicono gli ucraini, non servirebbero ad altro che a permettere alla Russia di riorganizzare le sue truppe per l’invasione del Paese e magari di altri pezzi d’Europa. Ma tutti sanno che la posta in gioco di un negoziato e della pace non è affatto l’indipendenza, la sovranità e la propensione europea dell’Ucraina, ma sono la sua neutralità tra la Russia e la NATO, lo statuto definitivo del Donbass, la fine del contenzioso sulla Crimea e la garanzia della inoffensività della Russia.
Non è dunque per l’esistenza stessa dell’Ucraina, per la libertà e la felicità del suo popolo che l’Ucraina è vittima di una guerra a cui non si vuole porre fine; altri sono i moventi di ciascuno dei protagonisti: si combatte per il dominio mondiale della coalizione atlantica, per la frustrazione dell’Europa interessata più ai motori a scoppio che alla pace, per l’intransigenza di chi ritiene così di difendere la Patria aggredita. Ma non si combatte per le persone gettate nella fornace, non per cittadini immolati a ideali artefatti e non veri, non per un mondo che guarda attonito alla strage ed è a rischio di una guerra planetaria.
Perciò è tempo della pace.
Pubblichiamo nel sito l’articolo del Corriere della Sera sull’uranio impoverito e un articolo di Raniero La Valle, “Ahi serva Europa”, uscito oggi su “Il Fatto quotidiano” [vedi di seguito]. Infine: la preghiera che il Papa pronunziò in piazza san Pietro durante la pandemia, che sarà ritrasmessa a partire dal 10 giugno 2023 da un’orbita spaziale.
Con i più cordiali saluti,
Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri (Raniero La Valle)
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AHI SERVA EUROPA
29 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO/
L’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, in cui ne andava della sua identità
Raniero La Valle
“Ahi serva Italia, di dolore ostello…”. Quando Dante scriveva queste parole l’Italia era un faro di civiltà, un giardino di bellezza, la culla del pensiero. Però non sapeva leggere i segni dei tempi, era in balia dei potenti, tradiva le sue origini e non riusciva a stare senza guerra.
Questo si potrebbe dire oggi dell’Europa, serva delle armi e del denaro, chiusa nel suo egoismo, dimentica dei suoi ideali, sovversiva delle ragioni stesse per cui è nata. Era nata per chiudere con le guerre, per togliere le dogane al carbone e all’acciaio al fine di costruire, e non ai cannoni e ai carri armati al fine di distruggere, era nata per abbracciare i suoi popoli e farsi amica e accogliente a quelli di altre comunità e perfino era decisa a fare rinunzie alla sua sovranità non per farsi serva di nessuno bensì per contribuire alla pace e alla giustizia tra le nazioni. E prima ancora di Spinelli e di Spaak, di Schumann e di Monnet, di Ursula Hirschmann e Simone Weil, di Adenauer e di De Gasperi, l’”idea di Europa” era cresciuta lungo un millennio, come l’avevano illustrata Erich Przywara e Friedrich Heer, tanto cari a papa Francesco, e come aveva ispirato le lettere dei condannati antifascisti (l’identità cancellata da Giorgia Meloni) della Resistenza europea.
Ed ora che cosa è diventata? Sono i segni di questo suo tempo che ce lo hanno rivelato e l’ultimo Consiglio europeo ce l’ha mostrato con la massima evidenza. L’Unione Europea ha fallito sulle sue due massime responsabilità, la pace e l’immigrazione, le due massime cure in cui ne andava della sua “identità culturale”, secondo il “progetto di pace e amicizia che ne è il fondamento”, come aveva detto Francesco al Consiglio europeo del 25 novembre 2014. La pace l’hanno licenziata a tempo indeterminato non solo i suoi cattivi capi, i suoi membri più atlantici, a cominciare dal Regno Unito, che arriva a promettere armi a componenti nucleari, ma anche i due personaggi che ne dovrebbero rappresentare l’unità e lo sguardo sul mondo, Ursula Von der Leyne e Jens Stoltenberg, l’una pavesata con i colori di un Paese in guerra, l’altro, dimentico della storia, andato a chiedere di votare i “crediti di guerra” ai partiti socialisti a Bruxelles, come alla vigilia della prima guerra mondiale.
Ma non solo: l’Europa non capisce nemmeno quello che, se mossi da probità professionale, le stanno dicendo gli esperti di geopolitica: che il suo vero “competitore” sono gli Stati Uniti, che per averla vassalla sono interessati a tenerla in guerra senza fine, vogliono dominarla col loro gas e i loro prodotti più avanzati, che non per niente hanno fatto saltare l’oleodotto che univa la Russia al resto dell’Europa. E non c’è nemmeno bisogno di particolari doti interpretative: l’hanno scritto gli Stati Uniti nella loro “Strategia della sicurezza nazionale” che la loro sicurezza, la loro difesa e l’obiettivo della loro bulimia militare stanno nel fatto che non vi sia alcuna potenza al mondo che non solo non superi, ma “nemmeno eguagli” la potenza americana. E se c’è una potenza che potrebbe osare eguagliarla non è la Russia, data già per disfatta, né la Cina, designata come suprema sfida del futuro, ma è l’Europa che, se facesse una politica meno suicida, potrebbe già ora competere economicamente e grazie alla proiezione della sua cultura, con l’egemonia degli Stati Uniti; ciò che potrebbe e dovrebbe fare proprio restando loro amica ed alleata per costruire insieme “un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, come essi lo vogliono, aiutandoli a evitare gli errori, come quello che fanno, e che facevano ben prima dei crimini di Putin, col volere la fine della Russia.
Certo non è alzando l’età di pensione e gettando un Paese intero in una lotta sociale ad oltranza, non è stando appesi alle labbra e al “Crimea o morte” di Zelenski, non è dicendo “nazione” per non dire “fascismo”, né incentivando le fabbriche a stipulare contratti pluriennali per la costruzione di armi che avranno bisogno di altrettanti anni per essere consumate sui campi di battaglia, sulle città e sui famosi vecchi e bambini costretti a morire anche loro in guerra, non è con queste scelte che l’Europa potrà ritrovare la sua dignità, la nobiltà delle sue origini, gli ideali che l’hanno spinta ad unirsi. È per quegli ideali, non per essere “provincia” di un Impero che l’Europa è nata, con la vocazione ad attraversare il Mediterraneo e a guardare a Sud, a Israele alla Palestina e al mondo arabo, ad Est, alla Russia e alla Turchia, e ad Ovest, non solo a un’America sola, ma a tutte e due; e non è togliendo ai suoi popoli la loro tutela sociale che l’Europa unita sarà in grado di prevalere, politicamente e culturalmente, sui sovranismi. Ma allora quale politica dovremmo fare? E quanto dobbiamo aspettare per vedere arrivare qui una vera Schlein, non il dominio del passato ma il coraggio del cambiamento?
Raniero La Valle
Articolo pubblicato su Il fatto quotidiano del 29 marzo 2023
Verso il peggio
La guerra in Ucraina, le responsabilità dell’Occidente
24-03-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna
Come l’Occidente ha provocato la guerra in Ucraina, il saggio dello storico americano Benjamin Abelow, è un documento indispensabile per comprendere le vere cause e le origini profonde della disastrosa guerra che sta devastando l’Ucraina e sta portando il mondo sull’orlo dell’olocausto nucleare. Sono solo 70 pagine, è un manuale denso di informazioni essenziali, una specie di Bignami sul contesto politico e i retroscena internazionali nei quali si inserisce la tragedia della guerra. Tutto ciò che è necessario per comprendere come la sciagurata avventura militare di Putin, che ha varcato il Rubicone la mattina del 24 febbraio 2022, costituisca una risposta del tutto prevedibile, e perciò prevenibile, a una trentennale storia di provocazioni alla Russia, cominciate durante la dissoluzione dell’Unione Sovietica e proseguite, in un crescendo inarrestabile, fino all’inizio del conflitto attuale. Una storia di provocazioni, di accumulo di minacce militari, e di sfide politiche che è stata completamente oscurata, ignorata e cancellata dai leader politici delle nazioni europee e dai mass media, che hanno presentato lo scatenamento del conflitto (azione certamente ingiustificabile e criminale come tutte le guerre), come un fatto inspiegabile, frutto dell’impazzimento di un novello Hitler, deciso a soggiogare tutta l’Europa, in preda a un delirio di potenza.
Abelow elenca, in estrema sintesi, otto categorie di eventi che hanno inciso profondamente sugli interessi di sicurezza della Russia e sul rapporto di fiducia con l’Occidente, creando un allarme diffuso a cui la mediocre classe dirigente russa non ha saputo dare altra risposta che non fosse il ricorso all’uso della forza. Non si tratta soltanto dell’allargamento della NATO di oltre 1600 chilometri ad est. Le insidie contro la sicurezza della Russia si sono manifestate anche con il ritiro unilaterale degli USA dal trattato sui missili antibalistici. A seguito del ritiro gli USA hanno installato una base ABM in Romania (e ne stanno installando un’altra in Polonia). I sistemi ABM schierati dagli americani non contemplano solo il lancio di missili antibalistici, ma consentono l’utilizzo di armi offensive con testata nucleare, come i missili Tomahawk che hanno una gittata di oltre 2.400 km. Nel 2019 gli USA si sono ritirati unilateralmente anche dal Trattato del 1987 sulle armi nucleari a raggio intermedio e quindi hanno creato le condizioni per poter posizionare armi nucleari a breve distanza dalla Russia, che – a sua volta – non può reagire allo stesso modo. In questo contesto un ruolo centrale assume la vicenda dell’Ucraina, dove gli USA hanno favorito nel 2014 un colpo di Stato che ha portato al governo forze di estrema destra fortemente ostili alla Russia e alla minoranza russofona. Gli USA hanno deciso di estendere la NATO al territorio dell’Ucraina, sebbene già dal 2008 la Russia aveva fatto intendere di considerarlo inaccettabile. A ciò si aggiungano le ripetute manovre militari ai confini della Russia e nel Mar Nero con esercitazioni a fuoco vivo. Anche quando è stato chiaro che la Russia stava preparando una risposta militare, non si è voluto fare nulla per abbassare i toni della sfida: fino all’ultimo gli USA e gli alleati europei (compresa l’Italia) hanno insistito sull’ingresso dell’Ucraina nella NATO, presentandolo come un principio non negoziabile.
Il merito del libro di Abelow è di far comprendere che non si possono valutare gli eventi internazionali se non si è capaci di mettersi nei panni dell’altro. Il libro stimola il lettore a porsi una domanda di una semplicità disarmante: «Come reagirebbe Washington se la Russia stringesse un’alleanza militare con il Canada e poi piazzasse basi missilistiche a cento chilometri dal confine con gli Stati Uniti?».
Il punto fondamentale è chiedersi se la narrazione occidentale sulla guerra in Ucraina sia corretta o meno. Se l’avanzata russa in Ucraina viene considerata al pari dell’aggressione nazista, allora la politica occidentale di alimentare una guerra senza quartiere fino alla totale sconfitta dell’aggressore ha un senso, anche se comporta un fortissimo rischio di olocausto nucleare. Ma se questa narrazione fosse totalmente sbagliata perché fondata su false premesse, come ci dimostra, in poche battute la rievocazione storica di Abelow, allora una soluzione negoziata sarebbe possibile in tempi brevi e consentirebbe di risparmiare una insensata carneficina e di scongiurare il rischio di un’escalation nucleare.
Per completare il quadro, Abelow richiama l’allarme lanciato dagli esperti di politica estera americani, come George Kennan (uno dei più autorevoli teorici della guerra fredda) in ordine ai pericoli derivanti dall’insensata scelta di allargamento a Est della NATO. La scelta, attraverso l’allargamento della NATO, di ricostruire quel nemico che la dissoluzione dell’URSS aveva fatto venire meno, fu considerata da Kennan come una profezia che si autoavvera. Le minacce e le insidie agli interessi di sicurezza della Russia avrebbero sicuramente provocato una reazione negativa e ricreato in futuro la possibilità dello scoppio di un conflitto, com’è puntualmente avvenuto. In conclusione, osserva Abelow, «la minaccia esistenziale che la Russia percepisce da un’Ucraina, armata, addestrata e militarmente integrata nell’Occidente, avrebbe dovuto essere chiara a Washington fin dall’inizio. Quale persona sana di mente poteva credere che piazzare un arsenale occidentale al confine con la Russia non avrebbe scatenato una risposta vigorosa?».
Se gli Stati Uniti hanno agito secondo una logica imperiale, che mira a indebolire e fiaccare la Russia, è assurda la cecità dei leader europei che hanno agito con un «livello di deferenza e di codardia tali da essere quasi inconcepibili». Eppure proprio questo è il problema dell’Europa, la deferenza (verso gli USA) e la codardia dei leader europei, che sono stati talmente sciocchi da infilarsi nelle sabbie mobili del conflitto ed è difficile che possano trovare la saggezza per uscire da quelle sabbie mobili prima di affondare del tutto e portare giù con sé tutti noi.
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Costituente Terra Newsletter n. 109 del 22 marzo 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 290
del 22 marzo 2023.
Le guerre promesse
Cari amici,
Ci sono molte “ultime notizie” che prefigurano un mondo a perdere.
La prima è che nella pianificazione nucleare degli Stati Uniti pubblicata dal Pentagono si dice: “abbiamo condotto un’analisi approfondita di un’ampia gamma di opzioni per la politica nucleare, comprese le politiche No First Use (non ricorso alle atomiche prima di un attacco nucleare altrui) e Single Purpose (uso limitato a una singola finalità) e abbiamo concluso che tali approcci si tradurrebbero in un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari di concorrenti che potrebbero infliggere danni a livello strategico agli Stati Uniti e ai suoi alleati e partner”. Al riparo della minaccia nucleare si potrà invece “proiettare potenza” e combattere guerre convenzionali senza arrivare all’uso dell’atomica.
La viceministra inglese della Difesa, Annabel Goldie ha annunciato la volontà di Londra di fornire a Kiev proiettili all’uranio impoverito per la guerra anticarro, Putin ha risposto che se l’Inghilterra manderà “armi con componenti nucleari la Russia sarà costretta a rispondere”. Dunque la guerra nucleare è stata sdoganata.
Biden ha respinto le proposte della Cina per un “cessate il fuoco” in Ucraina e un dialogo per un nuovo ordine mondiale, dando inizio di fatto all’annunciata “competizione” a tutto campo degli Stati Uniti e del campo atlantico con la Cina.
La Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato contro Putin condannandolo di fatto agli arresti domiciliari: se lascerà la Russia per andare in qualsiasi Paese, tranne quelli che non riconoscono la giurisdizione della Corte, verrà imprigionato e processato.
: “l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Corte Penale Internazionale deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi”. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: l’incriminazione di Putin di fatto sopprime, e in ogni caso sospende, l’ONU.
In Israele il governo Netanyahu ha rilanciato la colonizzazione in Palestina e legalizzato nuovi insediamenti “selvaggi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito “Sionismo religioso” ha affermato in un discorso a Parigi che “i palestinesi non esistono”, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa”. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Gli Stati Uniti hanno redarguito l’esponente sionista e l’Unione europea, tramite il capo della sua diplomazia Josep Borrell ha invitato il governo israeliano a sconfessare il suo ministro.
La Presidente italiana Giorgia Meloni ha per la seconda volta detto di “avere la coscienza a posto” per la strage dei migranti a Cutro, ma non ha receduto dalle politiche di cui essi sono vittima, “la difesa dei confini” e la lotta contro la “sostituzione etnica”. Ma la sostituzione etnica è quella che ha fatto l’Europa e le due Americhe, mentre quelle politiche sono rivolte contro gruppi di profughi più o meno numerosi solo in ragione della loro provenienza da terre straniere. Ma la Convenzione contro il genocidio vieta non solo gli atti che colpiscono tutti i membri di un gruppo, ma anche una parte di loro in quanto appartenenti a “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” come tale. Pertanto le politiche che conducono alla loro “distruzione fisica, totale o parziale”, e fanno del Mediterraneo un cimitero, sono, coscienti o no, politiche di genocidio.
Con queste politiche e questi “che sono considerati i governanti delle nazioni e dominano su di esse” (Marco 10, 42), abbiamo di che temere il futuro, l’esilio del diritto, e il bando della pace.
Con i più cordiali saluti,
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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QUEL MANDATO D’ARRESTO PER PUTIN BLOCCA LA PACE
22 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
L’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della Corte Penale Internazionale perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra e a tutti i suoi delitti
di Domenico Gallo
Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinchè non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale Internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin per un presunto crimine, consistente nella deportazione di numerosi bambini dai territori occupati dell’Ucraina. Non v’è dubbio che la feroce guerra in corso farà lavorare per anni la Corte penale internazionale per prendere conoscenza della valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti e che verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto è una barriera molto fragile. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). L’istituzione della Corte penale Internazionale, frutto del Trattato di Roma del 1998, mirava a rafforzare il fragile diritto umanitario, assicurando la garanzia di una giurisdizione universale a sua tutela. Proprio per questo, hanno rifiutato la giurisdizione della Corte quegli Stati che sono più adusi a commettere crimini internazionali e/o che non accettano limitazioni alla propria sovranità (USA, Israele, Iran, Turchia, Russia e Cina).
Pochi giorni fa è stato reso noto il rapporto di una Commissione Internazionale Indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’ONU, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra, che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Tuttavia all’epoca nessuno pensò di incriminare George Bush, responsabile politico di quella tragedia, né di inviare armi al paese aggredito per consentirgli di difendersi dall’aggressore. L’esperienza della guerra in Jugoslavia ci ha fatto toccare con mano come la giustizia internazionale possa essere strumentalizzata ai fini della guerra, per delegittimare ed indebolire l’avversario. Così la NATO, dopo aver impedito alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui crimini commessi dalle sue forze militari durante la campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia del 1999, si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria della Corte, pretendendo la consegna di Milosevic. In definitiva, grazie anche all’attitudine filoatlantica del suo Procuratore (la svizzera Carla del Ponte) la Corte per l’ex Jugoslavia finì per diventare un organo gregario della NATO.
Orbene, l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della CPI deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte penale internazionale non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.
Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la versione del conflitto come una sorta di guerra santa contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.
In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte.
Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.
Domenico Gallo
(articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2023 con il titolo: Quel mandato d’arresto per Putin blocca la pace)
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