Editoriali
Claudio Ranieri über alles
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Giustamente per decisione della Municipalità cittadina che interpreta una plebiscitaria volontà popolare, Claudio Ranieri sarà presto cittadino onorario di Cagliari. Se la merita davvero la cittadinanza onoraria della capitale della Sardegna, rappresentandola tutta. Diciamo allora convintamente che Claudio Ranieri diventa cittadino sardo: uno di noi. Ne siamo orgogliosi.
Vogliamo avanzare un’ulteriore proposta, che rivolgiamo innanzitutto alle Autorità accademiche delle Università sarde, specificamente per competenza a quelle dell’Ateneo cagliaritano: insignire Claudio Ranieri della laurea ad honorem in Psicologia. Perché questa proposta? Perché la vicenda della squadra del Cagliari che l’ha portata a riconquistare la serie A, non può essere giudicata solo frutto della capacità tecnica dei bravi giocatori ben guidati dal prodigioso allenatore. Ha contato moltissimo la convinzione degli stessi di “potercela fare”, anzi di “dovercela fare” a regalare alla Sardegna intera questo risultato. E come ci si è riusciti? In quale modo la squadra ha trovato la capacità di agire come un unico corpo, in perfetta sintonia con i tifosi. Si, perché quasi magicamente si è creata una simbiosi tra la squadra, l’allenatore e il suo pubblico. Di chi il merito? Di tutti, si dirà, giustamente, non dimenticando l’opera davvero encomiabile della dirigenza della società e di tutti i collaboratori a tutti i livelli. Ma, in questa sede, ai fini di giustificare la proposta già avanzata, vogliamo mettere in evidenza il ruolo giocato da Claudio Ranieri, che ha saputo imprimere un giusto carattere, una definita personalità alla squadra, lavorando specificamente sulla psicologia dei giocatori, nonché (e questo è ancor più straordinario) su quella dei tifosi, portando tutti a pensare e agire nella stessa direzione, quella del possibile anzi probabile successo collettivo. Credo si tratti di un capolavoro di psicologia, applicata ad una situazione complessa. Per fare tutto questo c’è bisogno di grande esperienza e di competenza scientifica. Claudio Ranieri ha dimostrato di possedere entrambe a livelli alti. Giudichino la sostenibilità e l’opportunità di questa proposta innanzitutto le Autorità accademiche, quelle rappresentative di vertice e quelle competenti per disciplina, come, solo per esempio, il Consiglio di laurea del Corso in Scienze e Tecniche psicologiche dell’Università di Cagliari.
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PS
A completare a 360 gradi il successo di Ranieri oltre lo specifico calcistico arriva il premio “Gentilezza nello Sport”, che riafferma i valori dello sport, troppo spesso oscurati dallo logica del denaro e del potere.
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Su L’Unione Sarda online del 14 giugno 2023
«Esempio di valore, signore nella vita e in campo»: a Claudio Ranieri il premio “Gentilezza nello Sport”
L’allenatore rossoblù premiato per aver invitato i tifosi del Cagliari ad applaudire gli avversari dopo la vittoria promozione a Bari: «Tifate per, non tifate contro»
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È online Rocca della Pro Civitate Christiana
Ha che punto la guerra: “(…) In ogni caso siamo all’avvelenamento dei pozzi, al “muoia Sansone con tutti i Filistei”, ai pozzi di petrolio incendiati dagli iracheni sconfitti nell’abbandonare il Kuwait nel 1991 (…)”.
Costituente Terra Newsletter n. 119 del 7 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 300 del 7 giugno 2023
L’ALGORITMO
Cari amici,
è saltata la diga sul Dnepr. La rovina che ne è derivata da un lato potrebbe ostacolare la controffensiva ucraina nella zona di Kherson, dall’altro potrà togliere l’acqua potabile alla Crimea russa, assetandola. Non si può dire perciò a chi giovi questa catastrofe, mentre essa colpisce tutti e due, come nel giudizio di Salomone fare a pezzi il bambino voleva dire toglierlo a tutte e due le madri. In ogni caso siamo all’avvelenamento dei pozzi, al “muoia Sansone con tutti i Filistei”, ai pozzi di petrolio incendiati dagli iracheni sconfitti nell’abbandonare il Kuwait nel 1991. Chi è stato? Zelensky, la Nato, quasi tutto l’Occidente dicono che sono stati i russi, i cui soldati peraltro sono stati i primi ad essere travolti sulla riva orientale del fiume; la Russia dice che sono stati gli ucraini; il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti e il segretario generale dell’ONU, Gutierrez, dicono che non si sa, che bisogna indagare.
Tutti concordano però nel dire che è stato un atto di terrorismo. Pertanto, se mancano le notizie, per capire che cosa è successo bisogna interrogare la storia e la ragione. Esse dicono che il terrorismo è l’arma dei deboli e degli sconfitti, non dei vincitori e dei potenti che non ne hanno bisogno, essi dispongono del terrore istituzionalizzato, hanno le armi e fanno la guerra. A Hiroshima e Nagasaki fu terrore, non terrorismo, nella guerra fredda le grandi Potenze giocarono terrore contro terrore, ma sconfessarono il terrorismo. Non è nemmeno detto che tutti i terroristi siano dei criminali e dei folli, vi ricorrono anche uomini illustri; alla fine del mandato britannico in Palestina Menachem Begin, che diverrà poi primo ministro d’Israele, si mise a capo dell’organizzazione terroristica dell’Irgum, e fece saltare in aria l’ambasciata inglese a Roma e l’albergo King David a Gerusalemme. Poi furono i palestinesi, per disperazione, a ricorrere al terrorismo dirottando gli aerei e le navi da turismo, poi con quattro temperini sugli aerei di linea gli arabi per sfidare gli Stati Uniti distrussero le Due Torri di New York; e in questa guerra c’è già stato il sabotaggio agli oleodotti del Mar Baltico, che secondo il “Washington Post”, avvalsosi di fonti dell’ “Intelligence”, è stato organizzato dagli ucraini per bloccare l’esportazione del petrolio russo in Europa, già insidiata dalle sanzioni, mentre già dentro il territorio della Russia, a conferma del pericolo di avere la NATO ai confini, si esercita un terrorismo antirusso con armi della NATO a beneficio dell’Ucraina. In questo finale della guerra russo-ucraina è l’Ucraina la parte più debole, nonostante la retorica della vittoria che le sarebbe stata procurata dalle armi inviatele da mezzo mondo, ed è l’Ucraina che sente l’imminenza della sconfitta, a meno che non si passi alla guerra generale.
Ma è appunto la guerra, in ogni caso, la vera matrice di questo atto di terrorismo. Sicché la colpa è di chi la guerra l’ha iniziata, ed è stato Putin, e di chi non ha voluto che finisse, e sono stati molti, a cominciare dalla NATO, quando già nei primi giorni si era avviato un promettente negoziato ad Ankara. Ed è responsabilità di chi ancora non vuole che finisca. Al G7 di Hiroshima il Giappone aveva invitato il Brasile, l’India e l’Indonesia che si erano illusi di poter discutere piani di pace per l’Ucraina, e invece i Grandi non fecero che rilanciare sanzioni e guerra; poi alla conferenza sulla sicurezza dell’Indo Pacifico a Singapore, il ministro indonesiano della Difesa ha proposto un piano assai ragionevole di ritiro dei due eserciti di 15 chilometri per parte, di un cessate il fuoco, di un intervento delle forze di pace dell’ONU nella zona così smilitarizzata, e poi di un referendum indetto dalle stesse Nazioni Unite per far decidere alle popolazioni dei territori contesi con chi vogliono restare. L’ autodeterminazione dei popoli! Ma subito gli hanno detto di no, a cominciare dall’Alto Rappresentante per gli Affari Esteri dell’Unione Europea, secondo il quale non è questa “la pace che l’Europa vuole”. Ma che pace vuole l’Europa, e con quale diritto lo ha detto, senza un mandato della Commissione, del Parlamento europeo, dei governi di tutta l’Europa? E dunque chi rappresenta il Rappresentante?
Poi Zelensky ha detto che non è il momento di trattare, ma è quello della controffensiva, grazie a cui saranno liberati i territori perduti, anche se ciò vorrà dire che molti soldati ucraini saranno uccisi. Territori invece della vita. Poi è arrivato il cardinale Zuppi; glielo ha mandato papa Francesco prima di andare all’ospedale per una rischiosa operazione, nonostante il rifiuto già ricevuto a Roma; glielo ha mandato per tentare l’impossibile, e mostrare che un cristiano non chiede la pace solo a parole, ma ci mette tutto se stesso, fino al dono della vita. E Zelensky ha risposto di nuovo di non aver bisogno di mediatori, e che l’Ucraina decide della sua guerra, e che “può essere solo ucraino l’algoritmo per farla finire”. Il problema è che l’algoritmo dà la sua risposta scegliendo tra una infinita quantità di varianti, mentre Zelensky ne considera una sola, la vittoria. Solo che da questo algoritmo non dipende solo la sorte di un governante, ma di tutto un popolo, il suo, di molti altri popoli, e forse del mondo intero.
Nel sito troverete un testo che viene dall’America su “
Il mondo che chiede la pace
”, un articolo di Léo Matarasso sul diritto dei popoli e il racconto di un incontro tra Agnese Moro e il terrorista Bonisoli “Quale giustizia?”
Con i più cordiali saluti,
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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È online Rocca
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La Costituzione afferma che la salute è un fondamentale diritto delle persone. In questi decenni la riduzione dei finanziamenti, i contesti regionali, le politiche sanitarie differenti, le diseguaglianze sociali, gli squilibri territoriali hanno minato questo diritto.
Questa mutazione inaccettabile è conseguenza della crescente privatizzazione della sanità pubblica.
Il diritto alla salute ha bisogno di un servizio sanitario nazionale pubblico che garantisca assistenza e cura gratuite, finanziate dallo Stato, uniformi in tutta l’Italia, per tutte e tutti, senza alcuna distinzione.
Dopo la pandemia il SSN è drammaticamente peggiorato a causa di privatizzazioni, aumento dei costi per i cittadini, chiusura di strutture ospedaliere e territoriali, fuga verso il privato del personale pubblico, tempi di attesa inaccettabili per prestazioni diagnostiche e terapeutiche, pesante ritardo delle strategie di prevenzione.
Questo governo punta a definanziare il SSN (DEF), mentre ne andrebbero sviluppate tutte le potenzialità.
I tagli lineari, i tetti alla spesa, le politiche fiscali che non garantiscono finanziamenti certi e adeguati per incrementare il Fondo Sanitario Nazionale rendono difficile perfino mantenere il livello attuale dei servizi.
Per questo occorrono:
- piano di assunzioni del personale socio-sanitario, che abolisca la precarietà;
- piano per bloccare la “fuga” di medici, dirigenti sanitari e personale del comparto e una rapida conclusione dei contratti nazionali, con adeguamento economico e riconoscimento del ruolo degli operatori;
- adeguamento dell’assistenza socio-sanitaria territoriale e realizzazione di una rete uniforme di servizi decentrati;
- potenziamento della Medicina di emergenza e di quella generale attraverso assunzioni, qualificazione ed incentivazione dei medici;
- gestione pubblica dell’assistenza domiciliare e dei servizi per i non autosufficienti.
Per un finanziamento adeguato della sanità pubblica occorre superare la spesa storica puntando al superamento dei costi del privato a carico dello Stato, superando incongruenze tra servizi e lo stato di crisi in cui lavorano i pronto soccorsi.
La valorizzazione delle professionalità è il capitale della sanità pubblica su cui investire.
Rivendichiamo un sostanzioso rifinanziamento del SSN, superando storture e scelte politiche sbagliate del passato.
L’autonomia regionale differenziata, oltre a minare l’unità e l’indivisibilità della Repubblica (art.5), porterebbe a negare il diritto universale alla salute e alla costituzione di 21 servizi sanitari regionali, accentuando il divario tra regioni ricche e regioni povere, favorendo la migrazione sanitaria sud/nord arrivata a 800.000 persone/anno.
La legge delega fiscale in contrasto con i principi di equità e progressività fiscale (art 53) rischia di ridurre ulteriormente il finanziamento del SSN.
La manifestazione del 24 giugno deve essere l’inizio di una mobilitazione per riaffermare la centralità pubblica nel rilancio del Servizio Sanitario Nazionale.
La Presidenza del Coordinamento per
Democrazia Costituzionale
8 giugno 2023
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Noi, la Guerra e don Milani
Costituente Terra Newsletter n. 118 del 1 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 299 del 1 giugno 2023
UN SECOLO E L’ALTRO
Cari Amici,
meno male che Kissinger ha cento anni, perché se ne avesse cinquanta di meno farebbe dell’Ucraina un Vietnam, dettando tutto da solo le scelte della politica estera americana, come oggi dice di aver sempre fatto in passato.
Il Vietnam costò agli Stati Uniti 60.00 morti e 153.000 feriti, per non parlare dei milioni di Vietcong e civili vietnamiti che in quella guerra persero la vita. Ma Biden nonostante le promesse di sostenere l’Ucraina fino alla fine, si guarda bene dal farne il suo Vietnam, e per suo mezzo debellare la Russia. Il supporto incondizionato a Kiev si può in realtà rivelare come un bluff, nel momento in cui l’Ucraina, illusa dalla schiera dei suoi alleati di poter vincere la guerra contro la Russia, si accorge che questo è impossibile e non ha come uscirne: deve rinunziare all’annunciata controffensiva di primavera, non riesce a riconquistare le terre irredente, non ha la strada dei negoziati che essa stessa ha precluso, né può dettare la pace alle sue condizioni, come le fanno credere i suoi partners europei. Nè può farlo al suo posto l’America: sarebbe contro natura per gli Stati Uniti giungere a uno scontro armato e finale con la Russia, come essi stessi hanno dimostrato con ben diversa sapienza durante tutto il corso della guerra fredda: e ci sono illustri reduci di quella vecchia America che ormai lo gridano sui tetti lanciando appelli alla diplomazia sul “New York Times”. Proprio perché credono all’Armageddon, gli americani non ci vogliono passare.
Se finisce il bluff del “morire per l’Ucraina”, finisce anche il bluff, o l’illusione, del “nuovo secolo americano” e dell’Impero globale dominato dagli Stati Uniti, che non dovevano essere superati, ma nemmeno eguagliati, come dicono, da alcuna altra Potenza.
Possiamo così sperare che il conflitto in Europa si concluda prima che il suo contagio si diffonda o degeneri in una guerra mondiale, secondo l’avvertimento che viene dal Kosovo.
Ma per noi è troppo poco che questa guerra finisca, innescando magari un lungo periodo di guerra virtuale e di “competizione strategica” fino alla “sfida culminante” con la Cina, come minacciano i documenti sulla “Strategia nazionale” degli Stati Uniti. Dobbiamo invece uscire dal sistema di dominio e di guerra e passare a un’altra idea del mondo, come un mondo di mondi diversi in relazione tra loro, fondato sulla pace, sulla cura della Terra e sulla dignità di tutte le creature.
In questi giorni un altro secolo è stato celebrato, quello dalla nascita di don Lorenzo Milani, sul quale pubblichiamo nel sito [e anche qui] un importante articolo di Tomaso Montanari uscito sul “Fatto” di lunedì 29 maggio: la scuola – diceva don Milani alla fine della sua vita – non deve servire, “a produrre una classe dirigente, ma una classe cosciente”; e Montanari commenta: “Oggi , al tempo del ministero dell’Istruzione e del merito, la situazione è anche peggiore di quella che Milani combatteva. La scuola è stata messa al servizio dello stato esistente, non del suo scardinamento. Serve a trasformare i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è. Fa ancora parti uguali tra diseguali, e lo chiama ‘merito’. Manda ancora via i malati e la chiama ‘selezione’’’. Per non dire, potremmo aggiungere, della guerra alla quale, caduta in disuso l’obiezione di coscienza, non è ammessa nemmeno “l’obiezione dell’intelligenza”.
Con i più cordiali saluti,
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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A cento anni dalla nascita
ATTUALITÀ DI DON MILANI
1 GIUGNO 2023 / EDITORE / DICONO LA LORO /
Il prete di Barbiana, perseguitato in vita, è oggi esaltato a buon mercato ma il suo insegnamento è contraddetto dalle imperanti ideologie del merito, della selezione e della guerra. Un articolo di Tomaso Montanari
di Tomaso Montanari
Pubblichiamo questo articolo del Rettore dell’Università per stranieri di Siena uscito sul Fatto Quotidiano del 29 maggio 2023.
In una pagina mirabile, il gesuita Michel de Certeau ha ricordato che “la Chiesa è sempre tentata di contraddire ciò che afferma, di difendersi, di obbedire alla legge che esclude, di identificare la verità con ciò che essa ne dice, di censire i ‘buoni’ in base ai suoi membri visibili… La storia dimostra che la tentazione è reale… ma l’esperienza cristiana rifiuta radicalmente la riduzione alla legge del gruppo. Ciò si traduce in un movimento di superamento incessante. Potremmo dire che la Chiesa è una setta che non accetta mai di esserlo. È costantemente attratta fuori di sé da quegli ‘stranieri’ che le sottraggono i suoi beni, che prendono sempre di sorpresa le elaborazioni e le istituzioni faticosamente acquisite, e nei quali la fede vivente riconosce, poco a poco, il Ladro colui che viene”. Una Chiesa, insomma, sempre tentata di lasciare la profezia per essere una società chiusa di ortodossi: e però sempre provvidenzialmente “sconquassata” da “stranieri” (cioè non allineati, non omologati, non conformisti) che in un primo tempo avversa, per poi riconoscere in essi Dio stesso, che disse di sé: “Ecco, io vengo come un ladro” (Ap. 16, 15).
Don Lorenzo Milani, che avrebbe ora compiuto cento anni, è stato uno di quegli stranieri, di quei ladri: uno dei più grandi, dei più duri, dei più teneri. La sua storia è stata scritta una volta per tutte da Dostoevskij, alla fine dei Karamazov: quando Gesù torna sulla terra il Grande Inquisitore, cioè la Chiesa del potere, gli rimprovera di aver voluto la sciare gli uomini liberi, di averli amati quando avrebbe dovuto dominarli. È quello che la Chiesa rimprovera ad ogni profeta: troppo amore! Trattato in vita dalla gerarchia ecclesiastica come un eretico (lui che era invece scrupolosamente ortodosso da un punto di vista dogmatico, e attratto dai sacramenti in modo quasi mistico), Milani oggi viene celebrato con fiumi di retorica: e il rischio è che non si rammenti più che era uno straniero e un ladro, cioè un profeta incendiario. Nato ricco e colto, Lorenzo Milani segue nudo il Cristo nudo, nei suoi poveri, con due stelle polari: il Vangelo per primo, e la Costituzione per seconda. Egli consuma la sua vita per dare ai poveri quella parola, quella lingua, quella dignità che possano permettere loro di non essere più schiavi dei “padroni”: come chiamava, senza reticenze, i ricchi e gli imprenditori. “Ci ho messo venticinque anni a sortire dalla classe sociale che scrive e legge l’Espresso e Il Mondo scrive Non mi devo far ricattare nemmeno per un solo giorno. Mi devono snobbare, dire che sono un ingenuo e un demagogo, non mi devono onorare come uno di loro, perché non sono di loro”. Ascoltiamo lui, allora, quest’anno: rileggiamo i libri suoi (in realtà sempre libri collettivi, scritti con il suo popolo, con i suoi ragazzi) e quelli dei testimoni più stretti e fedeli (Michele Gesualdi, Adele Corradi). Capiremo che don Milani è solo dei suoi poveri, non dei potenti che sabato hanno invaso Barbiana: “Reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia patria, gli altri i miei stranieri”.
La statura politica del Priore di Barbiana è assodata da tempo. Diceva Tullio De Mauro: “Capiamo meglio oggi Gramsci grazie alla grande luce, alla grande protesta, alla forza intellettuale di penetrazione nelle cose sprigionata da don Milani”. E la sua più ardente eredità politica è racchiusa proprio nelle ultime parole che dice al suo Michele: la scuola non serve a “produrre una nuova classe dirigente, ma una massa cosciente”. Oggi, al tempo del ministero dell’Istruzione e del merito, la situazione è anche peggiore di quella che Milani combatteva. La scuola è stata messa al servizio dello stato delle cose, non del suo scardinamento. Serve a trasformare i ragazzi in capitale umano, in merce nel mercato del lavoro, in pezzi di ricambio per il mondo così com’è. Fa ancora parti eguali fra diseguali: e lo chiama ‘merito. Manda ancora via i malati, e cura i sani: ella chiama “selezione”. E la stessa democrazia è ormai a gravissimo rischio, tra astensionismo e ritorno del fascismo: Milani scrive che, in una classe, “ventotto apolitici più 3 fascisti eguale 31 fascisti”.
Non fosse morto prima, sarebbe stato condannato per apologia di reato: l’obiezione di coscienza, che difende con tutta la sua forza. Perché nell’età atomica, scrive, “non esiste piu una ‘guerra giusta’ ne per la Chiesa ne per la Costituzione”. Insegnava ai suoi ragazzi che “se un ufficiale dara loro ordini da paranoico hanno solo il dovere di legarlo ben stretto e portarlo in una casa di cura…. Poi forse qualche generale troverà ugualmente il meschino che obbedisce, e cosi non riusciremo a salvare l’umanità. Non e un motivo per non fare fino in fondo il nostro dovere di maestri. Se non potremo salvare l’umanità ci salveremo almeno l’anima”. Quanto ci manca, oggi: nell’Italia senz’anima che, celebrandolo, lo tradisce.
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La guerra sempre più europea sempre più mondiale
Più cannoni e meno diritti!
30-05-2023 – di: Domenico Gallo
Il coinvolgimento dell’Unione Europea nella guerra prosegue a pieno regime. Dopo il Consiglio Europeo del 23 marzo, che si è posto l’obiettivo di fornire all’Ucraina «entro i prossimi dodici mesi, un milione di munizioni di artiglieria nell’ambito di uno sforzo congiunto», adesso la Commissione ha formulato la proposta di un atto legislativo, indicato con l’acronimo di Asap (Act to Support Ammunition Production). Secondo il commissario europeo Thierry Breton, si tratta di un piano «mirato a sostenere direttamente, con i fondi UE, lo sviluppo dell’industria della difesa, per l’Ucraina e per la nostra sicurezza». Una produzione, di straordinaria necessità e urgenza, che deve essere velocizzata al punto da consentire deroghe alla legislazione ordinaria perché le fabbriche di armi e munizioni possano funzionare giorno e notte, sette giorni su sette, entrando in «modalità economia di guerra». In pratica, per sostenere le imprese della difesa nella produzione di munizioni e missili destinati all’Ucraina, il provvedimento in questione preveda la possibilità di disapplicare le norme in materia ambientale, di tutela della salute umana e della sicurezza sul luogo di lavoro. Per il finanziamento di questa missione bellica, l’Asap permette agli Stati membri di utilizzare il Fondo di coesione, il Fondo sociale europeo e il Pnrr.
In verità il Trattato sull’Unione Europea esclude che, in materia di politica estera e di sicurezza comune si possano adottare atti legislativi, ed esclude la competenza della Corte di Giustizia dell’Unione, trattandosi di un settore di collaborazione intergovernativa, in cui le eventuali decisioni possono essere adottate solo dal Consiglio europeo e dal Consiglio, che deliberano all’unanimità (art. 21 TUE). Il Fondo Europeo di coesione, il Fondo sociale europeo e i fondi stanziati per il Pnrr sono destinati a finalità sociali per incrementare il benessere dei popoli europei, non possono essere distratti per la guerra o, nella migliore delle ipotesi, per incrementare i profitti dell’industria bellica. Senonché, come dicono i francesi: À la guerre comme à la guerre! Quando siamo coinvolti in una guerra, non si può andare troppo per il sottile, bisogna stringersi a Corte. Le regole del diritto sono le prime ad essere calpestate, i diritti sociali possono, anzi debbono essere sacrificati alle esigenze della produzione bellica, non ci si può preoccupare di tutelare l’ambiente o la salute dei lavoratori: più cannoni e meno diritti. E non si può neanche protestare senza il rischio di essere linciati come antinazionali.
Il Parlamento Europeo ha condiviso l’esigenza di fare presto (As soon as possible) e ha votato il 9 maggio per adottare, con procedure d’urgenza, l’atto legislativo (inammissibile secondo il TUE), con 518 voti a favore, 59 contrari e 31 astenuti. Secondo le cronache, fra gli italiani hanno votato contro solo i deputati del Movimento 5 stelle e l’on. Massimiliano Smeriglio del PD, in dissenso dal suo Gruppo. Per effetto della procedura d’urgenza, il Parlamento Europeo voterà sul disegno di legge durante la prossima sessione, che si terrà dal 31 maggio al 1° giugno a Bruxelles. Questo voto del Parlamento europeo sarà l’ulteriore certificazione che l’Unione Europea e tutti i suoi paesi membri sono coinvolti a pieno titolo nella guerra e sono pienamente impegnati ad alimentarla e a proseguirla, fino alla vittoria finale, come pretende Zelensky (https://volerelaluna.it/mondo/2023/05/22/vincere-il-sinistro-ritornello-di-zelensky/).
In un documento pubblicato dal New York Times del 16 maggio, firmato da 15 esperti – analisti, docenti, ex diplomatici, ex consiglieri per la sicurezza nazionale e soprattutto ex militari di grado elevato – viene rivolto un pressante appello al Presidente degli Stati Uniti e al Congresso perché si ponga fine al più presto alla guerra con la diplomazia. I firmatari denunciano «il disastro assoluto della guerra russo-ucraina», con «centinaia di migliaia di persone uccise o ferite, milioni di sfollati, incalcolabili distruzioni dell’ambiente e dell’economia» e il rischio di «devastazioni esponenzialmente più grandi dal momento che le potenze si avvicinano a una guerra aperta». Ricordano l’osservazione di John F. Kennedy, 60 anni fa: «Le potenze nucleari devono evitare un confronto che dia all’avversario la scelta fra ritirarsi umiliato o usare le armi nucleari. Sarebbe il fallimento della nostra politica e la morte collettiva». Della saggezza di Kennedy non è trapelato nulla nella zucca dei leaders politici europei. Per costoro la guerra non è un disastro assoluto, che bisogna fermare al più presto. La pretesa di realizzare la pace attraverso la vittoria punta proprio a quello che Kennedy voleva evitare, cioè mettere l’avversario dinanzi alla scelta di ritirarsi umiliato o di usare le armi nucleari (https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2023/05/08/ripudiare-la-pace-e-giocare-a-scacchi-con-la-morte/).
Se oggi ci troviamo di fronte a un’urgenza indifferibile, questa non è velocizzare la produzione delle bombe. Come sostengono i firmatari dell’appello americano, l’impegno genuino deve essere quello a «un immediato cessate il fuoco e negoziati senza precondizioni squalificanti e proibitive. Provocazioni deliberate hanno portato alla guerra Russia-Ucraina. Allo stesso modo, una deliberata diplomazia può porvi fine».
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Rocca ha un nuovo sito web:
Benvenuti sul nuovo sito di Rocca
di Mariano Borgognoni
31 Maggio 2023
Carissime amiche e carissimi amici,
come vedete è attivo il nuovo sito della nostra Rivista.
Con la sua attivazione ed il suo progressivo arricchimento e “aggiustamento” vogliamo mettere a disposizione di voi tutti uno strumento dove siano contenute più notizie e riflessioni, offrire una modalità di lettura più agevole e dare la possibilità di definire online abbonamenti o acquisto di libri ed altri materiali.
Presto troverete anche uno spazio che ospiterà lettere, considerazioni e suggerimenti da parte di abbonati, lettori e naviganti in cerca di un luogo di confronto libero e critico.
Siamo consapevoli che Rocca cartaceo è assolutamente fondamentale ma che ad esso sia bene affiancare uno spazio di comunicazione che faccia vivere quotidianamente il nostro modo di leggere il mondo, la società, le dinamiche ecclesiali con una visione laica di ispirazione cristiana.
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Appelli. Per un uso di pace dei fondi del Recovery Plan. Insieme per la Costituzione.
La resilienza non è economia di guerra
al Parlamento Europeo
al Consiglio dell’Unione
al Parlamento italiano
Negli ultimi anni si è rafforzato un processo di militarizzazione dell’Unione europea, con scelte che hanno portato all’istituzione di un Fondo europeo per la Difesa e di uno Strumento “per la Pace” che in realtà è funzionale all’invio di armamenti e alla cooperazione di natura militare, senza un coinvolgimento del Parlamento e dei cittadini europei su una questione tanto delicata e che tocca le fondamenta dello stesso Trattato di Lisbona.
Per la prima volta dalla sua fondazione come percorso di pace, l’UE ha destinato miliardi di euro – mascherati da linee di finanziamento industriali e con meccanismi decisionali e di controllo opachi fin dai progetti preparatori – al sostegno dell’industria militare, senza un dibattito serio sulla propria politica estera e di difesa. E con il rischio, in parte già concretizzato, sia di distogliere risorse a interventi di natura sociale e cooperativa più utili sia di alimentare una pericolosa corsa agli armamenti.
La recente proposta della Commissione europea di permettere agli Stati membri di utilizzare il Fondo di coesione UE e il PNRR per sostenere le imprese della difesa nella produzione di munizioni e missili destinati all’Ucraina mostra la volontà di trasformare la tragedia della guerra in Europa in occasione di profitto per le multinazionali delle armi e, al tempo stesso – con una base giuridica più che dubbia – propone di rimettere in discussione il senso originario del Recovery fund, concepito specificamente per tre principali azioni: la transizione verde, la transizione digitale e la resilienza dopo la pandemia.
L’Act to Support Ammunition Production (ASAP), nelle parole del commissario europeo Thierry Breton, è un piano «mirato a sostenere direttamente, con i fondi UE, lo sviluppo dell’industria della difesa, per l’Ucraina e per la nostra sicurezza», da velocizzare al punto da chiedere deroghe perché le fabbriche di armi e munizioni possano funzionare giorno e notte, sette giorni su sette, entrando in «modalità economia di guerra».
Questa nuova misura – non diversamente da quella già all’esame del Parlamento europeo, relativa agli acquisti coordinati per la difesa – è strumentale alla realizzazione di strategie in materia di difesa, elaborate senza la partecipazione del Parlamento europeo e con un intervento quanto meno dubbio dei Parlamenti nazionali. Anche dopo Lisbona, i Trattati riservano alle politiche di difesa un regime speciale che esclude il ruolo decisionale del Parlamento europeo, impedisce il ricorso a strumenti legislativi, non garantisce un pieno rispetto dei diritti fondamentali e limita il ruolo della Corte di Giustizia.
Il testo viene presentato come una proposta di politica industriale e mercato interno, mentre persegue di fatto obiettivi collegati alla sicurezza dell’UE, per la quale il Trattato non ammette l’adozione di misure legislative. Davanti alla sfida rappresentata dalla guerra in Ucraina, la risposta del Parlamento europeo e della Commissione deve tener conto dei rischi che l’escalation militare può produrre e delle conseguenze che la scelta del sostegno militare, anziché la scelta del negoziato, possono costituire per il futuro dell’Europa.
La strada deve essere quella di una democratizzazione della politica di difesa europea, nella volontà di condizionarla al rispetto dello Stato di diritto, non quella della strumentalizzazione delle politiche europee e delle risorse dei contribuenti dell’Unione. Consideriamo ingiustificato il fatto che il provvedimento in questione preveda la possibilità di disapplicare le norme in materia ambientale, di tutela della salute umana e della sicurezza sul luogo di lavoro.
Chiediamo che il Parlamento europeo, che ne discuterà a Bruxelles il prossimo 31 maggio, non accetti di rimettere in discussione le misure di solidarietà già decise attraverso il PNRR, affermando che, in materia di difesa, i nuovi fondi possono essere utilizzati solo con il ruolo determinante del Parlamento, nel rispetto dei valori e dei diritti fondamentali dell’Unione europea e della Carta delle Nazioni Unite. Non bisogna ripetere gli errori commessi sugli altri fondi legati all’industria militare, per i quali il Parlamento europeo ha rinunciato nella pratica alle proprie prerogative di controllo in piena trasparenza.
Chiediamo perciò che nell’ambito delle iniziative dell’Unione sulle politiche di finanza sostenibile, le armi controverse – oggetto di convenzioni internazionali che ne vietano lo sviluppo, la produzione, lo stoccaggio, l’impiego, il trasferimento e la fornitura – siano considerate incompatibili con la sostenibilità sociale.
Chiediamo che il settore sia soggetto a un rigoroso controllo normativo da parte degli Stati membri per quanto riguarda il trasferimento e l’esportazione di prodotti militari e a duplice uso. Chiediamo la creazione di un comitato di collegamento tra Parlamento europeo e Parlamenti nazionali, nel quadro delle loro competenze ai sensi dell’art. 12 del TUE per il monitoraggio della messa in opera di queste disposizioni.
Chiediamo di vigilare affinché l’industria bellica non possa esercitare un’influenza indebita – come invece già avvenuto fin dall’istituzione dei programmi precursori del Fondo europeo per la Difesa – sulle agende politiche nazionali in materia di difesa e sicurezza e perché, nel rischio di un progressivo scivolamento verso un’“Europa delle Patrie”, l’industria bellica non diventi un mostruoso “motore di crescita”, cinica declinazione dei concetti di “ripresa” e “resilienza”.
23 maggio 2023
Libertà e Giustizia
Rete Italiana Pace e Disarmo
ANPI
ARCI
Pubblicato 2 giorni fa su il manifesto
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Insieme per la Costituzione
Ambiente Diritti Lavoro Salute Pace. Difendiamo la Costituzione che va attuata e non stravolta
La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo “gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne), a partire da:
• il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità – fulcro di un modello di sviluppo sostenibile – superando la precarietà dilagante, contrastando il lavoro povero e sfruttato, aumentando i salari e le pensioni.
• il diritto alla salute e un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario – pubblico, solidale e universale – a cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e valorizzare il lavoro di cura; investimento sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà e valorizzi le professionalità; sostegno alle persone non autosufficienti; tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della prevenzione.
• il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e tutte e per tutto l’arco della vita.
• il contrasto a povertà e diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale, garantendo il diritto all’abitare e un reddito per una vita dignitosa.
• il diritto a un ambiente sano e sicuro in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi.
• una politica di pace intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione
civile e nonviolenta.
Questi diritti possono essere riaffermati e rafforzati solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più per garantire a tutti e a tutte un sistema di welfare pubblico e universalistico che protegga e liberi dai bisogni, a cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile. Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia “nell’interesse delle future generazioni”, come recita l’art. 9 della nostra Costituzione.
Questo modello sociale – fondato su uguaglianza, solidarietà e partecipazione – costituisce l’antitesi del modello che vuole realizzare l’attuale maggioranza di Governo con le prime scelte che ha già compiuto e, soprattutto, con le misure che si appresta a varare, a partire da quelle che – se non fermate – sono destinate a scardinare le fondamenta stesse dell’impianto della Repubblica, come:
• l’autonomia differenziata, rilanciata con il DDL Calderoli, che porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori;
• il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) che ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.
La Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – nel riconoscere il lavoro come elemento fondativo, la sovranità del popolo, la responsabilità delle istituzioni pubbliche di garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone, i diritti delle donne, il dovere della solidarietà, la centralità della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – ha delineato un assetto istituzionale che, attraverso la centralità del Parlamento, fosse il più idoneo ad assicurare questi principi costitutivi e a realizzare un rapporto tra cittadini/e e istituzioni che non si esaurisce nel solo esercizio periodico del voto ma si sviluppa quotidianamente nella dialettica democratica e nella costante partecipazione collettiva della rappresentanza in tutte le sue declinazioni politiche, sociali e civili.
Per contrastare la deriva in corso e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che – a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno – rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando.
Per queste ragioni, ci impegniamo a realizzare:
• il 24 giugno una grande manifestazione nazionale a Roma in difesa del diritto alla salute delle persone e nei luoghi di lavoro e per la difesa e rilancio del Servizio Sanitario Nazionale, pubblico e universale.
• Il 30 settembre una grande manifestazione nazionale a Roma per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.
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Chiude a Cagliari l’Università della terza età
Un “bene comune” da salvaguardare e rilanciare nell’interesse degli anziani e di tutti i cittadini.
di Franco Meloni
L’Università della terza età di Cagliari chiude definitivamente i battenti il 31 del mese. Lo ha comunicato in questi giorni il suo direttore, Cristiano Ardau, agli studenti, soprattutto studentesse, tutti o quasi ultrasettantenni, al termine di una lezione in una serata che sembrava volgere al termine nell’assoluta normalità. È stato un autentico “fulmine a ciel sereno”, che nessuno si aspettava. Certo destava perlomeno qualche sospetto l’assenza dalla sede dei titolari della gestione dell’Università (da ora in poi la chiameremo in prevalenza “Scuola”) che ormai si prolungava da tempo. Li si sapeva in Francia presso parenti. Intanto maturava un “buco” nei conti della Scuola, non si conosce, allo stato, di quali dimensioni e neppure di chi sia la responsabilità. Sembra che su tutto stia indagando la Guardia di Finanza, che avrebbe (il condizionale è d’obbligo) deciso di porre i sigilli ai locali (che comunque saranno riconsegnati alla proprietà), al fine di proseguire in tranquillità i doverosi accertamenti e soprattutto di impedire ulteriori perdite finanziarie. Si sa, i finanzieri, come i carabinieri, “non sono certo di cuore tenero”, come giusto che sia, e che comunque, ne siamo sicuri, “procederanno”. Seppure malvolentieri, perlomeno perché tra i frequentanti la Scuola ci sarà sicuramente qualche mamma/babbo, sorella/fratello, zia/zio o addiritura nonna/nonno di qualche finanziere a cui certo dispiacerebbe la chiusura della Scuola. Lo diciamo se non altro per un fatto di numerosità perché “Cagliari è piccola” e gli iscritti alla Scuola, ci dicono, siano oltre 250 persone, sebbene i frequentati assidui si aggirino intorno ai 200. Una bella realtà. La chiusura della Scuola li mette (o, speriamo, li metterebbe) in crisi perché per quasi tutti loro attualmente costituisce l’occupazione principale. Ma, mentre la Finanza fa il suo dovere, deve entrare in campo soprattutto la Politica. E di questo parliamo. Dobbiamo fare qualcosa, innanzitutto per loro, per gli anziani (chi scrive è tra questi), per il loro benessere psicofisico, ma è importante anche per lo Stato (e pertanto per tutti i cittadini), che a contribuire a mantenere efficienti gli anziani non ha che da guadagnare in termini di risparmio sulla “spesa sanitaria/sociale”. Partiamo dunque da questa certezza per noi e speriamo per molti: la Scuola deve continuare a vivere, senza soluzione di continuità, pertanto ne va scongiurata la paventata chiusura il 31 maggio.
Che fare allora?
Di seguito alcune idee, che allo stato appartengono solamente a chi scrive nonché alla redazione di Aladinpensiero, che sottoponiamo al direttore in carica e a un “Comitato degli iscritti”, che deve immediatamente costituirsi, se non ancora fatto.
È questa Entità che deve prendere in mano la situazione negoziando ogni possibile via d’uscita ragionevole e duratura. Con chi? In primis con la Regione sarda, che non solo è proprietaria dei locali, ma soprattutto ha competenza istituzionale primaria sulla gestione della cultura, in termini di suo sostegno pubblico. Anche quando la gestione concreta sia privata. Parliamo, infatti, nel nostro caso a buon diritto, di un “bene comune” da salvaguardare e garantire, ai sensi della Costituzione della nostra Repubblica (art. 118), al riguardo fondamentale riferimento del Codice del Terzo Settore, decreto legislativo 117/2017. Altro soggetto pubblico coinvolto (o comunque da coinvolgere) è il Comune di Cagliari, per ovvie ragioni prima organizzazione pubblica di rappresentanza dei cittadini. E poi è utile coinvolgere tutte le altre Entità anche private, ma in ogni caso di rilevanza e utilità pubblica, che hanno o possono avere un ruolo nella vicenda e che lo vogliano: pensiamo alle Associazioni socio-culturali di base, operanti in tutti gli aspetti della vita socio-culturale e financo religiosa delle nostre comunità. Tutte virtuosamente concorrenti al benessere dei cittadini.
Ma tecnicamente, cosa si potrebbe fare?
Si dovrebbe preliminarmente “isolare il debito”, determinandone l’effettiva consistenza e individuando le responsabilità della sua formazione (se sussistono), provvedendo a costituire una sorta di “bad company” che lo gestisca, con il suo ricupero a carico dei debitori o, in ultima istanza, della pubblica amministrazione (questione ovviamente da approfondire).
Così liberata dal gravoso fardello finanziario, la Scuola dovrebbe da subito essere affidata al predetto Comitato degli iscritti, che ne garantirebbe la continuità didattica nell’emergenza. Nel contempo, soprattutto per il proseguo, si dovrebbe affidare la gestione a un commissario ad hoc, espresso dalla stessa Scuola, fino alla formale costituzione di una apposita organizzazione di diritto privato sul modello delle tante Università della terza età presenti in Sardegna (e riunite in una entità di coordinamento regionale denominata UTE). Al riguardo, anche per vicinanza geografica e storici legami culturali si potrebbe far riferimento all’Universita’ della terza età di Quartu Sant’Elena (l’Universita’ della terza età di Quartu nacque nel 1986 per gemmazione di quella di Cagliari), recentemente riorganizzata in ottemperanza alle prescrizioni del già citato Codice del Terzo Settore, decreto legislativo 117/2017. Nel suo sito web si trova ogni utile informazione [https://www.univerquartu.it/index.php/chi-siamo/statuto2 ].
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Auguriamoci che tutto si risolva. Torneremo quanto prima sulla vicenda, che seguiremo passo dopo passo, giorno dopo giorno.
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(Franco Meloni, direttore di Aladinpensiero online)
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ZAMAGNI: APPLICARE NEL CONCRETO SOLIDARIETÀ E SUSSIDIARIETÀ
Zamagni: applicare nel concreto solidarietà e sussidiarietà https://www.politicainsieme.com/zamagni-applicare-nel-concreto-solidarieta-e-sussidiarieta/
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Che succede e che accadrà
Costituente Terra Newsletter n. 118 del 24 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 299 del 24 maggio 2023
LA GUERRA COMPRATA
Cari amici,
l’estensione della NATO ai Paesi dell’Est europeo fino ai confini della Russia, causa dell’attuale guerra in Europa, non è stata dettata da esigenze di difesa o da ragioni politiche, data l’esistenza di accordi di pace e disarmo raggiunti tra Stati Uniti e Unione Sovietica alla fine della guerra fredda; essa fu invece comprata a partire dal 1996 dalle industrie delle armi degli Stati Uniti e da un gruppo di neoconservatori che investirono oltre 50 milioni di dollari (equivalenti a 94 milioni di oggi) per ottenere l’espansione dell’Alleanza a nuovi Paesi e poterli in seguito rifornire di tutte le armi necessarie, come poi è avvenuto con la guerra in Ucraina, finanziata finora con oltre 100 miliardi di dollari di armamenti. È quanto risulta da un documento di ex diplomatici e ambasciatori, consiglieri della Sicurezza Nazionale, esponenti delle Forze Armate e analisti americani, uscito il 16 maggio sul “New York Times”, che pubblichiamo nel nostro sito. In questo documento, in cui viene espressa la posizione dell’”altra America” contro la “militarizzazione” della politica estera americana e a favore di una soluzione diplomatica del conflitto, vengono ricordati i moniti inascoltati di ex segretari alla difesa, di diplomatici come Kennan e Kissinger e dello stesso attuale direttore della CIA, Williams Burns, contro questo errore “di proporzioni storiche”.
Sul versante opposto un editoriale del “Corriere della Sera” del 22 maggio prospetta per i fasti di oggi e per il prossimo futuro uno scontro epocale tra “Occidente e resto del mondo”, a cui dovrebbero essere persuase le opinioni pubbliche occidentali propense a restare “inermi e indifese” come fece la “diabolica” Angela Merkel abbracciando “una belva come Putin”. Lo pubblichiamo con il nostro titolo “L’orrore prossimo venturo”. Pubblichiamo anche un articolo di Enrico Peyretti, “Le guerre sono due”.
Con i più cordiali saluti,
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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Attualizzare l’Autonomia, di Luca Lecis sul sito della Fondazione Sardinia.
“Come far sentire ai sardi le vere utilità della loro dipendenza da un governo che finora non poterono apprezzare altrimenti che dalle nuove gravezze personali, con il languido conforto di sempre promessi e non mai eseguiti miglioramenti?», La Civiltà Cattolica nel 1852.
“Come far sentire ai sardi le vere utilità della loro dipendenza da un governo che finora non poterono apprezzare altrimenti che dalle nuove gravezze personali, con il languido conforto di sempre promessi e non mai eseguiti miglioramenti?». Questa riflessione sulle inadempienze dello Stato nei confronti della Sardegna non è l’amara considerazione di qualche odierno esponente politico, ma un lucido j’accuse pubblicato dalla Civiltà Cattolica nel 1852.
A 171 anni di distanza possiamo forse considerare superate queste parole vergate quando ancora si doveva compiere l’Unità? A 75 anni dalla promulgazione dello Statuto tali parole hanno ancora senso? […]
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Che succede?
Costituente Terra Newsletter n. 116 del 10 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 297 del 10 maggio 2023
SAGGEZZA DI UN AMBASCIATORE
Cari amici,
ci sono alcune importanti notizie da raccogliere.
Il “Corriere della Sera” dell’8 maggio, forse con qualche imbarazzo, ha pubblicato un clamoroso articolo dell’ex ambasciatore a Mosca Sergio Romano in cui si chiede lo scioglimento della NATO, oggi priva delle ragioni per cui è nata. L’articolo dell’autorevole esperto di politica internazionale dice infatti così: “L’Alleanza atlantica ha avuto una parte utile e rispettabile. Ma la Guerra fredda è finita, il comunismo è sepolto, gli Stati Uniti hanno avuto un presidente come Trump e sarebbe giunto il momento di fare a meno di un’istituzione, la Nato, che ha ormai perduto le ragioni della sua esistenza”. L’accenno a Trump sembra dire che gli Stati Uniti non sono più affidabili, Per giungere a tale conclusione l’articolo richiama l’accordo “fondatore” Nato-Russia del 27 maggio 1997 in cui era scritto che “Nato e Russia non si considerano nemiche e intendono lavorare insieme per contribuire a instaurare in Europa una sicurezza comune e globale in conformità ai principi dell’ONU” . Invece è accaduto il contrario: facendo proprie le parole dello storico Giovanni Buccianti, l’ambasciatore ricorda che “in seguito all’implosione dell’URSS (e non alla vittoria degli Usa nella Guerra Fredda) la NATO prese a svolgere una costosa campagna acquisti di tanti Paesi portandoli tutti a giocare contro la Russia e arrivando ai confini del suo territorio. Possibile che nessuno abbia ancora detto che così facendo si stava favorendo lo scoppio della Terza guerra mondiale?”. Così Sergio Romano e il “Corriere della sera”. Ma allora chi ha aggredito chi?
La Siria è stata riammessa nella Lega Araba. Ciò, insieme alla rappacificazione tra Iran e Arabia Saudita mediata dalla diplomazia cinese, sta cambiando gli equilibri mondiali. Gli Stati Uniti che perseguono altri progetti , e l’Unione Europea, “continuano ad opporsi – scrive lo stesso “Corriere della Sera” – a qualsiasi regolarizzazione dei rapporti”. L’idea sembra essere che alla guerra non si può rinunziare.
In Texas ci sono state altre due stragi, che hanno provocato in tutto 16 morti. Dall’inizio dell’anno ce ne sono state più di 200, cioè più di una al giorno, mentre nel Paese in mani private ci sono più armi (393,3 milioni) che Americani. Questi corpi del reato in mano a tutti i cittadini sono protetti dal secondo emendamento della Costituzione americana. Biden ha detto: “perché continuare con questa carneficina?”. Già, perché continuare? Il problema è che a garantire che dalla “Libera Impresa” – uno dei tre cardini del modello di società che gli Stati Uniti vogliono installare in tutto il mondo – non sia escluso il business delle armi, non c’è solo la Costituzione, ma soprattutto la cultura del Paese. Questa è ancora quella del West, del “chi spara per primo”, ma è anche la cultura che discende dal potere, e che lo stesso Biden e i governi degli Stati Uniti adottano nei rapporti col resto del mondo. È in forza di questa cultura che, riguardo al nucleare, gli Stati Uniti hanno deciso di passare alla dottrina del “first use”: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare, sta scritto, perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva.
Sono partite con una fittizia consultazione delle opposizioni le riforme costituzionali. Giorgia Meloni, benché affermi di voler instaurare un sistema che dia più stabilità ed efficienza al sistema, si dice indifferente alla scelta tra presidenzialismo e premierato elettivo, anche se c’è una grande differenza tra le due ipotesi: le basta che ci sia qualcuno eletto al comando. Ciò rivela la ragione personalissima per cui la presidente del Consiglio intraprenda con tale urgenza la via delle riforme costituzionali. Il suo governo è scaturito da un’elezione estiva, con la complicità di una cattiva legge elettorale, di un forte astensionismo e della sbadataggine dei partiti oggi all’opposizione. È molto difficile, se non impossibile, che queste condizioni abbiano a ripetersi. Volendo perpetuare il suo potere oltre gli anni di questa legislatura, l’unica strada per lei è l’elezione popolare diretta, non importa a quale delle due cariche, nell’idea che il favore degli attuali sondaggi ad personam si traducano in un voto plebiscitario a suo favore. Si tratta di un’illusione, quando il Paese, a parte l’establishment, non è affatto di destra. Né si fida di una “destra costituente”, anche per le prove che su questo versante la destra sta dando di sé.
I riformatori costituzionali, di ieri e di oggi, non capiscono che il Paese ama le sue istituzioni; il meno amato è proprio il governo. Da quando Mussolini ha detto che voleva fare della Camera un bivacco di manipoli, il Parlamento è il bene da difendere, non si può profanare. Ora, su regia del suo presidente La Russa, l’aula del Senato è stata trasformata, come scrive “Critica liberale”, in un “bivacco pop”, per far «cantare a Gianni Morandi “Fatti mandare dalla mamma a prendere il latte” e altre canzonette da discoteca di paese». La Russa si è anche fatto dare dall’Archivio di Stato l’originale della Costituzione che è inserito negli atti ufficiali delle leggi della Repubblica. Tomaso Montanari se ne indigna, ma nota che una profanazione ben maggiore della Costituzione si sta preparando “con la manovra a tenaglia del presidenzialismo e dell’autonomia differenziata, due armi letali che se sommate diventano una bomba nucleare capace di annichilire la Repubblica disegnata dai costituenti”.
Nel sito pubblichiamo l’articolo dell’ambasciatore Romano e un articolo in lode dell’artigiano di Beppe Manni. Vi segnaliamo, nel sito Costituente Terra, il testo del discorso di Putin sulla Piazza Rossa nella ricorrenza del 9 maggio, che non è stato fruibile sulla stampa d’informazione. Se è un nemico, perché non sapere quello che dice? Come sostiene il papa: “ Credo che la pace si faccia sempre aprendo canali, mai si può fare una pace con la chiusura. Invito tutti ad aprire rapporti, canali di amicizia”.
Ricordiamo che si può firmare scrivendo a Ripudio della Guerra l’appello “Per un’alternativa all’impero”.
Con i più cordiali saluti,
Raniero La Valle
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra
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PER UN’ALTERNATIVA ALL’IMPERO
3 MAGGIO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Gli ultimi avvenimenti hanno aperto due visioni del mondo: un dominio universale o una pace nelle differenze. Un appello
La guerra in Ucraina è giunta ormai ad essere una guerra suicida: il Regno Unito combatte contro se stesso e la propria stessa immagine annunciando apertamente l’invio di proiettili anticarro ad uranio impoverito, l’Ucraina vuole riconquistare il Donbass grazie a queste armi con componenti nucleari capaci di contaminare l’ambiente per migliaia di anni e di intossicare chi lo inala o chi lo ingerisce: “si sospetta – spiega il pur simpatizzante Corriere della Sera – che arrivi a modificare il DNA, causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”, tutto ciò a danno delle stesse popolazioni di cui si rivendica l’appartenenza all’Ucraina; la Russia sfida l’esecrazione universale minacciando per tutta risposta di schierare atomiche tattiche in Bielorussia.
A sua volta, dopo una debole tergiversazione, e con la spinta determinante del presidente Biden, il cancelliere tedesco Sholz ha dato il via libera alla distribuzione di carri armati tedeschi a tutti i fornitori di armamenti a Zelenski che insistentemente li chiede. In tal modo settant’anni dopo l’”Operazione Barbarossa” vediamo di nuovo i Panzer tedeschi avanzare nella pianura d’Ucraina per sconfiggere la Russia non più sovietica.
Questa volta però la regia è americana, gli attori ucraini, mentre ogni negoziato è escluso per legge dallo stesso Zelensky.
È difficile ignorare l’impatto emotivo di questa svolta. Si può avere la memoria corta e il cuore indurito, ma nelle viscere della terra corre un sussulto dinanzi al ritorno dei carri tedeschi proiettati a combattere contro i russi nel cuore dell’Europa, quando quell’evento fu al centro della seconda guerra mondiale e ne precedette di poco l’esito con la tragedia della bomba atomica, l’ingresso dell’umanità tutta nell’età del nucleare genocida, l’adozione di un rapporto internazionale postbellico temerariamente fondato sulla “reciproca distruzione assicurata”, fino alle attuali strategie di guerre preventive e di minacciato ricorso all’arma assoluta.
In tal modo va in scena il sempre esorcizzato e incombente conflitto tra la NATO e la Russia in Europa. E dopo? Potrà ancora sussistere l’ONU, quando gli alleati di ieri, diventati i nemici di oggi, dovrebbero stare insieme come Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza per salvaguardare la pace e la sicurezza del mondo, e invece sono intenti a distruggerle? Non a caso l’Ucraina contesta già oggi la presidenza russa pro-tempore del Consiglio di Sicurezza. E siamo sicuri che questa volta, per non scomparire, la Russia invece di versare nell’olocausto 26 milioni e 600.000 morti, non sarà indotta alla scelta disperata di difendersi col “primo uso” dell’arma nucleare?
E tutto ciò accade quando il mondo ha distolto lo sguardo dalla vera priorità, che è salvare la Terra dal disastro ecologico, e anzi va allo scontro proprio sul gas, l’energia. I beni vitali e la reciproca deterrenza nucleare.
È chiaro che la priorità è cercare le vie d’uscita dalla crisi in Ucraina. Se ne sarebbe potuto trovare la soluzione, se non fosse stata sacrificata a interessi estranei all’Europa, fino al 24 febbraio 2022, quando l’assalto militare russo ha gettato tutto nella fornace dello scontro armato; e forse all’inizio un negoziato sarebbe stato risolutivo. E ora ci sono di mezzo centinaia di migliaia di caduti, orfani, vedove, città distrutte, odi implacabili e l’accecamento, nella perdita di ogni verità, della maggior parte dei protagonisti, degli ispiratori, osservatori e narratori del conflitto. Però non possiamo non dire che giunti a questo livello di rischio, i protagonisti palesi od occulti della guerra la devono immediatamente fermare, anche contro ogni irredentismo territoriale: il negoziato è necessario e possibile, la ragione e il cuore hanno sempre la possibilità di risorgere.
Quale visione del mondo?
Qui però vogliamo interrogarci soprattutto sulle due visioni del mondo che gli ultimi avvenimenti hanno aperto davanti a noi, e che ci pongono davanti a scelte da cui dipende un lungo futuro, e forse la possibilità stessa di un futuro. Non si tratta infatti di dettagli, ma di un crinale a cui siamo giunti, da cui si potrebbe cadere in un precipizio senza rimedio, quel crinale che il vecchio La Pira, negli anni più paurosi della guerra fredda, chiamava il “crinale apocalittico della storia”, intendendo col termine “apocalittico” non la fine stessa della storia, ma lo svelamento dell’alternativa radicale cui essa era pervenuta mettendo la guerra come principio e signore di tutte le cose, e nello stesso tempo invitava i sindaci delle città opposte a Firenze.
Qual è la nostra visione del mondo, stando noi su questo crinale?
La visione del mondo che ci viene proposta con grande insistenza, e che ci viene attribuita come connaturale alla nostra civiltà e alla nostra storia, è la visione del mondo propria dell’Occidente, anzi dell’“Occidente allargato”, che ha oggi il suo centro in America, la sua potenza militare negli Stati Uniti e nella Nato, la vocazione a estendersi fino agli estremi confini della terra.
È in nome dei suoi valori che siamo chiamati alle armi, per “mettere il nostro mondo saldamente sulla strada di un domani più luminoso e pieno di speranza”, come promette oggi il presidente Biden nell’illustrare la “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
Di fronte a noi abbiamo però, gravemente inquietanti, due documenti fondativi che propugnano e illustrano questa visione del mondo e la assumono come normativa. Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana ha enunciato le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è per l’appunto la “National Security Strategy” (october 2022 – The White House Washington) del Presidente Biden (in sigla NSS), il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” (in sigla NDS) del capo del Pentagono Lloyd Austin, corredata da un dettagliato aggiornamento della “postura” o visione nucleare americana. Questa visione o “postura” ribadisce la decisione di non adottare la politica del “Non Primo Uso” dell’arma nucleare perché essa “comporterebbe un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità anche non-nucleari degli avversari che potrebbero infliggere danni di natura strategica agli Stati Uniti e ai loro alleati e partners”. È la conferma di quanto era già stato deciso dopo l’attacco alle Torri gemelle: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva; la nuova strategia è di ricorrere se necessario per primi all’arma nucleare. scudo al cui riparo si possono condurre senza rischi per gli Stati Uniti le guerre convenzionali necessarie. E questa nuova dottrina, adottata ormai anche dalla Russia, fa sì che dietro questo scudo si pensa che si possnoa combattere tutte le guerre convenzionali, come si è sempre fatto in tutto il corso della storia.
Due documenti programmatici
Per quanto strettamente americani, questi due documenti, di fatto ignorati in Occidente, riguardano tutti, perchè investono non solo l’una o l’altra regione del globo, ma il destino del mondo come tale. E ciò è dimostrato dal fatto che di questo mondo gli Stati Uniti rivendicano globalmente la leadership, che vi installano le loro basi militari da per tutto, e che intendono disporne con l’affermazione che “non c’è nulla che vada oltre le nostre capacità: possiamo farcela, per il nostro futuro e per il mondo”; la posta in gioco sarebbe “di rispondere alle sfide comuni e affrontare le questioni che hanno un impatto diretto sulla vita di miliardi di persone. Se i genitori non possono nutrire i propri figli – specifica Biden – nient’altro conta. Quando i Paesi sono ripetutamente devastati da disastri climatici, interi futuri vengono spazzati via. E come tutti abbiamo sperimentato, quando le malattie pandemiche proliferano e si diffondono, possono aggravare le disuguaglianze e portare il mondo intero al collasso”. Sarebbe questa la preoccupazione degli Stati Uniti, la giusta ragione del loro intervento ma anche il motivo per cui il raggio d’azione entro cui la loro impresa, politica e militare, si deve esercitare è senza limiti territoriali: “Abbiamo approfondito le nostre alleanze principali in Europa e nell’Indo-Pacifico. La NATO è più forte e unita che mai, stiamo facendo di più per collegare i nostri partner e le nostre strategie nelle varie regioni attraverso iniziative come il nostro partenariato di sicurezza con l’Australia e il Regno Unito (AUKUS). E stiamo forgiando nuovi modi creativi per lavorare in comune con i partner su questioni di interesse condiviso, come con l’Unione Europea, il Quadrilatero Indo-Pacifico, il Quadro economico Indo-Pacifico e il Partenariato per la prosperità economica delle Americhe”; e da lì lo sguardo si spinge fino all’Artico.
Si postula dunque un unico potere che si protende alla totalità del mondo, nella presunzione che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale, corrispondere a un unico modello di convivenza umana; e questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti avevano posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, perché questo corrispondesse agli interessi e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale, e questo composto era dichiarato come normativo per tutti, sulla scia del “progetto”, pubblicato nell’ottobre del 2000, del “nuovo secolo americano”. Dunque non venivano contemplati tanti possibili regimi politici, economici e sociali, corrispondenti eventualmente a diverse teorie. Ce ne sarebbe uno solo che comporta un modello umano, quello dell’individualismo liberale, un modello politico, quello della democrazia occidentale, ed un modello economico, quello del capitalismo d’impresa. Altri modelli non sono ammessi e compito degli Stati Uniti sarebbe di diffondere questo modello in tutto il mondo.
Si potrebbe dire, fin qui, che non possiamo fare obiezioni: ognuno può avere la propria visione del mondo e auspicare e operare perché si realizzi.
Una chiamata alle armi anche per noi
Il problema è però che gli Stati Uniti vogliono fare tutto questo non per conto loro, ma coinvolgendo “l’impareggiabile rete di alleanze e partnership dell’America”. Questi partners nello stabilire l’ordine del mondo sono chiamati in causa 167 volte nei due documenti del presidente Biden e del Pentagono e attraverso la NATO in questa chiamata alle armi siamo coinvolti anche noi.
Dunque la cosa ci riguarda; e da partners e alleati, e non da sudditi o “vassalli”, come ha detto Macron, dobbiamo decidere se questa è la visione del mondo che abbiamo anche noi, se questo è il mondo che vogliamo costruire e qual è la nostra idea dello “stato del mondo” in cui ci troviamo ad operare.
La supremazia americana
La premessa da cui parte Biden e su cui tutta la strategia americana è fondata, “la nostra visione nel tempo”, come egli la definisce, è che “l’era post-Guerra Fredda è definitivamente finita”. Sarebbe una buona notizia se annunziasse la fine della guerra come tale. Purtroppo invece non è così: essa sancisce solo la fine della sua modalità come “guerra fredda”, cioè come una guerra sempre minacciata e mai combattuta, con armi sempre pronte all’uso ma accumulate e tenute ferme negli arsenali. Paradossalmente invece quella che ne deriva è una guerra liberata, non più trattenuta dai rischi di uno scontro nucleare, tornata ad essere libera all’esercizio, come non lo era stata all’epoca della competizione tra I blocchi, fino alla rimozione del muro di Berlino, e poi subito era stata recuperata come necessaria, buona e giusta e persino umanitaria con la prima guerra del Golfo, già nel 1991.
La seconda premessa è che liberato dai vincoli della guerra fredda, l’ovvio modo degli Stati, anzi delle maggiori Potenze, di relazionarsi tra loro, debba essere e sia quello di “una competizione strategica per plasmare il futuro dell’ordine internazionale” e, per gli Stati Uniti, quello di “far avanzare gli interessi vitali dell’America, posizionare gli Stati Uniti per superare i concorrenti geopolitici, affrontare le sfide comuni. Non lasceremo il nostro futuro vulnerabile ai capricci di chi non condivide la nostra visione di un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, dice Biden. Dovranno essere pertanto gli Stati Uniti a vincere in questa competizione: “Essi guideranno con i nostri valori”, “nessuna nazione è meglio posizionata degli Stati Uniti per avere successo”, naturalmente col corteo dei loro seguaci, di “tutti coloro che condividono i nostri interessi”: dunque si parte vincenti e lo spazio di tempo in cui ciò deve avvenire è “il prossimo decennio”, che il documento programmatico del presidente Biden definisce come “decisivo” e che poi nella programmazione della Difesa di Lloyd Austin si estende a comprendere “due decenni” destinati peraltro a prolungarsi nei decenni successivi. Dunque è un testo sul futuro del mondo.
La sfida culminante: la Cina
Questo è il mondo come è visto nel tempo, ma come è visto nello spazio, come viene proposto al nostro sguardo (e alle nostre decisioni) di oggi? Esso è un mondo di cui una parte (peraltro minore) si identifica con la democrazia, ed è contro l’altra, quella delle autocrazie, considerate costitutivamente minacciose e aggressive.
Nel documento del ministro della Difesa Lloyd Austin, esso è considerato come “l’ambito di sicurezza” in cui deve operare l’insieme delle Forze Armate americane (Joint Force), ovvero è il mondo come gli Stati Uniti se lo immaginano e vogliono che sia. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partners; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa è aggregata al primo mondo, attraverso la NATO.
E subito, sia nel documento della Casa Bianca, sia in quello del Pentagono, vengono designati I due “competitori strategici”, quelli con cui dovrebbe disputarsi il dominio del mondo: e il maggiore non è, a sorpresa, il nemico tradizionale degli Stati Uniti, l’altra grande Potenza della seconda Guerra mondiale, la Russia, i cui “limiti strategici – sostiene Biden – sono stati messi in luce dopo la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”; ora il vero nemico è la Cina. “La Russia – dice Biden – rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”.
Pertanto è la Cina a rappresentare la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. È questa la ragione per cui il piano di pace presentato da Xi Jinping per l’Ucraina, non è stato preso in considerazione.
È singolare che mentre per la Russia Biden abbia buon gioco nell’attribuirle “una minaccia immediata al sistema internazionale libero e aperto come ha dimostrato la sua brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina”, ragione per cui essa doveva essere ridotta per punizione alla condizione di “paria” (che nel sistema indiano delle caste significa essere gettati fuori dall’umanità e dalla storia) per la Cina non c’è alcuna motivazione che sia addotta per doverla combattere, se non il fatto che essa sarebbe “l’unico concorrente che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più spesso, ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.
Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden, pochi giorni dopo, il 27 ottobre, il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, illustrava in che modo l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; esso sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”, come del resto in ogni altro conflitto che si trovino a combattere.
Verso il baratro – Difendiamo la Costituzione
Ripudiare la pace e giocare a scacchi con la morte
08-05-2023 – Domenico Gallo su Volerelaluna.
L’annunzio di pace della Resistenza è stato fatto proprio dai Costituenti che, con votazione quasi unanime, hanno decretato la cancellazione dello jus ad bellum dalle prerogative della sovranità espellendo la guerra, non dalla storia (non avrebbero potuto), ma almeno dall’ordinamento giuridico. Qui la Costituzione opera un’innovazione decisiva rispetto allo Statuto albertino, invadendo il campo della politica estera, che le Costituzioni dell’Ottocento avevano sempre considerato dominio riservato del sovrano. E lo fa gettando sul piatto il peso di valori e princìpi (il ripudio della guerra e la costruzione della pace e la giustizia fra le Nazioni) di grande spessore politico e morale, attraverso i quali viene costruita l’identità della Repubblica, il volto dell’Italia nelle relazioni internazionali. Non a caso nel testo dell’art. 11 compare il termine “Italia”, per indicare che il ripudio della guerra è un bene originario che appartiene allo Stato-comunità, di cui lo Stato-apparato non può disporre. L’apertura alla Comunità internazionale viene sancita stabilendo la supremazia del diritto internazionale generale sull’ordinamento interno («L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute» art. 10) e consentendo le limitazioni di sovranità necessarie «ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» (art. 11). È stato proprio questo principio che ha costituito la porta attraverso la quale l’Italia è entrata in Europa e l’Europa è entrata in Italia attraverso la costruzione della Comunità/Unione Europea. Tuttavia le limitazioni di sovranità, anche se possono raggiungere livelli molto intensi, espropriando il Parlamento del potere di adottare le norme di legge riservate alla legislazione comunitaria, non possono scalfire il nucleo duro della Costituzione, quello che non può essere neppure sottoposto al potere di revisione costituzionale, vale a dire i princìpi fondamentali e i diritti inalienabili della persona umana (Corte costituzionale, 19 novembre 1987, n. 399). Il ripudio della guerra è riconosciuto dalla dottrina giuridica come uno dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale ed è quindi annoverabile tra quelli che prevalgono su ogni eventuale vincolo internazionale, da qualsiasi fonte provenga (trattato, decisione di organi internazionali di cui facciamo parte, Comunità europea). Come tale dovrebbe se del caso essere garantito, se violato, dalla giurisdizione costituzionale e non può essere oggetto di revisione costituzionale.
L’art. 11 della Costituzione è una disposizione complessa: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo». È formata da tre proposizioni collegate all’interno dello stesso periodo. Essa contiene una norma di scopo (che vincola la Repubblica italiana a perseguire la pace e la giustizia fra le Nazioni) e tre norme strumentali (il ripudio della guerra, l’accettazione di limitazioni di sovranità finalizzate alla pace e alla giustizia e il favore per le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo). Il ripudio della guerra, come strumento di offesa alla libertà di altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, non è separabile dall’impegno per la pace e la giustizia fra le Nazioni, o meglio la costruzione di un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni presuppone il ripudio della guerra, in conformità allo Statuto delle Nazioni Unite che obbliga gli Stati membri ad astenersi dall’uso e dalla minaccia dell’uso della forza.
Sebbene sia intimamente legato all’identità dell’Italia, il principio pacifista di cui all’art. 11 è andato incontro a un progressivo deperimento, di pari passo con il progressivo imbarbarimento delle relazioni internazionali. Seguendo una naturale tendenza a giustificare i fatti e ad allinearsi alle scelte prevalse per opera dei poteri reali, scrittori, politici e giuristi hanno banalizzato sempre di più il principio pacifista, fino ad ipotizzare la “decostituzionalizzazione” delle norme sulle relazioni internazionali (Motzo). Con la prima guerra del Golfo (1991) si è cominciato a separare il ripudio della guerra dal resto della disposizione, leggendo il fine di favorire le organizzazioni internazionali come prevalente sul ripudio della guerra, e la guerra stessa è stata mascherata come operazione di “polizia internazionale”. Dopo lo scoppio della guerra, iniziata il 24 febbraio dello scorso anno con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, è stato tirato in ballo il principio pacifista, letto alla luce dell’art. 51 dello Statuto ONU, che riconosce il diritto naturale di autotutela, individuale e collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato contro uno Stato, e dell’art. 52 della Costituzione, che pone la difesa della Patria come unica eccezione al ripudio della guerra. Quando l’Italia ha deciso di rompere la neutralità e inviare le armi all’Ucraina, molti giuristi, come l’ex Presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato, si sono levati per darci l’interpretazione giusta del principio pacifista e spiegarci che la partecipazione indiretta dell’Italia alla guerra è consentita, se non costituisce addirittura un obbligo costituzionale. Peccato che quando la NATO ha aggredito l’ex Jugoslavia nel 1999, bombardandola per 78 giorni, coloro che adesso impugnano l’art. 11 per legittimare le armi italiane, sono rimasti assolutamente silenti, hanno steso un velo pietoso sul principio pacifista, dimenticandosi persino della sua esistenza nel dibattito pubblico. Del resto, il Governo dell’epoca ha nascosto accuratamente la partecipazione dell’Italia alle missioni di bombardamento sulla Serbia. Soltanto qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato del contributo del nostro paese alla guerra. L’Italia ha partecipato ai bombardamenti con l’utilizzo di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato «115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16» (così Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002). Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati.
Da quando è iniziata la tragedia della guerra il 24 febbraio, non è esploso soltanto un conflitto fondato sulla violenza delle armi, è dilagato in tutt’Europa lo spirito nefasto della guerra, si è materializzata l’immagine del nemico ed è iniziata una mobilitazione bellica della comunicazione, della cultura, delle coscienze. Dalla condanna unanime, secca e senza appello dell’aggressione russa all’Ucraina, si è passati velocemente all’acritica accettazione della logica della guerra. Di fronte a questo disastro, segno tangibile del fallimento della politica di sicurezza e cooperazione in Europa, le principali forze politiche, non solo in Italia, con il conforto del fuoco di sbarramento unanime dei mass media, hanno assunto il linguaggio della guerra e si sono esercitate in una guerra delle parole contro il nemico. Lo spirito di guerra comporta una divisione manichea dell’umanità, per cui tutto il male sta dalla parte del nemico e tutto il bene dall’altra. Il dissenso non è tollerato perché giova al nemico. La narrazione ufficiale della guerra, imposta come pensiero unico è quella dello scontro di civiltà, dei regimi autocratici che odiano la democrazia e vogliono distruggerla.
La guerra non si combatte solo con le armi, da noi si combatte soprattutto con le parole della politica e dei media. Così l’ANPI, Associazione italiana dei partigiani, colpevole di non essersi accodata al coro bellico, viene tradotta dal Corriere della Sera in Associazione Nazionale Putiniani d’Italia. L’ANPI è fastidiosa perché tramanda il patrimonio morale della resistenza, ci ricorda il principio costituzionale del ripudio della guerra, una petizione di principio che Galli della Loggia non sapeva se qualificare «più bizzarra o più patetica», osservando sul primo numero di Limes (1993) che la norma sul ripudio della guerra: «cerca di cancellare il dato storico di ovvia evidenza che vede da sempre la guerra come il fuoco concettuale e pratico della politica internazionale […]. È come dire l’Italia ripudia l’esistenza dell’ossigeno». La favola della guerra come scontro fra la Democrazia e l’Autocrazia, ha come posta l’obiettivo di sdoganare la guerra come strumento ordinario e necessario della politica e quindi di ripudiare il ripudio della guerra: la guerra come ossigeno dei popoli, secondo Galli della Loggia.
Ovviamente non possiamo ignorare, il «diritto naturale di autotutela nel caso abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite», riconosciuto dall’art. 51 della Carta dell’ONU. Lo Statuto dell’ONU riconosce il diritto di resistenza con le armi a fronte di un’aggressione in atto, ma ciò non legittima una guerra senza fine e senza limiti. Infatti il diritto di resistenza è valido «fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale». In questo caso, in mancanza di un intervento autoritativo del Consiglio di Sicurezza, tutti gli attori internazionali, a cominciare dai contendenti, devono attivarsi per restaurare la pace, poiché la guerra – secondo il Preambolo della Carta – resta, pur sempre un flagello che procura indicibili afflizioni all’umanità. Invece noi sappiamo (l’ha rivelato l’ex premier israeliano Bennet) che, dopo nemmeno due settimane dall’inizio del conflitto, il 5 marzo le parti stavano per concludere un accordo di pace. Tant’è vero che il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava il piano di pace in 15 punti che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Ebbene quella possibilità di restaurare la pace nella regione è stata sventata dal veto di Biden e Johnson, che hanno istigato l’Ucraina a respingere ogni mediazione, incoraggiandola a puntare sulla sconfitta militare della Russia, realizzabile con il massiccio sostegno finanziario, militare e di intelligence di USA, GB, UE e di altri paesi occidentali.
Dal 17 marzo 2022, il conflitto ha perso la natura di una resistenza legittima dell’Ucraina a un’aggressione altrui, ed è diventata una guerra in cui un’alleanza di oltre 30 Stati cerca di infliggere una batosta militare alla Russia, utilizzando il sangue degli ucraini. Una resistenza militare a un’aggressione si è trasformata in una guerra di posizione, come la Prima guerra mondiale, in cui i belligeranti cercano di distruggersi a vicenda. Eppure la Prima guerra mondiale dovrebbe averci insegnato che, a fronte di un conflitto così violento, spietato e prolungato nel tempo, non esiste la “vittoria”, perché una tale guerra è un male in sé, è un evento diabolico che produce sofferenze indicibili a tutte le parti in conflitto, che nessun obiettivo politico può giustificare. La pretesa della NATO, dell’UE e degli altri paesi della Santa alleanza occidentale di fornire un crescendo di aiuti militari all’Ucraina per consentirle di vincere rapidamente la guerra ha come unico sbocco la continuazione di una strage insensata e senza fine. Ciononostante ci stiamo muovendo verso un’intensificazione dello scontro militare. Gli ucraini prevedono il lancio di una controffensiva di primavera con l’obiettivo di travolgere le forze d’occupazione russe e di recuperare tutti i territori persi nel 2014, ivi compresa la Crimea, che da 9 anni è una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. Stiamo fornendo l’Ucraina di sistemi d’arma sempre più performanti, ma se le forze armate ucraine dovessero dilagare in Crimea, insidiando la base della marina russa a Sebastopoli, chi ci può assicurare che la Russia si arrenderà, e accetterà di essere smembrata, senza porre mano all’arsenale nucleare? Pretendere di sconfiggere ed umiliare una superpotenza dotata di 6.000 testate nucleari è come giocare a scacchi con la morte. Senza volerlo e senza rendercene conto ci stiamo avviando sulla via per Harmageddon. Secondo l’Apocalisse gli spiriti maligni partoriti dalla Bestia andarono dai Re di tutta la terra per radunarli «per la battaglia del gran giorno del Dio onnipotente». Essi radunarono i Re nel luogo che in ebraico si chiama Harmageddon (Apocalisse, 16,1). L’apocalisse segnerà la fine della storia, ma noi vogliamo fermamente che la storia continui. Per arrestare questa marcia verso Harmageddon, la cosa più urgente è fermare il conflitto in Ucraina, spegnere l’incendio prima che si estenda al resto del mondo.
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CHE FARE?
Dopo il 25 aprile in difesa della Costituzione. Un appello
08-05-2023 – Su Volerelaluna.
Il 78° anniversario della Liberazione dal nazifascismo si è svolto, quest’anno, a sei mesi di distanza dall’insediamento del governo più di destra della storia dell’Italia repubblicana. Il Governo Meloni, pur non rappresentando la maggioranza degli italiani (ma solo il 43% dei votanti e il 26% degli elettori), si è legittimamente insediato alla guida del nostro Paese grazie alla combinazione perversa di due fattori: un fattore istituzionale, rappresentato dall’iniqua quota maggioritaria prevista dalla pessima legge elettorale vigente, e un fattore politico, determinato dalla divisione e dalle ambiguità del cosiddetto “campo progressista” a fronte di una sostanziale unità del “campo reazionario”.
Tutti i primi atti del Governo Meloni e della maggioranza parlamentare che lo sostiene rivelano – pur tra pasticci e correzioni successive, dovute a dilettantismo, contraddizioni interne alla maggioranza o a veti europei – un disegno di restaurazione autoritaria sul piano socio-economico, istituzionale e culturale, che punta, più o meno esplicitamente, a stravolgere la nostra Costituzione: dalla scelta dei Presidenti di Camera e Senato, ai discorsi programmatici della Presidente del Consiglio e alle continue indifendibili esternazioni dei ministri Valditara, Piantedosi, Lollobrigida e del Presidente La Russa; dal decreto di regolamentazione delle ONG per ostacolarne le attività di salvataggio dei migranti alle mai chiarite responsabilità del drammatico naufragio di Cutro e al successivo decreto che, lungi dal prevenire analoghe tragedie e dal colpire i veri trafficanti, punta a restringere i criteri di assegnazione della protezione speciale; dal decreto anti-rave alla dichiarazione dello stato di emergenza per gli sbarchi; dalla manovra di bilancio al Documento di Economia e Finanza (DEF), che riducono la spesa per la sanità e per l’istruzione.
La Presidente del Consiglio ha ribadito più volte come obiettivo prioritario di questa legislatura una forma di presidenzialismo plebiscitario, che per sua natura tende a subordinare al potere esecutivo il potere del Parlamento e il potere giudiziario. Non a caso la riforma della giustizia prefigurata dal ministro Carlo Nordio tende a smantellare le garanzie di autonomia e indipendenza della magistratura, per non parlare del grave abbassamento della guardia sul contrasto alla mafia e alla corruzione, conseguente al ridimensionamento delle intercettazioni, al nuovo codice degli appalti, alla disincentivazione dei collaboratori di giustizia e alla cancellazione dei reati commessi dai colletti bianchi, a riprova di un falso “garantismo” utilizzato strumentalmente in difesa delle classi dirigenti. Le norme antimafia, conquistate negli anni a caro prezzo, dopo gli omicidi e le stragi mafiose dei nostri martiri, vanno difese e applicate nel rispetto dell’art. 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato»), e qualsiasi riforma della giustizia non deve intaccare il delicato equilibrio previsto nel titolo IV della Costituzione, che nel complesso garantisce l’autonomia e l’indipendenza della magistratura da ogni altro potere e lo svolgimento di un “giusto processo”. D’altra parte la riforma fiscale prefigurata dalla flat tax contraddice il principio costituzionale di progressività del sistema tributario, esasperando le già crescenti disuguaglianze sociali, acuite dall’irragionevole cancellazione del “reddito di cittadinanza” e dagli incentivi all’evasione fiscale (condoni e innalzamento del tetto all’uso del contante); mentre il regionalismo differenziato che chiede maggiori risorse e maggiori poteri per le regioni più ricche e più forti, accentua le disuguaglianze territoriali tra Nord e Sud del Paese, rompe il modello universalistico e solidaristico del welfare, che secondo il dettato costituzionale dovrebbe garantire “pari dignità sociale” (sanità, istruzione, lavoro, sicurezza sociale) per tutti i cittadini.
Inoltre le suddette politiche sull’immigrazione stravolgono anche i diritti umani fondamentali, quindi non solo dei cittadini italiani ma anche degli stranieri e dei migranti, per i quali la Costituzione prevede «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», oltre che il rispetto delle norme e dei trattati internazionali. A completare il quadro, il progetto meloniano di un “europeismo conservatore”, condizionato, per un verso, dal sovranismo nazionalista condiviso con i suoi alleati del Gruppo di Visegrad (il sostegno italiano all’Ungheria che discrimina le persone Lgbtq ne è un indicatore), e, per l’altro, dalla totale subordinazione al Patto Atlantico e agli USA, contraddice lo spirito della Costituzione, che «ripudia la guerra» e «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni, promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo» (cioè tipo l’ONU e l’UE, ma non tipo la NATO). Ma sul punto, per la verità, non si può non rilevare che il problema della dubbia compatibilità con l’art. 11 della Costituzione della partecipazione dell’Italia agli “interventi armati a fini umanitari” (Kosovo, 1999), alle guerre di difesa “globale” (Afghanistan, 2001) o “preventiva” (Irak, 2003), ed oggi all’invio di armi all’Ucraina (che si difende legittimamente dall’aggressione russa), non riguarda certamente solo l’attuale governo di destra, ma anche quelli di diverso colore politico che l’hanno preceduto.
Questo disegno complessivo di stravolgimento della Costituzione mette in pericolo la nostra democrazia. Il rischio non ci pare quello di un ritorno al fascismo storico, anche se Giorgia Meloni ed altri esponenti di spicco di Fratelli d’Italia – partito che rivendica l’eredità del MSI – non sembrano aver fatto, fino in fondo, i conti con la storia di quel partito e con i suoi intrecci col neofascismo eversivo, che ha indiscutibilmente svolto un ruolo importante in quel magma di servizi deviati italiani e stranieri, massoneria, mafie e referenti istituzionali e politici che ha dato vita alla “strategia della tensione” che ha insanguinato l’Italia, con il precedente di Portella della Ginestra nel 1947, da piazza Fontana fino alle stragi del ’92-’93. Ma il rischio concreto che corriamo oggi è quello di una trasformazione strisciante del nostro sistema democratico in senso autoritario, in una “democratura” simile a quella polacca o ungherese. Come ha scritto il costituzionalista Gaetano Azzariti, «la destra al potere dà seguito alla sua storia e l’accoppiata elezione diretta del Presidente della Repubblica (obiettivo perseguito sin dal tempo del MSI) e autonomia differenziata (versione temperata delle tendenze secessioniste della originaria Lega bossiana) rappresenta il naturale e decisivo traguardo».
Per queste ragioni riteniamo che le forze democratiche e progressiste, già da tempo divise e in crisi identitaria, debbano convergere nella battaglia di opposizione a questo disegno. L’elezione diretta di un uomo o di una donna solo/a al comando, sia nella versione presidenzialista (USA) che in quella semipresidenzialista (Francia), ha già dimostrato la sua fragilità democratica di fronte alle tendenze populiste e nazionaliste del “trumpismo” o del “lepenismo”. Così come l’idea che l’obiettivo della governabilità e della stabilità dei governi possa essere raggiunto, secondo i sistemi elettorali maggioritari, a scapito della rappresentatività dei parlamenti, si è già rivelata fallimentare non solo nell’ormai lunga transizione italiana, successiva alla crisi della “prima repubblica”, ma persino nel consolidato “modello Westminster” britannico. Se a queste considerazioni di merito, aggiungiamo il fatto che il governo Meloni vorrebbe fare dei cambiamenti così importanti della Costituzione, quali la forma di governo e la forma di Stato, in un Parlamento così poco rappresentativo, magari con l’appoggio di qualche pezzo dell’opposizione (la proposta del Sindaco d’Italia di Azione-Italia Viva già lo prefigura), per tentare di raccattare la maggioranza dei due terzi ed evitare il ricorso al referendum popolare, l’allarme non dovrebbe essere sottovalutato da nessun sincero democratico.
Ma è importante sottolineare che non si tratta di una battaglia puramente difensiva. Nello scorso settembre, durante la campagna elettorale, nella Lettera aperta ai delusi dalla politica della sinistra si auspicava che «le forze progressiste, nonostante le attuali divisioni, dovranno combattere una battaglia comune non solo per la difesa della Costituzione ma per una sua piena attuazione, per lo sviluppo di una democrazia progressiva che rimuovendo gli ostacoli di ordine economico e sociale consenta la realizzazione di un’effettiva uguaglianza dei cittadini». Anche noi riteniamo, come ha detto Liliana Segre nel discorso del 13 ottobre al Senato, che «la Costituzione è perfettibile e può essere emendata (come essa stessa prevede all’art. 138), ma […] se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione – peraltro con risultati modesti e talora peggiorativi – fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice». E condividiamo l’appello rivolto dopo la sconfitta elettorale a tutte le forze di sinistra e di progresso, da un gruppo di elettrici ed elettori di differenti culture, storie politiche e civili (tra cui Rosy Bindi, Vannino Chiti, Domenico De Masi, Gad Lerner, Tomaso Montanari, Giulia Rodano ecc.) per proporre di «assumere quale comune stella polare, ideale e programmatica, l’ancoraggio ai valori della Costituzione, la dignità del lavoro, la giustizia sociale e ambientale, la pace e il disarmo, la lotta contro le disuguaglianze, la cittadinanza dei ‘nuovi italiani’. Convinti come siamo che astensione ed esito del voto sono frutto di un divario profondo tra la vivacità del paese e la sua traduzione nella politica organizzata, consideriamo urgente fornire un solido riferimento politico alle istanze serie e radicali di cambiamento che vengono espresse da tante realtà civiche e sociali, in particolare delle donne e dei giovani».
Per tutte queste ragioni, da semplici cittadini, il 25 aprile abbiamo manifestato con l’ANPI, l’ARCI e la CGIL per la difesa e l’attuazione della nostra Costituzione nata dalla resistenza antifascista. E, adesso, vogliamo rivolgere un appello a tutti coloro che condividono lo spirito e i contenuti di questo documento perché contribuiscano alla realizzazione di momenti di confronto e convergenza tra tutte le espressioni dell’associazionismo e del volontariato laico e religioso, che già operano nei territori, per attuare concretamente i valori della Carta. Crediamo, infatti, che questa battaglia non potrà svolgersi soltanto nelle istituzioni, ma dovrà essere sostenuta da una partecipazione dal basso, dal conflitto sociale indispensabile a mantenere e sviluppare quel modello di democrazia progressiva configurato dalla nostra Costituzione, per farla vivere nei territori, partendo dalle “esperienze esemplari”, dalle “buone pratiche” già esistenti per diffonderle e generalizzarle ovunque sia possibile.
Palermo, maggio 2023
Giovanni Abbagnato, Leo Alagna, Riccardo Alessandro, Marina Allotta, Mario Azzolini Tommaso Baris, Giovanni Bellia, Augusto Cavadi, Beppe Cipolla, Gaetano Cipolla, Maria Adele Cipolla, Enrico Colajanni, Mari D’Agostino, Raffaella De Pasquale, Alessandra Dino, Vincenzo Gervasi, Filippo Grippi, Antonella Leto, Jesse Marsh, Ernesto Melluso, Giancarlo Minaldi, Francesco Petruzzella, Antonio Riolo, Claudio Riolo, Rosana Rizzo, Pippo Russo, Gaetano Sabatino, Alessandra Sciurba, Bonaventura Zizzo
Prime adesioni: Enzo Abbinanti, Monica Bacchi, Giuseppe Cabibbo, Rosanna Cataldo, Salvatore Cavaleri, Salvatore Cernigliaro, Rosanna Cataldo, Saverio Cipriano, Amalia Collisani, Giacomo Costadura, Andrea Cozzo, Clara Denaro, Pippo Di Falco, Daniela Dioguardi, Gabriella Filippazzo, Marina Gaziano, Maximo Ismael Ghioldi, Alfonso Maurizio Iacono, Fabio Lanfranca, Anna Leone, Renato Li Donni, Santo Lombino, Liborio Martorana, Alfio Mastropaolo, Calogero Messina, Clara Monroy, Daniela Musumeci, Giuseppe Nicolaci, Katia Orlando, Leoluca Orlando, Antonina Palazzotto, Manoela Patti, Dino Paternostro, Leonardo Aldo Penna, Vincenzo Pinello, Carmelo Piparo, Marco Pomar, Anna Puglisi, Rosario Rappa, Rossella Reyes, Giuseppe Riccio, Mario Ridulfo, Elio Rindone, Maria Concetta Rindone, Francesca Riolo, Francesco Paolo Riolo, Umberto Santino, Salvatore Saporito, Gioacchino Scaduto, Adele Sciacca, Giuseppe Silvestri, Nicola Sinopoli, Armando Sorrentino, Dario Sulis, Sandra Teroni, Pino Toro, Chiara Venturella, Roberto Zampardi, Franco Meloni.
Per sottoscrivere il documento inviare una mail a difesaattuazionecostituzione9@gmail.com
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Che succede in Ucraina e nel Mondo
Costituente Terra Newsletter n. 115 del 3 maggio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.296 del 3 maggio 2023
SCONFIGGERE LA RUSSIA?
Cari amici,
pubblichiamo sia nel sito di “CostituenteTerra” sia in quello di “ChiesadituttiChiesadeipoveri”, un appello “Per un’alternativa all’Impero – Le guerre promesse” proposto da Raniero La Valle e Domenico Gallo, insieme a Mario Agostinelli di “Laudato Sì’”. Esso apre uno sguardo sullo stato del mondo, quale oggi è nell’attuale distretta di guerra e di crisi ecologica, e quale potrebbe essere se attraverso uno straordinario impegno di forze politicamente ed eticamente responsabili si riuscisse a controllare i poteri selvaggi e a mettere al riparo il futuro.
L’attuale situazione è caratterizzata dal fatto che l’imminente controffensiva militare ucraina, più volte annunciata, ha per obiettivo, oltre il Donbass, la conquista della terra irredenta della Crimea, che la Russia considera parte del suo territorio anche in forza del referendum popolare del 2014 che ha sancito il suo ritorno alla Russia, benché non riconosciuto come legittimo dall’Occidente.
La riconquista della Crimea è considerata dall’Ucraina come il suggello della sua vittoria nella guerra in corso, e della corrispondente sconfitta della Russia. Essa è incoraggiata dalla Potenze euro-atlantiche che si sono fatte protagoniste e arbitre della guerra, dagli Stati Uniti col loro imponente sostegno finanziario, militare e di intelligence, al Regno Unito con munizioni ad uranio impoverito, alla Germania con i Panzer ammodernati rispetto a quelli impiegati nell’invasione della Russia durante la seconda guerra mondiale, alla Francia pur dichiaratasi contraria a farsi vassalla dell’America, all’Unione europea con la NATO che hanno assicurato il rifornimento di un milione di proiettili, all’Italia con armi rimaste ignote non avendone il governo voluto rivelare il segreto. Tutto ciò farebbe della eventuale sconfitta della Russia non una sconfitta provocata dalla piccola Ucraina attaccata, ma dalla grande coalizione degli Stati Uniti e dei loro “partners” ed alleati. Si tratta di una coalizione non occasionale e contingente ma sistemica: negli ultimi due documenti della Casa Bianca e del Pentagono sulle strategie “della sicurezza” e della “difesa nazionale degli Stati Uniti”, di cui si dà ampio conto nel nostro scritto citato all’inizio, questi alleati, e dunque anche noi, sono chiamati in causa 153 volte come partecipi del progetto americano di dominio mondiale.
La domanda riguardante il prossimo futuro è se la Russia accetterebbe una tale sconfitta, che secondo il piano annunciato da Biden le sarebbe inflitta per radiarla dalla comunità internazionale e ridurla alla condizione di paria, un disegno a cui il resto del mondo invece si oppone. Intanto per gli Stati Uniti, disfatta la Russia, “la sfida culminante” da vincere, se necessario anche con la guerra, nel secondo e ultimo tempo della “competizione strategica” per l’egemonia mondiale, sarebbe quella con la Cina, benché essa non abbia fatto ancora niente per meritarselo. Tale piano peraltro è già in via di esecuzione, come anche il tentativo di assuefarvi l’opinione pubblica: domenica scorsa ad esempio l’editoriale de “la Repubblica” illustrava “il timore per la Cina” e spiegava che il governo italiano, su richiesta del G7, ha già “liquidato come una carta morta” l’intesa firmata da Conte con Pechino sulla “Nuova Via della Seta”, per poi “rinunciarvi” a fine anno.
L’incognita del futuro, che è il futuro anche nostro, è come la Russia risponderebbe all’invasione della Crimea, non meno aggressiva per lei di quanto sia stata per l’Ucraina l’invasione del Donbass, stante la volontà di mettere in gioco la sua sopravvivenza. Se un simile pericolo minacciasse gli Stati Uniti, sappiamo quale ne sarebbe la reazione, anche con l’arma nucleare, come è ribadito nel documento sulla Difesa Nazionale del 28 ottobre scorso: gli Stati Uniti non adottano la politica del “Non Primo Uso” dell’arma nucleare perché essa “comporterebbe un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non-nucleari degli avversari che potrebbero infliggere danni di natura strategica agli Stati Uniti e ai loro alleati e partners”; così anche nella dottrina russa sul ricorso all’arma nucleare è previsto un suo uso preventivo quando ne risultasse a rischio l’esistenza stessa dello Stato, come è appunto nelle intenzioni dell’Occidente. La Russia non è l’Afghanistan o l’Iraq alla mercè dei suoi nemici; nella seconda guerra mondiale ha versato 26,6 milioni di morti per sopravvivere e, nonostante le sue attuali defaillances militari, è difficile pensare che le sue forze armate siano oggi inferiori a quelle di allora. È questa la guerra che si sta fomentando?
L’appello pubblicato nel sito si può firmare scrivendo a: ripudiosovrano@gmail.com . Pubblichiamo anche un articolo di Francesca Catalano su “Adolescenti a rischio e scenari da incubo” in relazione alle nuove tecnologie sull’umano.
Per partecipare invece alla “staffetta dell’umanità” per la pace del 7 maggio promossa da “servizio Pubblico” si può telefonare: WhatsApp +39 3420191578 comunicando nome e cognome, numero di telefono e residenza.
Con i più cordiali saluti,
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri – Costituente Terra
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PER UN’ALTERNATIVA ALL’IMPERO
3 MAGGIO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
Gli ultimi avvenimenti hanno aperto due visioni del mondo: un dominio universale o una pace nelle differenze. Un appello
La guerra in Ucraina è giunta ormai ad essere una guerra suicida: il Regno Unito combatte contro se stesso e la propria stessa immagine annunciando apertamente l’invio di proiettili anticarro ad uranio impoverito, l’Ucraina vuole riconquistare il Donbass grazie a queste armi con componenti nucleari capaci di contaminare l’ambiente per migliaia di anni e di intossicare chi lo inala o chi lo ingerisce: “si sospetta – spiega il pur simpatizzante Corriere della Sera – che arrivi a modificare il DNA, causando linfomi, leucemie e malformazioni dei feti”, tutto ciò a danno delle stesse popolazioni di cui si rivendica l’appartenenza all’Ucraina; la Russia sfida l’esecrazione universale minacciando per tutta risposta di schierare atomiche tattiche in Bielorussia.
A sua volta, dopo una debole tergiversazione, e con la spinta determinante del presidente Biden, il cancelliere tedesco Sholz ha dato il via libera alla distribuzione di carri armati tedeschi a tutti i fornitori di armamenti a Zelenski che insistentemente li chiede. In tal modo settant’anni dopo l’”Operazione Barbarossa” vediamo di nuovo i Panzer tedeschi avanzare nella pianura d’Ucraina per sconfiggere la Russia non più sovietica.
Questa volta però la regia è americana, gli attori ucraini, mentre ogni negoziato è escluso per legge dallo stesso Zelensky.
È difficile ignorare l’impatto emotivo di questa svolta. Si può avere la memoria corta e il cuore indurito, ma nelle viscere della terra corre un sussulto dinanzi al ritorno dei carri tedeschi proiettati a combattere contro i russi nel cuore dell’Europa, quando quell’evento fu al centro della seconda guerra mondiale e ne precedette di poco l’esito con la tragedia della bomba atomica, l’ingresso dell’umanità tutta nell’età del nucleare genocida, l’adozione di un rapporto internazionale postbellico temerariamente fondato sulla “reciproca distruzione assicurata”, fino alle attuali strategie di guerre preventive e di minacciato ricorso all’arma assoluta.
In tal modo va in scena il sempre esorcizzato e incombente conflitto tra la NATO e la Russia in Europa. E dopo? Potrà ancora sussistere l’ONU, quando gli alleati di ieri, diventati i nemici di oggi, dovrebbero stare insieme come Membri Permanenti del Consiglio di Sicurezza per salvaguardare la pace e la sicurezza del mondo, e invece sono intenti a distruggerle? Non a caso l’Ucraina contesta già oggi la presidenza russa pro-tempore del Consiglio di Sicurezza. E siamo sicuri che questa volta, per non scomparire, la Russia invece di versare nell’olocausto 26 milioni e 600.000 morti, non sarà indotta alla scelta disperata di difendersi col “primo uso” dell’arma nucleare?
E tutto ciò accade quando il mondo ha distolto lo sguardo dalla vera priorità, che è salvare la Terra dal disastro ecologico, e anzi va allo scontro proprio sul gas, l’energia. I beni vitali e la reciproca deterrenza nucleare.
È chiaro che la priorità è cercare le vie d’uscita dalla crisi in Ucraina. Se ne sarebbe potuto trovare la soluzione, se non fosse stata sacrificata a interessi estranei all’Europa, fino al 24 febbraio 2022, quando l’assalto militare russo ha gettato tutto nella fornace dello scontro armato; e forse all’inizio un negoziato sarebbe stato risolutivo. E ora ci sono di mezzo centinaia di migliaia di caduti, orfani, vedove, città distrutte, odi implacabili e l’accecamento, nella perdita di ogni verità, della maggior parte dei protagonisti, degli ispiratori, osservatori e narratori del conflitto. Però non possiamo non dire che giunti a questo livello di rischio, i protagonisti palesi od occulti della guerra la devono immediatamente fermare, anche contro ogni irredentismo territoriale: il negoziato è necessario e possibile, la ragione e il cuore hanno sempre la possibilità di risorgere.
Quale visione del mondo?
Qui però vogliamo interrogarci soprattutto sulle due visioni del mondo che gli ultimi avvenimenti hanno aperto davanti a noi, e che ci pongono davanti a scelte da cui dipende un lungo futuro, e forse la possibilità stessa di un futuro. Non si tratta infatti di dettagli, ma di un crinale a cui siamo giunti, da cui si potrebbe cadere in un precipizio senza rimedio, quel crinale che il vecchio La Pira, negli anni più paurosi della guerra fredda, chiamava il “crinale apocalittico della storia”, intendendo col termine “apocalittico” non la fine stessa della storia, ma lo svelamento dell’alternativa radicale cui essa era pervenuta mettendo la guerra come principio e signore di tutte le cose, e nello stesso tempo invitava i sindaci delle città opposte a Firenze.
Qual è la nostra visione del mondo, stando noi su questo crinale?
La visione del mondo che ci viene proposta con grande insistenza, e che ci viene attribuita come connaturale alla nostra civiltà e alla nostra storia, è la visione del mondo propria dell’Occidente, anzi dell’“Occidente allargato”, che ha oggi il suo centro in America, la sua potenza militare negli Stati Uniti e nella Nato, la vocazione a estendersi fino agli estremi confini della terra.
È in nome dei suoi valori che siamo chiamati alle armi, per “mettere il nostro mondo saldamente sulla strada di un domani più luminoso e pieno di speranza”, come promette oggi il presidente Biden nell’illustrare la “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”.
Di fronte a noi abbiamo però, gravemente inquietanti, due documenti fondativi che propugnano e illustrano questa visione del mondo e la assumono come normativa. Si tratta dei due documenti programmatici in cui, in piena guerra d’Ucraina, il 12 e 27 ottobre 2022, la leadership americana ha enunciato le due strategie fondamentali degli Stati Uniti: il primo è per l’appunto la “National Security Strategy” (october 2022 – The White House Washington) del Presidente Biden (in sigla NSS), il secondo ne è la pianificazione operativa sul piano militare, ed è la “National Defense Strategy of The United States of America 2022” (in sigla NDS) del capo del Pentagono Lloyd Austin, corredata da un dettagliato aggiornamento della “postura” o visione nucleare americana. Questa visione o “postura” ribadisce la decisione di non adottare la politica del “Non Primo Uso” dell’arma nucleare perché essa “comporterebbe un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità anche non-nucleari degli avversari che potrebbero infliggere danni di natura strategica agli Stati Uniti e ai loro alleati e partners”. È la conferma di quanto era già stato deciso dopo l’attacco alle Torri gemelle: la vecchia concezione basata sulla deterrenza e sulla risposta a un eventuale attacco altrui, non funziona più. Questa opzione non si può più fare perché non si può lasciare che i nemici colpiscano per primi. La miglior difesa è l’offesa. Quindi è prevista, di fronte a una minaccia, l’azione preventiva; la nuova strategia è di ricorrere se necessario per primi all’arma nucleare. scudo al cui riparo si possono condurre senza rischi per gli Stati Uniti le guerre convenzionali necessarie. E questa nuova dottrina, adottata ormai anche dalla Russia, fa sì che dietro questo scudo si pensa che si possnoa combattere tutte le guerre convenzionali, come si è sempre fatto in tutto il corso della storia.
Due documenti programmatici
Per quanto strettamente americani, questi due documenti, di fatto ignorati in Occidente, riguardano tutti, perchè investono non solo l’una o l’altra regione del globo, ma il destino del mondo come tale. E ciò è dimostrato dal fatto che di questo mondo gli Stati Uniti rivendicano globalmente la leadership, che vi installano le loro basi militari da per tutto, e che intendono disporne con l’affermazione che “non c’è nulla che vada oltre le nostre capacità: possiamo farcela, per il nostro futuro e per il mondo”; la posta in gioco sarebbe “di rispondere alle sfide comuni e affrontare le questioni che hanno un impatto diretto sulla vita di miliardi di persone. Se i genitori non possono nutrire i propri figli – specifica Biden – nient’altro conta. Quando i Paesi sono ripetutamente devastati da disastri climatici, interi futuri vengono spazzati via. E come tutti abbiamo sperimentato, quando le malattie pandemiche proliferano e si diffondono, possono aggravare le disuguaglianze e portare il mondo intero al collasso”. Sarebbe questa la preoccupazione degli Stati Uniti, la giusta ragione del loro intervento ma anche il motivo per cui il raggio d’azione entro cui la loro impresa, politica e militare, si deve esercitare è senza limiti territoriali: “Abbiamo approfondito le nostre alleanze principali in Europa e nell’Indo-Pacifico. La NATO è più forte e unita che mai, stiamo facendo di più per collegare i nostri partner e le nostre strategie nelle varie regioni attraverso iniziative come il nostro partenariato di sicurezza con l’Australia e il Regno Unito (AUKUS). E stiamo forgiando nuovi modi creativi per lavorare in comune con i partner su questioni di interesse condiviso, come con l’Unione Europea, il Quadrilatero Indo-Pacifico, il Quadro economico Indo-Pacifico e il Partenariato per la prosperità economica delle Americhe”; e da lì lo sguardo si spinge fino all’Artico.
Si postula dunque un unico potere che si protende alla totalità del mondo, nella presunzione che questo debba avere un unico ordinamento politico, economico e sociale, corrispondere a un unico modello di convivenza umana; e questo è un presupposto che da tempo gli Stati Uniti avevano posto a base della loro relazione col mondo, da quando, dopo l’11 settembre 2001 e lo shock dell’attacco alle Due Torri, avevano enunciato l’ideologia a cui doveva essere conformato l’assetto del mondo, perché questo corrispondesse agli interessi e alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America. Secondo quella ideologia il solo modello valido per ogni nazione sarebbe riassumibile in tre termini: Libertà, Democrazia e Libera Impresa; dunque un modello che mette insieme una definizione antropologica, una indicazione di regime politico ed una forma obbligatoria di organizzazione economico-sociale, e questo composto era dichiarato come normativo per tutti, sulla scia del “progetto”, pubblicato nell’ottobre del 2000, del “nuovo secolo americano”. Dunque non venivano contemplati tanti possibili regimi politici, economici e sociali, corrispondenti eventualmente a diverse teorie. Ce ne sarebbe uno solo che comporta un modello umano, quello dell’individualismo liberale, un modello politico, quello della democrazia occidentale, ed un modello economico, quello del capitalismo d’impresa. Altri modelli non sono ammessi e compito degli Stati Uniti sarebbe di diffondere questo modello in tutto il mondo.
Si potrebbe dire, fin qui, che non possiamo fare obiezioni: ognuno può avere la propria visione del mondo e auspicare e operare perché si realizzi.
Una chiamata alle armi anche per noi
Il problema è però che gli Stati Uniti vogliono fare tutto questo non per conto loro, ma coinvolgendo “l’impareggiabile rete di alleanze e partnership dell’America”. Questi partners nello stabilire l’ordine del mondo sono chiamati in causa 167 volte nei due documenti del presidente Biden e del Pentagono e attraverso la NATO in questa chiamata alle armi siamo coinvolti anche noi.
Dunque la cosa ci riguarda; e da partners e alleati, e non da sudditi o “vassalli”, come ha detto Macron, dobbiamo decidere se questa è la visione del mondo che abbiamo anche noi, se questo è il mondo che vogliamo costruire e qual è la nostra idea dello “stato del mondo” in cui ci troviamo ad operare.
La supremazia americana
La premessa da cui parte Biden e su cui tutta la strategia americana è fondata, “la nostra visione nel tempo”, come egli la definisce, è che “l’era post-Guerra Fredda è definitivamente finita”. Sarebbe una buona notizia se annunziasse la fine della guerra come tale. Purtroppo invece non è così: essa sancisce solo la fine della sua modalità come “guerra fredda”, cioè come una guerra sempre minacciata e mai combattuta, con armi sempre pronte all’uso ma accumulate e tenute ferme negli arsenali. Paradossalmente invece quella che ne deriva è una guerra liberata, non più trattenuta dai rischi di uno scontro nucleare, tornata ad essere libera all’esercizio, come non lo era stata all’epoca della competizione tra I blocchi, fino alla rimozione del muro di Berlino, e poi subito era stata recuperata come necessaria, buona e giusta e persino umanitaria con la prima guerra del Golfo, già nel 1991.
La seconda premessa è che liberato dai vincoli della guerra fredda, l’ovvio modo degli Stati, anzi delle maggiori Potenze, di relazionarsi tra loro, debba essere e sia quello di “una competizione strategica per plasmare il futuro dell’ordine internazionale” e, per gli Stati Uniti, quello di “far avanzare gli interessi vitali dell’America, posizionare gli Stati Uniti per superare i concorrenti geopolitici, affrontare le sfide comuni. Non lasceremo il nostro futuro vulnerabile ai capricci di chi non condivide la nostra visione di un mondo libero, aperto, prospero e sicuro”, dice Biden. Dovranno essere pertanto gli Stati Uniti a vincere in questa competizione: “Essi guideranno con i nostri valori”, “nessuna nazione è meglio posizionata degli Stati Uniti per avere successo”, naturalmente col corteo dei loro seguaci, di “tutti coloro che condividono i nostri interessi”: dunque si parte vincenti e lo spazio di tempo in cui ciò deve avvenire è “il prossimo decennio”, che il documento programmatico del presidente Biden definisce come “decisivo” e che poi nella programmazione della Difesa di Lloyd Austin si estende a comprendere “due decenni” destinati peraltro a prolungarsi nei decenni successivi. Dunque è un testo sul futuro del mondo.
La sfida culminante: la Cina
Questo è il mondo come è visto nel tempo, ma come è visto nello spazio, come viene proposto al nostro sguardo (e alle nostre decisioni) di oggi? Esso è un mondo di cui una parte (peraltro minore) si identifica con la democrazia, ed è contro l’altra, quella delle autocrazie, considerate costitutivamente minacciose e aggressive.
Nel documento del ministro della Difesa Lloyd Austin, esso è considerato come “l’ambito di sicurezza” in cui deve operare l’insieme delle Forze Armate americane (Joint Force), ovvero è il mondo come gli Stati Uniti se lo immaginano e vogliono che sia. È un mondo diviso tra quattro grandi soggetti considerati come contrapposti e in lotta fra loro: 1) Gli Stati Uniti e i loro alleati e partners; 2); la Cina; 3) la Russia, la Corea del Nord e le organizzazioni violente e estremiste, cioè il terrorismo; 4) la “zona grigia” che non è integrata in nessuno dei tre campi suddetti. L’Europa è aggregata al primo mondo, attraverso la NATO.
E subito, sia nel documento della Casa Bianca, sia in quello del Pentagono, vengono designati I due “competitori strategici”, quelli con cui dovrebbe disputarsi il dominio del mondo: e il maggiore non è, a sorpresa, il nemico tradizionale degli Stati Uniti, l’altra grande Potenza della seconda Guerra mondiale, la Russia, i cui “limiti strategici – sostiene Biden – sono stati messi in luce dopo la sua guerra di aggressione contro l’Ucraina”; ora il vero nemico è la Cina. “La Russia – dice Biden – rappresenta una minaccia immediata e continua all’ordine di sicurezza regionale in Europa ed è una fonte di disturbo e instabilità a livello globale, ma non ha le capacità trasversali della Repubblica Popolare Cinese”.
Pertanto è la Cina a rappresentare la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio”. È questa la ragione per cui il piano di pace presentato da Xi Jinping per l’Ucraina, non è stato preso in considerazione.
È singolare che mentre per la Russia Biden abbia buon gioco nell’attribuirle “una minaccia immediata al sistema internazionale libero e aperto come ha dimostrato la sua brutale guerra di aggressione contro l’Ucraina”, ragione per cui essa doveva essere ridotta per punizione alla condizione di “paria” (che nel sistema indiano delle caste significa essere gettati fuori dall’umanità e dalla storia) per la Cina non c’è alcuna motivazione che sia addotta per doverla combattere, se non il fatto che essa sarebbe “l’unico concorrente che ha l’intenzione di rimodellare l’ordine internazionale e, sempre più spesso, ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.
Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden, pochi giorni dopo, il 27 ottobre, il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, illustrava in che modo l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; esso sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”, come del resto in ogni altro conflitto che si trovino a combattere.
Guerra e Pace
ALIENUM EST A RATIONE, la libertà ripudia le guerre
di Giancarla Codrignani
Dall’Osservatore Romano del 18 aprile: “In Svezia esercitazioni militari con Ucraina e altri dodici Paesi. Sono “le più grandi” da venticinque anni. “Insieme con le forze armate svedesi e ucraine ci saranno inoltre quelle di altri 12 Paesi: StatiUniti, Regno Unito, Finlandia, Polonia, Norvegia, Estonia,Lettonia, Lituania, Danimarca, Austria, Germania e Francia. I militari impegnati nelle esercitazioni saranno 26.000. Lo scopo è quello di migliorare il potenziale delle truppe nel contrastare un eventuale attacco armato al Paese. Le esercitazioni, che vedranno il coinvolgimento di forze di terra, aria e mare e che si concluderanno a maggio, si terranno in varie parti della Svezia e coinvolgeranno Esercito, Aeronautica, Marina e guardia nazionale svedese”.
Avevo scritto Se non mi persuadete, non ci sto: questa mi sembra una risposta. Che la guerra è una follia l’ha detto da qualche secolo Erasmo da Rotterdam che ben conosceva la diversità culturale tra Oriente e Occidente le cui chiese, detentrici del messaggio di pace cristiano, nelle loro divisioni, avevano mantenuto la relazione almeno formale, oggi malauguratamente interrotto all’interno dell’ortodossia. Tuttavia per amore di libertà, nei paesi democratici, si può accettare perfino una guerra.
Assolutamente no trovarcisi dentro ignorandone non solo le ragioni, ma le modalità che appaiono dettate da incoscienza o impotenza. La Nato non è schierata in campo, anche se le dichiarazioni di Stoltenberg non lo escludono e può bastare un passo falso della Polonia, il paese più affidabile – ospita un milione e mezzo di profughi e ha già dichiarato la disponibilità a fornire all’Ucraina i MiG 29 in suo possesso – perché la Nato diventi operativa. I governi membri sono d’accordo whatever it takes senza parere previo dei loro Parlamenti?
Come individua sto soffrendo il disastro degli ucraini per una guerra che sono costretta a credere “scoppiata” il 24 febbraio 2022 a causa dell’aggressione della Russia che ha deliberatamente varcato i confini con truppe che nessun sistema di controllo aveva intravisto in tempo per attivare la diplomazia. Dopo un anno e qualche mi è cresciuta la preoccupazione: alienum a ratione non è più la guerra, ma la regressione alla legge del taglione, la divulgazione della paura, la reticenza a esplicitare gli obiettivi che si perseguono di una strategia destinata a pesare nel futuro dell’intera Europa.
Non possiamo accusare la Nato se l’Europa non ha una Difesa comune. Tuttavia la Nato comprende 26 paesi, tutti europei, tranne il Canada e gli Usa, e tutti sono alleati nel Patto Atlantico. Non è un patto tra uguali: pazienza, anche questo non è nuovo. L’Europa è debitrice agli Stati Uniti della liberazione dal mostro nazifascista e del rientro nel sistema democratico dei valori e dei diritti della sua tradizione occidentale. Ma non può valere l’interpretazione che nel 1946 ne dava il cardinale Spellman: “non è per difendere la mia fede che io condanno il comunismo ateo, ma in quanto americano io difendo il mio paese; perché essendo un nemico del cattolicesimo, il comunismo è una provocazione rivolta a tutti coloro che credono nell’America e in Dio”. America first, ma non in Europa. Gli europei sanno distinguere la democrazia occidentale dal dispotismo russo e non intendono difendere i diritti del popolo ucraino con una guerra a tempo indeterminato per delega, perché assumono il rischio di un allargamento della conflittualità e perfino del ricorso al nucleare.
Infatti nel coacervo culturale dell’impero ex-zarista ed ex-sovietico, oggi Federazione Russa governata da Putin, albergano lingue e tradizioni diverse con tatari e calmucchi ancora memori del Tamerlano e Gengiskan: l’Azerbaijan potrà aver voglia di autonomia, le tensioni balcaniche sono sempre attive e il Kosovo non è tranquillo, mentre gli un tempo sconosciuti Nagorno Karabak, Abcazia, Ossezia del sud (Georgia) e Transnistria rimandano all’Armenia, alla Georgia e alla Moldova (ex Bessarabia).
Mentre nel 1932 era in corso a Ginevra una conferenza sul disarmo per evitare altre guerre in Europa, una conferenza di Dietrich Bonhoeffer ricordava che “le relazioni tra due popoli hanno una profonda analogia con le relazioni tra due singole persone”. Ma nel caso di danni o violenze tra persone, la civiltà dei rapporti sposta il conflitto al tribunale, sostituto universale della voglia di farsi giustizia da sé, mentre tra Paesi l’onore offeso richiede il tributo del sangue “a prescindere”. Eppure i morti non risorgono, le spese in armamenti vengono sottratte al welfare: oggi sullo sfondo le Banche Nazionali navigano a vista e Janet Yellin, segretaria al tesoro americano cerca rapporti tranquilli con la Cina nonostante Taipei, mentre Biden, per contrappeso alle ingenti spese militari per l’Ucraina, ha varato l’Inflation Reduction Act (370 mld.) a sostegno di imprese e lavoratori senza tagliare né Medicare né pensioni e promuove il buy made in Usa. A danno dell’Europa che dovrà farsi carico della ricostruzione, risarcimento dovuto dopo la solidarietà armata, rinascita produttiva e temuta corruzione (la ‘ndrangheta deve già essere sul posto).
Bisogna riconoscere che i costi di una guerra, dopo la grave pandemia, danneggiano l’Europa – in campagna elettorale per il nuovo Parlamento – sia sul campo dell’Unione dove l’onda populista ha prodotto tensioni identitarie nazionaliste e sovraniste che attentano allo Stato di diritto, sia perché ritardano la crescita politica dell’Unione, che, mentre stava decollando in autorevolezza e potere, rischia il declassamento. Piero Calamandrei, temeva che un’alleanza atlantica di cui si parlavaritardasse la più necessaria “Federazione occidentale europea, politicamente e militarmente unita e indipendente, né alleata né ostile, ma mediatrice tra i due blocchi trasformando gli Stati europei in satelliti di uno dei due blocchi”.
La situazione si è fatta ancor più pericolosa, se è vero che la Nato si interessa troppo del Sudest asiatico: il presidente del Giappone Kishida è venuto due volte in Europa, mentre il segretario Stoltenberg si recava in Corea e Giappone. Se a qualcuno piacesse “liberare Taiwan”, i fatti precederanno un’altra volta le informazioni? Infatti è dai tempi della Corea che le guerre non si dichiarano più: avvengono. E avvengono in modo strano: non in tutti i posti in cui la libertà e la democrazia vengono offese, ma random, dove “piace”, un like. I paesi “che non contano” e sono disastrati (o occupati, vedi i curdi) oggi si chiamano Siria, Sudan, Birmania. Di altri governati da dispoti – Libia, Egitto (Giulio Regeni) o l’Arabia Saudita (Khashoggy) – detentori di gas e petrolio sostitutivi delle forniture russe, apprezzate fino al 24 febbraio o della Turchia (che si avvale di iniziative mediatorie che potevano essere prese perfino dall’Italia) o dell’Afganistan, già assistito da Usa e Nato e improvvisamente abbandonato ai talebani, ci riferiamo ai loro diritti?
Si aggiunge la considerazione sull’evidenza dei limiti delle “Due Grandi Potenze”, in vista dell’avanzata senza fretta de “La Cina”, la terza temuta unica. Non fanno più troppo rumore le accuse di comunismo: per la Cina come niente fosse, in Russia Putin l’ha rinnegato e rimpiange di non aver aderito alla Nato nel 2007. La globalizzazione poteva – se non fosse stata condannata ad essere solo finanziaria – far capire che siamo già diventati cittadini del mondo e per questo nessuno vorrebbe vedere un’altra guerra mondiale: diventerebbe mondiale in senso proprio perché collegherebbe i frammenti di quella già in corso secondo papa Francesco.
Cerchiamo di non dare altre preoccupazioni al Pentagono: i generali che conoscono bene le guerre ormai temono soprattutto le scelte dei politici.
Anche perché Macron – la Francia è potenza nucleare e fa bene a prendersi cura dello stato delle cose – è stato in Cina per mantenere relazioni pacifiche dichiarando che i francesi non intendono essere eterodiretti. Come dire: se la Cina aggredire Taiwan, Xi Jinping è un nemico come Putin? Eppure Macron è stato sgridato.
Chi ha sperimentato la seconda guerra mondiale non può dimenticare che il fascismo e il nazismo sono andati al potere, nonostante ideologie razziste e necrofile, per regolari elezioni democratiche; ma sa bene che gli italiani non potevano combatterla da soldati da soldati della Repubblica Sociale, bensì solo da partigiani: Tina Anselmi obbligata con la scuola ad assistere all’impiccagione di 31 arrestati fece la sua scelta. Gli alleati – inglesi e americani democratici insieme con russi comunisti (totalitari, ma secondo l’ideologia finalizzata alla liberazione dei lavoratori dall’oppressione di classe) – condannarono la Germania sconfitta a subire l’occupazione, risparmiata all’Italia ugualmente sconfitta, perché i partigiani ne avevano salvato la dignità. Ma proprio perché quella catastrofe ha dimostrato che si possono perdere, il valore dello stato democratico e il possesso della pace vanno difesi “prima” dalla buona politica: nazionale, europea e internazionale. La condivisione dello Stato di diritto è l’antidoto alla guerra, che non va mai legittimata in quanto tale. Sono state tante le esperienze – in Vietnam, in America Latina, in Iraq e Iran, in Sudafrica, a Srebrenica – che hanno reso “necessari” massacri, stragi, distruzioni di paesi lasciati cinicamente soli. Di conseguenza è legittima la domanda: che senso ha avuto aiutare paesi poveri in difficoltà con le “missioni militari” e le armi, quando le tensioni e le violenze interne – ben note – andavano prevenute (perché previste) con tempestivi aiuti alimentari e non con governi delegati a mantenere l’ordine? A ben considerare ancora una volta problema vero non è la contrapposizione Est/Ovest, ma quella Nord/Sud, i ricchi contro i poveri. Nel 2023 sostenere con le armi l’autodeterminazione del popolo ucraino contro un despota al potere (da vent’anni!) con cui l’Europa – e la stessa Ucraina – manteneva reciprocità di interessi, conferma il criterio arcaico della guerra: giusta o non giusta, intanto prevalgono gravissime offese ai diritti umani, non partono i cereali da spedire al Sud del mondo dal Mar Nero minato, le Marine nordiche e russe mantengono l’allerta nel Mare Artico, ignare di stare correndo nel frattempo più rischi nel Mediterraneo: prevediamo di scivolare nel conflitto, pur di non assumerci la difesa dei diritti prima che vengano lesi? Non è che anche i nordici vivrebbero meglio se si occupassero dell’Africa?
Ormai sono ben altri gli interessi che premono, anticipo di scontri da non risolvere militarmente: l’ambiente esige che tutti cooperino insieme a salvare il pianeta. La guerra non solo è il più grande inquinante fisico (e morale), ma distrae dall’urgenza di risolvere le priorità di un impegno colossale con metodi da gestire necessariamente in comune. Eppure tutti si stanno riarmando (l’annuario Sipri è scandalizzato dagli aumenti 2022) e la ricerca tecno-scientifica produrrà armi “autonome” ancor più sofisticate e il caccia Tempest – un velivolo che è un intero sistema – sostituirà l’F35, che sostituiva l’Eurofighter a sua volta sostituto del Mrca: non disponibile oggi, si propone per la prossima volta. Ormai si è aggiunta l’arma elettronica, una strategia in più che può creare il caos nelle retrovie nemiche e paralizzare banche, ferrovie, istituzioni. Potrebbe essere l’unica arma. Devasterebbe la casa del nemico, ma non verserebbe sangue. E l’uomo, invece, “vuole” deliberatamente il sangue.
Pochi anni fa l’aspirazione universale delle libertà occidentali aveva fatto immaginare addirittura la fine della storia e sognare una liberaldemocrazia estesa al sistema-mondo nel benessere della pace. La fine della storia come metafora era simbolo di un’umanità desiderosa di vivere in pace. Ma il fare giustizia ha ri pristinato la solita volontà di guerra: come quando la Crimea si ribellò al suo zar e Cavour mandò La Marmora con 15.000 soldati piemontesi, oggi Zelinsky dice che la Crimea è sua, ucraina. Per quanto si possa far durare la guerra, alla fine ci sarà solo un tavolo con gli stessi due contendenti. E, dopo il conteggio delle vittime, le decisioni sui confini e le indipendenze, i grandi dicano ai piccoli quale guerra dobbiamo temere.
° docente, politologa, giornalista, già-parlamentare
Il 25 aprile 2023, nel segno di un antifascismo che riconosce la sovranità e l’autonomia di ciascuno, la bellezza del dovere politico consapevole è il diritto dei popoli alla cura della pace da parte delle istituzioni.
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ALIENUM EST A RATIONE, la libertà ripudia le guerre
di editor 26 Aprile 2023 su Smips.
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Eventi in programma
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Dal primo al quattro maggio 2023
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Mercoledì 3 maggio 2023
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“Alienum est a ratione”. Significa: “È fuori dalla ragione”, “fuori di testa “, “roba da persone disturbate mentalmente”. È un’espressione usata dal Papa San Giovanni XXIII nell’Enciclica Pacem in Terris (1963), nella quale viene detto che ritenere che le guerre possano portare alla pace è appunto “alienum est a ratione”.
Appello. Staffetta per la Pace
Michele Santoro ha lanciato l’idea di una staffetta per la pace (Staffetta dell’Umanità). Una camminata che unirà tutte le regioni italiane, in contemporanea. Nel senso che non è una staffetta in cui ci si passa il testimone, ma in cui ci si muove tutti contemporaneamente.
Ecco le modalità organizzative dell’Associazione Compagnia dei Cammini:
Abbiamo studiato un percorso di 4000 km circa, che abbiamo suddiviso in transetti da 25 km. Ogni transetto avrà un coordinatore, e servirà trovare un certo numero di camminatori per ogni transetto per coprire tutti i km di quel transetto. 1-2 km a testa. Tutti insieme, allo scoccare delle ore 12 di domenica 7 maggio 2023. Servono quindi almeno 4000 persone, ma contiamo di essere tanti di più! E poi ci si radunerà a gruppetti per camminare ancora un po’ insieme, e parlare di pace.
I camminatori sono gente pacifica, gente di pace. Sappiamo bene che la Russia ha invaso in modo assurdo l’Ucraina, ma sappiamo anche che ogni morto è un gesto contro natura. È ora di dire forte: basta guerre. Nella storia i grandi cambiamenti si sono spesso ottenuti con camminate di protesta, come ben ci ha raccontato Rebecca Solnit nel suo fondamentale libro “Storia del Camminare”. Pensiamo a Gandhi, alle tante marce per la pace della storia, fino a quella che tanti di noi hanno percorso in passato, la Perugia – Assisi. È ora di rimettersi in marcia.
Ci rivolgiamo anche alle tante associazioni e organizzazioni che si occupano di camminare: bando alle divisioni, bando ai protagonismi, è ora di unirsi, facciamo rete, date anche voi una mano alla riuscita di questa grande manifestazione. Facciamo vedere che chi cammina, conta.
Appello ai cittadini, alla società civile e ai leader politici
Appello a chi è contrario all’invio di armi in Ucraina per dar vita a una staffetta dell’umanità da Aosta a Lampedusa per camminare insieme, unire l’Italia contro la guerra, per riaccendere la speranza.
Dopo più di un anno di guerra in Ucraina e centinaia di migliaia di morti, mettere fine al massacro, cessare il fuoco e dare inizio a una trattativa restano parole proibite. Si prepara, invece, una resa dei conti dagli esiti imprevedibili con l’uso di proiettili a uranio impoverito e il rischio di utilizzo di armi nucleari tattiche.
I governi continuano a ignorare il desiderio di pace dei popoli e proseguono nella folle corsa a armi di distruzione sempre più potenti.
Mentre milioni di persone sono costrette dalle inondazioni, dalla siccità e dalla fame, a lasciare le loro terre, centinaia di miliardi di euro vengono spesi per aumentare la devastazione dell’ambiente e spargere veleni nell’aria. L’intera Ucraina è rasa al suolo, un macigno si abbatte sull’Europa politica, aumentando le disuguaglianze, peggiorando le condizioni di vita dei lavoratori, flagellando le famiglie con l’aumento dei beni alimentari, della benzina, dell’energia e delle rate dei mutui.
Putin è il responsabile dell’invasione ma la Nato, con in testa il Presidente degli Stati Uniti Biden, non sta operando soltanto per aiutare gli aggrediti a difendersi, contribuisce all’escalation e trasforma un conflitto locale in una guerra mondiale strisciante.
Dalla stragrande maggioranza dei mezzi d’informazione viene ripetuta la menzogna dell’Occidente che si batte per estendere la democrazia al resto del mondo. Dimenticando l’Iraq, l’Afghanistan, la Libia e il Kossovo.
Si vuole imporre l’idea che non esista altro modo di porre fine alla guerra se non la vittoria militare di uno dei due contendenti e che l’Italia non possa far altro che continuare a inviare armi, limitandosi a invocare una soluzione diplomatica dai contorni indefiniti.
Noi pensiamo che l’Italia debba manifestare in ogni modo la sua solidarietà al popolo ucraino abbandonando, però, qualunque partecipazione alle operazioni belliche. Vogliamo tornare ad essere il più grande Paese pacifista del mondo, motore di una azione per la Pace e non ruota di scorta in una guerra.
Sappiamo che sono in moltissimi a condividere la nostra rabbia nel vedere sottratta alle nuove generazioni l’idea stessa di futuro, mentre si diffonde la sfiducia in una politica privilegio di pochi e il governo si mostra sempre più subalterno agli Stati Uniti e incapace di difendere gli interessi degli italiani e dell’Europa.
Ma siccome chi non è rappresentato e non costituisce una forza viene spinto a credere di non poter più incidere nella vita della Nazione, seguendo l’esempio del Movimento in Francia, vi chiediamo di reagire alla sfiducia, di usare il cammino come strumento di Pace, di costruire insieme una staffetta dell’umanità che parta da Aosta, Bolzano e Trieste fino a Lampedusa.
Questo appello è rivolto a chi sente il bisogno di fare qualcosa contro l’orrore della violenza delle armi e ha voglia di gridare basta.
Sembra impossibile che i senza partito, i disorganizzati, riescano in un’impresa così difficile. Ma se ciascuno di voi offrirà il suo contributo e se i leader e le organizzazioni che si sono pronunciati contro l’invio di armi daranno una mano, tutti insieme potremo farcela.
Hanno firmato l’appello
L’appello vede la confluenza di iniziative e posizioni anche diverse: l’elenco dei firmatari è ampio, compresa la notorietà di molti di loro. Ci sono, tra gli altri, Alessandro Barbero, gli eurodeputati eletti nel Pd Pietro Bartolo e Massimiliano Smeriglio, Fausto Bertinotti, Ginevra Bompiani, Massimo Cacciari, Donatella Di Cesare, Luigi de Magistris, Anna Falcone, Elio Germano, Fiorella Mannoia, Ugo Mattei, Tomaso Montanari, Maddalena Oliva, Moni Ovadia, Davide Riondino, Carlo Rovelli, Riccardo Scamarcio, Vauro, Mimmo Lucano, padre Alex Zanotelli, gli amici e compagni di Aladinpensiero, Democraziaoggi, il manifesto sardo, la CSS, il Comitato Prepariamo la Pace e molti altri.
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Per aderire scrivere alla mail
staffetta.pace@gmail.com
Scrivendoci Nome e Cognome, numero di telefono e località di residenza.
Il percorso della staffetta è stato realizzato dall’Associazione Compagnia dei Cammini.
Approfondimenti: https://www.cammini.eu/blog/staffetta-della-pace
Eventi consigliati
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Lunedì 1° maggio 2023
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La Sagra di Sant’Efisio 367 sarà documentata dal fotografo ufficiale della nostra news Renato d’Ascanio Ticca.
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Mercoledì 3 maggio 2023
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Sa Die de sa Sardigna
Nella ricorrenza del 28 aprile, riportiamo un paragrafo. comprendente lo “scommiato” dei piemontesi dalla Sardegna, tratto dal libro di Andrea Pubusa su Giommaria Angioy, edito da Arkadia. Ringraziamo Andrea Pubusa per l’autorizzazione alla pubblicazione.
Le cinque domande: la carta rivendicativa dei ceti moderati-parassitari
In seguito alla cacciata dei francesi dalla Sardegna il re Vittorio Amedeo III, si congratulò con i sardi, ma non soddisfò le aspettative delle forze che avevano assicurato, armi in pugno, il respingimento sul campo. Ci furono sì alcuni riconoscimenti ma non verso i sardi che avevano combattuto. Il contegno irritante del rappresentante del re in Sardegna fece accrescere il malcontento popolare nei confronti del governo piemontese.
Il 29 aprile 1793 i rappresentanti degli Stamenti si riunirono per presentare una formale petizione al re.
Le richieste, dette “cinque domande” perché formulate in cinque punti, costituiscono una piattaforma politica, secondo molti studiosi a forte connotazioni autonomistiche; esse prevedevano:
1) il ripristino della convocazione decennale dei Parlamenti, interrotta dal 1699;
2) la riconferma degli antichi privilegi, soppressi pian piano dai Savoia nonostante il Trattato di Londra;
3) la concessione ai Sardi di tutte le cariche, ad eccezione della vicereale e di alcuni vescovadi;
4) la creazione di un Consiglio di Stato, a fianco del viceré, per la gestione degli affari ordinari;
5) la creazione in Torino di un Ministero per gli Affari di Sardegna.
Sulle cinque domande molto si è discusso e si discute. Molti vedono in essa la Carta dell’autonomismo sardo e danno rilievo alla contrapposizione con la Dominante piemontese. Vi è stato chi (Umberto Cardia) ha visto in esse il riemergere “dell’idea e del sentimento di autonomia“, la cui continuità, in Sardegna, è da ricercarsi in quella ideale Carta dei diritti che, “proposta alle soglie del ‘500, dopo la fine della resistenza degli Arborensi, da quel momento continua a proporsi tenacemente in tutti i parlamenti e fuori dei parlamenti, nell’epoca spagnole e in quella del dominio piemontese…. Per svalutarla la storiografia savoiarda e quella che ne ha accolto acriticamente l’eredità anche in Sardegna hanno continuato e continuano ancor oggi a parlare, a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici rivilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari”. E soggiunge: “Che nel compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola confluissero interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale non pare potersi mettere in dubbio. Ma è altrettanto vero che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento come in altri del passato (per esempio nel periodo 1664-68 della lotta antispagnola), sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“.
Questa posizione trova poi una base giuridica nel dibattito sviluppatosi sul concetto e il valore delle leggi fondamentali (Birocchi). Si muoveva dal loro carattere pattizio, perché avevano formato oggetto di trattati internazionali e si giungeva alla conclusione ch’esse erano immodificabuki unilaterlamente. Prima la pace fra gli aragonesi e gli arborensi con cui la Sardegna passava alla Spagna e poi con gli accordi di Vienna e il Trattato di Londra del 1718 che la trasferiva ai Savoia. Il Trattato disponeva (art. X) la rimessione del possesso dell’isola al re sabaudo con l’intera sovranità mentre i piivilegi degli abitanti del Regno “seront conservée comme ils en ont jouis sous la dominatio de Sa Majesté Impèriale et Catholique“. Ed effettivamente Vittorio Amedeo II insediandosi nel Regnum Sardiniae s’impegno a rispettare solennemente “leges, privilegia et statuta” nella stessa forma in uso nella dominazione precedente. Ora questi obblighi nascono non da atti del Regno, ma da trattati internazionali e si traducono nel riconoscimento di uno statuto speciale di autonomia, ossia nel mantenimento di esso quale era venuto enucleandosi prima delle cessione dell’isola ai Savoia. L’intangibilità del vincolo così assunto dal re sabaudo è indiscutibile, anche perché garantita dalle potenze firmatarie dei trattati. Non c’è dubbio che questa ricostruzione sul piano giuridico formale è ineccepibile, il Regnum aveva istituzioni e leggi non disponibili dal re sabaudo, e, dunque, non si può negare ch’essa mettesse la Sardegna al riparo da incursioni legislative o peggio di fatto del re, tuttavia – come empre in queste questioni – bisogna vederne il contenuto. Qualche anno dopo Francesco d’Austria d’Este, dopo un suo viaggio in Sardegna, formulava una Descrizione della Sardegna, e nel capitolo sugli Stamenti, elencava le pricnipali leggi fondamentali del Regnum. Ne indicava dodici, ra le prime, la terza, prevede il sistema feudale, con annessa la riserva della potestà giuridizionale di prima istanza in capo ai baroni e in seconda istanza ai magistrati regi. Non mancavano i prilegi nobiliari e quelli ecclesiastici (Birocchi). Prende risalto in questo contesto, per gli effetti che avrà nel c.c. triennio rivoluzionario sardo, l’inserimento fra le leggi fondamentali della permanenza della titolarità in capo a baroni spagnoli dei feudi sardi, a garanzia dei quali si ergeva la Spagna, che si era addirittura garantita la reversibilità della Sardegna in assenza di discendenti maschi dei re sabaudi.
L’individuazione delle leggi fondamentali del Regno, pur con tutta la buona volontà, rende difficile parlare di Carta dei diritti e non sembra frutto del desiderio di svalutazione parlare “a proposito dei Cinque punti della Carta dei diritti della Sardegna del 1793-94, di rivendicazioni cetuali e corporativi, dirette alla restaurazione di antichi anacronistici privilegi o espressione di una famelica, egoistica scalata agli impieghi civili e militari” (Cardia). L’individuazione delle leggi fondamentali recepite nelle cinque domande svela anche il contenuto del “compromesso raggiunto tra classi e ceti sociali dell’isola”, ci svela quali “interessi concreti, personali e di gruppo, di natura economica e sociale” vi siano confluiti. Si ripete: il sistema feudale, i privilegi dei nobili e del clero. Se è, come è, così, si può affermare “che gli interessi particolaristici venivano, in quel momento, […] sentiti e proposti come l’espressione degli interessi generali dell’intera collettività“? Certo ogni gruppo dominante scambia i propri per interessi generali. Ma il sistema feudale e i diritti dei baroni ricomprendono quelli dei vassalli? E in quel particolare momento storico li ricomprendevano se è vero come è vero che le campagne sopratutto nel Nord Sardegna erano in grande fermento contro quel sistema e quei diritti? Il compromesso, dunque, riguardava feudatari, nobili, clero e ceti professionali urbani con la rivendicazione della privativa degli impieghi, ma escludeva due dei protagonisti di quel tormentato periodo: i vassali e il mondo delle campagne e gli artigiani. Guarda caso i ceti che danno vita alla rivoluzione dal basso in quegli anni. Di più gli interessi di questi ceti sociali sono incompatibili con i privilegi feudali e nobiliari e in larga misura anche con quella parte dell’intellettualità delle professioni intimamente legata a quelli. La domanda di privativa degli impieghi è compatibile con gli interessi dei ceti subalterni solo in riferimento all’intellettualità culturalmente materialmente affrancata dal sistema feudale e nobiliare. Di per sé non contrasta con gli interessi degli artigiani, e più in generale con le esigenze dei ceti popolari urbani, e neppure con quelli dei vassalli. I punti di contrasto sono gli altri, in particolare i privilegi.
Non si è lontani dal vero, dunque, se si afferma che il compromesso alla base delle cinque domande vede come protagonisti i feudatari disponibili a “limitare” i loro privilegi a quelli previsti all’origine dalla carte di concessione, il clero e il ceto professionale subalterno ad essi. Ne rimangono fuori gli intellettuali indipendenti, i vassalli e i ceti artigianali e popolari delle città, anche se su questi ultimi i primi esercitano una certa egemonia.
Una conferma del carattere parziale e classista delle cinque domande viene dalle dieci domande degli artigiani e dei ceti popolari cagliaritano. Al culmine della mobilitazione popolare, tre giorni dopo l’uccisione del Pitzolo e l’arresto di Paliaccio, destinato alla stessa fine per mano dei capipolo, viene consegnata al Parlamento una Rappresentanza del popolo, con dieci richieste secche: I) accrescerela forza delle milizie cittadine; II) rifiutare l’arruivo di truppe provenienti dalla terraferma; III) togliere i cannoni (che il marchese della Planargia voleva utilizzare contro i sobborghi) dal Castello e collocarli fra le batterie della Maruna; IV) sequestrare le carte del Pitzolo e del Paliaccio; V) ripoporre la proposta del Consiglio di Stato; VI) sottrarre la materia hiuridica all’intendenza di finanza e trasferirla alla Reale Udienza; VII) avanzare di nuovo la richiesta della orivativa degli impieghi per i nazionali sardi, senza alcuna limitazione; VIII) reiterare la domanda dell’istituzione di un ministero per gli affari della Sardegna, con eslusione di qualunque altro ufficio che a Torino si occupasse dei problemi isolani; IX) nominare come ambasciatori degli stamenti Gianfranco Simon (abate Salvenero e Cea, membro delle sstamento ecclesiastico ed esponente della componente dei novatori) e Ludovico Baylle (giurista, stiorico, bibliofilo e antiquario di provata fede antiassolutistica) affinché ripresentassero al sovrano le domande del regno; X) vietare tassativamente a chiunque di condannare i protagonisti delle giornate del 29 aprile e del 6 luglio. Il documento chiedeva infine una rigorosa vigilanza “sulla condotta delle persone poco affette alla Nazione” e una richiesta da parte degli stamenti di una sollecita convocazione delle Corti per delberare dulle domande.
Non c’è dubbio che in queste richieste vi sia la pressione per una radicalizzazione della battaglia neu ruguardi del governo di Torino (Francioni), ma ciò che colpisce è quanto resta in esse delle cinque domande o meglio quanto di queste viene omesso. Ad una veloce analisi si può dire che alcune rivendicazioni sono strettamente connesse alle sollevazioni in corso: l’amnistia per i protagonisti di quei fatti, l’incrmento della milizia urbana, non si dimentichi comandata da Vincenzo Sulis, anch’esso protagonista di quelle giornate, e il rifiuto di armate provenienti dal Piemonte. Si voleva cioè scongiurare non solo una repressione giudiziaria, ma anche un intervento contro il popolo delle forze armate, sul preupposto che le milizie cittadine non avrebbero svolto quella funzione, avendo esse stesse contribuito alla conquista del Castello e allo scommiato dei Piemontesi e del vicerè. Delle cinque domande venicani reiterate quelle non sontrastanti con gli interessi popolari: la privativa degli uffici pubblici ai sardi, la creazione del Consiglio di Stato a Cagliari e il Ministero per gli affari della Sardegna a Torino. Nella stessa direzione si può considerare la richista di sottrazzione del contenzioso spettante all’intendenza di finanza per affidarlo alla Reale Udienza. Uno spostamento razionale di uno spezzone importante di attività giurisdizionale dall’amministrazione alla Magistratura ordinaria (una riforma che andrà curiosamente a buon fine solo in epoca recente in ossequio allaCostituzione repubblicana che preclude funzioni giurisdizionali aad organi amministrativi). Manca invece nelle domande di parte popolare la conferma della seconda domanda, quella contenente la richiesta di salvaguardia dei privilegi garantiti dalle leggi fondamentali del Regno, ossia il mantenimento del sistema feudale e dei privilegi nobiliari, previsti nel Trattato di Londra. Credere che questa sia una dimenticanza e non una omissione discussa e deliberata è una forzatura. No, bisogna ammettere che la parte popolare di Cagliari si batteva per l’autonomia del regno, ma non per i privilegi dei baroni e dei nobili, che mentre il vento della Grande Rivoluzione spazzava l’Europa non risparmiava di spandere, se non adesioni esplicite, positive suggestioni anche nelle forze più combattive della nostra isola. E, infatti, se i popolani cagliaritani non erano, almeno nelle componenti più agguerrite, dalla parte dei barones, certo non erano con loro i vassalli che anzi erano in fermento in tutta l’isola e da alcuni anni davano vita a lotte di grande forza e di indubbia intelligenza.
Come sempre accade in qusate vicende, la situazione era più complessa perché ogni ceto era attraversato da divisioni interne. E così fra i baroni c’era l’ala integralista, rappresentata principalmente dagli spagnoli e da quelli del Capo di Sopra che difendevano lo stato di cose esistente, compresi gli abusi, ossia le pretese non fondate sulle concessioni originarie, mentre ve ne erano altri, specie nel Capo di Sotto, che erano disponibli a rinunciare ai privilegi non concessi ma introdotti con la prepotenza. Fra gli ecclesiastici c’era poi il basso clero che faceva lega coi vassalli e fu uno dei soggetti che indirizzò e guidò le rivendicazioni insieme all’intellettualità indipendente, che si distingueva da quella delle professioni, parte della quale era legata ai feudatari per via delle lucrose cause feudali. Ma fra gli stessi artigiani, i sanculotti sardi, erano attraversati da divisioni. In una lettera del 6 giugno 1795, ossia un mese prima dell’uccisione di Pitzolo e di Paliaccio, avendo conoscenza di ciò che bolliva in pentola, “i maggiorali degli argentieri. di Sant’Erasmo, dei cavatori, dei bottai, dei vasellai, e mattonieri, dei fabbri ferrai, dei pescatori, dei faegnami, dei calzolai, e degli ortolani, prendevano rispoutamente posizione contro le voci di sommossa, i libelli eversivi, i discorsi di incitamento al tumulto ed i pressi esorbitanti stabiliti, secondo gli estensori frlla missiva, da alcuni artigiani nella vendita dei prodotti” (Francioni). Insomma, c’erano settori della componente più combattiva e decisa, che mettevano le mani avanti e si chiamavano fuori dalla mobilitazione, manifestando adesione alle posizioni moderate eistenti negli stamenti e negli organi di governo.
Questa situazione frammentata spiega l’altalenante andamento delle lotte dal 1794 al 1976 e il tragico sbocco repressivo degli anni successivi.
Si obietta che nel ‘93 sardo è ben individuabile uno spirito nazionale, ed è vero, ma di quale nazione? Di quella che faceva dire a Luigi XVI davanti al Parlamento di Parigi il 19 novembre 1787 “que le roi est souverain de la Nation et ne fait qu’un avec elle” o è quella contenuta nella risposta che il 14 febbraio 1790 l’assemblea gli risponde con la seguente apostrofe rivolta al popolo francese: “La nation c’est vous; la loi c’est encore vous; le roi n’est que le gardien de la loi”. Ora non sembra azzardato pensare che nelle 5 domande i proponenti pensassero ad una “nazione” simile quella che aveva in testa Luigi, mentre nelle compnenti popolari più agguerrite delle città e delle campagne e in una parte dell’intellettualità sarda protagonista del triennio 93/96 andava certamente formandosi e consolidandosi l’idea di nazione enucleata pochi anni prima dall’assemblea francese.
Tornando alle cinque domande, gli Stamenti decisero di mandare a Torino una delegazione di sei membri, due per ogni Stamenti, incaricata di presentare e illustrare al sovrano le rivendicazioni. I sei rappresentanti partirono per Torino divisi in due gruppi: il primo si imbarcò il 29 giugno da Porto Torres ed era composta dal rappresentante dello Stamento militare Girolamo Pitzolo e dal rappresentante dello Stamento reale Antonio Sircana; il secondo partì da Cagliari il 18 luglio e ne facevano parte i rappresentanti dello Stamento ecclesiastico Pietro Maria Sisternes e il vescovo di Ales Michele Aymerich, il rappresentante dello Stamento reale Giuseppe Ramasso e il rappresentante dello Stamento militare Domenico Simon.
Il 4 settembre tutta la delegazione si riunì a Torino, ma il re Vittorio Amedeo III era impegnato nella guerra contro la Francia presso il quartier generale a Tenda; perciò non li ricevette subito e dispose, con un regio biglietto spedito al vicerè, la sospensione delle sedute degli Stamenti. Il viceré Balbiano non consegnò subito agli Stamenti il biglietto regio riguardante l’ordine di chiusura delle sedute stamentarie in quanto prima voleva prima assicurarsi che il Parlamento sardo votasse il donativo. Dopo il voto sul donativo il vicerè comunicò ai deputati degli Stamenti la chiusura delle sessioni, che venne accolta con molto disappunto, sebbene tutti e tre gli Stamenti alla fine abbiano obbedito all’ordine del sovrano.
A Torino l’ambasciata stamentaria fu ricevuta dal re solamente tre mesi dopo il suo arrivo e per l’intercessione del cardinale Costa d’Avignano, arcivescovo di Torino. Il re accolse così i deputati sardi e comunicò loro di voler fare esaminare le cinque domande da una commissione, presieduta proprio dall’arcivescovo. In effetti la discussione si accese sul punto che maggiormente interessava la rappresentanza sarda: la domanda del privilegio delle mitre e degli impieghi. Il dibattito fu vivace. Si prospettò alla commissione il pericolo di un sommovimento in caso di risposta contraria, perché ritenuto ingiusto e ontrario ai privilegi del Regno. Don Domenico Simon, ch’era uno storico oltre che un valente giurista, non mancò di richiamare l’origine della pretesa: nientemeno che la pace conslusa il 31 agosto del 1386 fra Pietro IV d’Aragona e gli ambasciatori di Eleonora d’Arborea. Fu lì che il re di Spagna assunse l’obbligo di accordare ai sardi il privilegio degli impieghi. Ma da parte della commissione si eccepì che nel fare quella concessione “non si voleva però astringere, nè legare il suo potere che dovea essere libero“; insomma “lo Senyor Rey […] non se streyneria com no “vulla ligar qui den esser franch“, non volle legare ciò che doveva essere libero. ( pag. 53 Scano). Insomma la risposta, salva un’apertutra sul Consiglio di Stato, fu negativa su tutto il fronte e sopratutto sul privilegio degli impieghi, ch’era ciò che più interessava. L’affronto sostanziale fu poi accompgnato da uno sgarbo formale, ma non meno grave. Il Ministro Graneri comunicò la rispsta direttamente agli stamenti, senza averla prima trasmessa ai rappresentanti.
La risposta negativa e lo sgarbo suscitarono il malcontento generale. Fu così che maturò l’idea della cacciata dei piemontesi dall’isola. Il vicerè per bloccare ogni manifestazione popolare sul nasce ebbe la pessima idea di ordinare l’arresto dell’Avv, Vincenzo Cabras e del genero avv. Efizio Pintor ch’erano stati i maggiori ispiratori delle cinque domande anche perché erano particolarmente interessati ad una: il privilegio degli impieghi. Fu così che la popolazione insorse e in breve invase il palazzo reale e disarmò i soldati e le guardie. Vincenzo Sulis, capo carismatico dei miliziani, prese il controllo militare del Castello. In base alle leggi fondamentali del regno, non potendo il vicerè e il comandante delle armi esercitare le loro funzioni, la Reale Udienza assunse immediatamente le redini del governo come nel 1668 dopo l’uccisione del viverè Marchese di Camarassa. I piemontesi furono tutti arrestati e rinchiusi in vari conventi. Il vicerè e il reggente fu concesso di stare nel palazzo reale in stato di arresto. Al segretario Valsecchi, distintosi per la sua ottusità, non fu concesso neanche questo riguardo e fu ronchiuso nella Torre dell’Aquila.
La Reale Udienza, data la situazione straordinaria, decise in buona sostanza di riunirsi in permanenza, così anche Giommaria Angioy fu della partita. Le riunioni, aperte al popolo, presero subito decisioni inportanti; la distribuzione di pane al popolo e alle milizie, il pronto imbarco dei piemontesi, ad eccezione dell’arcivescovo per rispetto e di alcuni funzionari come ostaggi fino al rientro da Torino dei deputati sardi. Lo scommiato del viceré e degli altri piemontesi avvenne la mattina del 30 cosìcché la Reale Udienza nella seduta del pomeriggio poteva annunziare che “si era eseguita l’imbarcazione del balio Balbiano e del Generale Le Flecher accompagnati da vari membri dei tre stamenti e da altre persone ragguardevoli del popolo con tutto silenzio e decenza“. (Scano, pag. 60). Ed è proprio questa compostezza che dimostra “la serità e la sincerità dei promotori e la maturità del popolo alla soluzione dei problemi cittadini (Scano). In realtà, prova un altro elemento rilevante, e cioè che la maggioranza stamentaria e la Reale Udienza avevano pienamente in mano la situazione, riuscendo a gestire con autorebolezza una situazione del tutto eccezionale, nientemeno che l’arresto e l’espulsione del vicerè, sull’onda di una sollevazione popolare. Il popolo era padrone della piazza, ma non dello sbocco da dare all’azione del novimento. Quanto ai protagonisti il Manno annovera fra i promotori anche quella magagna dell’Angioy, ma non fornisce prove. In realtà, l’uomo di Bono si occupa della sua coltivazione di cotone, della fabbrica delle berrette, nella quale aveva investito forti somme, ma sui fatti della primavera incide soltanto dalla sua postazione di membro della Reale Udienza, insomma in modo impersonale, concorrendo alle deliberazioni di un organo collettivo.
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Venerdì 28 aprile 2023
Sa Die de sa Sardigna
TORRAMUS A CAMMINARE PO SA DIE BENIDORA, di Salvatore Cubeddu su Fondazione Sardinia.
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Sabato 29 aprile 2023
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Lunedì 1° maggio 2023
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IL NOSTRO 25 APRILE – LA NASCITA DI UNA REPUBBLICA
Costituente Terra Newsletter n. 114 del 26 aprile 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.295 del 26 aprile 2023
IL NOSTRO 25 APRILE – LA NASCITA DI UNA REPUBBLICA
Il 25 aprile è stato ricordato felicemente in tutta Italia con una viva e vasta partecipazione popolare. Di seguito nell’ambito dei nostri rapporti di collaborazione con le News Costituente Terra e ChiesadituttiChiesadeipoveri, pubblichiamo la celebrazione che ne è stata fatta a Reggio Calabria da Raniero La Valle.
Inoltre segnaliamo dal sito di Costituente Terra una sintesi di Massimo Nava per il “Corriere della Sera” di un saggio su “L’Occidente minoritario” dell’ex ministro degli esteri inglese David Miliband, tratto dal sito “Other News”.
Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Una celebrazione a Reggio Calabria
IL NOSTRO 25 APRILE
26 APRILE 2023 / EDITORE / DICE LA STORIA /
La nascita gemellare della Repubblica e della Costituzione. Partigiani ed Esercito di liberazione. Gli ideali traditi: la revoca del ripudio della guerra, le armi all’Ucraina e la mancata accoglienza dei profughi e dei migranti. La nuova Liberazione
di Raniero La Valle
Pubblichiamo il discorso tenuto la mattina del 25 aprile nei Giardini Comunali di Reggio Calabria per la celebrazione unitaria della festa della Liberazione
Che cosa siamo venuti a celebrare? Stiamo celebrando la nascita di una Repubblica. Potremmo anche dire: la nascita di una Costituzione, perché Repubblica e Costituzione sono per noi dei sinonimi, “simul stabunt et simul cadent” dicono i giuristi, stanno insieme o cadono insieme, non possono stare l’una senza l’altra. Per questo quelli che tradiscono la Costituzione, che la deformano, che la violano, tradiscono la Repubblica o, come dicono loro, la Nazione.
Ma, come tutte le creature, anche la nostra Repubblica ha avuto una gestazione, ha sofferto le doglie del parto, e questa lunga e dolorosa gestazione fu l’antifascismo e la Resistenza. Durante la Resistenza ci fu l’azione partigiana contro le truppe di occupazione tedesche che marciavano in via Rasella a Roma. Per rappresaglia il giorno dopo, il 24 marzo 1944, i Tedeschi uccisero 335 uomini alle Fosse Ardeatine, che stanno a Roma, non stanno a Praga. Chi erano questi 335 uccisi, 10 per ognuno dei 33 tedeschi caduti, poiché questo era il calcolo della loro equazione tra Tedeschi e Italiani?
Io ne conoscevo uno, che abitava nel mio palazzo, in via Bosio 2, avevo allora 13 anni. Lui, la vittima, si chiamava Genserico Fontana, fu prelevato dai Tedeschi dal carcere di Regina Coeli, sotto gli occhi della moglie in lacrime, anch’ella detenuta per ragioni politiche. Chi era Genserico Fontana? Un italiano, certo, ma era un carabiniere di 26 anni, aveva organizzato un gruppo di partigiani per la Resistenza, catturato, si era rifiutato di svelarne i nomi, dopo mesi di carcere finì alle Fosse Ardeatine, di lui è rimasta una medaglia d’oro alla memoria e una targa sulla casa di via Bosio. Era dunque un italiano? Sì, ma era un carabiniere del Regio Esercito, un antifascista, un partigiano, un combattente per la libertà. Perché bisogna dire che anche dal Regio Esercito molti si schierarono contro i Tedeschi e si unirono ai partigiani. Dopo l’8 settembre l’esercito fu chiamato a combattere contro i Tedeschi, ci furono scontri a porta San Paolo, a Roma, a Cefalonia, nell’Egeo, a Corfù, a Spalato, in Sardegna, 87.300 furono i militari italiani caduti tra l’autunno del 1943 e la primavera del 1945.
Questo glielo diciamo a Giorgia Meloni, perché sappia da dove è nato il suo governo, sappia perché lei oggi può governare dopo il lungo tragitto fatto da “underdog”, come dice lei, dalla Garbatella a palazzo Chigi. Può governare perché in questo Paese con la lotta contro il fascismo abbiamo conquistato la democrazia, perchè con la Liberazione anche le donne sono state liberate, hanno ottenuto i diritti politici e sono state chiamate votare, non a dare figli alla Patria, anche senza lavoro, senza asili e senza cure adeguate, e se tutti oggi sono cittadini è perché abbiamo fatto una Costituzione che non è “afascista”, come voleva il monarchico on. Lucifero alla Costituente, ma antifascista.
Perché non possiamo dimenticare l’antifascismo? Per due ragioni. Perché l’antifascismo non è un’ideologia, ma è una categoria interpretativa della storia come il Rinascimento, come il Risorgimento, come la decolonizzazione.
E la seconda ragione è che, proprio per questo, i fascisti li avremo ancora con noi, come è successo anche dopo la Liberazione. Oggi il presidente del Senato La Russa si ferma a Trieste nel suo viaggio per Praga per recarsi ad altri luoghi di sterminio, ma a Trieste egli dovrà fare i conti col ricordo di Ettore Messana che era stato questore fascista di Trieste ma prima aveva installato e diretto la Questura di Lubiana in Slovenia durante l’occupazione italiana, organizzando camere di tortura, espulsioni, internamenti e persecuzioni di ebrei e di altri cittadini sospetti : fu indicato come criminale di guerra dalla Commissione delle Nazioni Unite ma poi riciclato e inviato come Ispettore generale di Polizia in Sicilia, dove ha trescato con la mafia favorendo nei processi i padroni espropriati dei feudi e rapportandosi con la banda Giuliano fino alla strage di Portella della Ginestra.
Ma la Resistenza non è stata solo italiana. È stata anche la Resistenza europea. E basta leggere le lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana e di quelli della Resistenza europea per vedere come gli ideali degli uni e degli altri, il sogno per cui morivano, erano gli stessi, era il sogno della libertà, della giustizia, della pace per l’Italia e per ognuno dei Paesi europei coinvolti nel “flagello della guerra” che per due volte nel corso di quella generazione, come dice lo Statuto dell’ONU, aveva portato indicibili afflizioni all’umanità.
È per questa ragione che noi possiamo dire che non solo l’Italia, ma l’Europa, sta tradendo oggi il suo passato, che essa tradisce le ragioni per cui è nata, che sono la pace e l’accoglienza, l’apertura agli altri mondi. Lo ha fatto con la guerra in Jugoslavia, lo ha fatto sobillando e partecipando alla guerra del Golfo per la distruzione dell’Iraq, lo ha fatto abbandonando per 70 anni i palestinesi al loro destino di oppressione e di apartheid, e lo sta facendo ora come dispensiera di armi e partecipe di una guerra ad oltranza con la Russia, che è anch’essa Europa. Una guerra devastante che nella sua forma più cruenta certamente è stata iniziata l’anno scorso dalla Russia ma come guerra etnica era in corso dal 2014 nel Donbass ed è stata stimolata dalla NATO , andata ad abbaiare alle ultime frontiere rimaste sicure della Russia, come ha detto papa Francesco. Ed è questa una guerra che non può finire, perché essa non si può concludere con una vittoria, ma con una vera pace, con negoziati equi e capaci di mediare le ragioni degli uni e degli altri. La guerra si confermerà altrimenti come strutturante dell’ordine internazionale, e la prossima partita, una volta messa fuori gioco la Russia, come dicono i recenti documenti ufficiali pubblicati dalla Casa Bianca e dal Pentagono, sarà con la Cina, e questacomunque la si dovrà giocare e vincere, se inevitabile anche con la guerra, perché l’idea del mondo è che esso debba essere unificato sotto un unico potere, un solo dominio; questa è la “sfida suprema”, e a questa dovremmo partecipare anche noi, l’Occidente.
Ma noi per questo celebriamo il 25 aprile. Perché noi abbiamo un’altra idea del mondo. La nostra scelta è per la pace, è per la fedeltà ai valori e agli ideali della Resistenza italiana e della Resistenza europea. Noi pensiamo piuttosto che si debbano sviluppare le istituzioni e l’ “acquis communautaires” dell’ordinamento delle Nazioni Unite.
Nella Costituzione italiana c’è scritto che l’Italia ripudia la guerra. È un termine forte, vuol dire rompere un legame indissolubile, che nella storia c’è sempre stato, della politica con la guerra. Non c’è scritto che l’Italia ripudia una guerra sì e l’altra no, ripudio la guerra di aggressione ma non la guerra umanitaria, ripudia la guerra come mezzo per la soluzione delle controversie internazionali ma non la guerra per la democrazia, per affermare i valori dell’Occidente, per distruggere la Russia, la Cina e fare un unico Impero.
C’è scritto che ripudiamo la guerra e tutte le guerre, compresa la guerra contro i migranti che stiamo combattendo quando impediamo i soccorsi nel Mediterraneo e quando ai migranti togliamo la protezione che chiamiamo “speciale” e invece dovrebbe essere ordinaria e senza limiti, perché l’immigrazione è un fenomeno strutturale, e se 10 anni fa c’erano 60 milioni di migranti oggi ce ne sono 100 milioni. La nuova lotta di Liberazione la dobbiamo fare oggi, guardando questo mare, che dobbiamo rendere un mare di umanità e di accoglienza.
Certo i migranti sono diversi da noi, parlano altre lingue, praticano altre religioni, spesso hanno anche un altro colore. Ma la pace si fa appunto con quelli che sono diversi da noi, perché l’alternativa è una sola: o gli altri li riconosciamo come eguali, come compagni, come “fratelli” della stessa umanità, tutti “nati da donna”, come noi, oppure li trattiamo come nemici. La pace vuol dire non avere nemici. Cutro non si deve ripetere, la domanda di vita, di libertà, di accoglienza, di giustizia, viene oggi da lì. Da questo mare che da qui contempliamo.
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