Editoriali

Quale Italia, quale Sud, quale Sardegna?

img_3586Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica

Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]

SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008

img_3904Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.

Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.

Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.

PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.

NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.

Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.

CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.

Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.

CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»

Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*

L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Arcivescovo di Napoli

*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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Che succede in Spagna e in Europa

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 127 del 24 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 308 del 24 luglio 2023
Newsletter n.308 del 24 luglio 2023

LA DESTRA NON SFONDA

Cari amici,
Si potrà dire quello che si vuole sui risultati delle elezioni politiche in Spagna, cercando di dipanare l’intricata matassa della geografia politica spagnola, ma una cosa è certa, che la destra non ha sfondato, e non ha sfondato perché la destra non ha futuro; sua non è la pace, né essa ha per sua patria la Terra che geme, e se ha una dignità, non rispetta la dignità delle persone, a cominciare dai migranti, dagli stranieri, dai nemici, dai “diversi”.
Si sono offesi perché Patrik Zaki uscito dal carcere egiziano dove era ingiustamente detenuto, ha preso un aereo di linea per tornare in Italia invece dell’aereo di Stato, ma la vera notizia è un’altra: mentre l’Europa, a cominciare da Ursula von der Leyen, tresca con la Tunisia, per ottenere che non faccia passare i migranti in cambio di soldi, la tragedia dei disperati che sprofondano nel mare di sabbia del Sahara prima di poter raggiungere il mare per un altro naufragio, ha la sua foto-choc, come la chiama l’”Avvenire”. Ha fatto il giro del mondo infatti l’immagine simbolo del dramma che stanno vivendo i migranti subsahariani cacciati dalla Tunisia e deportati nel deserto, al confine con la Libia: la foto di una donna trovata con la faccia in giù sulla sabbia ardente insieme alla sua bambina, entrambe morte di caldo e di sete nel vano cammino verso un altro futuro: “Abbraccia la bimba, sua figlia, scrive l’Avvenire: un ultimo gesto di protezione, forse per ripararla dal sole a picco, dal caldo o per consolarla. Hanno fame e sete, non hanno nulla. La foto riflette e testimonia l’orrore delle violenze e delle deportazioni che stanno subendo i migranti subsahariani, gli africani con la pelle nera, in Tunisia. Rintracciati per strada, caricati sui pullman e abbandonati nel deserto al confine con la Libia. Qui, senza acqua né cibo, sono in pochi a sopravvivere e a essere messi in salvo da chi li trova, sfiniti”. È una prova di quanto già scriveva Franco Valenti nell’articolo pubblicato nel nostro sito, “La Meloni a Tunisi, Farli morire non solo in mare ma nel deserto”.
Ha parlato di loro papa Francesco nell’ “Angelus” di domenica scorsa, proprio mentre a Roma si teneva una conferenza sui migranti (e una controconferenza promossa dalle ONG) : “Desidero attirare l’attenzione sul dramma che continua a consumarsi per i migranti nella parte settentrionale dell’Africa. Migliaia di essi, tra indicibili sofferenze, da settimane sono intrappolati e abbandonati in aree desertiche. Rivolgo il mio appello, in particolare ai capi di Stato e di Governo europei e africani, affinché si presti urgente soccorso e assistenza a questi fratelli e sorelle. Il Mediterraneo non sia mai più teatro di morte e di disumanità. Il Signore illumini le menti e i cuori di tutti, suscitando sentimenti di fraternità, solidarietà e accoglienza”.

C’è un precedente di questo appello: come ha raccontato venerdì scorso l’Avvenire il Papa ha voluto ricevere Bentolo, un giovane camerunense che era stato catturato dai trafficanti in Libia e venduto ai guardiani di Stato che lo avevano portato in diversi luoghi di detenzione. Da uno di questi egli era riuscito a contattare con un telefonino don Mattia Ferrari, il giovane sacerdote modenese che opera con la organizzazione umanitaria Mediterranea Saving Humans, così che si venne a sapere di molti migranti che dopo maltrattamenti, abusi, torture, erano in fin di vita. Poi di lui si persero le tracce, quando un giorno la nave di soccorso dell’organizzazione umanitaria tedesca Sea Watch salvò nel Mediterraneo decine di profughi caduti in acqua da un barcone, tra cui c’era proprio Bentolo. Quando papa Francesco ha saputo del suo arrivo in Italia ha chiesto di poterlo incontrare, ciò che è avvenuto a Santa Marta con una delegazione di Mediterranea tra cui lo stesso don Ferrari; il papa ha rivolto molte domande a Bentolo e chiesto ai presenti quali notizie giungessero dalle coste maghrebine. Nel corso del colloquio il Papa ha parlato della situazione dei migranti spinti e abbandonati nel deserto tra Tunisia e Libia mentre gli sono state fatte vedere alcune immagini eloquenti delle violenze in atto. Nel fare un resoconto di questo incontro, don Mattia Ferrari ha poi scritto domenica : «Quello che sta avvenendo è gravissimo. Le milizie tunisine stanno catturando i migranti subsahariani e li stanno deportando nelle zone desertiche, dove stanno morendo di sete. Alcune persone sono intrappolate lì da quasi due settimane. Nei contatti che si riescono ad avere con loro dicono: “Stiamo morendo uno alla volta, aiutateci”. In un audio una giovane donna supplica tutti: “Aiutateci, non ci abbandonate qui”. In sottofondo si sentono bambini che piangono. Tutto questo avviene mentre l’Italia e l’Europa siglano l’accordo con la Tunisia con cui l’Europa le dà soldi in cambio del blocco dei migranti. Oggi il presidente tunisino Saied è a Roma alla Conferenza promossa dal governo italiano per la gestione dei flussi. Insomma, l’Italia e l’Europa anziché chiedere alla Tunisia di smettere di intrappolare i migranti nel deserto e di farli morire di sete le danno soldi perché continui a farlo. Tutto questo è di gravità inaudita e se non ci opponiamo non saremo più umani e nemmeno cristiani».

Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra

Che succede nel Pianeta?

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QUALE SOVRANO

Cari amici,
dal vertice di Roma del novembre 1991 quando la NATO decise di volgersi ad opere di pace a quello di Washington dell’aprile 1999 in piena guerra jugoslava, e a quelli successivi, ogni riunione apicale della NATO ha segnato un cambiamento di fase. Ma il vertice di Vilnius dell’11 luglio ha segnato un cambiamento d’epoca. E che questo non sia solo programmato, ma già stabilito, e consista nell’istituzione di un sovrano universale, lo veniamo a sapere dal comunicato stampa diramato a conclusione del vertice. I comunicati stampa danno notizia non di cose che verranno ma di cose già avvenute, e di queste, a Vilnius, ben oltre la pura e semplice informazione sull’evento, ne sono state registrate molte: si tratta infatti di un “comunicato” che in inglese consta di 33 pagine e 13.289 parole. Nessuno lo conosce perché, al di là delle decisioni sull’Ucraina, non è stato pubblicato sui giornali, perciò ve lo riferiamo qui [https://www.chiesadituttichiesadeipoveri.it/il-comunicato-stampa-del-vertice-di-vilnius/].
Il comunicato sostanzialmente è, con i dovuti adattamenti, la ricezione e la condivisione da parte di tutti gli Stati membri della NATO (ci siamo anche noi) delle due dichiarazioni di intenti americane sul mondo prossimo venturo, emanate dalla Casa Bianca e dal Pentagono nell’ottobre scorso, la “Strategia della sicurezza nazionale” e la “Strategia della difesa nazionale” degli Stati Uniti. E il cambiamento d’epoca consiste in questo, che si chiude il lungo periodo storico in cui la guerra, secondo il detto di Eraclito (VI sec. a. C.), è stata sovrana del mondo, “re e padre di tutte le cose”, e se ne apre un altro in cui la guerra istituisce come suo vicario un sovrano universale che mediante la guerra governa il mondo come se il suo fosse l’unico mondo, conformato a un sistema di guerra e fatto a sua immagine. Questo sovrano, ed è questa la novità di Vilnius, non sono gli Stati Uniti, come una facile polemica sosteneva fin qui, ma è, con gli Stati Uniti, “l’impareggiabile rete di alleanze e partner dell’America”, come viene chiamata, altrimenti detta “area euro-atlantica” o “Occidente allargato”. Questa area è formata anzitutto dai 33 Stati membri dell’Alleanza riunitisi a Vilnius, che con la Finlandia e ben presto la Svezia si attestano ormai molti “centimetri quadrati” più a Est dei territori originari, e non si arresta ai confini della Russia, ma abbraccia la Georgia, la Repubblica di Moldova, la Bosnia Erzegovina, Israele e si proietta nell’altro emisfero, attraendo nella sua orbita l’altro mare, l’Indo-Pacifico, fino all’Australia, alla Nuova Zelanda, al Giappone, alla Corea del Sud, i cui capi erano pure convocati e presenti a Vilnius e altri che verranno in futuro.
Gli Stati che formano il corpo di questo sovrano non hanno in comune né lingua, né costumi, né religioni, né ordinamenti; la sola cosa che li unisce è il vincolo militare, e il sistema di cui si fanno eredi e che rendono perpetuo è un sistema di dominio e di guerra. Tale sistema, che deve sussistere anche in “tempo di pace”, ha bisogno comunque che una guerra ci sia, che la guerra se ne faccia “costituente”. Il vertice di Vilnius riconosce questa funzione alla guerra d’Ucraina, per la quale viene attivato un meccanismo tale per cui essa non deve finire mai, e comunque non col negoziato, secondo il dettato di Kiev; ed il meccanismo è questo: l’Ucraina è pienamente integrata nella NATO, già è realizzata l’”interoperabilità” tra le sue Forze Armate e quelle della NATO, e questa la riempie di armi, fino alle bombe a grappolo e ai missili a lunga gittata o ad uranio impoverito, però essa non deve essere oggi nella NATO, perché questo vorrebbe dire la guerra tra l’America e almeno gli Stati europei dell’Alleanza contro la Russia, cosa che nessuno vuol fare, per non costringere Putin a usare l’atomica; si assicura però che l’ingresso anche formale dell’Ucraina nell’Alleanza avverrà appena la guerra sia finita e la democrazia del Paese comprovata, ed è per questo che la guerra non deve finire. È una finzione, di quelle così care al potere e alla ragion di Stato, ma anche la Russia deve stare al gioco.
La guerra d’Ucraina ha dunque una feroce veste militare e una funzione politica, serve ai fini di una persuasione di massa di un’opinione pubblica renitente, perciò ha una così straordinaria copertura mediatica, come l’hanno avuta solo la prima guerra del Golfo e quella del Vietnam, e in casa nostra la lunga agonia di Moro, per convincere tutti che la guerra si deve fare, col nemico non si tratta, che c’è sempre una vittima ma è per il bene di tutti, e questa è la cosa buona e giusta da fare; e la sovranità così innalzata sul trono è piena di valori, dei “nostri valori”, in continuità con la dismessa, vecchia “cristianità”.
Secondo il “comunicato stampa” tutto ciò è già storia in atto, non una nuova storia da imporre. Ma è così? Il nostro governo lo sa? Il Parlamento lo ha deliberato? Il Presidente della Repubblica lo ha promulgato? In realtà quanto a legittimazione democratica siamo ancora solo alla firma e alla ratifica parlamentare del Patto atlantico del 1949.
Non è vero che di tutto ciò ci sia solo da prendere atto. C’è un altro rovesciamento da fare, dobbiamo deporre ogni preteso sovrano universale dal trono e fare sovrana la pace. È lei la madre e “il” re di tutte le cose. È lei che deve farsi soggetto costituente, che deve essere fatta sistema. Alla politica, interna e internazionale, il compito di provvedervi.
Nel sito pubblichiamo il comunicato del vertice di Vilnius “Il nuovo sovrano universale” e un articolo molto allarmante sulla sorte dei migranti colpiti dagli accordi con la Tunisia patrocinati dall’Italia e dall’Europa, e, in morte di Mons. Luigi Bettazzi, alcune testimonianze in ricordo di lui.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
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Il nuovo sovrano universale
IL “COMUNICATO STAMPA” DEL VERTICE DI VILNIUS
19 LUGLIO 2023 / EDITORE / DICONO I FATTI /
Si tratta del documento rilasciato dai Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri della NATO a seguito della riunione del Consiglio Nord Atlantico tenutasi a Vilnius l’11 luglio 2023

Quello che segue è il “comunicato stampa” diffuso al termine della riunione di vertice della NATO a Vilnius; in realtà non si tratta di una informazione, ma di un documento di indirizzo politico, apparentemente obbligante almeno per i Capi di Stato e di Governo che l’hanno rilasciato. Ne pubblichiamo una traduzione italiana, non sempre corretta: trattandosi di una nostra copia di lavoro, essa reca evidenziazioni in neretto di cui si può non tenere conto

Il Paese invitato ad aderire all’Alleanza si associa al presente comunicato.

1. Noi, Capi di Stato e di Governo dei Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, uniti dai nostri valori comuni di libertà individuale, diritti umani, democrazia e stato di diritto, siamo riuniti a Vilnius mentre la guerra nel continente europeo continua, al fine di riaffermare l’immutabilità del nostro legame transatlantico, della nostra unità, della nostra coesione e della nostra solidarietà in un momento critico per la nostra sicurezza e per la pace e la stabilità internazionale. La NATO è un’alleanza difensiva. È il forum transatlantico unico, essenziale e indispensabile per la consultazione, il coordinamento e l’azione su tutte le questioni relative alla nostra sicurezza individuale e collettiva. Riaffermiamo il nostro fermo impegno a difenderci reciprocamente e a difendere ogni centimetro quadrato del territorio dell’Alleanza in ogni momento, a proteggere il miliardo di persone delle nostre nazioni e a preservarvi la libertà e la democrazia, conformemente all’articolo 5 del Trattato di Washington. Continueremo a garantire la nostra difesa collettiva contro tutte le minacce, indipendentemente dalla loro origine, seguendo un approccio a 360 gradi per l’adempimento dei tre compiti fondamentali della NATO: deterrenza e difesa, prevenzione e gestione delle crisi e sicurezza cooperativa. Aderiamo al diritto internazionale e agli scopi e ai principi della Carta delle Nazioni Unite e siamo determinati a preservare l’ordine internazionale basato sulle regole.

Luigi Bettazzi, Vescovo, Costruttore di Pace

logo76Chiesadituttichiesadeipoveri: Newsletter n.306 del 16 luglio 2023

LA CHIESA DI BETTAZZI

Cari amici,
Il bello di una lunga vita è che molti, in tempi e in luoghi diversi, ne godono i frutti, quando quella vita è ricca di valori civili, di ispirazioni religiose e traboccante di amore. Così è stato della vita di Luigi Bettazzi, che è stato davvero un vescovo della Chiesa di tutti, e della Chiesa dei poveri, e soprattutto dei pacifici e degli assetati di giustizia. E così egli ha seminato e lasciato ricordi straordinari in tanti e in molte occasioni per quasi 100 anni.
C’è chi lo ricorda, giovane e anche bello, fraterno e accogliente, maestro ed amico, come Assistente ecclesiastico della FUCI, la Federazione degli universitari cattolici italiani, famosa per aver formato personalità straordinarie e preziosi protagonisti della prima Italia repubblicana, a cominciare da Moro.
C’è chi lo ricorda come vescovo ausiliare di Bologna in quel tempo magico che visse la Chiesa bolognese, la Chiesa del cardinale Lercaro, di don Dossetti, dell’ “Avvenire d’Italia”, del Centro di studi religiosi di Pino Alberigo e Paolo Prodi. A quel titolo fu tra i più giovani vescovi del Vaticano II: e lì parlò per la pace, ed ebbe il coraggio di levarsi in san Pietro per chiedere ai Padri conciliari, contro ogni prudenza ecclesiastica, di procedere alla canonizzazione conciliare di papa Giovanni XXIII, e farlo santo per acclamazione, senza miracoli e senza processi canonici, perché un papa così ancora non si era mai visto, e proprio quel Concilio ne era il lascito più prezioso per la Chiesa e per il mondo.
Finito il Concilio mons. Bettazzi fu ancora accanto a Lercaro, prima che l’arcivescovo bolognese fosse deposto per aver rivendicato la profezia della Chiesa, piuttosto che la neutralità, contro la guerra del Vietnam.
E poi fu vescovo di Ivrea, dove fu mandato per i suoi meriti, ma anche per lasciare il posto a Bologna al cardinale Poma incaricato di normalizzare la Chiesa italiana dopo gli ardimenti del Concilio.
E chi, tra i compagni che furono con lui e con don Albino Bizzotto in quella sorta di staffetta per la pace che fu fatta nel 1992 per rompere l’assedio di Sarajevo durante la guerra jugoslava, non lo ricorda a proclamare che era possibile la pace tra serbi e bosniaci, musulmani e cristiani, cattolici e ortodossi?
È stato un vescovo dei poveri e dei pacifici, degli intellettuali e dei piccoli, presidente di Pax Christi e militante di base quando c’era da lottare e testimoniare per la pace: e l’ultima volta lo ricordiamo a dire, rispondendo all’appello di Michele Santoro, che non è contro l’aggressione chi alla violenza oppone un’altra violenza, e che dalla guerra di Ucraina si doveva uscire con la diplomazia e mettendosi in mezzo ai contendenti per farli riconciliare nella pace.
In questo ricordo che ci consola all’ora della sua morte, vi inviamo i più cordiali saluti.

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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img_3818a cura di Gianni Alioti
… verso l’alba di ieri, domenica 16 luglio 2023, è morto, quasi all’età di cento anni, monsignor Luigi Bettazzi, costruttore di pace. Vescovo emerito di Ivrea, la diocesi dove aveva esercitato il suo ruolo pastorale dal 1966 al 1999.

Nel 1968 il vescovo di Ivrea assunse la presidenza nazionale di Pax Christi e nel 1978 ne diventò presidente internazionale, fino al 1985.

Monsignor Luigi Bettazzi era l’ultimo dei padri conciliari e leale testimone del Concilio Vaticano II, come racconta in questa lunga e bella intervista a Riccardo Maccioni, pubblicata dal quotidiano Avvenire l’11 ottobre 2022.

«IL VATICANO II CHE HO VISSUTO»
A 60 ANNI DALL’APERTURA DEL CONCILIO, PARLA IL VESCOVO LUIGI BETTAZZI, EMERITO DI IVREA.

Quasi sempre a definire la grandezza di un evento sono le statistiche: quanti partecipanti e da quali Paesi, i giornalisti accreditati, i litri d’acqua che verranno bevuti. Nell’immaginario collettivo, nel cuore della gente semplice, invece, l’11 ottobre 1962, il giorno di apertura del Concilio Vaticano II, è segnato soprattutto dalle parole di Giovanni XXII, dal “discorso della luna”.

Quell’invito tenerissimo a portare ai bambini la carezza del Papa, la spinta a dire una parola buona a chi è nella tristezza, sono un’eredità trasmessa dai genitori ai figli e conosciuta anche da tanti ragazzi di oggi. Un messaggio meraviglioso, certo, ma che andrebbe quantomeno collegato all’allocuzione “ Gaudet Mater Ecclesiae” in cui, inaugurando l’assise, il Pontefice sottolineava come la Chiesa, nel combattere gli errori, «preferisse usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». Una svolta, l’annuncio di un cambiamento profondo di cui forse non si resero conto neppure tutti i padri conciliari.

Allora, monsignor Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi aveva 39 anni. Avrebbe partecipato direttamente al Concilio nella seconda sessione.

«L’11 ottobre 1962 – spiega il presule che compirà 99 anni il 26 novembre – risultò soprattutto un giorno di folclore, con gli oltre 2.000 vescovi del mondo che entravano processionalmente in San Pietro, apparati nei modi più vistosi (in particolare quelli di rito orientale) . Si pensava che in poco tempo avrebbero approvato le decine di documenti preparati da apposite Commissioni. Io stesso ne ero convinto: negli ultimi tempi, per la sollecitazione di papa Giovanni al cardinale arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro di inserire qualche suo prete nelle Commissioni preparatorie, mi trovai nella Commissione dei Seminari, dove gli esperti (tra cui il famoso domenicano francese padre Congar) avevano preparato una decina di documenti. E mi resi conto che si trattava di problemi quasi ovvi, ad esempio la preminenza della teologia di san Tommaso d’Aquino o la più intransigente severità in ambito sessuale».

Lei entrò in Concilio durante la seconda sessione, il 29 settembre 1963, una settimana prima del 4 ottobre quando sarebbe stato consacrato vescovo ausiliare di Bologna. Pastore giovanissimo per i parametri di oggi.

Sì entrai in Concilio quando stavo per compiere 40 anni (in ambito missionario v’erano alcuni vescovi anche un po’ più giovani, in Europa lo si diveniva in genere dopo i 50 anni). L’assemblea era raccolta in lunghi banchi a gradini nel corridoio centrale della Basilica, con il posto assegnato secondo la data della propria nomina vescovile: presso l’altare i cardinali e i patriarchi, poi giù giù, verso l’ingresso, gli arcivescovi e i vescovi; ovviamente agli inizi ero tra gli ultimi. Mi trovai immerso nell’episcopato mondiale, con vescovi autoctoni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, e capii perché la Chiesa si definiva cattolica, cioè universale, mentre pensavamo quasi che la Chiesa fosse Roma con l’annessione di tutto il mondo. E subito mi resi conto della libertà con cui si discuteva, nei corridoi laterali lungo le soste (v’erano pure due bar di analcolici), ma anche al centro, nel corso dei dibattiti sui documenti che venivano man mano distribuiti. Era stato lo stesso papa Giovanni a incoraggiare questa libertà di discussione, rimandando di qualche giorno la votazione per le Commissioni dei vescovi circa i vari argomenti, contro quelle proposte dalla Segreteria praticamente dalla Curia Vaticana – e rimandando d’autorità a rifare il Documento sulla Rivelazione, rifiutato da una maggioranza troppo esigua per essere accettata dalle norme imposte alla discussione. Ci rendemmo anche conto che, ad avviare le discussioni erano in genere i vescovi più organizzati, come i tedeschi e gli olandesi, abituati a dialogare con i protestanti, o i francesi e i belgi, abituati a muoversi in ambienti di laicità. Gli americani del Nord insistevano per la libertà religiosa, quelli meridionali per una Chiesa attenta ai poveri.

Cos’è rimasto soprattutto del Concilio? Penso ovviamente in particolare alle Costituzioni.

Sui sedici Documenti che sono stati emessi, più che alle tre Dichiarazioni ed ai nove Decreti, sono appunto le Costituzioni che segnano la novità, ma ancora insufficienti, nella vita della Chiesa. Come noto sono sulla Divina Liturgia, sulla Divina Rivelazione, sulla Chiesa in sé e sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Così La Liturgia non è più vista come l’insieme delle norme per il culto, bensì come l’orientamento per la preghiera comune dei cristiani, con la lingua dei singoli popoli ed una maggiore comprensione e semplificazione dei riti, ma – è da dire – senza una più ampia conversione di mentalità, per cui ancora oggi si vorrebbe qua e là tornare alle antiche formule, come più devote e convincenti. Così la Bibbia, la cui lettura veniva sconsigliata ai singoli cristiani come rischio di eccessiva familiarità con i protestanti, viene invece messa in mano a tutti i battezzati, ma sempre con le esitazioni di chi sa che non è facile comprendere quanto è stato scritto millenni fa con mentalità molto diverse dalla nostra. La Costituzione sulla Chiesa ne rivoluziona il concetto: essa viene affrontata in primo luogo non più come «società perfetta» fondata sulla gerarchia, ma come popolo di Dio, in cui ogni battezzato è parte importante, mentre la gerarchia, pur caratterizzata dal Sacramento dell’Ordine, è al servizio della vita della comunità cristiana, nelle singole esperienze e nella loro collettività.

Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, è come tutti sanno la Costituzione pastorale. Un testo sicuramente legato al tempo storico in cui fu redatto ma che resta anche molto attuale. Per esempio in rapporto allo stile di essere comunità centrata sul Vangelo. O nel richiamo alla necessità di dialogare a tutto tondo con la cultura contemporanea, partendo dall’antropologia.
Fin dagli inizi dichiara che le gioie e le speranze (in latino “ Gaudium et spes”) «le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Tutta la Costituzione continua ad esporre la dottrina del Vangelo come una conferma e uno sviluppo di quanto è “genuinamente umano”; dopo aver riflettuto sulla dignità della persona umana, sulla comunità umana e la sua attività, passa da alcuni esempi, dal matrimonio e la famiglia alla cultura, dalla vita economica alla politica, dalla comunità internazionale alla pace. E qui alcuni vescovi (ad esempio il cardinale Feltin arcivescovo di Parigi e il cardinale Alfrink di Utrecht) chiedevano la condanna della guerra, di ogni guerra (che in tempi atomici è una follia, come aveva dichiarato papa Giovanni nella “ Pacem in terris”), con la resistenza, ad esempio, dei vescovi degli Usa ( allora impegnata nella guerra anticomunista in Vietnam) che supplicavano: «non pugnalate alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana». Eppure in questa Costituzione vi è l’unica condanna (come invece gli anatemi degli altri Concili contro gli errori del tempo), ed è quella (al n 80) contro “la guerra totale” come oggi è di fatto ogni guerra: ogni atto di guerra che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione.

Congar diceva che si sarebbe pienamente capito il Concilio 50 anni dopo. Oggi ci siamo…

È vero che dopo cinquant’anni la pastorale di papa Francesco richiama il Concilio. La sinodalità si rifà alla collegialità della “ Lumen gentium”, ampliando la responsabilità dei vescovi con il Papa a quella di ogni battezzato per la vita della chiesa, mentre l’attenzione ai poveri, agli scarti del mondo, realizza quella Chiesa dei poveri avviata nel Concilio ma che papa Paolo frenava, nel timore di interpretazioni politiche per la guerra fredda allora in corso tra Usa e Urss, promettendo che ne avrebbe trattato in un’enciclica, che fu la “ Populorum progressio” del 1967, che peraltro tratta della pace, più che della povertà.

Lei aderì al patto delle catacombe. In che modo è stato di ispirazione per la sua vita? E ha cementato legami con gli altri firmatari?

Visto che il Papa esitava a trattare della Chiesa dei poveri, il Movimento interessato, che in Roma aveva sede al Collegio belga, verso la fine del Concilio (il 16 novembre 1965) promosse un libero incontro di Vescovi alle Catacombe di Domitilla. Vi si trovò una quarantina di vescovi venuti occasionalmente a conoscenza dell’iniziativa. Il vescovo belga, monsignor Himmer di Tournai presiedette l’Eucaristia e presentò alla fine un documento secondo cui ogni singolo vescovo si impegnava esemplarmente ad una vita più povera (nell’abitazione e nei mezzi di trasporto, ad una pastorale più vicina ai lavoratori manuali ed ai settori più emarginati, e a far gestire le finanze sue e diocesane da laici affidabili. Quarantadue firmammo (casualmente ero l’unico italiano) e ci impegnammo a far firmare da vescovi amici, così che al Papa furono portate oltre 500 firme. Non ci ritrovammo più se non con gli amici di prima (ero nel gruppo di una ventina di vescovi, da ogni parte del mondo, ispirati da fratel Charles De Foucauld, oggi santo).
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Aggiungo al ricordo di monsignor Luigi Bettazzi l’interessantissimo articolo di Luca Rolandi e Michele Ruggiero scritto sulla rivista ‘La porta di vetro’

https://www.laportadivetro.com/post/luigi-bettazzi-profeta-di-pace-e-ultimo-testimone-del-concilio-vaticano-ii

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img_3820Citazione di Bettazzi su Aladinpensiero: https://www.aladinpensiero.it/?p=138145
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eb3841be-c8b4-4dc8-935c-b07621c46106
Luigi Bettazzi a Cagliari per la Marcia per la Pace organizzata da Pax Christi il 31 dicembre 2019.
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Su Avvenire online: https://www.avvenire.it/amp/av/pagine/monsignor-luigi-bettazzi
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Su Famiglia Cristiana: https://www.famigliacristiana.it/articolo/bettazzi-il-ricordo-del-gruppo-editoriale-san-paolo-la-sua-testimonianza-preziosa-anche-per-loggi.aspx
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Luigi Bettazzi, Vescovo, Costruttore di Pace

img_3818a cura di Gianni Alioti
… verso l’alba di oggi, domenica 16 luglio 2023, è morto, quasi all’età di cento anni, monsignor Luigi Bettazzi, costruttore di pace. Vescovo emerito di Ivrea, la diocesi dove aveva esercitato il suo ruolo pastorale dal 1966 al 1999.

Nel 1968 il vescovo di Ivrea assunse la presidenza nazionale di Pax Christi e nel 1978 ne diventò presidente internazionale, fino al 1985.

Monsignor Luigi Bettazzi era l’ultimo dei padri conciliari e leale testimone del Concilio Vaticano II, come racconta in questa lunga e bella intervista a Riccardo Maccioni, pubblicata dal quotidiano Avvenire l’11 ottobre 2022.

«IL VATICANO II CHE HO VISSUTO»
A 60 ANNI DALL’APERTURA DEL CONCILIO, PARLA IL VESCOVO LUIGI BETTAZZI, EMERITO DI IVREA.

Quasi sempre a definire la grandezza di un evento sono le statistiche: quanti partecipanti e da quali Paesi, i giornalisti accreditati, i litri d’acqua che verranno bevuti. Nell’immaginario collettivo, nel cuore della gente semplice, invece, l’11 ottobre 1962, il giorno di apertura del Concilio Vaticano II, è segnato soprattutto dalle parole di Giovanni XXII, dal “discorso della luna”.

Quell’invito tenerissimo a portare ai bambini la carezza del Papa, la spinta a dire una parola buona a chi è nella tristezza, sono un’eredità trasmessa dai genitori ai figli e conosciuta anche da tanti ragazzi di oggi. Un messaggio meraviglioso, certo, ma che andrebbe quantomeno collegato all’allocuzione “ Gaudet Mater Ecclesiae” in cui, inaugurando l’assise, il Pontefice sottolineava come la Chiesa, nel combattere gli errori, «preferisse usare la medicina della misericordia invece di imbracciare le armi del rigore». Una svolta, l’annuncio di un cambiamento profondo di cui forse non si resero conto neppure tutti i padri conciliari.

Allora, monsignor Luigi Bettazzi, emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi aveva 39 anni. Avrebbe partecipato direttamente al Concilio nella seconda sessione.

«L’11 ottobre 1962 – spiega il presule che compirà 99 anni il 26 novembre – risultò soprattutto un giorno di folclore, con gli oltre 2.000 vescovi del mondo che entravano processionalmente in San Pietro, apparati nei modi più vistosi (in particolare quelli di rito orientale) . Si pensava che in poco tempo avrebbero approvato le decine di documenti preparati da apposite Commissioni. Io stesso ne ero convinto: negli ultimi tempi, per la sollecitazione di papa Giovanni al cardinale arcivescovo di Bologna, Giacomo Lercaro di inserire qualche suo prete nelle Commissioni preparatorie, mi trovai nella Commissione dei Seminari, dove gli esperti (tra cui il famoso domenicano francese padre Congar) avevano preparato una decina di documenti. E mi resi conto che si trattava di problemi quasi ovvi, ad esempio la preminenza della teologia di san Tommaso d’Aquino o la più intransigente severità in ambito sessuale».

Lei entrò in Concilio durante la seconda sessione, il 29 settembre 1963, una settimana prima del 4 ottobre quando sarebbe stato consacrato vescovo ausiliare di Bologna. Pastore giovanissimo per i parametri di oggi.

Sì entrai in Concilio quando stavo per compiere 40 anni (in ambito missionario v’erano alcuni vescovi anche un po’ più giovani, in Europa lo si diveniva in genere dopo i 50 anni). L’assemblea era raccolta in lunghi banchi a gradini nel corridoio centrale della Basilica, con il posto assegnato secondo la data della propria nomina vescovile: presso l’altare i cardinali e i patriarchi, poi giù giù, verso l’ingresso, gli arcivescovi e i vescovi; ovviamente agli inizi ero tra gli ultimi. Mi trovai immerso nell’episcopato mondiale, con vescovi autoctoni dell’Africa, dell’Asia, dell’America Latina, e capii perché la Chiesa si definiva cattolica, cioè universale, mentre pensavamo quasi che la Chiesa fosse Roma con l’annessione di tutto il mondo. E subito mi resi conto della libertà con cui si discuteva, nei corridoi laterali lungo le soste (v’erano pure due bar di analcolici), ma anche al centro, nel corso dei dibattiti sui documenti che venivano man mano distribuiti. Era stato lo stesso papa Giovanni a incoraggiare questa libertà di discussione, rimandando di qualche giorno la votazione per le Commissioni dei vescovi circa i vari argomenti, contro quelle proposte dalla Segreteria praticamente dalla Curia Vaticana – e rimandando d’autorità a rifare il Documento sulla Rivelazione, rifiutato da una maggioranza troppo esigua per essere accettata dalle norme imposte alla discussione. Ci rendemmo anche conto che, ad avviare le discussioni erano in genere i vescovi più organizzati, come i tedeschi e gli olandesi, abituati a dialogare con i protestanti, o i francesi e i belgi, abituati a muoversi in ambienti di laicità. Gli americani del Nord insistevano per la libertà religiosa, quelli meridionali per una Chiesa attenta ai poveri.

Cos’è rimasto soprattutto del Concilio? Penso ovviamente in particolare alle Costituzioni.

Sui sedici Documenti che sono stati emessi, più che alle tre Dichiarazioni ed ai nove Decreti, sono appunto le Costituzioni che segnano la novità, ma ancora insufficienti, nella vita della Chiesa. Come noto sono sulla Divina Liturgia, sulla Divina Rivelazione, sulla Chiesa in sé e sulla Chiesa nel mondo contemporaneo. Così La Liturgia non è più vista come l’insieme delle norme per il culto, bensì come l’orientamento per la preghiera comune dei cristiani, con la lingua dei singoli popoli ed una maggiore comprensione e semplificazione dei riti, ma – è da dire – senza una più ampia conversione di mentalità, per cui ancora oggi si vorrebbe qua e là tornare alle antiche formule, come più devote e convincenti. Così la Bibbia, la cui lettura veniva sconsigliata ai singoli cristiani come rischio di eccessiva familiarità con i protestanti, viene invece messa in mano a tutti i battezzati, ma sempre con le esitazioni di chi sa che non è facile comprendere quanto è stato scritto millenni fa con mentalità molto diverse dalla nostra. La Costituzione sulla Chiesa ne rivoluziona il concetto: essa viene affrontata in primo luogo non più come «società perfetta» fondata sulla gerarchia, ma come popolo di Dio, in cui ogni battezzato è parte importante, mentre la gerarchia, pur caratterizzata dal Sacramento dell’Ordine, è al servizio della vita della comunità cristiana, nelle singole esperienze e nella loro collettività.

Gaudium et spes, sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, è come tutti sanno la Costituzione pastorale. Un testo sicuramente legato al tempo storico in cui fu redatto ma che resta anche molto attuale. Per esempio in rapporto allo stile di essere comunità centrata sul Vangelo. O nel richiamo alla necessità di dialogare a tutto tondo con la cultura contemporanea, partendo dall’antropologia.
Fin dagli inizi dichiara che le gioie e le speranze (in latino “ Gaudium et spes”) «le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore». Tutta la Costituzione continua ad esporre la dottrina del Vangelo come una conferma e uno sviluppo di quanto è “genuinamente umano”; dopo aver riflettuto sulla dignità della persona umana, sulla comunità umana e la sua attività, passa da alcuni esempi, dal matrimonio e la famiglia alla cultura, dalla vita economica alla politica, dalla comunità internazionale alla pace. E qui alcuni vescovi (ad esempio il cardinale Feltin arcivescovo di Parigi e il cardinale Alfrink di Utrecht) chiedevano la condanna della guerra, di ogni guerra (che in tempi atomici è una follia, come aveva dichiarato papa Giovanni nella “ Pacem in terris”), con la resistenza, ad esempio, dei vescovi degli Usa ( allora impegnata nella guerra anticomunista in Vietnam) che supplicavano: «non pugnalate alle spalle i nostri giovani che in Estremo Oriente stanno difendendo la civiltà cristiana». Eppure in questa Costituzione vi è l’unica condanna (come invece gli anatemi degli altri Concili contro gli errori del tempo), ed è quella (al n 80) contro “la guerra totale” come oggi è di fatto ogni guerra: ogni atto di guerra che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione.

Congar diceva che si sarebbe pienamente capito il Concilio 50 anni dopo. Oggi ci siamo…

È vero che dopo cinquant’anni la pastorale di papa Francesco richiama il Concilio. La sinodalità si rifà alla collegialità della “ Lumen gentium”, ampliando la responsabilità dei vescovi con il Papa a quella di ogni battezzato per la vita della chiesa, mentre l’attenzione ai poveri, agli scarti del mondo, realizza quella Chiesa dei poveri avviata nel Concilio ma che papa Paolo frenava, nel timore di interpretazioni politiche per la guerra fredda allora in corso tra Usa e Urss, promettendo che ne avrebbe trattato in un’enciclica, che fu la “ Populorum progressio” del 1967, che peraltro tratta della pace, più che della povertà.

Lei aderì al patto delle catacombe. In che modo è stato di ispirazione per la sua vita? E ha cementato legami con gli altri firmatari?

Visto che il Papa esitava a trattare della Chiesa dei poveri, il Movimento interessato, che in Roma aveva sede al Collegio belga, verso la fine del Concilio (il 16 novembre 1965) promosse un libero incontro di Vescovi alle Catacombe di Domitilla. Vi si trovò una quarantina di vescovi venuti occasionalmente a conoscenza dell’iniziativa. Il vescovo belga, monsignor Himmer di Tournai presiedette l’Eucaristia e presentò alla fine un documento secondo cui ogni singolo vescovo si impegnava esemplarmente ad una vita più povera (nell’abitazione e nei mezzi di trasporto, ad una pastorale più vicina ai lavoratori manuali ed ai settori più emarginati, e a far gestire le finanze sue e diocesane da laici affidabili. Quarantadue firmammo (casualmente ero l’unico italiano) e ci impegnammo a far firmare da vescovi amici, così che al Papa furono portate oltre 500 firme. Non ci ritrovammo più se non con gli amici di prima (ero nel gruppo di una ventina di vescovi, da ogni parte del mondo, ispirati da fratel Charles De Foucauld, oggi santo).
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Aggiungo al ricordo di monsignor Luigi Bettazzi l’interessantissimo articolo di Luca Rolandi e Michele Ruggiero scritto sulla rivista ‘La porta di vetro’

https://www.laportadivetro.com/post/luigi-bettazzi-profeta-di-pace-e-ultimo-testimone-del-concilio-vaticano-ii

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Luigi Bettazzi a Cagliari per la Marcia per la Pace organizzata da Pax Christi il 31 dicembre 2019.
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Su Avvenire online: https://www.avvenire.it/amp/av/pagine/monsignor-luigi-bettazzi
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Su Famiglia Cristiana: https://www.famigliacristiana.it/articolo/bettazzi-il-ricordo-del-gruppo-editoriale-san-paolo-la-sua-testimonianza-preziosa-anche-per-loggi.aspx
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Che succede nel Pianeta?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 125 del 12 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 305 del 12 luglio 2023
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IL SONNO DELLA RAGIONE

Cari amici,
Si è tenuto a Vilnius il vertice della NATO, che ha accolto la Finlandia e dato il benvenuto alla Svezia nell’Alleanza. Alla Russia sono state dettate condizioni di resa, fin sulla soglia, che si è stati però ben attenti a non oltrepassare, di una dichiarazione di guerra. All’Ucraina, cui si assegna il compito di sconfiggere la Russia, sono stati promessi ponti d’oro per la completa integrazione nella NATO, giunta peraltro già alla conclamata “interoperabillità” tra le relative Forze Armate, inclusa una perenne fornitura di armi, beffardamente definite “non letali”. Tutto ciò con la spensierata idea che non si rischi in tal modo la guerra mondiale.
Come interpretazione autentica di queste decisioni vale ciò che, andando a Vilnius, il presidente Biden ha detto In un’intervista alla CNN , in cui ha fornito un quadro di come concepisca la NATO, così contraddittorio da renderla assurda.
Biden ha detto che, finché c’è la guerra, l’Ucraina non può entrare nella NATO, perché ciò significherebbe entrare tutti in guerra con la Russia, e anzi, con l’Ucraina nella NATO “se la guerra è in corso, allora siamo tutti in guerra con la Russia”.
Questa è una cosa che tutti sapevano, ma che nessuno aveva osato dire in modo così perentorio, e ora dopo un anno e mezzo di guerra dà clamorosamente ragione a Putin che proprio per questo l’ha fatta, per non trovarsi in guerra con gli Stati Uniti e tutto “l’Occidente allargato” una volta che la NATO fosse giunta ad inglobare l’Ucraina. È chiaro infatti che una guerra di tale natura avrebbe segnato la fine della Russia, e messo a rischio l’America. Dunque Putin ha fatto un favore anche a Biden, che ricambia, come fosse anche lui un “putiniano”, dicendo che l’Ucraina “non è pronta” a questo ingresso, “perché ci sono altri requisiti che devono essere soddisfatti inclusa la democratizzazione” (Putin più brutalmente l’ha chiamata “denazificazione”), che è l’altra ragione dell’invasione. Da qui l’ira di Zelensky, lasciato da solo ad officiare il sacrificio.
Nello stesso tempo Biden , ribadendo che, finita la guerra, le porte della NATO saranno “aperte” all’Ucraina, ha istituito la condizione per la quale questa guerra non deve finire mai, perché se la guerra venisse meno la Russia di nuovo rischierebbe la fine, e dunque finché la NATO è NATO, e l’Ucraina confina con la Russia, mai più potrà esserci pace in Europa. Se questa è la pena inflitta all’Ucraina, il fine pena non arriverà mai.
Il fatto è che Biden, mentre vuole la guerra in Ucraina senza fine, tant’è che ora le manda perfino le bombe a grappolo ed intende continuare a fornirle “armi e sicurezza come gli USA insieme agli alleati fanno per Israele” non vuole affatto entrare in guerra con la Russia perché sa benissimo che questa sarebbe la fine anche per gli Stati Uniti; e se c’è una costante della politica dell’America attraverso tutti i suoi presidenti e nel passaggio da un’epoca all’altra, dalle guerre mondiali del Novecento alla guerra fredda alla guerra “a pezzi” di oggi, è che la guerra contro la Russia in nessun modo si deve fare, Cuba docet. E tuttavia l’attuale programmazione americana, espressa nei documenti scritti della Casa Bianca e del Pentagono dell’ottobre scorso, contempla che entro il decennio la Russia deve essere messa fuori gioco per poi passare alla sfida finale con la Cina.
Mettendo insieme tutti i postulati di questo teorema, ne viene fuori il seguente risultato: la Russia deve essere debellata ma non con la guerra a campo largo, l’Ucraina deve continuare a combattere a questo scopo in nome e per conto altrui, perché non fa problema la sua fine: sempre del resto il sacrificio della vittima è stato considerato salvifico (per gli altri); la NATO, è fatta per la guerra e a tal fine armata fino ai denti e fonte di spese militari e profitti infiniti distolti da altri necessari e nobili scopi, ma l’unica cosa che non può fare è la guerra; e se con la Russia gli Stati Uniti non possono né vogliono fare la guerra, tanto meno la faranno entro il decennio contro la Cina, nonostante la “sfida culminante” annunciata oggi a tutte lettere contro di lei . E il mondo, e noi? Noi e il mondo dovremmo stare a guardare tranne che questo meccano fatto di contraddizioni, perversità e algoritmi non imploda, per imprevedibili e perciò incontrollabili eventi, e tutto finisca nell’Armageddon.
Per questa ragione glielo dobbiamo dire all’America, che la sua politica è completamente sbagliata. Glielo dobbiamo dire se le siamo alleati, se siamo la civiltà e perfino la religione che l’abbiamo data alla luce. Possiamo anche ammettere che il suo movente non sia quello di voler dominare il mondo come un unico Impero, ma sia l’ossessione della sua sicurezza in un mondo giudicato come pericoloso e cattivo, da dover tenere perciò sotto scacco, nella memoria storica manichea dei Padri pellegrini e del West. Ma dobbiamo dire all’America che ci sono più cose in cielo e in terra che non nell’”American heritage”, che ci sono altri modi di stare al mondo che armarsi fino ai denti e schierarsi nella lotta tra il Bene e il Male. Dobbiamo dire all’America: “no, non così”, se le siamo amici, o se siamo addirittura disposti ad accettarne la leadership, ma per fare migliore il mondo, non per distruggerlo.
Nel sito pubblichiamo un discorso di Robert Kennedy Jr., in cui ha ammonito il suo Paese che ogni Impero si dissolve se sparge il suo esercito in mezzo mondo, un’analisi sul “sonno della ragione” dell’ex ambasciatore Carnelos, e una poesia di Erri De Luca sul pasto dei pesci nel Mediterraneo.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)
Costituente Terra
Chiesadituttichiesadeipoveri
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PER I PESCI DEL MEDITERRANEO Prendete e mangiatene tutti
di Erri De Luca
PER I PESCI DEL MEDITERRANEO
12 LUGLIO 2023 / EDITORE / DICONO LA LORO / Costituente Terra/Chiesadituttichiesadeipoveri.

Prendete e mangiatene tutti,

Questi sono i corpi planati

A braccia aperte sul fondale.

In terra sono stati crocefissi,

ora sono del mare e di voi pesci.

Prendete e mangiatene tutti,

che non avanzi niente,

nessuna delle corde vocali

che hanno gridato al vento.

Fate questo in memoria di noi

Che rimaniamo a riva.

Lasciatevi afferrare dalle reti

Per essere venduti sul banco del mercato,

dove i sopravvissuti furono venduti.

Sarete sulle nostre tavole imbandite.

Di voi, sazi di loro, mangeremo tutto.

Conservate una spina per le nostre gole,

toglietela dalla corona dei perduti.

(da Madrugada, n. 130, dalla Stampa 15/03/2023)

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Guerra o Pace?

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 124 del 5 luglio 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 304 del 5 luglio 2023

IL DIRITTO E LA STRAGE

Cari amici,
un appello al governo perché la smetta di inviare armi e imbocchi invece la via della pace è stato fatto da quanti hanno partecipato a un incontro su “Guerra o pace?”- da Domenico Gallo ad Alfiero Grandi, da Barbara Spinelli al generale Fabio Mini, dall’ex ambasciatore Cassini alla vice-presidente del Senato Mariolina Castellone – tenutosi il 30 giugno alla Biblioteca del Senato. Nello stesso tempo “la Repubblica” pubblica oggi “a caratteri di scatola”, come si diceva una volta: “Bombe italiane per Kiev”.
Ma qui nasce un problema. Qual è la natura di queste bombe? E come si definisce il fatto di mandarle? Trattandosi di bombe e proiettili, e non di armi antiaeree, si tratta di arnesi non ordinati a sventare una minaccia, ma di armi di combattimento, intese all’annientamento, alla ritorsione o vendetta sul nemico. Il loro scopo è ovviamente di distruggere e uccidere. E come si qualifica questa azione? Non poniamo qui la questione sul piano morale, estraneo purtroppo all’attuale discorso comune, ma sul piano fattuale e giuridico.
Sul piano fattuale si tratta ovviamente di una violenza indiscriminata, comunque motivata, contro cose e persone. Sul piano giuridico, fino alla Carta dell’ONU che ha messo fuori legge la guerra, era un’azione perfettamente legittima, perché il distruggere e l’uccidere – a parte gli eccessi configurabili come crimini di guerra, di cui però non sempre si tiene conto, come per esempio fu a Hiroshima e Nagasaki – era giustificato e promosso dallo stesso diritto di guerra. Ma anche oggi molti Stati si comportano come se quel diritto ancora esistesse e considerano le guerre che fanno come legittime, eroiche e salutari, e su loro istigazione anche le opinioni pubbliche purtroppo se ne fanno persuase. Tuttavia perché questo distruggere e uccidere possa ancora essere pensato come eroico e legittimo, bisogna che la guerra ci sia, che vi si sia effettivamente e pubblicamente coinvolti, se non addirittura che sia “dichiarata”. Altrimenti, come è stabilito fin dalla nascita del diritto pubblico e dello Stato moderno, l’uso non autorizzato della violenza e della forza è un crimine, un reato di lesioni, di omicidio o di strage. Dunque è una ignominia e un peccato grave anche se commesso da persone giustissime e miti, di cui la guerra è il grande lavacro. È così che lo racconta Joseph De Maistre, il mistico della guerra: “al primo segnale, il giovane più amabile, educato all’orrore per la violenza e per il sangue, lascia la casa paterna e corre, armi alla mano, a cercare sul campo di battaglia colui che egli chiama ‘nemico’, senza neppur sapere cos’è un nemico. Il giorno prima si sarebbe sentito in colpa se avesse schiacciato per caso il canarino della sorella; il giorno dopo lo vedete salire su un mucchio di cadaveri ‘per vedere più lontano’, come diceva Charron. Il sangue che sgorga da ogni parte gli serve da sprone per spargere il suo e quello altrui, egli si infiamma gradatamente fino a raggiungere ‘l’entusiasmo per il massacro’”. Per questa ragione i soldati americani che combatterono in Vietnam, anche se autori della strage di Mỹ Lai sono circonfusi di gloria e sepolti nel cimitero di Arlington, mentre i ragazzi che comprano il fucile e uccidono nel cortile della scuola sono assassini, e Biden si indigna perché il congresso non proibisce che si vendano loro le armi.
Dunque è la guerra che “giustifica”. Ma l’Italia non è in guerra, anzi, secondo il politicamente corretto “la Russia non è il nemico”. Dunque se mandiamo le armi per uccidere siamo mandanti di omicidio e di strage, ai sensi del diritto vigente, come i capomafia che ordinano i delitti a distanza. Certo, la nostra presidente del Consiglio, nonostante qualche tono alto, non ha entusiasmo per il massacro, ma l’Italia e mezzo mondo che senza guerra concorrono alle reciproche stragi in Ucraina (si parla già di 330.000 morti, 200.000 russi e 130.000 ucraini) anche senza entusiasmo il massacro lo fanno.
Se poi si dice che a legittimare il massacro, anche senza guerra, è la politica (o una maggioranza eletta in buona e debita forma) vuol dire che non c’è più differenza tra guerra e politica, non si può più distinguere tra tempo di pace e tempo di guerra; ma allora è tutto il mondo sbagliato, e anzi gloriosamente perverso.
Nel sito pubblichiamo l’appello del Convegno romano su “Guerra o pace?”, e un intervento sui protagonisti del conflitto in Ucraina pronunciato in tale convegno [anche di seguito su Aladinpensiero online].
Con i più cordiali saluti,
Chiesadituttichiesadeipoveri
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Pubblichiamo di seguito la relazione di Raniero La Valle al Convegno “Guerra o Pace”.
AL SENATO
di Raniero La Valle
Posta l’alternativa “Guerra o pace?” è molto importante cercare di capire qual è la vera natura di questa guerra. Sempre più appare che essa non è un accadimento circoscritto, ma un capitolo di una guerra costituente che investe tutto l’ordine internazionale e lo struttura come un sistema di dominio e di guerra, i cui effetti sono imprevedibili e possono essere devastanti per tutti i soggetti della comunità mondiale.
Presa in se stessa, questa d’Ucraina è una guerra quanto mai stupida. La guerra infatti non solo può essere dulce inexpertis, non solo può essere aliena a ratione, non solo è contro il diritto, non solo è efferata, ma può essere anche estremamente stupida. E questa lo è. Non ci voleva niente a evitarla, e poteva ben presto finire, 15 giorni dopo, con gli accordi di Antalya subito ricusati dalla NATO.
Dato che questo non è successo, vediamo quali sono i ruoli che nella guerra hanno giocato i diversi protagonisti: lo sfidante, il nemico, la vittima, i vincitori, gli sconfitti.
1. Gli sfidanti sono gli Stati Uniti che dopo la rimozione del muro di Berlino, si sono prefissi di instaurare un ordine mondiale fatto a loro immagine e misura e conformato a un unico dominio. Secondo i documenti strategici dell’amministrazione americana -Casa Bianca e Pentagono – (gli ultimi dell’ottobre scorso) dovrebbe trattarsi di un ordine fondato sui tre pilastri della democrazia, della libertà e della libera impresa e dovrebbe realizzarsi entro questo decennio con l’eliminazione della Russia e la sfida finale con la Cina. Pertanto la guerra d’Ucraina si è presentata come una buona occasione per cominciare col liquidare la Russia, senza nemmeno dover combattere. Secondo Biden bisognava ridurre la Russia alla condizione di paria, ed eliminarla dalla competizione strategica per il dominio globale. Questo dice qual è l’alternativa reale per cui si combatte in questa guerra: o un mondo unipolare e monocratico uniformato a un solo modello culturale e politico, o un mondo pluralistico ma in pace con tutte le sue diversità e le sue dialettiche. E questa è anche la vera scelta che è posta davanti a noi.
2. Il Nemico è naturalmente la Russia. In lei l’Occidente ha ritrovato Il nemico che aveva perduto grazie alla rimozione gorbaciovana del muro di Berlino. L’Occidente ne aveva bisogno perché senza nemico non si può recuperare lo strumento della guerra, come invece, finita la deterrenza, si è affrettato a fare con la guerra del Golfo; ne aveva bisogno perché senza nemico ad Est non può stare in piedi la NATO ad Ovest, e perché senza la coppia amico-nemico secondo la nostra cultura viene meno anche la politica, il “criterio” del politico. La Russia ci ha messo del suo a farsi prendere per nemico, si è offerta alla recriminazione universale, perché mentre aveva ragione nell’opporsi alla NATO in Ucraina e alla repressione nel Donbass, muovendo guerra è precipitata nel torto e ha dato un alibi alla frenesia antirussa imperante in Occidente. Tuttavia la Russia di Putin ha tenuto sotto controllo la sua forza, scegliendo di condurre una guerra circoscritta e a bassa intensità, invece di invadere tutta l’Ucraina e occupare Kiev, come avrebbe potuto fare data la disparità delle forze in campo. Non lo ha fatto non perché non ci è riuscita a causa della sua impreparazione militare, ma perché la posta in gioco non è l’Ucraina, ma l’ordine del mondo.

E un uso controllato della forza ha fatto Putin anche nei confronti della rivolta della Wagner; avrebbe potuto sparare e fermare così la marcia verso Mosca, e non l’ha fatto, scegliendo una soluzione politica (con i terroristi dunque si tratta, al contrario dell’ortodossia corrente in Italia!) e scongiurando una guerra civile.

3. La vittima, come sempre dice il Papa, è la martoriata Ucraina (oltre alle popolazioni povere di mezzo mondo colpite dalla crisi alimentare e energetica). Ma questa vittima ucraina è stata immolata non da uno solo, ma da molti officianti del sacrificio. Putin per primo l’ha individuata come il fulcro della contraddizione e causa della violenza e l’ha gettata nella guerra, ma gli amici e alleati dell’Ucraina l’hanno subito assunta come vittima da innalzare per una soluzione salvifica della crisi, e hanno fatto di Zelensky l’eroe sacrificato ai valori e all’identità dell’Occidente; Europa America e NATO hanno d’incanto raggiunto la loro unità, stabilendo la loro comunione nelle armi inviate alla vittima e nell’affidare alla sua morte sacrificale, spacciata come vittoria, i propri sogni di gloria; si è così stabilita intorno all’Ucraina un’unanimità violenta, che ha accomunato amici e nemici. A sua volta l’Ucraina ingannata dagli Alleati che le hanno promesso la vittoria sulla Russia, si è offerta essa stessa come vittima espiatoria con la decisione di bandire il negoziato, e di non ammettere altro esito che il recupero delle terre perdute, fino alla Crimea; ci sono pagine inquietanti di René Girard, il grande rivelatore dell’ideologia sacrificale, che hanno mostrato come molto spesso la vittima stessa si faccia complice della propria immolazione; e in Zelensky il sacrificatore si è fatto sacrilego perché sacra è la carne del suo popolo gettato nella fornace: anche a costo di restare in guerra per anni, come ha detto, intervistato a “Otto e mezzo”, il ministro degli esteri ucraino Kuleba. Nella logica del potere, come ha mostrato lo stesso Girard, le istituzioni dissimulano la loro propria violenza proiettandola su sempre nuove vittime.
4. I vincitori di questa guerra sono senza dubbio quei fabbricanti americani di armi che tra il 1996 e il 1998 investirono 51 milioni di dollari (94 milioni di oggi) in attività di lobbying per convincere congressisti e Casa Bianca a estendere verso Est la NATO, per espandere il mercato delle armi; come ha detto l’arcivescovo Delpini nel duomo di Milano in morte di Silvio Berlusconi, quando si fanno affari si guarda ai numeri e si dimenticano i criteri. Dimenticati i criteri, la guerra in Ucraina è venuta ed ha ripagato ad usura quell’investimento, dato che già 100 miliardi di dollari dagli Stati Uniti sono andati in armi e profitti per sostenerla.
5. E chi è lo sconfitto? Sconfitto è il progetto di un mondo tutto assorbito nel nuovo secolo americano, perché il mondo non ci sta ad essere ridotto a un unico Impero. Il mondo non è un’entità amorfa, primitiva, disponibile al dominio. È stata questa l’hybris dell’Occidente, la sua scalata al cielo. Mentre fiorivano altre civiltà, a lungo abbiamo creduto che il mondo fosse tutto compreso nella koiné greco-romana, poi lo abbiamo costituito in cristianità, e ora lo chiamiamo Occidente. Ma questa guerra segna la fine dell’Occidente, la sconfitta della sua pretesa di intestarsi la storia del mondo, di ricapitolarne tutti i valori.
Qual è stato il peccato capitale dell’Occidente? L’Occidente non ha riconosciuto l’altro, lo straniero, non lo ha considerato pari a sé. Nonostante il rovesciamento del cristianesimo e di san Paolo, l’Occidente si è portato dietro un’antropologia della diseguaglianza che da Aristotele, dalla società di signori e servi, di cittadini e meteci, di schiavi e liberi, è arrivata fino ad Hegel ed a Croce, passando attraverso la scoperta dell’America; solo questa è costata la scomparsa di 100 milioni di Indiani, di cui anche teologi dell’Occidente dubitavano che avessero l’anima. L’attuale paura della sostituzione etnica, la lotta ai migranti che vengono dal Sud, non a quelli che vengono dall’Ucraina, i porti chiusi, Cutro, sono figli di questa cultura della selezione e dell’esclusione. Non passa lo straniero! Ma, come dice Carl Schmitt, nel senso più estremo lo straniero non è solo l’altro, l’estraneo, ma è il nemico. E il nemico non è necessariamente il malvagio, il nemico è semplicemente l’altro da me; e in fin dei conti, come dirà poi lo stesso Schmitt alla fine della sua vita, grazie alla “sapienza della cella” in cui era rinchiuso per i suoi trascorsi col nazismo, il nemico è “colui che mette in questione me stesso”; in un certo senso dunque il nemico è qualcosa che sta dentro di noi, perché noi stessi siamo continuamente questione a noi stessi; ma ciò vuol dire che se l’Occidente non riconosce l’altro, non lo accoglie come un altro uguale a sé, lo rifiuta come prossimo, non conosce neanche se stesso, è diviso anche in se stesso, è nemico a se stesso.
Qualche giorno fa il Corriere della Sera, pubblicando un editoriale di Angelo Panebianco sullo stato del mondo, titolava così: “L’Occidente e il resto del mondo”. No, non c’è un Occidente che è il mondo, e un resto che è ciò che avanza del mondo, il residuo, lo scarto. Il mondo è uno, ma non per dominarlo come un Impero solo, e nemmeno per dargli un unico diritto, un unico Nomos. Non è questa l’universalità. L’Occidente ha avuto la vocazione alla vera universalità, ha generato messianismi e profezie, ha concepito una koiné che nell’armonia di ricchezze diverse si estendesse fino ai confini della Terra. È questa universalità che l’Occidente ha tradito. Ma non è mai troppo tardi per riafferrare il kairòs mentre fugge, e riaprire il futuro.
Sarebbe tempo che l’Occidente recuperasse la sua vocazione, scongiurasse la fine e che insieme a tutti gli altri si mettesse in gioco per un’altra concezione del mondo, per salvare la Terra.
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CESSATE-IL-FUOCO: LA PAROLA ALLA DIPLOMAZIA
1. Dal convegno “Guerra o pace?”, svoltosi in una sala del Senato il 30 giugno scorso, sono emerse le conclusioni riflesse in questo documento, con il quale si intende contribuire a dare rappresentanza sociale e politica ai sentimenti di pace che percorrono l’opinione pubblica e raccogliere le adesioni di coloro che ne condividano il contenuto.
2. Nel perdurare del conflitto in Ucraina, ci rivolgiamo ai parlamentari italiani per promuovere un cessate-il-fuoco presidiato da forze dell’ONU con la supervisione dell’OSCE, e il simultaneo avvio di negoziati per una conferenza di pace e sicurezza in Europa. Il protrarsi della guerra, infatti, rischia di aggravarsi fino al confronto nucleare, alla possibile destabilizzazione della Russia e alla caduta in mani incontrollabili del suo arsenale atomico. L’opzione proposta scongiurerebbe tali rischi, affronterebbe con gli strumenti della diplomazia le spine all’origine del conflitto, aprirebbe la via a nuove architetture di sicurezza nel nostro continente e permetterebbe di riportare la Russia nel consesso europeo in un quadro di collaborazione che eviti futuri confronti e prevenga il consolidarsi di sentimenti antioccidentali. Inoltre, offrirebbe all’Europa l’opportunità di farsi capofila della propria sicurezza, nella lealtà atlantica e con la dovuta attenzione alle azioni in corso da parte del Vaticano e di altri importanti interlocutori internazionali.
3. È urgente, quindi, dar luogo a un’iniziativa parlamentare che ispiri il Governo italiano, e gradualmente tutti i membri dell’Unione Europea e dell’Alleanza, a una visione lungimirante per l’Europa, in modo da non distogliere energie dai temi planetari della nostra epoca e scongiurare l’infausta prospettiva di lasciare alle giovani generazioni un mondo devastato dall’odio. L’avvio di un negoziato – e di una visione – di pace si avvarrebbe di cultura e strumenti già disponibili e praticati in passato: i principi di Helsinki; le regole fondative dell’OSCE; le iniziative di cooperazione emerse dagli anni Novanta in poi nella stessa Alleanza Atlantica. Lo scopo finale sarebbe la costruzione, in Europa, di un sistema di garanzie reciproche che nessuno avrebbe interesse a scardinare. La ricostruzione dell’Ucraina farebbe ovviamente parte del progetto.
4. Questo documento si propone di tradurre in iniziativa politica il diffuso e crescente desiderio di pace che attraversa l’Italia e l’Europa. Attorno a esso intendiamo raccogliere componenti del Parlamento e della politica, al fine di indirizzare un chiaro messaggio all’Italia, all’Europa e agli Stati Uniti per la stabilità del nostro continente. Anche perché senza ampi correttivi da mettere subito in atto, le nuove adesioni alla NATO apportano ben pochi vantaggi; anzi, irrigidiscono ancor più il confronto globale. Perciò auspichiamo che nel prossimo Vertice di Vilnius non siano adottate precipitose decisioni sul futuro status dell’Ucraina che priverebbero il negoziato di un importante elemento di trattativa.
5. Chiediamo a chi condivida questo documento di aderire e rendersi disponibile a un coordinamento interparlamentare per gli obiettivi indicati. Non sarà un cammino facile, né breve. Tuttavia, è il solo che appare ragionevole, nel generale interesse.
Roma, 7 luglio 2023
Giorgio Maria Baroncelli, Diplomatico A/R
Elena Basile, Diplomatica A/R
Mauro Beschi, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Mario Boffo, Diplomatico A/R
Rocco Cangelosi, Diplomatico A/R
Giuseppe Cassini, Diplomatico A/R
Guido Cerboni, Diplomatico A/R
Enrico De Maio, Diplomatico A/R
Tommaso di Francesco, Giornalista
Biagio Di Grazia, Generale
Domenico Gallo, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Giovanni Germano, Diplomatico A/R
Alfonso Gianni, Direttore di Alternative per il Socialismo
Alfiero Grandi, Vicepresidente vicario Coordinamento Democrazia Costituzionale Raniero La Valle, Giornalista
Silvia Manderino, Vicepresidente Coordinamento Democrazia Costituzionale Roberto Mazzotta, Diplomatico A/R
Gian Giacomo Migone, Presidente Commissione Esteri Senato 1994-2001 Fabio Mini, Generale
Enrico Nardi, Diplomatico A/R
Alberto Negri, Giornalista
Angelo Persiani, Diplomatico A/R
Antonio Pileggi, Presidenza Coordinamento Democrazia Costituzionale Michelangelo Pipan, Diplomatico A/R
Armando Sanguini, Diplomatico A/R
Barbara Spinelli, Giornalista
Massimo Spinetti, Diplomatico A/R
Vittorio Tedeschi, Diplomatico A/R
Massimo Villone, Presidente Coordinamento Democrazia Costituzionale Vincenzo Vita, Presidente Associazione Rinnovamento della Sinistra
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È online Rocca 14/2023
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Guerra o Pace?

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Pubblichiamo di seguito la relazione di Raniero La Valle al Convegno “Guerra o Pace”.
AL SENATO
di Raniero La Valle
Posta l’alternativa “Guerra o pace?” è molto importante cercare di capire qual è la vera natura di questa guerra. Sempre più appare che essa non è un accadimento circoscritto, ma un capitolo di una guerra costituente che investe tutto l’ordine internazionale e lo struttura come un sistema di dominio e di guerra, i cui effetti sono imprevedibili e possono essere devastanti per tutti i soggetti della comunità mondiale.
Presa in se stessa, questa d’Ucraina è una guerra quanto mai stupida. La guerra infatti non solo può essere dulce inexpertis, non solo può essere aliena a ratione, non solo è contro il diritto, non solo è efferata, ma può essere anche estremamente stupida. E questa lo è. Non ci voleva niente a evitarla, e poteva ben presto finire, 15 giorni dopo, con gli accordi di Antalya subito ricusati dalla NATO.
Dato che questo non è successo, vediamo quali sono i ruoli che nella guerra hanno giocato i diversi protagonisti: lo sfidante, il nemico, la vittima, i vincitori, gli sconfitti.
1. Gli sfidanti sono gli Stati Uniti che dopo la rimozione del muro di Berlino, si sono prefissi di instaurare un ordine mondiale fatto a loro immagine e misura e conformato a un unico dominio. Secondo i documenti strategici dell’amministrazione americana -Casa Bianca e Pentagono – (gli ultimi dell’ottobre scorso) dovrebbe trattarsi di un ordine fondato sui tre pilastri della democrazia, della libertà e della libera impresa e dovrebbe realizzarsi entro questo decennio con l’eliminazione della Russia e la sfida finale con la Cina. Pertanto la guerra d’Ucraina si è presentata come una buona occasione per cominciare col liquidare la Russia, senza nemmeno dover combattere. Secondo Biden bisognava ridurre la Russia alla condizione di paria, ed eliminarla dalla competizione strategica per il dominio globale. Questo dice qual è l’alternativa reale per cui si combatte in questa guerra: o un mondo unipolare e monocratico uniformato a un solo modello culturale e politico, o un mondo pluralistico ma in pace con tutte le sue diversità e le sue dialettiche. E questa è anche la vera scelta che è posta davanti a noi.
2. Il Nemico è naturalmente la Russia. In lei l’Occidente ha ritrovato Il nemico che aveva perduto grazie alla rimozione gorbaciovana del muro di Berlino. L’Occidente ne aveva bisogno perché senza nemico non si può recuperare lo strumento della guerra, come invece, finita la deterrenza, si è affrettato a fare con la guerra del Golfo; ne aveva bisogno perché senza nemico ad Est non può stare in piedi la NATO ad Ovest, e perché senza la coppia amico-nemico secondo la nostra cultura viene meno anche la politica, il “criterio” del politico. La Russia ci ha messo del suo a farsi prendere per nemico, si è offerta alla recriminazione universale, perché mentre aveva ragione nell’opporsi alla NATO in Ucraina e alla repressione nel Donbass, muovendo guerra è precipitata nel torto e ha dato un alibi alla frenesia antirussa imperante in Occidente. Tuttavia la Russia di Putin ha tenuto sotto controllo la sua forza, scegliendo di condurre una guerra circoscritta e a bassa intensità, invece di invadere tutta l’Ucraina e occupare Kiev, come avrebbe potuto fare data la disparità delle forze in campo. Non lo ha fatto non perché non ci è riuscita a causa della sua impreparazione militare, ma perché la posta in gioco non è l’Ucraina, ma l’ordine del mondo.

E un uso controllato della forza ha fatto Putin anche nei confronti della rivolta della Wagner; avrebbe potuto sparare e fermare così la marcia verso Mosca, e non l’ha fatto, scegliendo una soluzione politica (con i terroristi dunque si tratta, al contrario dell’ortodossia corrente in Italia!) e scongiurando una guerra civile.

3. La vittima, come sempre dice il Papa, è la martoriata Ucraina (oltre alle popolazioni povere di mezzo mondo colpite dalla crisi alimentare e energetica). Ma questa vittima ucraina è stata immolata non da uno solo, ma da molti officianti del sacrificio. Putin per primo l’ha individuata come il fulcro della contraddizione e causa della violenza e l’ha gettata nella guerra, ma gli amici e alleati dell’Ucraina l’hanno subito assunta come vittima da innalzare per una soluzione salvifica della crisi, e hanno fatto di Zelensky l’eroe sacrificato ai valori e all’identità dell’Occidente; Europa America e NATO hanno d’incanto raggiunto la loro unità, stabilendo la loro comunione nelle armi inviate alla vittima e nell’affidare alla sua morte sacrificale, spacciata come vittoria, i propri sogni di gloria; si è così stabilita intorno all’Ucraina un’unanimità violenta, che ha accomunato amici e nemici. A sua volta l’Ucraina ingannata dagli Alleati che le hanno promesso la vittoria sulla Russia, si è offerta essa stessa come vittima espiatoria con la decisione di bandire il negoziato, e di non ammettere altro esito che il recupero delle terre perdute, fino alla Crimea; ci sono pagine inquietanti di René Girard, il grande rivelatore dell’ideologia sacrificale, che hanno mostrato come molto spesso la vittima stessa si faccia complice della propria immolazione; e in Zelensky il sacrificatore si è fatto sacrilego perché sacra è la carne del suo popolo gettato nella fornace: anche a costo di restare in guerra per anni, come ha detto, intervistato a “Otto e mezzo”, il ministro degli esteri ucraino Kuleba. Nella logica del potere, come ha mostrato lo stesso Girard, le istituzioni dissimulano la loro propria violenza proiettandola su sempre nuove vittime.
4. I vincitori di questa guerra sono senza dubbio quei fabbricanti americani di armi che tra il 1996 e il 1998 investirono 51 milioni di dollari (94 milioni di oggi) in attività di lobbying per convincere congressisti e Casa Bianca a estendere verso Est la NATO, per espandere il mercato delle armi; come ha detto l’arcivescovo Delpini nel duomo di Milano in morte di Silvio Berlusconi, quando si fanno affari si guarda ai numeri e si dimenticano i criteri. Dimenticati i criteri, la guerra in Ucraina è venuta ed ha ripagato ad usura quell’investimento, dato che già 100 miliardi di dollari dagli Stati Uniti sono andati in armi e profitti per sostenerla.
5. E chi è lo sconfitto? Sconfitto è il progetto di un mondo tutto assorbito nel nuovo secolo americano, perché il mondo non ci sta ad essere ridotto a un unico Impero. Il mondo non è un’entità amorfa, primitiva, disponibile al dominio. È stata questa l’hybris dell’Occidente, la sua scalata al cielo. Mentre fiorivano altre civiltà, a lungo abbiamo creduto che il mondo fosse tutto compreso nella koiné greco-romana, poi lo abbiamo costituito in cristianità, e ora lo chiamiamo Occidente. Ma questa guerra segna la fine dell’Occidente, la sconfitta della sua pretesa di intestarsi la storia del mondo, di ricapitolarne tutti i valori.
Qual è stato il peccato capitale dell’Occidente? L’Occidente non ha riconosciuto l’altro, lo straniero, non lo ha considerato pari a sé. Nonostante il rovesciamento del cristianesimo e di san Paolo, l’Occidente si è portato dietro un’antropologia della diseguaglianza che da Aristotele, dalla società di signori e servi, di cittadini e meteci, di schiavi e liberi, è arrivata fino ad Hegel ed a Croce, passando attraverso la scoperta dell’America; solo questa è costata la scomparsa di 100 milioni di Indiani, di cui anche teologi dell’Occidente dubitavano che avessero l’anima. L’attuale paura della sostituzione etnica, la lotta ai migranti che vengono dal Sud, non a quelli che vengono dall’Ucraina, i porti chiusi, Cutro, sono figli di questa cultura della selezione e dell’esclusione. Non passa lo straniero! Ma, come dice Carl Schmitt, nel senso più estremo lo straniero non è solo l’altro, l’estraneo, ma è il nemico. E il nemico non è necessariamente il malvagio, il nemico è semplicemente l’altro da me; e in fin dei conti, come dirà poi lo stesso Schmitt alla fine della sua vita, grazie alla “sapienza della cella” in cui era rinchiuso per i suoi trascorsi col nazismo, il nemico è “colui che mette in questione me stesso”; in un certo senso dunque il nemico è qualcosa che sta dentro di noi, perché noi stessi siamo continuamente questione a noi stessi; ma ciò vuol dire che se l’Occidente non riconosce l’altro, non lo accoglie come un altro uguale a sé, lo rifiuta come prossimo, non conosce neanche se stesso, è diviso anche in se stesso, è nemico a se stesso.
Qualche giorno fa il Corriere della Sera, pubblicando un editoriale di Angelo Panebianco sullo stato del mondo, titolava così: “L’Occidente e il resto del mondo”. No, non c’è un Occidente che è il mondo, e un resto che è ciò che avanza del mondo, il residuo, lo scarto. Il mondo è uno, ma non per dominarlo come un Impero solo, e nemmeno per dargli un unico diritto, un unico Nomos. Non è questa l’universalità. L’Occidente ha avuto la vocazione alla vera universalità, ha generato messianismi e profezie, ha concepito una koiné che nell’armonia di ricchezze diverse si estendesse fino ai confini della Terra. È questa universalità che l’Occidente ha tradito. Ma non è mai troppo tardi per riafferrare il kairòs mentre fugge, e riaprire il futuro.
Sarebbe tempo che l’Occidente recuperasse la sua vocazione, scongiurasse la fine e che insieme a tutti gli altri si mettesse in gioco per un’altra concezione del mondo, per salvare la Terra.
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Lo Zar resiste

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 123 del 28 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 303 del 28 giugno 2023
LA GUERRA COME PRODOTTO

Cari amici,
L’ammutinamento della Wagner in Russia si è concluso in negativo per il soldataccio Prigozhin e per i Servizi occidentali che, se era vera la vanteria che sapessero tutto già prima, non hanno saputo come muoversi e che fare; si è risolta invece in positivo per Putin che avrebbe potuto fermare a cannonate il convoglio mercenario sull’autostrada per Mosca, e ha invece ben calcolato i rischi preferendo la soluzione politica (con i terroristi dunque si tratta!) ed evitando la guerra civile. Contro le gioiose profezie di un collasso della Russia e di una sua débacle militare, la controffensiva ucraina non ha tratto dalla crisi alcun vantaggio e la guerra è continuata tale e quale.
Piuttosto l’avventura della Wagner ha acceso i riflettori sulla piaga degli eserciti mercenari e dei “contractors” che hanno integrato o addirittura sostituito gli eserciti di leva. Il pacifismo in Occidente ha salutato come una sua vittoria la rinunzia degli Stati alla coscrizione obbligatoria, ma in realtà è stata la vittoria dei guerrafondai che, scottati dall’esperienza del Vietnam (le cartoline precetto bruciate nei campus universitari) e dalla legittimazione dell’obiezione di coscienza, hanno realizzato che non potevano più fidarsi dell’esercito di popolo e del suo gratuito amore per la Patria e hanno optato per la prostituzione alla guerra e all’acquisto delle prestazioni militari per denaro. In tal modo sempre più alla guerra sono venuti meno gli alibi ideali (e i comportamenti sognati dalle Convenzioni di Ginevra) e sempre più essa si è resa intrinseca al denaro; come tutta la realtà assoggettata dal capitalismo, e prima ancora dal Nomos dell’Occidente, alla legge della cosa, la guerra è diventata un prodotto e gli uomini e le donne alle armi sono diventati il producibile, non solo a profitto delle industrie e del mercato delle armi, ma anche delle guerre da fare e del bottino e dei morti da scambiare tra le parti in conflitto.
Il sistema di dominio e di guerra a cui, a partire dal grande evento politico della rimozione del muro di Berlino, è stato conformato l’ordine internazionale e resa schiava la stessa condizione umana sulla Terra (ricordiamo il ministro che durante la guerra del Golfo spiegò alla Camera che ormai non si poteva più distinguere il tempo di guerra dal tempo di pace), si è così istituzionalizzato e dotato di tutte le garanzie per non essere messo in discussione e contestato in democrazia sulle singole guerre da fare.
Paradossalmente se oggi si vuole lottare per la pace e il ripudio del sistema di guerra, bisognerebbe lottare per il ripristino del servizio militare obbligatorio, tale però da essere finalizzato alla creazione di eserciti atti a difendere, in molti modi, non uno solo ma molti beni comuni di cui constano le Patrie; e potrebbero queste Forze Armate non essere sempre con le armi al piede, come fu per la missione militare italiana che alla caduta di Hoxha si recò senza armi in soccorso all’Albania e non per caso fu chiamata “Pellicano”. E con la coscrizione obbligatoria potrebbe perfino tornare l’obiezione di coscienza che in Italia, unico Paese al mondo, la legge riformata che fu elaborata in Parlamento dal Gruppo Interparlamentare (e interpartitico) per la Pace (GIP) chiama, in positivo, “obbedienza alla coscienza”.
Nel sito [ripreso anche da Aladinpensiero di seguito] pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo su come è stata impedita la pace in Ucraina e in Europa dopo i primi negoziati seguiti all’inizio della guerra.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa Chiesadituttichiesadeipoveri- Costituente Terra (Raniero La Valle)
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968958b9-f372-49d5-b0be-f796a1d73e66Ucraina: chi ha stracciato una pace possibile?
23-06-2023 – di Domenico Gallo

Nell’era della comunicazione, in cui siamo interconnessi con tutto il mondo e possiamo ricevere qualunque notizia in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie delle grandi potenze agiscono nel modo più occulto possibile e tengono rigorosamente nascoste le loro scelte di guerra che passano sulla testa dei popoli.

Credevamo che la diplomazia segreta, intessuta sulla pelle dei popoli appartenesse al passato, come avvenuto durante la Prima guerra mondiale quando, attraverso un Trattato segreto stipulato a Londra il 26 aprile 1915, un piccolo re concordò, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, l’entrata in guerra dell’Italia, ben sapendo che avrebbe determinato la morte di centinaia di migliaia di suoi sudditi. Invece adesso viene fuori che le Cancellerie dei principali paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace, che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni. In verità il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di una anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa. Però se ne potevano dedurre delle tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella NATO e accettare uno status di neutralità. Già all’epoca, gli osservatori più attenti, come Jeffrey Sachs (intervista al Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione USA aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’Amministrazione USA, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione Europea e le Cancellerie dei principali paesi europei hanno mantenuto un silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso di quasi tutta la stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.

Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Time erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Il 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leader africani, guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022, si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capodelegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Charkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”. Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra.

Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Qui il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra. Da questo fatto, non più contestabile, si deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli USA e la Gran Bretagna, in quanto principali fornitori di armi all’Ucraina. L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Johnson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto.

L’accordo non poteva essere sconosciuto agli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione Europea ne dovevano essere a conoscenza. Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati e i vertici UE dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato. Quando si fanno dei misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo.

Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica”, evidentemente, valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte. Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio evitando infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da TV, giornali ed agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.
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Guerra continua

968958b9-f372-49d5-b0be-f796a1d73e66Ucraina: chi ha stracciato una pace possibile?
23-06-2023 – di Domenico Gallo

Nell’era della comunicazione, in cui siamo interconnessi con tutto il mondo e possiamo ricevere qualunque notizia in tempo reale, ancora una volta viene fuori che le Cancellerie delle grandi potenze agiscono nel modo più occulto possibile e tengono rigorosamente nascoste le loro scelte di guerra che passano sulla testa dei popoli.

Credevamo che la diplomazia segreta, intessuta sulla pelle dei popoli appartenesse al passato, come avvenuto durante la Prima guerra mondiale quando, attraverso un Trattato segreto stipulato a Londra il 26 aprile 1915, un piccolo re concordò, all’insaputa del Parlamento e dell’opinione pubblica, l’entrata in guerra dell’Italia, ben sapendo che avrebbe determinato la morte di centinaia di migliaia di suoi sudditi. Invece adesso viene fuori che le Cancellerie dei principali paesi occidentali si sono mosse occultamente per sventare la pace, cioè per evitare che la sciagurata impresa bellica intrapresa dalla Russia si potesse rapidamente concludere con un accordo di pace, che ponesse le basi per la convivenza pacifica fra le due Nazioni. In verità il 16 marzo 2022 il Financial Times svelava un piano di pace in 15 punti, fondato sulla conciliazione dei diversi interessi in campo, che le parti avevano concordato nel corso dei negoziati russo-ucraini in Turchia. Si trattava di una anticipazione giornalistica, che non venne confermata dalle parti in causa. Però se ne potevano dedurre delle tracce dalle dichiarazioni di Zelensky e dei suoi più stretti consiglieri che, in più occasioni, riconobbero che l’Ucraina poteva rinunziare all’ingresso nella NATO e accettare uno status di neutralità. Già all’epoca, gli osservatori più attenti, come Jeffrey Sachs (intervista al Corriere della Sera del 1° maggio 2022) osservarono con sospetto che, a fronte di queste proposte di pace, l’Amministrazione USA aveva mantenuto un silenzio di tomba. In realtà non solo l’Amministrazione USA, ma anche la Gran Bretagna, i vertici dell’Unione Europea e le Cancellerie dei principali paesi europei hanno mantenuto un silenzio di tomba, in ciò aiutati dall’atteggiamento omertoso di quasi tutta la stampa che non ha mai posto domande che potessero disturbare il manovratore.

Adesso sappiamo che le indiscrezioni del Financial Time erano più che fondate: l’accordo di pace era stato raggiunto. Il 17 giugno, ricevendo la delegazione dei leader africani, guidata dal Sudafrica, il presidente russo Vladimir Putin ha reso noto che durante le trattative tra le delegazioni ucraina e russa svoltesi a Istanbul a fine marzo 2022, si era raggiunto un accordo molto dettagliato che prevedeva come punto centrale la neutralità dell’Ucraina e che, a seguito del ritiro delle truppe russe che circondavano Kiev, la guerra sarebbe finita. Putin ha mostrato il documento con la firma del capodelegazione dell’Ucraina. Subito dopo l’avvenuto ritiro delle truppe da Kiev e Charkiv, secondo Putin, l’accordo è stato stracciato dagli ucraini e gettato “nella pattumiera della storia”. Il documento, in 18 articoli, era denominato “Trattato sulla neutralità permanente e sulle garanzie di sicurezza per l’Ucraina”. L’accordo non si limitava a petizioni di principio, ma conteneva un allegato dettagliato con clausole specifiche, fino alle unità di equipaggiamento da combattimento e al personale delle Forze armate. Si trattava, pertanto, di un accordo specifico, concreto, del tutto idoneo a porre fine alla guerra.

Un indizio è la prova di un fatto ignoto che si desume da un fatto noto. Qui il fatto noto è l’esistenza di un trattato di pace che avrebbe posto fine alla guerra. Da questo fatto, non più contestabile, si deduce che vi è stata un’attività segreta, che si è sviluppata sulla pelle del popolo ucraino e degli altri popoli europei per sventare la pace. I principali indiziati sono gli USA e la Gran Bretagna, in quanto principali fornitori di armi all’Ucraina. L’accordo non è stato attuato perché evidentemente Biden e Johnson hanno posto il veto, assicurando a Zelensky che gli avrebbero fornito una tale potenza di fuoco da rovesciare le sorti del conflitto.

L’accordo non poteva essere sconosciuto agli Stati indicati come garanti della protezione dell’Ucraina neutrale da ogni aggressione, fra cui Francia, Germania, Stati Uniti, Regno Unito, Turchia; di conseguenza anche i vertici dell’Unione Europea ne dovevano essere a conoscenza. Essendo a conoscenza dell’accordo questi Stati e i vertici UE dovevano necessariamente essere a conoscenza anche delle manovre poste in essere per sventare la pace. Eppure hanno taciuto, hanno conservato un silenzio di tomba, evidentemente condividendo quelle condotte che hanno istigato l’Ucraina a stracciare l’accordo che i suoi stessi negoziatori avevano firmato. Quando si fanno dei misfatti occorre tenerli rigorosamente nascosti per poter conseguire lo scopo.

Lo scopo di inserire l’Ucraina nella grande “famiglia atlantica”, evidentemente, valeva centinaia di migliaia di morti, l’ecocidio dell’ambiente, sofferenze inenarrabili per le popolazioni coinvolte. Nascondendo questa verità, che la guerra poteva essere fermata dopo poche settimane dal suo scoppio evitando infiniti lutti, è stato compiuto un tradimento in danno di tutti i popoli europei. Per completare l’opera, anche adesso la notizia dell’accordo di pace sventolato da Putin è stata tenuta rigorosamente segreta da TV, giornali ed agenzie di stampa. Ma noi non possiamo tacere e la urliamo sui tetti.
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Autonomia differenziata: l’associazionismo cattolico sardo promuove il confronto e s’impegna per il NO

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di Mario Girau
Una raffica di “no” al disegno di legge Calderoli sull’autonomia differenziata è arrivato nei giorni scorsi dal convegno regionale organizzato sul tema dal Meic (Movimento ecclesiale di impegno culturale). Una serie di motivati pareri negativi che non potranno essere ignorati dai partiti sardi. No pesanti formulati da due ex presidenti della Regione – Pietrino Soddu e Francesco Pigliaru – da un politico di lungo corso ed esperienza come Tore Cherchi; il rettore emerito dell’Università di Cagliari, Maria del Zompo, da Maria Agostina Cabiddu docente di Diritto Pubblico al Politecnico di Milano. L’arcivescovo di Oristano e vescovo di Ales Roberto Carboni ha chiesto ai politici quantità industriali di attenzione e prudenza nell’esame di un documento che dovrà prioritariamente garantire alla Sardegna e all’Italia la certezza della pari dignità giuridica ed economica dei cittadini.
Il timore di trovarsi davanti a un “Robin Hood alla rovescia’’ sostanzia il rinvio al mittente del ddl del Ministro per gli affari regionali e rilancia la voglia dei sardi di mobilitarsi per una nuova autonomia regionale. Purchè predisposta nell’isola, dopo un grande coinvolgimento popolare e istituzionale, battezzata dal Parlamento e riconosciuta in Europa come il “volto nuovo della Sardegna”. Una sorta di grande “concilio”, tutti dentro”. «Si tratta non solo di riunire ecumenicamente le forze sarde, nessuna esclusa – ha detto Pietrino Soddu, da almeno 30 anni sostenitore di un cambiamento/aggiornamento dello statuto e delle forme di autogoverno – ma anche di conciliare e fare sintesi di posizioni a volte decisamente contrapposte».
Bocciatura secca da Tore Cherchi. «Da respingere interamente non il principio dell’autonomia differenziata, ma l’oggetto concreto del ddl – ha detto l’ex parlamentare PD – il suo contenuto legislativo, i principi incarnati, le incoerenze costituzionali. Calderoli propone uno scambio tra autonomia differenziata e insularità». Maria Del Zompo (rettore emerito Università di Cagliari) definisce «deleterio per la Sardegna e per la Repubblica il testo Calderoli». Per Francesco Pigliaru (ex Presidente della Regione) si è davanti a «Un tentativo di fuga da parte delle regioni più forti del CentroNord» con una riforma di cui il Paese non sente la necessità. Il problema vero è interno all’isola: dal 1992 non cresce economicamente e ha un indice di qualità istituzionale basso: 177mo su 208 regioni europee.
Mons. Roberto Carboni (arcivescovo di Oristano e vescovo di Ales-Terralba) mette sul tavolo un interrogativo discriminante: «La differenziazione porterà benessere alla mia gente o favorirà soltanto le regioni già ricche?» Dalla risposta il sì o no all’autonomia differenziata.
Maria Agostina Cabiddu (Docente di Diritto Pubblico del Politecnico Milano): «Un disegno di legge come questo, che si propone di incidere significativamente sull’ordinario regime delle competenze, sul riparto delle risorse umane e finanziarie e, alla fine, sull’eguale godimento dei diritti su tutto il territorio nazionale, non può seguire il procedimento legislativo ordinario né tantomeno quello blindato dei collegati alla finanziaria, che lo sottrarrebbe financo all’eventuale giudizio popolare».
L’iniziativa Meic segna la discesa in campo – richiesta da molti e ben vista anche dall’episcopato sardo – dell’associazionismo cattolico sui problemi politici e sociali. Aprire processi e non occupare spazi è l’orientamento di quella minoranza che ormai frequenta la messa domenicale e non diserta le urne. « Ci vogliamo chiedere – ha detto Luisanna Usai (delegata regionale del Movimento d’impegno culturale) aprendo, dopo il saluto di Pietro Arca sindaco di Sorradile, i lavori del convegno coordinato da Francesco Birocchi, presidente dell’Ordine dei giornalisti – se questa legge produrrà il perseguimento del bene comune, se uguali diritti saranno garantiti, come recita la nostra Costituzione, se l’Italia sarà capace di mantenere la sua unità, se non si rischi l’ingiustizia di “fare parti uguali tra disuguali”». Il ddl apre una nuova stagione per la Sardegna che, ha detto Franco Siddi presidente editori radio-televisivi, «richiede unità del popolo sardo sui grandi temi sanità, scuola, trasporti, riforme». La concretezza delle risposte per una vera autonomia si sostanzia di valori: partecipazione e solidarietà per Daniela Masia Urgu (Acli Oristano), coesione sociale e cultura secondo Luigi Pintori.
(Mario Girau)
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È online Rocca/13
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b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 122 del 21 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 302 del 21 giugno 2023
LA PACE DAL SUD?

Cari amici,
si svolgerà il 22 agosto in Sudafrica un vertice dei cosiddetti Paesi del BRICS, che sono il Brasile, la Russia, l’India, la Cina e il Sudafrica, aggregazione geopolitica alla quale molti altri Paesi del sud del mondo vorrebbero aderire. Ci sono infatti più Paesi e realtà umane e politiche nel mondo che non solo gli Stati Uniti, la NATO e l’Ucraina. La speranza è che questa volta la pace venga dal Sud e finalmente l’Ucraina possa uscire dalla tragedia in cui è stata gettata. In vista di questo vertice e in occasione della visita a Roma del presidente del Brasile Luiz Inácio Lula da Silva vi segnaliamo un’intervista che gli è stata fatta dal Corriere della Sera, che pubblichiamo nel nostro sito.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra e Chiesadituttichiesadeipoveri (Raniero La Valle)

La guerra infinita

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 121 del 17 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 301 del 17 giugno 2023
BASSA INTENSITÀ?

Cari amici,
ha detto Putin, parlando a un incontro sull’economia internazionale a San Pietroburgo, che la Russia è in grado di colpire qualsiasi edificio a Kiev. Perché non lo fa? Con la sua potenza militare se avesse voluto avrebbe potuto già da tempo vincere la guerra con l’Ucraina. Non lo fa per tener fermo il punto, enunciato fin dall’inizio, che da parte russa questa non è una guerra, ma un’”operazione militare speciale”, cosa che è stata considerata da noi, in Occidente, come un’affermazione edificante e puramente propagandistica.
In realtà la linea seguita finora da Mosca sul campo è quella di una “guerra a bassa intensità” le cui ragioni sono evocate in un articolo di Alessandro Valentini in una analisi che, pur muovendo da una visione di parte, merita di essere presa in considerazione. La tesi che ne emerge è che la guerra si prolunga perché la posta in gioco non è l’Ucraina ma il conflitto tra due visioni dell’ordine mondiale.
In effetti, ma non solo da ora, bensì a partire dalla fine della contrapposizione tra i blocchi, si è delineato un conflitto tra un ordine unipolare e monocratico, presidiato da un unico potere militare e politico, che è la visione proposta e argomentata ufficialmente dagli Stati Uniti e acriticamente condivisa dal complesso dei loro alleati e partners, e un ordine multipolare e pluralistico che è rivendicato dalla Russia, dalla Cina e da molti Paesi del sud del mondo e del resto del mondo.
Secondo i documenti ufficiali dell’amministrazione americana, l’esito della “competizione strategica” tra queste due alternative, cioè tra queste due parti del mondo, sarà deciso entro questo decennio con o senza la guerra; guerra che, in tale prospettiva, sarebbe inevitabilmente una guerra universale, se pure non atomica. Per il momento la guerra d’Ucraina, che ne rappresenta la prima fase ed ha per obiettivo l’eliminazione della Russia, continua nonostante ogni possibile negoziato, perché il vero negoziato dovrebbe risolvere il contrasto tra queste due concezioni del mondo. Stretta tra questi vasi di ferro, l’Ucraina è offerta, e si offre, in sacrificio.
Essa è vittima dell’inganno, ordito nei suoi confronti, dagli Stati Uniti e dall’Occidente, che le hanno fatto credere di poter vincere la guerra con la Russia, nonostante l’evidente sproporzione delle forze. Ma la guerra della quale era promessa all’Ucraina la vittoria non era in realtà la sua guerra, ma quella degli Stati Uniti e del loro mondo unipolare, che per di più sarebbe stata vinta senza essere combattuta. Purtroppo l’Ucraina è caduta nella pania, prima sprezzando i moniti a non insistere per l’ingresso nella NATO, nonostante l’avvertimento russo che ciò sarebbe stato causa di guerra, poi, a guerra iniziata, precipitandosi nell’illusione della vittoria propiziata dalla bulimia delle armi, spensieratamente fornitele in regalo dall’Occidente. Zelensky, mettendoci del suo ogni energia, è caduto nella voragine che gli era stata allestita in quanto, personaggio della TV, era digiuno di scienze storiche, ignaro del diritto, inesperto di rapporti internazionali e non immune dalle mitologie dei nazionalismi novecenteschi; ed è per questo che, in una intervista a Nbc News, mettendo in guardia sulle conseguenze di un’eventuale sconfitta di Kiev ha sostenuto che gli Stati Uniti dovrebbero scegliere tra “entrare in guerra con la Russia” o “il collasso della NATO”. È questo il contesto dell’attuale disastro dal quale l’unico modo per uscire è agire perché prevalga un’altra visione del mondo.
Sulla morte di Berlusconi pubblichiamo nel sito una riflessione dal titolo “Arcitaliano?”
Con i più cordiali saluti,
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PERCHÉ UNA GUERRA A BASSA INTENSITÀ
17 GIUGNO 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA / su Costituente Terra
La vera posta in gioco della guerra in Ucraina è l’alternativa tra un mondo unipolare e monocratico e un mondo multipolare e pluralista. Perciò non si intravvedono spazi per vere trattative. Quale pacifismo

Alessandro Valentini

La guerra tra Russia e Ucraina, e in termini più complessivi tra Russia, Nato e Stati Uniti, viene spesso presentata come un ritorno alla “guerra fredda”. Il paragone però è fuorviante, non regge. Nella “guerra fredda” vi erano due sistemi, politici, economici e sociali ben definiti: da una parte il capitalismo, dall’altra parte il socialismo realizzato. Tutta la diplomazia e le relazioni internazionali ruotavano attorno a questa realtà, anche i numerosi Paesi cosiddetti non allineati, come la Jugoslavia, l’India e la stessa Cina, si muovevano dentro questo contesto. E pure le strategie militari, compresa la corsa al riarmo delle due superpotenze, Usa e Urss, non prescindevano dai rapporti di forza usciti dalla Seconda Guerra Mondiale. Tant’è che, nonostante la contrapposizione tra blocchi, vi erano spazi, per una serie di Paesi, anche europei, per poter condurre iniziative diplomatiche in parte autonome, che comportavano anche scambi commerciali e relazioni economiche. Si pensi all’azione delle socialdemocrazie, in primis di quelle tedesche e scandinave, o ai rapporti economici fruttuosi che i governi italiani di centro-sinistra stabilivano con l’Unione Sovietica e gli altri Paesi socialisti. Nessuno statista occidentale, in quegli anni, fece mai dichiarazioni bellicose nei confronti dell’Urss o tentò di praticare una linea volta a smembrarla. Unica eccezione fu Churchill, che subito dopo il ’45, sconfitta la Germania nazista, si avventurò in dichiarazioni forti di aggressione militare all’Urss di Stalin, che non aveva ancora la bomba atomica, ma rimase una voce isolata e non fu ascoltato, per fortuna, dagli statunitensi. Tutti gli Stati di entrambi i blocchi si muovevano all’interno di quanto stabilito dagli accordi di Yalta che sancivano la presenza di due sfere di influenza, quella degli Usa e quella dell’Urss.

Senza infrangere gli accordi di Yalta le due superpotenze si garantivano dei margini di interpretazione autonoma di quanto stabilito. Da parte sovietica si avanzava la strategia della “coesistenza pacifica”, realizzando la quale si sarebbero aperti molti spazi per le forze progressiste in Occidente, per nuovi processi di decolonizzazione del Terzo Mondo e per le lotte di liberazione nazionali. Tra l’altro la guerra coreana era stata una lezione per tutti: su quella strada si rischiava di giungere a un nuovo e più drammatico conflitto mondiale, con conseguenze catastrofiche per l’intera umanità. Da parte Usa invece si praticava la politica di contenimento dell’influenza sovietica, facendo ricorso alle armi e anche ai golpe militari, se necessario, in quei Paesi che formalmente non erano militarmente loro alleati o non erano parte integrante del sistema economico imperialistico. Mai dalla Casa Bianca però fu attuata una politica di aggressione militare diretta e frontale al campo socialista. La crisi di Cuba fu risolta dopo che Kennedy decise di ritirare i missili con testate nucleari dalla Turchia e di conseguenza Krusciov rinunciò a installare armi dello stesso tipo a Cuba.

Questo atteggiamento simile delle due superpotenze apriva enormi spazi politici, non solo, come ho già detto, alle forze progressiste e di sinistra in Occidente e ai movimenti di liberazione, ma anche al movimento della pace, che si affermò con l’enorme contributo anche dei cattolici, e negli Usa della sinistra liberal, che fece suoi gli orientamenti emergenti dalle nuove generazioni, molto coinvolte da fermenti culturali e di costume che caratterizzarono quegli anni. Si pensi a proposito all’influenza della musica rock, della poesia e della letteratura della Beat Generation. Dunque, la “guerra fredda” era una situazione derivata da Yalta ma non determinava il congelamento dei processi mondiali. Dentro al contesto della “guerra fredda” vi erano ampie brecce che consentivano ai movimenti di massa di pesare e di condizionare la politica e persino la geopolitica. La lezione del Vietnam è stata anche tutto questo!

Mi pare invece di poter dire che gli scenari attuali poco o nulla hanno a che fare con la “guerra fredda”. Torno sinteticamente sulle ragioni che hanno condotto Putin ad avviare l’”operazione militare speciale”: l’estensione della Nato fino ai confini della Russia; l’aggressione al Donbass e alle regioni di lingua russa da parte di Kiev, con bombardamenti aerei che in otto anni di guerra hanno provocato 14.000 morti, molti dei quali civili, tra cui donne e bambini; il boicottaggio sistematico dell’Ucraina degli accordi di Minsk; l’integrazione delle milizie naziste e degli ultra nazionalisti nell’esercito regolare ucraino dopo il colpo di Stato, voluto, sostenuto, finanziato e guidato dagli Usa, che già erano presenti attivamente da anni nell’ex Repubblica Sovietica attraverso la Nato, la Cia e una serie di laboratori segreti per produrre armi biologiche di sterminio di massa; la persecuzione della etnia russa con vessazioni e metodi razzisti; la messa al bando di ben 11 partiti e dei mezzi di informazione dell’opposizione, con arresti e uccisione di politici, sindacalisti e giornalisti; la persecuzione della Chiesa Ortodossa che ha nel Patriarca di Mosca il suo punto di riferimento. Ho citato tutte queste ragioni che da sole sono già sufficienti per giustificare un intervento militare russo, che tra l’altro ha anticipato quello del governo ucraino, che stava ammassando un grosso esercito ai confini delle due Repubbliche del Donbass.

È mia convinzione però, che la ragione principale che ha spinto Mosca a mettere in atto l’“operazione militare speciale”, pur non sottovalutando l’insieme delle ragioni citate precedentemente, sia squisitamente politica, o se si vuole geopolitica. Il riferimento alla “guerra fredda”, fatto all’inizio di questa trattazione, serve come pietra di paragone per mettere in evidenza che dopo il dissolvimento del campo socialista e della stessa Unione Sovietica, gli Usa hanno radicalmente modificato il loro atteggiamento sulla “questione russa”. Da una politica di contenimento dell’influenza mondiale dell’Urss sono passati a una politica di vera e propria aggressione alla Russia, nutrendo la speranza che fosse possibile non solo disarticolare l’ex Unione Sovietica, ma la stessa Russia. Ricordo che la Russia ha un immenso territorio di 17.100.000 km² che comprende la Siberia all’interno della quale si trova circa il 50 per cento delle risorse strategiche del pianeta. Questo cambio di linea fu provocato da due novità che si erano determinate alla fine del secolo scorso.

La prima riguarda lo scioglimento dell’Urss, dopo il quale l’Occidente credeva, o si illudeva, che si sarebbe andati verso la costruzione di un mondo unipolare, dominato dagli Usa. Dunque, finalmente le diverse centrali imperialistiche avrebbero avuto mano libera per saccheggiare e depredare tutti i Paesi che prima, in qualche modo, erano stati tutelati dall’Urss e contemporaneamente gli Usa e i loro alleati avrebbero potuto presentarsi al Sud del mondo come quelli che dettavano ancor di più le regole. Questa convinzione è all’origine di una serie di guerre, a iniziare dallo smembramento della Jugoslavia Paese leader dei non allineati, senza porsi troppi problemi nel bombardare la Serbia. E in seguito le guerre contro l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, lo Yemen, la Somalia, tanto per citarne alcune. Ciò era reso possibile da una Russia troppo debole per svolgere un ruolo di contrappeso, e tra l’altro molto impegnata in guerre alle porte di casa in Georgia e in Cecenia, e dalla Cina che non era ancora quella grande potenza che è oggi. Sul piano politico si pensava di realizzare l’unipolarismo attraverso le “rivoluzioni colorate” e i colpi di mano per costituire, con il pretesto di portare libertà e democrazia, governi fantoccio legati all’Occidente, in particolare agli Usa o ad alcune potenze europee.

La seconda novità fa riferimento al passaggio dal capitalismo al dominio incontrastato del capitale finanziario, che proprio in quegli anni in Occidente, maturava in tutta la sua enorme portata. Il processo affonda le sue radici nel passato, quando Nixon impose la messa in discussione degli accordi di Bretton Wood e la fine della convertibilità del dollaro in oro, determinando un sistema in cui la moneta non è più alla base dello scambio delle merci, ma diviene essa stessa merce ed è sempre meno connessa ai processi produttivi. È ovvio che un sistema geopolitico unipolare, basato sulla potenza militare statunitense, fosse funzionale alle attività speculative e di finanziarizzazione dell’economia da parte delle oligarchie finanziarie. E la loro globalizzazione, oggi in crisi, ha prevalentemente questa finalità. Si tratta di una globalizzazione finanziaria ben diversa da come si intende in altri Paesi, in particolare la Cina, cioè grande mobilità e circolazione di denaro – merci – forza lavoro (possibilmente qualificata e specializzata) per lo sviluppo della produzione e per creare nuova ricchezza.

Spesso però «il diavolo fa le pentole ma non i coperchi». La fase unipolare è stata breve, non ha retto ai processi in atto. Anche in questo caso cito alcune cause, le più importanti.

– Si è sottovalutato l’imponente sviluppo economico della Cina e la sua capacità di passare da una produzione di quantità a una produzione di qualità affermandosi come primo Paese nella produzione tecnologica.

– In Occidente si sono colti solo tardivamente i processi politici che hanno portato la Russia da Eltsin a Putin, con un conseguente risveglio politico, economico, culturale e militare della nazione.

– Il dominio in Occidente del capitale finanziario ha portato a un forte ridimensionamento del ruolo dello Stato come soggetto principale nel pianificare gli interventi per lo sviluppo produttivo, per grandi opere infrastrutturali, per estendere, migliorare e qualificare il welfare, per attuare politiche monetarie. Dove il capitale finanziario esercita incontrastato il suo dominio, cioè in buona parte dell’Occidente, il tema della programmazione è totalmente rimosso e al suo posto sono subentrate le privatizzazioni selvagge a favore di ristrette élite finanziarie. L’azione dei governi è ridotta a gestire un po’ di spesa corrente e a favorire l’introduzione di nuove e sempre più pesanti privatizzazioni (soprattutto dei beni comuni) e l’esternazione dei servizi. E si assiste anche ad uno scenario nel quale i governi sono al servizio di multinazionali e grandi gruppi finanziari, come si è visto in modo molto chiaro nel caso dei vaccini per contrastare la pandemia, ma anche riguardo alla nuova frontiera dell’intelligenza artificiale e al complesso militare industriale. Tutto ciò mette anche in discussione i livelli di democrazia esistenti. Infatti, l’Occidente (basta guardare al funzionamento della UE) è sempre più caratterizzato da sistemi politici a-democratici, dominati appunto dal capitale finanziario.

– Il mondo non è tutto dominato dal capitale finanziario. Ci sono Paesi come la Cina, la Russia e tanti Paesi del Sud del mondo nei quali lo Stato esercita e svolge le sue funzioni, soprattutto stabilendo modalità e obiettivi degli indirizzi economici. Il Sud è un insieme complesso di Paesi con diverse espressioni politiche e diversi sistemi economici e sociali. Vi sono Paesi socialisti o a orientamento socialista, Paesi in via di sviluppo ma ricchi di materie prime, Paesi con forme di capitalismo monopolistico di Stato, sia pur molto diversificate. Sono questi gli Stati dove vengono attuate forme di pianificazione e politiche più o meno di natura neokeynesiana per migliorare le condizioni materiali di vita e tutelare la sovranità nazionale. Nel frattempo, in Occidente si deve constatare la morte del riformismo, a tal proposito basta riflettere su cosa sono diventati i Paesi scandinavi, un tempo additati come esempio più significativo del modello riformista. In Italia questa involuzione è dimostrata dall’Emilia Romagna e dalla Toscana che hanno smesso di essere esempi del buon governo del centro-sinistra. Gli Stati del Sud del mondo rappresentano oltre i due terzi della popolazione mondiale e sempre meno vogliono stare alle regole dettate da una visione unipolare e prepotente dei rapporti internazionali, una visione che è tutt’uno con gli interessi e le attività del capitale finanziario e dei principali poli imperialisti mondiali. E’ proprio sulla questione di un ruolo forte dello Stato per affrontare e risolvere i grandi problemi dell’umanità che in questi anni si è determinata una frattura che ha creato due veri e propri campi distinti. Accordi internazionali, come il Brics (che raggruppa Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa), per citare il più importante, vanno appunto nella direzione di rafforzare quella idea di globalizzazione e di circolazione di denaro-merci-forza lavoro sulla base del reciproco interesse respingendo la concezione di una globalizzazione finanziaria, speculativa e di rapina. Non c’è allora da stupirsi se sono già una ventina i Paesi che hanno chiesto di voler entrare a far parte del Brics.

– Il consolidamento dell’asse strategico tra Russia e Cina che si rafforza proprio nella lotta per contenere l’azione devastatrice del capitale finanziario e la sua visione unipolare. L’intesa tra queste due grandi potenze trascina tutto il Sud del mondo e gli conferisce il coraggio necessario per alzare la testa, per essere coprotagonista di un mondo che cambia, che va nella direzione di una pratica multipolare nei rapporti internazionali, per contrastare e contenere l’azione distruttiva del capitale finanziario. Un Sud del mondo che forse per la prima volta nella sua storia è consapevole di poter riscattare oltre quattro secoli di colonialismo e di imperialismo imposto dagli europei, dai nord americani e dal Giappone.

La veemenza politica, spinta fino all’uso di matrice nazista della russofobia – sentimento di paura e di ostilità verso il popolo, la politica e la cultura russa – non ha mai caratterizzato la “guerra fredda”, anche nei momenti di crisi più acuta. Allora, con la divisione del mondo in due blocchi nessuna delle due superpotenze nucleari è mai intervenuta militarmente né mai ha disposto l’applicazione di sanzioni economiche se l’altra parte calpestava la sovranità, i diritti e le aspirazioni di un Paese che, pur facendo parte integrante di uno dei due campi, cercava una via autonoma per il suo futuro. La partita, anche a livello militare, si giocava in quelle zone del mondo non decisamente posizionate in una delle due aree di influenza. Ha ragione Xi Jinping quando sostiene che siamo protagonisti di cambiamenti che non si vedevano da cento anni. Siamo a un grande tornante della storia, come fu quello della Rivoluzione Francese o della Rivoluzione d’Ottobre. Non si tratta quindi di un ritorno alla “guerra fredda”.

A proposito della Cina vorrei sottolineare che forse, almeno all’inizio, non condivideva in pieno la scelta di Putin di intraprendere un’operazione militare, per una serie articolata di ragioni. La prima preoccupazione dei cinesi era legata al fatto che si sarebbe prodotta una instabilità nel commercio globale; la seconda che temevano una reazione molto aggressiva degli Usa e della Nato, inoltre non erano sicuri che il contingente militare russo, circa 160.000 militari, fosse sufficiente contro l’esercito ucraino, forte di quasi 400.000 soldati con il supporto dei corpi di élite ben addestrati dalla Nato; infine non vi era la certezza che il Sud del mondo si sarebbe schierato con la Russia. Ma ciò che ha convinto Xi Jinping e il gruppo dirigente cinese è stata l’impostazione della operazione militare data da Putin. Tra le ragioni dei russi – alcune rammentate anche da Papa Franceso (“la Nato che abbaia ai confini della Russia”) – giuste o errate che siano, ce n’è però una fondamentale, vitale, che ovviamente i cinesi non possono ignorare: la battaglia per realizzare un ordine mondiale multipolare che corrisponde al modo della Cina di interpretare strategicamente le relazioni internazionali al fine di sviluppare il socialismo con caratteristiche cinesi. In scala ridotta un processo di graduale e sempre più convinta adesione e sostegno alla Russia vi è stato anche da parte di settori, pur molto minoritari, della sinistra rivoluzionaria europea. Da questa riflessione ne deriva un’altra che occorre sottolineare. La Russia, con l’operazione militare, non è stata fagocitata dalla Cina come certi nostrani esperti geopolitici liberal sostengono. La Cina indubbiamente è una potenza economica ben più importante della Russia, però quest’ultima ha enormi riserve di materie prime e un potente arsenale militare (e nucleare) molto più forte di quello cinese, ma soprattutto il Cremlino ha saputo condurre una iniziativa politica e diplomatica che l’ha portata di fatto a essere leader dei Paesi del Sud del mondo. Insomma, le due potenze hanno bisogno l’una dell’altra e insieme prospettano al Sud del mondo la vittoria nella battaglia per un nuovo ordine mondiale. Occorre inoltre sottolineare che sono tre i Paesi fondamentali del processo di integrazione economico e commerciale asiatico. Troppo spesso ci si dimentica dell’India il cui ruolo per molti aspetti è quello di mantenere un equilibrio dello sviluppo stabile in Asia.

Questa è la vera posta in gioco della guerra in Ucraina, lo sanno bene entrambi i campi. Ecco perché è difficilissimo mettere in piedi uno straccio di negoziato. La Russia, oltre a voler raggiungere tutti i suoi obiettivi esplicitamente dichiarati vuole, insieme con la Cina, che gli Usa e l’Occidente abbandonino l’unipolarismo per il multipolarismo, ma l’Occidente è totalmente prigioniero dell’immenso potere che ha il capitale finanziario che non intende assolutamente rinunciare a questa sua visione. Pertanto, la posizione egemone è che l’unica pace giusta sia quella che preveda non solo il ritiro della Russia da tutti i territori occupati, compresa la Crimea, ma anche la sua umiliazione; solo mettendola in ginocchio si pensa di poter scongiurare la minaccia per il bel “giardino” occidentale, realizzato con secoli di sfruttamento e di rapina del Terzo Mondo. E i più oltranzisti giungono a teorizzare che se la Russia sarà smembrata sarà ancora meglio.

Spazi dunque per trattative non ce ne sono, per ora non si intravvedono. Per questo la strategia militare dei russi consiste nel condurre una guerra a bassa intensità puntando non solo alla disfatta di Kiev ma anche al logoramento dell’Occidente. L’uso della forza militare applicata selettivamente e in modo limitato ha anche lo scopo di evitare che alcuni Paesi confinanti con la Russia si allarmino oltre il dovuto fino a un allargamento del conflitto. Questa tipologia di guerra localmente circoscritta è tesa inoltre al logoramento dell’Occidente, e segnali in questo senso se ne vedono un po’ dappertutto in Occidente, non solo negli Usa, ma anche in Europa, nella Gran Bretagna, in Francia, in Germania, in Spagna come in Italia, per citare solo i Paesi più importanti. Una conduzione militare, perciò, funzionale all’intensa attività politica e diplomatica dei russi e dei cinesi, volta al consolidamento dei loro rapporti di amicizia con il Sud del mondo. Il risultato è che non è la Russia ad essere isolata ma è l’Occidente che è sotto assedio. Un dato questo del tutto evidente nella partita delle sanzioni economiche in cui l’Europa è la prima a farne le spese. Chi avrebbe detto solo due anni fa che la Germania sarebbe entrata in recessione?

Mi si potrebbe criticare dicendo che sottovaluto il rischio di una guerra nucleare che causerebbe una catastrofe per tutta l’umanità. È senz’altro vero che se non ci fossero le armi nucleari la terza guerra mondiale sarebbe già scoppiata, quindi, rovesciando la questione, risulta evidente che le armi nucleari rappresentano oggi un deterrente molto forte, maggiore di quello che si è avuto nel passato, proprio perché non ci sarebbero né vinti né vincitori. Le grandi potenze lo sanno molto bene. Anche la possibilità di una guerra nucleare tattica in Europa è solo una trovata giornalistica: la risposta a una bomba nucleare tattica sarebbe una guerra nucleare mondiale che coinvolgerebbe anche gli Stati Uniti. Il primo missile nucleare russo non sarebbe lanciato sulle capitali europee ma su New York, e questo il Pentagono lo sa molto bene. Il rischio di una guerra nucleare non è quindi del tutto scongiurato ma resta un’opzione molto remota, poco probabile. Ecco perché la sconfitta militare della Russia, come del resto quella degli Stati Uniti, non può essere contemplata. Ecco perché i russi conducono in Ucraina una guerra a bassa intensità. Ecco perché gli Usa rispondono tentando di armare fino ai denti l’Ucraina in questa loro sporca guerra ibrida. Tutta la partita si gioca su tempi medio-lunghi, cioè si scommette su chi si logora per primo permettendo così di creare le condizioni per un cambiamento radicale di orientamenti politici nelle file dell’altro campo, anche se spesso si confonde questo terreno di duro confronto con quello della dialettica politica, anche molto vivace, che inevitabilmente si manifesta all’interno di ogni principale protagonista del conflitto.

Le premesse che hanno portato a un nuovo tornante della storia sono maturate negli ultimi vent’anni. Ne ricordo alcune.

– Gli esiti della cosiddetta Primavera araba, in particolare in Egitto e in Algeria con la nascita di governi, che dopo un iniziale sbandamento, si sono sempre più allontanati dall’Occidente e in forme diverse sono diventati alleati della Russia.

– Il fallimento del tentativo di destabilizzazione della Siria concluso con la riammissione della Lega Araba, con vivo disappunto degli Usa. Nell’intervento militare russo a sostegno di Damasco si evidenzia forse l’inizio della controffensiva russa.

– Il ruolo predominante che stanno assumendo in Medio Oriente potenze regionali come l’Iran e la Turchia, e in Asia l’India, l’Indonesia e il Pakistan.

– La situazione del tutto nuova determinatasi in America Latina in Paesi strategici per il Continente e nell’ Africa Equatoriale.

– Il tentativo di “rivoluzione colorata” in Bielorussia miseramente fallito.

– La crisi profonda del sistema politico, sociale e culturale statunitense che ha favorito l’affermarsi di una “anomalia” come Trump.

Ai fatti citati, che hanno fatto da presupposto a un cambiamento epocale, si devono aggiungere, non sottovalutandole, le ricorrenti crisi che si sono determinate in questo ventennio per effetto delle contraddizioni insanabili del capitale finanziario e la messa in discussione dell’Opec, in particolare da parte dell’Arabia Saudita, del sistema del petrodollaro su cui gli Usa per anni hanno fatto leva, dopo la messa in discussione degli accordi di Bretton Wood voluta da Nixon, per riaffermare l’egemonia della loro moneta (sempre più carta straccia, senza nessun valore) a livello globale. Tra l’altro oggi è proprio la Russia, che lavora in forte intesa con i Paesi arabi, con i sauditi in primo luogo, ad esercitare un ruolo guida dell’Opec.

RICORDO DI NINO NONNIS

img_3522QUANDO DAL CIGLIO DEL PAGLIACCIO SGORGA UNA LACRIMA
3 Giugno 2023 Gianni Loy su
teorema-rivista

A Cagliari si usa dire: piga fama e crocadì. Oppure, ricorrendo ad un’immagine di importazione, si potrebbe dire che, se la gente sa che sei capace di suscitare ilarità – e la gente lo sapeva -, ti tocca raccontare barzellette per tutta la vita. Alla gente piaceva ascoltarlo. Del resto, di fronte allo sfascio del sistema sanitario – non ci è rimasto che riempire le corsie degli ospedali di pagliacci. Una scienza arrembante, la clownterapia, che si propone di migliorare l’umore di pazienti, di familiari ed accompagnatori. Viene definita terapia del sorriso e tutti ne abbiamo bisogno.

Nino è stato un ottimo terapeuta, un grande artista della celia. Chiunque abbia avuto la fortuna di entrare in contatto con lui ha sicuramente guadagnato qualcosa sotto il profilo della qualità della vita. Non tanto, o non solo, per il comico che sprigionavano i suoi spettacoli, spesso spinti sino all’esilarante, quanto per l’arricchimento che derivava dalla semplice compagnia, nel quotidiano, nella convivialità.

L’ho frequentato non per molto, soprattutto nel tempo dedicato all’Associazione Riprendiamoci la Sardegna – eccellente esperienza che si va consumando, a poco a poco, per mancanza di pezzi di ricambio – dove non faceva differenza il fatto che interpretasse la parte del relatore, del pubblico, o del commensale, sempre tra i più ostinati adepti che, immancabilmente, prolungavano le riunioni del lunedì in qualche “piola” delle vicinanze.

Perché le performances di Nino non erano riservate al palco, erano il suo quotidiano, il suo modo di essere. Forse, neppure recitava: era così! Ogni occasione era buona per suscitare ilarità, un sorriso, per tenere alto il morale. Non che la tecnica non aiuti, ma difficilmente un attore comico può fare a meno della vocazione, di quell’istinto irresistibile che ti cova dentro, che non riesci a trattenere, che schizza da ogni spiffero.

E poi: comico? Perché comico? Una volta che ti sei vestito di quella fama è difficile levarsela di dosso. L’ilarità, tuttavia, attiene al modo di manifestazione del pensiero, è l’abito di cui si veste il pagliaccio, il quale, però, il più delle volte, come insegna la tradizione circense, è un personaggio triste.

Anche attraverso il gioco, come ammoniva Orazio, possono trasmettersi cose vere, persino drammatiche. E Nino, canzonando, ci ha fatto ridere nel senso che – secondo i canoni della clownterapia – ci ha fatto star bene, ma ha anche proposto temi di riflessione su tematiche che toccano le corde della nostra esperienza collettiva.

Lo ha fatto anche da scrittore. Nino è anche autore non solo di testi ispirati alla vis comica; non posso dimenticare che ha scritto lavori come La piccola Parigi e Quel mattino di marzo del 1913, che raccontano di come furono uccisi a Buggerru, nel 1904, quattro minatori che protestavano contro la riduzione della pausa del lavoro, o di come persero la vita in un “incidente sul lavoro”, qualche anno più tardi, alcune cernitrici che lavoravano fuori dalla miniera. Drammi che possono essere raccontati anche facendo ricorso all’ironia e all’humor, di cui Nino era capace, ma che appartengono al genere drammatico.

E, poi, nel cinema, più recentemente, dove l’ho visto all’opera sul set. Nel corto di Peter Marcias, Benvenuto Khalid, che lo vede protagonista, veste i panni di un operaio che si scontra con le impietose leggi del profitto ed affronta il padrone faccia a faccia, rinunciando al proprio posto di lavoro, denunciandone gli illeciti e schierandosi dalla parte di un giovane immigrato clandestino. Un’interpretazione, persino drammatica, pure affrontata con la leggerezza, e il sarcasmo, di cui era capace.

La sua personalità, sul set, era prorompente. Mi son sempre chiesto come il regista riuscisse a governare un attore così poco incline al rispetto dei copioni, sempre pronto all’improvvisazione secondo i più tradizionali canoni della commedia dell’arte, un attore che, in ogni momento, pretendeva di aggiungere qualcosa di suo. Come in Dimmi che destino avrò, dove, interpretando il Procuratore della Repubblica che affida ad un sostituto un’indagine da svolgersi in un campo Rom, gli è saltato salta in testa di sussurrare al collaboratore, con un sorriso di complicità: “piuttosto stai attento al portafoglio”. Frase non prevista dal copione, ovviamente, ma che il regista, lo stesso Marcias, ha finito per mantenere nella versione finale del lungometraggio, ritenendo che offrisse leggerezza senza dissacrare.

Nino è andato via, come tutti, secondo un copione che altri hanno scritto per tutti noi. Ne prendo atto. Abbozzo un sorriso per la piacevolezza delle battute del clown e provo grande tristezza per la lacrima che cade dal ciglio del pagliaccio.
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È online Rocca, quindicinale della Pro Civitate Christiana
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b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 121 del 17 giugno 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 301 del 17 giugno 2023

BASSA INTENSITÀ?

Cari amici,
ha detto Putin, parlando a un incontro sull’economia internazionale a San Pietroburgo, che la Russia è in grado di colpire qualsiasi edificio a Kiev. Perché non lo fa? Con la sua potenza militare se avesse voluto avrebbe potuto già da tempo vincere la guerra con l’Ucraina. Non lo fa per tener fermo il punto, enunciato fin dall’inizio, che da parte russa questa non è una guerra, ma un’”operazione militare speciale”, cosa che è stata considerata da noi, in Occidente, come un’affermazione edificante e puramente propagandistica.
In realtà la linea seguita finora da Mosca sul campo è quella di una “guerra a bassa intensità” le cui ragioni sono evocate in un articolo di Alessandro Valentini in una analisi che, pur muovendo da una visione di parte, merita di essere presa in considerazione. La tesi che ne emerge è che la guerra si prolunga perché la posta in gioco non è l’Ucraina ma il conflitto tra due visioni dell’ordine mondiale.
In effetti, ma non solo da ora, bensì a partire dalla fine della contrapposizione tra i blocchi, si è delineato un conflitto tra un ordine unipolare e monocratico, presidiato da un unico potere militare e politico, che è la visione proposta e argomentata ufficialmente dagli Stati Uniti e acriticamente condivisa dal complesso dei loro alleati e partners, e un ordine multipolare e pluralistico che è rivendicato dalla Russia, dalla Cina e da molti Paesi del sud del mondo e del resto del mondo.
Secondo i documenti ufficiali dell’amministrazione americana, l’esito della “competizione strategica” tra queste due alternative, cioè tra queste due parti del mondo, sarà deciso entro questo decennio con o senza la guerra; guerra che, in tale prospettiva, sarebbe inevitabilmente una guerra universale, se pure non atomica. Per il momento la guerra d’Ucraina, che ne rappresenta la prima fase ed ha per obiettivo l’eliminazione della Russia, continua nonostante ogni possibile negoziato, perché il vero negoziato dovrebbe risolvere il contrasto tra queste due concezioni del mondo. Stretta tra questi vasi di ferro, l’Ucraina è offerta, e si offre, in sacrificio.
Essa è vittima dell’inganno, ordito nei suoi confronti, dagli Stati Uniti e dall’Occidente, che le hanno fatto credere di poter vincere la guerra con la Russia, nonostante l’evidente sproporzione delle forze. Ma la guerra della quale era promessa all’Ucraina la vittoria non era in realtà la sua guerra, ma quella degli Stati Uniti e del loro mondo unipolare, che per di più sarebbe stata vinta senza essere combattuta. Purtroppo l’Ucraina è caduta nella pania, prima sprezzando i moniti a non insistere per l’ingresso nella NATO, nonostante l’avvertimento russo che ciò sarebbe stato causa di guerra, poi, a guerra iniziata, precipitandosi nell’illusione della vittoria propiziata dalla bulimia delle armi, spensieratamente fornitele in regalo dall’Occidente. Zelensky, mettendoci del suo ogni energia, è caduto nella voragine che gli era stata allestita in quanto, personaggio della TV, era digiuno di scienze storiche, ignaro del diritto, inesperto di rapporti internazionali e non immune dalle mitologie dei nazionalismi novecenteschi; ed è per questo che, in una intervista a Nbc News, mettendo in guardia sulle conseguenze di un’eventuale sconfitta di Kiev ha sostenuto che gli Stati Uniti dovrebbero scegliere tra “entrare in guerra con la Russia” o “il collasso della NATO”. È questo il contesto dell’attuale disastro dal quale l’unico modo per uscire è agire perché prevalga un’altra visione del mondo.
Sulla morte di Berlusconi pubblichiamo nel sito una riflessione dal titolo “Arcitaliano?”
Con i più cordiali saluti,
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LA “DICHIARAZIONE SULLA FRATERNITÀ UMANA”

img_351317 Giugno 2023 by Fabio | su C3dem
È stata scritta e firmata da Premi Nobel e da rappresentanti delle Organizzazioni internazionali insignite del Nobel per la Pace durante il primo Meeting Mondiale della Fraternità Umana che si è tenuto il 10 giugno 2023 a Roma in piazza San Pietro nella Città dello Stato Vaticano. Per la Santa Sede, la Dichiarazione è stata firmata dal Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato.
Uniamoci alla voce di Papa Francesco che ci invita a scegliere la fraternità per rimanere umani e condividere lo stesso destino: «Siamo diversi, siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e vogliamo vivere in pace».

DICHIARAZIONE SULLA FRATERNITÀ UMANA
ROMA, Piazza San Pietro, 10 giugno 2023
«Siamo diversi, siamo differenti, abbiamo differenti culture e religioni, ma siamo fratelli e vogliamo vivere in pace» (Papa Francesco).
Ogni uomo è mio fratello, ogni donna è mia sorella, sempre. Vogliamo vivere insieme, da fratelli e sorelle, nel Giardino
che è la Terra. È il Giardino della fraternità la condizione della vita per tutti.
Siamo testimoni di come in ogni angolo del mondo l’armonia perduta rifiorisce quando la dignità è rispettata, le lacrime vengono asciugate, il lavoro è remunerato equamente, l’istruzione è garantita, la salute è curata, la diversità è apprezzata,
la natura è risanata, la giustizia è onorata e le comunità abbracciano solitudine e paure.
Insieme scegliamo di vivere le nostre relazioni basate sulla fraternità, che è alimentata dal dialogo e dal perdono, che «non implica il dimenticare» (FT, n. 250), ma il rinunciare «ad essere dominati dalla stessa forza distruttiva» (FT, n.
251) di cui tutti soffriamo le conseguenze.
Uniti a Papa Francesco vogliamo ribadire che «la vera riconciliazione non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente» (FT, n. 244). Questo nel contesto dell’architettura dei diritti umani.
Lo vogliamo gridare al mondo nel nome della fraternità: Non più la guerra! È la pace, la giustizia, l’uguaglianza a guidare il destino di tutta l’umanità. No alla paura, alla violenza sessuale e domestica! Cessino i conflitti armati. Diciamo basta alle armi nucleari e alle mine antiuomo. Mai più migrazioni forzate, pulizia etnica, dittature, corruzione e schiavitù.
Fermiamo l’uso manipolativo della tecnologia e dell’intelligenza artificiale, anteponiamo e fecondiamo di fraternità lo sviluppo tecnologico.
Incoraggiamo i Paesi a promuovere sforzi congiunti per creare società di pace, come ad esempio, l’istituzione di un Ministero per la pace.
Ci impegniamo a bonificare la terra macchiata dal sangue della violenza e dell’odio, dalle disuguaglianze sociali e dalla corruzione del cuore. All’odio rispondiamo con l’amore.
La compassione, la condivisione, la gratuità, la sobrietà e la responsabilità sono per noi le scelte che nutrono la fraternità personale, quella del cuore.
Far crescere il seme della fraternità spirituale inizia da noi. Basta piantare un piccolo seme al giorno nei nostri mondi relazionali: la propria casa, il quartiere, la scuola, il luogo di lavoro, la piazza e le istituzioni in cui si prendono le decisioni.
Crediamo anche nella fraternità sociale che riconosce uguale dignità per tutti, alimenta l’amicizia e l’appartenenza, promuove l’educazione, le pari opportunità, condizioni di lavoro dignitose e la giustizia sociale, l’accoglienza, la solidarietà e la cooperazione, l’economia sociale solidale e una giusta transizione ecologica, una agricoltura sostenibile che garantisca l’accesso al cibo per tutti, per promuovere relazioni armoniose, radicate nel rispetto reciproco e nella cura del benessere per tutti.
In questo orizzonte è possibile sviluppare azioni di prossimità e leggi umane, perché «la fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza» (FT, n. 103).
Insieme vogliamo costruire una fraternità ambientale, fare pace con la natura riconoscendo che “tutto è in relazione”: il destino del mondo, la cura del creato, l’armonia della natura e stili di vita sostenibili.
Desideriamo edificare il futuro sulle note del Cantico delle Creature di san Francesco, il canto della Vita senza fine. La trama della fraternità universale tesse l’ordito delle strofe del Cantico: tutto è in relazione e nella relazione con tutto e
con tutti è la Vita.
Pertanto noi, riuniti in occasione del primo Incontro Mondiale della Fraternità Umana, rivolgiamo a tutti gli uomini e le donne di buona volontà il nostro appello alla fraternità. I nostri figli, il nostro futuro possono prosperare soltanto in un mondo di pace, giustizia ed uguaglianza, a beneficio dell’unica famiglia umana: solo la fraternità crea umanità.
Sta alla nostra libertà volere la fraternità e costruirla insieme in unità. Sottoscrivi insieme a noi questo appello per abbracciare questo sogno e trasformarlo in prassi quotidiane, affinché giunga alle menti e ai cuori di tutti i governanti e a chi, ad ogni livello, ha una piccola o grande responsabilità civica.

Il documento in formato pdf è disponibile qui: https://www.fondazionefratellitutti.org/wp-content/uploads/2023/06/Dichiarazione-sulla-fraternita-umana-1.pdf

Firma il documento e invita anche la tua famiglia, il tuo quartiere, la tua parrocchia, le scuole e le università a fare lo stesso.
Hanno già firmato e sostengono il documento, tra gli altri, i seguenti Premi Nobel e le Organizzazioni Nobel per la Pace: Juan Manuel Santos, Oscar Arias Sánchez, Jody Williams, Shirin Ebadi, Muhammad Yunus, Leymah Gbowee, Tawakkol Karman, Denis Mukwege, Nadia Murad, Giorgio Parisi, Maria Ressa, Mairead Corrigan Maguire, Bureau International de la Paix (IPB), American Friends Service Committee (AFSC), Alto commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), International Physicians for the Prevention of Nuclear War (IPPNW), Pugwash Conferences on Science and World Affairs, International Campaign to Ban Landmines (ICBL), International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN), Center for Civil Liberties.
Unisciti a noi e firma la dichiarazione: “Sta alla nostra libertà volere la fraternità e costruirla insieme in unità. Sottoscrivi insieme a noi questo appello per abbracciare questo sogno e trasformarlo in prassi quotidiane, affinché giunga alle menti e ai cuori di tutti i governanti e a chi, ad ogni livello, ha una piccola o grande responsabilità civica”.
La storia lo insegna: i grandi cambiamenti iniziano da una scelta e da gesti concreti che promuovono la fraternità.
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Claudio Ranieri über alles

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Giustamente per decisione della Municipalità cittadina che interpreta una plebiscitaria volontà popolare, img_3500 Claudio Ranieri sarà presto cittadino onorario di Cagliari. Se la merita davvero la cittadinanza onoraria della capitale della Sardegna, rappresentandola tutta. Diciamo allora convintamente che Claudio Ranieri diventa cittadino sardo: uno di noi. Ne siamo orgogliosi.
Vogliamo avanzare un’ulteriore proposta, che rivolgiamo innanzitutto alle Autorità accademiche delle Università sarde, specificamente per competenza a quelle dell’Ateneo cagliaritano: insignire Claudio Ranieri della laurea ad honorem in Psicologia. Perché questa proposta? Perché la vicenda della squadra del Cagliari che l’ha portata a riconquistare la serie A, non può essere giudicata solo frutto della capacità tecnica dei bravi giocatori ben guidati dal prodigioso allenatore. Ha contato moltissimo la convinzione degli stessi di “potercela fare”, anzi di “dovercela fare” a regalare alla Sardegna intera questo risultato. E come ci si è riusciti? In quale modo la squadra ha trovato la capacità di agire come un unico corpo, in perfetta sintonia con i tifosi. Si, perché quasi magicamente si è creata una simbiosi tra la squadra, l’allenatore e il suo pubblico. Di chi il merito? Di tutti, si dirà, giustamente, non dimenticando l’opera davvero encomiabile della dirigenza della società e di tutti i collaboratori a tutti i livelli. Ma, in questa sede, ai fini di giustificare la proposta già avanzata, vogliamo mettere in evidenza il ruolo giocato da Claudio Ranieri, che ha saputo imprimere un giusto carattere, una definita personalità alla squadra, lavorando specificamente sulla psicologia dei giocatori, nonché (e questo è ancor più straordinario) su quella dei tifosi, portando tutti a pensare e agire nella stessa direzione, quella del possibile anzi probabile successo collettivo. Credo si tratti di un capolavoro di psicologia, applicata ad una situazione complessa. Per fare tutto questo c’è bisogno di grande esperienza e di competenza scientifica. Claudio Ranieri ha dimostrato di possedere entrambe a livelli alti. Giudichino la sostenibilità e l’opportunità di questa proposta innanzitutto le Autorità accademiche, quelle rappresentative di vertice e quelle competenti per disciplina, come, solo per esempio, il Consiglio di laurea del Corso in Scienze e Tecniche psicologiche dell’Università di Cagliari.
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PS
A completare a 360 gradi il successo di Ranieri oltre lo specifico calcistico arriva il premio “Gentilezza nello Sport”, che riafferma i valori dello sport, troppo spesso oscurati dallo logica del denaro e del potere.
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Su L’Unione Sarda online del 14 giugno 2023
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«Esempio di valore, signore nella vita e in campo»: a Claudio Ranieri il premio “Gentilezza nello Sport”
L’allenatore rossoblù premiato per aver invitato i tifosi del Cagliari ad applaudire gli avversari dopo la vittoria promozione a Bari: «Tifate per, non tifate contro»
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È online Rocca della Pro Civitate Christiana
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