Editoriali

Che succede a Gaza? Una tragedia. Che fare?

img_2726Dalla volontaria di Gazzella a Gaza: Gaza 9.10.2023
Nel corso della notte l’esercito israeliano ha lanciato una serie di attacchi massicci contro i sobborghi di Shujaiyya, Beit Lahya e Rafah e secondo fonti israeliane finora sono state sganciate oltre 100 tonnellate di bombe
Il rafforzamento del sostegno militare a Israele annunciato dal Pentagono che lavorerà per assicurare che Israele abbia “quello di cui ha bisogno per difendersi”, per il movimento di resistenza islamico a Gaza, equivale a “partecipare all’aggressione contro il nostro popolo”. Un inquietante scenario!
Anche oggi le strade di Gaza sono vuote e frettolosi palestinesi, vanno a fare rifornimento di generi alimentari. Ed è quello che faremo anche noi. Stamattina A. andrà a fare la scorta perché non sappiamo come evolverà la situazione e i negozi intorno a noi stanno svuotando gli scaffali. Le scuole dell’UNRWA sono oramai affollate, in ogni aula dalle 20 – 22 persone. Sono migliaia le famiglie che hanno dovuto abbandonare le loro case. Io e A., fatta eccezione per una veloce uscita per acquisto di generi alimentari e una visita di A. alla moglie e dai due figli, la più piccola ha 6 mesi, per il resto della giornata siamo chiusi nella struttura. La situazione è difficile e non sappiamo cosa ci aspetta nei prossimi giorni.
I giornali riportano che le sirene antiaereo suonano a Tel Aviv, negli insediamenti e a Gerusalemme. La gente si precipita nei rifugi. Nessun giornalista riporta che a Gaza le bombe non vengono annunciate, le senti quando colpiscono le case. A volte un messaggio telefonico informa che la tua casa sarà bombardata, ma se non l’ abbandoni velocemente rischi di restare sotto le bombe. È quello che è successo ieri ad una famiglia di Beit Hanun, 12 persone della stessa famiglia morte sotto le macerie della loro casa.
Il Ministero della Salute di Gaza ha aggiornato alle 10pm del 8.10.2023 i dati: 436 martiri di cui 91 bambini e 61 donne, 2.271 feriti di cui 224 bambini e 151 donne. In Cisgiordania ieri si contavano 8 martiri di cui un bambino e 70 feriti. Le vittime in Israele sono oltre 700 e 2.500 feriti.
Hamas ha dichiarato di avere fatto 150 prigionieri e che parte di questi, pare, siano deceduti sotto i bombardamenti israeliani.
Israele ha dichiarato di voler lanciare una vasta operazione via terra contro Hamas nelle prossime 24-48 ore e Netanyhau ha aggiunto “ridurremo in macerie i luoghi di Hamas” e ai civili dice “andatevene da lì adesso perché agiremo ovunque con tutte le nostre forze”. E dove possono andare i palestinesi di Gaza che da 17 anni vivono sotto assedio e sono per il 70% già profughi dal 1948!
Alla luce della complessa situazione è necessario che il governo italiano e il parlamento europeo prendano posizione a favore della legalità internazionale, perché non si tratta di manifestare pro Hamas e per i palestinesi. La questione palestinese è molto altro!
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Una densa riflessione del giornalista israeliano Levy che ricostruisce il contesto e le cause senza i quali non è possibile spiegare gli atroci fatti di questi giorni:
Gideon Levy: “Israele punisce i palestinesi dal 1948, senza fermarsi un attimo”
Dietro tutto quello che è successo, l’arroganza israeliana. Pensavamo che ci fosse permesso fare qualsiasi cosa, che non avremmo mai pagato un prezzo o saremmo stati puniti per questo.
Continuiamo senza confusione. Arrestiamo, uccidiamo, maltrattiamo, derubiamo, proteggiamo i coloni massacrati, visitiamo la Tomba di Giuseppe, la Tomba di Otniel e l’Altare di Yeshua, tutto nei territori palestinesi, e ovviamente visitiamo il Monte del Tempio – più di 5.000 ebrei sul trono.
Spariamo a persone innocenti, caviamo loro gli occhi e spacchiamo loro la faccia, li deportiamo, confischiamo le loro terre, li saccheggiamo, li rapiamo dai loro letti, effettuiamo la pulizia etnica, continuiamo anche l’irragionevole blocco di Gaza, e tutto andrà bene.
Costruiamo un’enorme barriera attorno alla Striscia, la sua struttura sotterranea costa tre miliardi di shekel e siamo al sicuro. Ci affidiamo ai geni dell’Unità 8200 e agli agenti dello Shin Bet che sanno tutto e ci avviseranno al momento opportuno.
Stiamo spostando metà dell’esercito dall’enclave di Gaza all’enclave di Huwara solo per garantire le celebrazioni del trono dei coloni, e tutto andrà bene, sia a Huwara che a Erez.
Poi si scopre che un primitivo, antico bulldozer può sfondare anche gli ostacoli più complessi e costosi del mondo con relativa facilità, quando c’è un grande incentivo a farlo.
Guarda, questo ostacolo arrogante può essere superato da biciclette e motociclette, nonostante tutti i miliardi spesi per questo, e nonostante tutti i famosi esperti e imprenditori che hanno guadagnato un sacco di soldi.
Pensavamo di poter continuare il controllo dittatoriale di Gaza, gettando qua e là briciole di favore sotto forma di qualche migliaio di permessi di lavoro in Israele – questa è una goccia nell’oceano, anch’essa sempre condizionata ad un comportamento corretto – e in al ritorno, mantenetelo come la loro prigione.
Facciamo la pace con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti – e i nostri cuori dimenticano i palestinesi, così che possano essere spazzati via, come molti israeliani avrebbero voluto.
Continuiamo a detenere migliaia di prigionieri palestinesi, compresi quelli detenuti senza processo, la maggior parte dei quali prigionieri politici, e non accettiamo di discutere il loro rilascio anche dopo decenni di prigione.
Diciamo loro che solo con la forza i loro prigionieri possono ottenere la libertà.
Pensavamo che avremmo continuato con arroganza a respingere ogni tentativo di soluzione politica, semplicemente perché non ci conveniva impegnarci in essa, e sicuramente tutto sarebbe continuato così per sempre.
E ancora una volta si è rivelato non essere così. Diverse centinaia di militanti palestinesi hanno sfondato la recinzione e hanno invaso Israele in un modo che nessun israeliano avrebbe potuto immaginare.
Alcune centinaia di combattenti palestinesi hanno dimostrato che è impossibile imprigionare due milioni di persone per sempre, senza pagare un prezzo elevato. Proprio come ieri il vecchio bulldozer palestinese fumante ha demolito il muro, il più avanzato di tutti i muri e le recinzioni, ha anche strappato di dosso il mantello dell’arroganza e dell’indifferenza israeliana.
Ha demolito anche l’idea che sia sufficiente attaccare Gaza di tanto in tanto con droni suicidi e vendere questi droni a mezzo mondo per mantenere la sicurezza.
Ieri Israele ha visto immagini che non aveva mai visto in vita sua: veicoli militari palestinesi che pattugliavano le sue città e ciclisti provenienti da Gaza che entravano dai suoi cancelli.
Queste immagini dovrebbero strappare il velo dell’arroganza. I palestinesi di Gaza hanno deciso che sono disposti a pagare qualsiasi cosa per un assaggio di libertà. C’è qualche speranza per questo? NO. Israele imparerà la lezione? NO.
Ieri già parlavano di spazzare via interi quartieri di Gaza, di occupare la Striscia di Gaza e di punire Gaza “come non è mai stata punita prima”. Ma Israele punisce Gaza dal 1948, senza fermarsi un attimo.
75 anni di abusi e il peggio l’attende adesso. Le minacce di “appiattire Gaza” dimostrano solo una cosa: che non abbiamo imparato nulla. L’arroganza è destinata a durare, anche se Israele ha ancora una volta pagato un prezzo elevato.
Benjamin Netanyahu ha una responsabilità molto pesante per quanto accaduto e deve pagarne il prezzo, ma la questione non è iniziata con lui e non finirà dopo la sua partenza.
Ora dobbiamo piangere amaramente per le vittime israeliane. Ma dobbiamo piangere anche per Gaza. Gaza, la cui popolazione è composta principalmente da rifugiati creati da Israele; Gaza, che non ha conosciuto un solo giorno di pace.
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[La documentazione che precede è stata tratta dai post del
nostro amico palestinese Fawzi, presidente dell’Associazione Sardegna Palestina, nella chat del Comitato Casa del quartiere Is Mirrionis
].
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Israele critica il card. Pizzaballa

Attacco contro Israele: Ambasciata Israele presso Santa Sede risponde ai patriarchi di Gerusalemme

Un commento
di Franco Meloni
Hamas ha aggredito Israele usando una violenza spietata, causando moltissime vittime senza distinzione tra militari e civili. La contabilità dei morti è in continuo aumento. Mentre scriviamo da parte israeliana se ne contano oltre un migliaio. Da parte palestinese un po’ meno, ma con le rappresaglie e la controffensiva israeliana presto il conto sarà pareggiato e superato. Se, come è nelle dichiarazioni del governo Netanyahu, Israele per annientare Hamas annienterà un enorme numero di palestinesi tra gli oltre due milioni che abitano la striscia di Gaza, che conta com’è noto la più alta densità abitativa del mondo. Il responsabile numero uno di questa situazione è Netanyahu capo del governo sostenuto da una coalizione di destra. Le responsabilità di Hamas? Tremende. Non mi sentirei mai e poi mai di giustificare Hamas, ma bisogna chiederci come mai la stragrande maggioranza dei palestinesi sono oggi con Hamas. Insomma Hamas si è intestato la rappresentanza dell’intero popolo palestinese. È come se una persona angariata e violentata quotidianamente da un carnefice accettasse la protezione di un delinquente, che per un momento sapesse rendere pan per focaccia a detto carnefice. Per un momento, s’intende, di cui godere per il compimento della “vendetta riparatrice”, per poi tornare alla situazione di partenza o addiritura peggiore. In questo momento nessuno è in grado di evitare il baratro, fatto di distruzione e di morti. Solo una possibile quanto difficile azione diplomatica congiunta delle potenze mondiali (USA, Cina, Europa, in primis, insieme con i paesi arabi moderati, la Russia, la Turchia, i paesi emergenti (India, Brasile, …) e quanti altri nella misura del possibile, potranno fermare il conflitto e avviare una nuova inedita situazione. Jonathan Safran Foer, accreditato intellettuale statunitense di madre ebrea, auspicava che in questa nuova situazione non ci fossero più ne Hamas ne gli attuali politici al governo di Israele. La prospettiva? La coesistenza pacifica di due Stati: Israele e Palestina, che insieme fiorissero a nuova vita. Cosa potevano dire di più il card. Pizzaballa e gli altri Patriarchi della Terra Santa? Non hanno di certo praticato una “immorale ambiguità”, semplicemente si sono ispirati al Vangelo, in questa fase storica decisamente incomprensibile ed estraneo a chi reputa la guerra come unica soluzione dei problemi. Noi siamo con il card. Pizzaballa e gli alti Patriarchi: resistere, resistere, resistere alla rassegnazione al peggio. La lunga notte passerà.
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L’aggressione di Hamas a Israele, frutto velenoso della politica di apartheid del governo Netanyahu

a6e89a40-ed21-4a31-a2d5-6d37fbdc81e0Le notizie che arrivano da Israele sono terribili, sia per quanto accaduto, sia per quanto potrebbe accadere, e che realisticamente accadrà. Stiamo alle parole del patriarca dei latini di Gerusalemme, il card. Pierbattista Pizzaballa, autorevole conoscitore delle questioni Israelo-palestinesi, che riportiamo dall’Agenzia giornalistica Sir.
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“Siamo in una emergenza molto grave e temo che si arriverà alla guerra”: così il patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, commenta al Sir l’attacco sferrato all’alba di oggi da Hamas, con 5mila razzi lanciati, dalla Striscia di Gaza verso il sud e il centro di Israele (Tel Aviv e Gerusalemme comprese). Da Almeno 22 i morti israeliani, oltre 500 i feriti, ma il bilancio è provvisorio. I miliziani palestinesi, penetrati in vari modi in territorio israeliano, avrebbero anche fatto ostaggi tra i civili e i militari israeliani.
“Siamo davanti ad una situazione molto grave scoppiata improvvisamente, senza troppi preavvisi. È una campagna militare da ambo i lati, molto preoccupante per le forme, per le dinamiche e per l’ampiezza. Si tratta di novità molto tristi”. “La presa di ostaggi israeliani, fenomeno in nessun modo giustificabile – sottolinea il porporato – non farà altro che favorire una maggiore aggressività da ambo i lati, soprattutto da parte israeliana”. Il patriarca rivolge poi lo sguardo alla piccola comunità cristiana gazawa, poco più di 1000 fedeli dei quali solo un centinaio cattolici, appartenenti all’unica parrocchia latina della Striscia, dedicata alla Sacra Famiglia, incoraggiando “i cristiani della Striscia, impauriti”: “Sappiano che, come sempre, non saranno lasciati soli e che questo è un momento in cui dobbiamo essere uniti più mai”. Un ultimo appello lo rivolge alla comunità internazionale: “La comunità internazionale deve ritornare a prestare attenzione a quanto accade in Medio Oriente. Gli accordi diplomatici, quelli economici – conclude Pizzaballa – non cancellano un dato di fatto: esiste una questione israelo-palestinese che ha bisogno di essere risolta e che attende una soluzione”.
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La guerra dunque, ma tra chi? Tra Israele e Hamas? Certo, ma non solo.
Affermano il premier Benjamin Netanyahu e il ministero degli Esteri d’Israele che “I terroristi di Hamas hanno dichiarato guerra a Israele” e sottolineando come dietro l’attacco di oggi 7 ottobre 2023 vi sia l’Iran. Se si trattasse solo di Hamas, Israele sarebbe in grado di chiudere il conflitto in poco tempo, considerato la sproporzione di mezzi militari a sua disposizione. Vedremo. Ma, come dicevamo, all’orizzonte si appalesa un conflitto di enormi dimensioni e importanza. Gli Stati Uniti e le altre potenze loro alleate non sarebbero più in grado di fermare il confronto militare tra Israele e Iran, rimanendone impigliati. Questa sarebbe la vera partita da giocare. Sentite al riguardo una credibile ipotesi di Nicolò Migheli, attento studioso di questioni internazionali, esposta nella sua pagina fb.

“Il governo di Bibi Netanyahu è fortemente in crisi contestato dagli israeliani. Israele e Arabia Saudita sono nella fase finale delle trattative per il reciproco riconoscimento. La cosa è temuta dall’Iran che vede in quella alleanza un pericolo mortale per il regime. Oggi ricorre il cinquantesimo della guerra dello Yom Kippur. I servizi israeliani così ben informati sui programmi e progetti di Hamas, non dicono nulla e lasciano che si svolga un attacco devastante. Ho il tragico sospetto che l’operazione “Spada di Ferro”- nome che Tel Aviv ha dato all’operazione militare- avrà termine a Teheran, visto che sono anni che Netanyahu lo minaccia e fino a ora non ha avuto il benestare Usa. I palestinesi, come sempre, saranno le vittime sacrificali. Cosa c’è di meglio di una guerra per legittimare il governo di estrema destra al potere in Israele?”
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“Anthony Samaras capo redattore di Orient Le Jour, giornale libanese di lingua francese in un video afferma:
- Nessuno. compresi i vari servizi israeliani, ha previsto un’azione di queste dimensioni da parte di Hamas. Una sorpresa simile alla guerra dello Yom Kippur del 1973.
- La crisi interrompe il mutuo riconoscimento e il processo di pace tra Arabia Saudita e Israele;
- Hamas sta mostrando capacità belliche insospettate, frutto dei rapporti con Hezbollah libanese e l’Iran.
- Hezbollah interverrà a sostegno d’Hamas? I loro leader avevano definito quest’anno quello della “Unità delle Forze”.
- Israele allargherà il conflitto ad altri Paesi?
Il giornalista esprime il timore che il Libano venga coinvolto.”
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Dunque tornando alle dichiarazioni del card. Pizzaballa, si ha praticamente la certezza dell’escalation del conflitto. Solo l’azione diplomatica delle Cancellerie mondiali la potrà arrestare. Sappiamo però che l’attività diplomatica ha per definizione tempi non certo brevi. E Israele lo sappiamo non si ferma al “occhio per occhio, dente per dente”, va ben oltre. Mentre scriviamo la contabilità dei morti delle due parti sembra pareggiata: si contano oltre 200 morti israeliani provocati da Hamas e altrettanti della prima risposta di rappresaglia israeliana, che mira a distruggere completamente Hamas e ogni capacità di offesa da parte dei palestinesi.
Ora non c’è spazio alcuno per le ragioni della Pace.
La Pace non può che passare nel riconoscimento della dignità dei due popoli, quello israeliano è quello palestinese. Anche Israele deve farsene una ragione e assumersi le sue responsabilità. Oggi se interrogassimo i giovani palestinesi e non solo essi, troveremo che in stragrande maggioranza si sentono rappresentati da Hamas. Questo è il risultato della politica del governo di Netanyahu, oppressiva nei confronti dei palestinesi. Ricordiamolo anche quando condanniamo il terrorismo e la violenza esercitata e provocata da Hamas.
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L’analisi di Enrico Rossi (sulla sua pag.fb)

Buongiorno.
In modo fulmineo Hamas, dalla striscia di Gaza, ha sferrato un attacco a Israele lanciando migliaia di razzi e invadendo alcuni villaggi, seminando la morte anche tra i civili.
La stampa riferisce di 250 vittime e circa 150 ostaggi tra gli israeliani e altrettanti morti ci sono tra i palestinesi sotto i bombardamenti di Israele.
Ma chissà quale sarà il conto finale di questa tragedia?
Colpisce l’opinione pubblica internazionale che uno dei migliori eserciti del mondo, forse il più tecnologico e dotato di servizi segreti attentissimi, sia stato preso alla sprovvista e abbia tardato a reagire.
La reazione di Israele ora sarà tremenda e il rischio di una escalation della guerra in Medio Oriente è concreto.
Hamas è sostenuta dall’Iran.
L’obiettivo dell’attacco terroristico, secondo commentatori addentro ai problemi di quella parte di mondo, pare sia proprio il tentativo di accordo, sostenuto dagli USA, tra Israele e Arabia Saudita.
Un accordo che avrebbe lasciato fuori la questione palestinese e che escludeva i rappresentanti di quel popolo da ogni trattativa.
Alla striscia di Gaza e ai palestinesi avrebbero dovuto pensarci l’Arabia Saudita con qualche finanziamento in più da destinare a quella galera a cielo aperto dove vivono 1 milione e mezzo di persone.
L’azione terroristica di Hamas, quella che lo stesso Netanyhau definisce una vera e propria azione di guerra, ricorda a tutti che senza un coinvolgimento dei palestinesi, senza passi avanti concreti verso l’applicazione degli accordi di Oslo di 30 anni fa non può esserci pace in Medio Oriente.
Quell’accordo prevedeva il reciproco riconoscimento tra Israele e l’Autorità Palestinese, una serie di reciproche concessioni e il sostanziale avvio ad un riconoscimento di uno Stato palestinese.
Si è andati invece in direzione contraria con il sostegno degli USA e il silenzio dell’Europa che, ancora una volta, si mostra incapace di una politica estera adeguata sui conflitti che si sviluppano nel suo “vicinato”.
Ora, l’unica iniziativa possibile è un impegno internazionale a far cessare le armi da entrambe le parti, a fermare la guerra e le violenze.
La linea politica giusta in questo conflitto come in tanti altri casi di questa guerra mondiale a pezzetti è tregua, tregua e ancora tregua e subito trattativa, trattativa e ancora trattiva.
Solo così si può pensare di costruire la pace.
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Costituzione via Maestra. Grande Manifestazione a Roma

img_4024“La Via Maestra”. Una grande manifestazione il 7 ottobre 2023

Oggi sabato 7 ottobre si terrà a Roma la grande manifestazione nazionale de “La Via Maestra” indetta, tra gli altri, dalla Cgil e a cui hanno aderito centinaia di organizzazioni: due cortei (il primo da piazza della Repubblica, il secondo da piazzale Ostiense) confluiranno alle 15.00 a piazza San Giovanni dove parleranno i rappresentanti della Cgil e gli esponenti delle associazioni e delle campagne. Per sottolineare l’importanza della manifestazione pubblichiamo l’appello su cui è stata organizzata. (la redazione)

La Costituzione italiana – nata dalla Resistenza – delinea un modello di democrazia e di società che pone alla base della Repubblica il lavoro, l’uguaglianza di tutte le persone, i diritti civili e sociali fondamentali che lo Stato, nella sua articolazione istituzionale unitaria, ha il dovere primario di promuovere attivamente rimuovendo «gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per questo rivendichiamo che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione tornino ad essere pienamente riconosciuti e siano resi concretamente esigibili ad ogni latitudine del Paese (da nord a sud, dalle grandi città alle periferie, dai centri urbani alle aree interne), a partire da:

► il diritto al lavoro stabile, libero, di qualità – fulcro di un modello di sviluppo sostenibile fondato su nuove politiche industriali – superando la precarietà dilagante, contrastando il lavoro povero e sfruttato, aumentando i salari, col rinnovo dei contratti, e le pensioni oltre al superamento della Legge Fornero. È il momento di introdurre il salario minimo, dare valore generale ai contratti, approvare la legge sulla rappresentanza, strumenti essenziali per contrastare i contratti pirata;

► il diritto alla salute e un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario pubblico, solidale e universale, a cui garantire le necessarie risorse economiche, umane e organizzative, per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale, e valorizzare il lavoro di cura; investimento sul personale con un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà e valorizzi le professionalità; sostegno alle persone non autosufficienti; tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo della prevenzione. Solo così si garantisce la piena applicazione dell’articolo 32 della Costituzione;

► il diritto all’istruzione, dall’infanzia ai più alti gradi, e alla formazione permanente e continua, perché il diritto all’apprendimento sia garantito a tutti e tutte e per tutto l’arco della vita.

► il contrasto a povertà e diseguaglianze e la promozione della giustizia sociale, garantendo il diritto all’abitare e un reddito per una vita dignitosa. Il Governo va in altra direzione e cancella il reddito di cittadinanza lasciando tante persone senza alcun sostegno;

► il diritto a un ambiente sano e sicuro in cui vengono tutelati acqua, suolo, biodiversità ed ecosistemi. Per questo è grave aver tolto dal PNRR le risorse sul dissesto idrogeologico, tanto più a fronte delle alluvioni che hanno colpito alcune regioni del Paese e di una crisi climatica che va affrontata con una transizione ecologica fondata sulla difesa e valorizzazione del lavoro e di un’economia rinnovata e sostenibile;

► una politica di pace intesa come ripudio della guerra e con la costruzione di un sistema di difesa integrato con la dimensione civile e nonviolenta.

Questi diritti possono essere riaffermati e rafforzati solo attraverso una redistribuzione delle risorse e della ricchezza che chieda di più a chi ha di più per garantire a tutti e a tutte un sistema di welfare pubblico e universalistico che protegga e liberi dai bisogni, a cominciare da una riforma fiscale basata sui principi di equità, generalità e progressività che sono oggi negati tanto da interventi regressivi – come, ad esempio, la flat tax – quanto da una evasione fiscale sempre più insostenibile. Inoltre, giustizia sociale e giustizia ambientale e climatica devono andare di pari passo nella costruzione di un modello sociale che sia «nell’interesse delle future generazioni», come recita l’art. 9 della nostra Costituzione.

Questo modello sociale – fondato su uguaglianza, solidarietà, accoglienza, e partecipazione – costituisce l’antitesi del modello che vuole realizzare l’attuale maggioranza di Governo con le prime scelte che ha già compiuto e, soprattutto, con le misure che si appresta a varare, a partire da quelle che – se non fermate – sono destinate a scardinare le fondamenta stesse dell’impianto della Repubblica, come:

► l’autonomia differenziata, rilanciata con il disegno di legge Calderoli, che porterà alla definitiva disarticolazione di un sistema unitario di diritti e di politiche pubbliche volte a promuovere lo sviluppo di tutti i territori;

► il superamento del modello di Repubblica parlamentare attraverso l’elezione diretta del capo dell’esecutivo (presidenzialismo, semi-presidenzialismo o premierato che sia) che ridurrà ulteriormente gli spazi di democrazia, partecipazione e mediazione istituzionale, politica e sociale, rompendo irrimediabilmente l’equilibrio tra rappresentanza e governabilità.

La Costituzione antifascista nata dalla Resistenza – nel riconoscere il lavoro come elemento fondativo, la sovranità del popolo, la responsabilità delle istituzioni pubbliche di garantire l’uguaglianza sostanziale delle persone, i diritti delle donne, il dovere della solidarietà, la centralità della tutela dell’ambiente e degli ecosistemi, il ripudio della guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali – ha delineato un assetto istituzionale che, attraverso la centralità del Parlamento, fosse il più idoneo ad assicurare questi principi costitutivi e a realizzare un rapporto tra cittadini/e e istituzioni che non si esaurisce nel solo esercizio periodico del voto ma si sviluppa quotidianamente nella dialettica democratica e nella costante partecipazione collettiva della rappresentanza in tutte le sue declinazioni politiche, sociali e civili.

Per contrastare la deriva in corso e riaffermare la necessità di un modello sociale e di sviluppo che riparta dall’attuazione della Costituzione, non dal suo stravolgimento, ci impegniamo in un percorso di confronto, iniziativa e mobilitazione comune che – a partire dai territori e nel pieno rispetto delle prerogative di ciascuno – rimetta al centro la necessità di garantire a tutte le persone e in tutto il Paese i diritti fondamentali e di salvaguardare la centralità del Parlamento contro ogni deriva di natura plebiscitaria fondata sull’uomo o sulla donna soli al comando.

Per queste ragioni e a sostegno dell’insieme delle proposte indicate, ci impegniamo a realizzare il 7 ottobre una grande manifestazione nazionale a Roma per il lavoro, contro la precarietà, per la difesa e l’attuazione della Costituzione, contro l’autonomia differenziata e lo stravolgimento della nostra Repubblica parlamentare.

Per tutto il materiale: collettiva.it/speciali/la-via-maestra
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(Da Volerelaluna)

Il pensiero di Adriano Olivetti per il superamento della crisi della Sardegna

img_4771Adriano Olivetti 1 Nei giorni 27 e 28 ottobre prossimo si terrà a Cagliari un importante Convegno sulla figura di Adriano Olivetti – intitolato “Adriano Olivetti e la Sardegna – Attualità di una prospettiva umanistica” – che ne riproporrà a tutto tondo il pensiero, soffermandosi specificamente su “teorie e pratiche di comunità”, che lo caratterizzano e informarono la sua prassi politica, purtroppo interrottasi con la sua morte improvvisa e prematura, impedendone una diffusione nel paese. Olivetti trovò felice corrispondenza del suo pensiero anche in Sardegna,
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- Foto: Archivi Fondazione Sardinia e Fondazione Adriano Olivetti
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dove strinse fecondi rapporti di collaborazione culturale e politica con il Partito Sardo d’Azione e con diversi esponenti della cultura operanti in Sardegna, come appunto Antonio Cossu, sul quale è incentrato il saggio del prof. Duilio Caocci. In particolare l’esperienza di Olivetti in Sardegna sarà approfondita nella ricerca degli elementi utili per proporre oggi una possibile alternativa all’attuale modello sociale, politico, culturale, nonché istituzionale, o, perlomeno, migliorare la situazione di crisi che attraversa la nostra Regione. Oltre l’autonomia verso un federalismo solidale? Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, dall’Università di Cagliari, dalla Pontificia Facoltà Teologica, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti. Aladinpensiero e il manifesto sardo assicurano la funzione di media partner della manifestazione. Proprio in questa veste, assumiamo l’impegno di pubblicizzare al massimo la meritoria iniziativa, prima, durante e successivamente. In questo contesto rilanciamo qui (e rilanceremo nei prossimi giorni/mesi) materiali di approfondimento a cura della Fondazione Sardinia, tratti dal suo sito web. Non ripetiamo quanto ben spiegato nelle premesse.
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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

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Antonio Cossu, uno scrittore olivettiano in Sardegna
di Duilio Caocci su Fondazione Sardinia.

“Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è decisivo”. Questo importante saggio di Duilio Caocci – professore ordinario di letteratura italiana presso l’Università di Cagliari – sull’intellettuale lussurgese Antonio Cossu (nella foto) rappresenta la ripresa delle tematiche “comunitarie” poste dal pensiero e dall’azione di Adriano Olivetti ed il loro importante passaggio in Sardegna a partire dagli anni Cinquanta dello scorso secolo. Un discorso che continueremo.

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All’interno della cosiddetta letteratura olivettiana, porzione minima e però importante della letteratura industriale, Antonio Cossu – per la quantità e per la qualità delle opere schiettamente olivettiane – dovrebbe occupare una posizione di primo piano. Se si conviene su una definizione ampia (1), ovvero sul fatto che con l’aggettivo derivato dal cognome del grande industriale si possa definire un gruppo ampio ed eterogeneo di prodotti letterari – poesie, saggi, romanzi, diari – che si ispirano alle idee di Adriano Olivetti (o evocano l’ingegnere, o rappresentano la vita nelle fabbriche di Ivrea e Pozzuoli, oppure ancora discutono i grandi temi dell’illuminato imprenditore), allora l’intera produzione dello scrittore sardo di cui vorremmo ora scrivere rientrerebbe pienamente in questo campo molto popolato. Anche quando – come accade nella più gran parte dell’opera – Antonio Cossu non parla affatto di fabbriche. Anzi, proprio perché riflette sul futuro dell’isola senza industria, in una fase storica in cui, dopo il fecondo dibattito sulle ragioni dell’autonomia, si pianifica l’attuazione dell’articolo 13 dello Statuto, quello che afferma che lo Stato col concorso della Regione dispone un piano organico per favorire la rinascita economica e sociale dell’Isola. Tale ‘rinascita’, secondo un’idea di sviluppo condivisa nel clima politico degli anni Cinquanta e Sessanta, doveva prevedere una radicale trasformazione delle dinamiche sociali e un rapido passaggio dall’economia rurale a quella industriale.

Tra i quattro romanzi di Cossu – I figli di Pietro Paolo, Il riscatto, Mannigos de memoria, Il sogno svanito – la Sardegna evoluta in senso industriale compare solo nel Sogno svanito, perché lo scrittore quando si dispone a fare letteratura non è tanto interessato al lavoro nella catena di montaggio, ma a questioni che riguardano più direttamente la sua terra: la modernizzazione dei processi economici in campo agropastorale in relazione al miglioramento della qualità di vita delle comunità, il perfezionamento dei rapporti di potere tra centri decisionali e periferie. Tutti nodi che Cossu aveva imparato a considerare con attenzione dalle letture dei filosofi personalisti francesi prima e da Adriano Olivetti poi.

Il primo contatto tra Antonio Cossu e Adriano Olivetti è precoce e decisivo. Risale al tempo immediatamente successivo alla Laurea conseguita presso la Statale di Milano2 e fu favorito da Diego Are (Santu Lussurgiu, 1914-2000), un intellettuale compaesano di Cossu che aveva fondato nella capitale il Movimento internazionale di unione e fraternità3 e si era presto avvicinato al Movimento Comunità. Nel 1954 si tiene a Roma un convegno organizzato dal Movimento di Are e dalla sede romana del Movimento Comunità, intitolato Abolire la miseria. Per un fronte di riforme e di lotta popolare contro il bisogno. È in quel contesto che Antonio Cossu, allora ventisettenne, viene reclutato dall’ingegnere per una collaborazione con il settimanale «La via del Piemonte» allora diretto da Geno Pampaloni4 e pubblicato a Ivrea dalle Edizioni di Comunità. A partire da quel momento il giovane lussurgese diventa protagonista di un grande progetto politico e culturale e ha la possibilità di lavorare accanto a una schiera di intellettuali composita e valorosa.
Nel settembre 1955 appare su «Comunità» (a. XI, n. 32) un racconto ibrido di Cossu, Sardegna a passo di carro e di cavallo, di quelli che si posizionano sulle zone di confine tra generi: reportage giornalistico, riflessione sociale e racconto finzionale, collocabile perciò tra quei non pochi scritti letterari olivettiani «che camuffano il rapporto tra narrativa e sociologia sotto la falsariga di una letteratura a carattere documentario perché oscillano tra scrittura d’invenzione e di testimonianza»5.

Il protagonista racconta in prima persona l’esperienza di un viaggio compiuto con suo padre in un’ampia area tra i paesi dell’oristanese, sino a Macomer, insistendo sulle condizioni arretrate del territorio e su una lentezza – quella appunto del carro – incompatibile con la modernità dei mezzi di trasporto a motore. Le descrizioni si accreditano come ‘oggettive’ per lo stile asciutto che caratterizza l’intera narrazione e per il corredo di fotografie scattate dall’autore al fine di documentare con maggiore evidenza i fenomeni tipici di un ritardo economico e culturale dell’Isola rispetto allo sviluppo frenetico di altre aree d’Italia. Ma le finalità documentarie del reportage non bastavano a Cossu neppure in quella fase di esordio e di formazione. Esse dovevano considerarsi – secondo un modello che l’autore aveva appreso dai personalisti francesi e che si era rafforzato e ‘aggiornato’ nel contatto con Adriano Olivetti e con l’ambiente olivettiano – un passo preliminare, una presa di coscienza e di conoscenza delle condizioni di una comunità, cui avrebbe necessariamente fatto seguito il momento dell’individuazione delle responsabilità prima e quello dell’azione individuale e collettiva poi, assieme all’impegno per la rimozione dei problemi. Il viaggio consente al protagonista di descrivere una serie di caratteristiche del paesaggio fisico e socio-antropologico di una parte della Sardegna e di esaltare la vocazione peculiare, l’irriducibile specificità di ciascuna comunità. È questo un modo di presentare l’Isola molto diverso rispetto a quello praticato da molta pubblicistica politica e da altrettanta produzione letteraria: qui la ‘frammentazione’ e la differenza sono considerate un valore e un punto di partenza per il riscatto collettivo; nelle negoziazioni tra Stato e Regione e nel dibattito politico interno, a pochissimi anni (sette per la precisione) dalla promulgazione dello Statuto Speciale per la Sardegna (26 febbraio 1948) e in un momento di grande entusiasmo per i poderosi investimenti promessi dallo Stato per la Rinascita, si preferiva confezionare discorsi identitari che puntavano sui tratti comuni più che su quelli divisivi.

A Cossu e all’intero gruppo di cui faceva parte interessava invece mostrare come si sviluppano nel tempo lungo le relazioni tra un paese e quello vicino. Il cosiddetto ‘campanilismo’, cioè il municipalismo, il provincialismo, è certamente un sentimento negativo se porta il cittadino alla chiusura nel piccolo spazio e al disprezzo per l’altro, ma nell’ottica personalistica e olivettiana il paese è il luogo in cui inizia la promozione dell’individuo a ‘persona’ capace di agire verso il prossimo e con il prossimo, a vantaggio di collettività sempre più ampie. Bisognava dunque senza timore restituire valore alle caratteristiche di ogni individuo, famiglia, quartiere, paese, regione e fare in modo che tale valore si aprisse verso lo spazio esterno. È per questa ragione che il racconto passa da Milis, paese di commercianti scialacquatori e pigri, a Macomer, cittadina industriosa, ricca di bestiame di qualità e capace di produrre ricchezza con i suoi caseifici e con la lavorazione della lana e attraversa la superba Ghilarza fino alla Cuglieri spagnolesca e esterofila. In quell’arcipelago ben delimitato di paesi ben delimitato era necessario anzitutto – secondo la prospettiva di Cossu – compiere un’indagine seria e capace di mettere in evidenza vizi e virtù di ciascuna comunità e di restituire la giusta dignità a ogni campanile. Con la giusta coscienza identitaria, si sarebbe dovuto incentivare e favorire il moto solidale di un paese verso l’altro, per il progresso dell’intera area.

Il campanile, o meglio, la campana è proprio il simbolo che salda istituzionalmente la più olivettiana delle imprese di Antonio Cossu al Movimento Comunità: la fondazione del «Montiferru. Periodico della Comunità del Montiferru». A partire dal primo numero – il numero unico provvisorio in attesa di registrazione del 20 febbraio 1955 – il periodico assume il logo della campana con il cartiglio su cui è incisa la locuzione humana civilitas, un’immagine che Leonardo Sinisgalli aveva trovato tra alcune carte cinquecentesche e che Giovanni Pintori6 aveva ridisegnato come logo per le Edizioni di Comunità e per la rivista «Comunità»7.

Si tratta dunque di un progetto che si inscrive all’interno del reticolo di pubblicazioni promosse dalle Edizioni di Comunità e che rappresenta uno degli ideologemi personalisti di Adriano Olivetti, il quale spiegherà così le ragioni di quell’invocazione umanistica e le finalità che tengono insieme, come un tutto omogeneo, le molte attività industriali e culturali:

Noi guardiamo all’uomo, sappiamo che nessuno sforzo sarà valido e durerà nel tempo se non saprà educare ed elevare l’animo umano, che tutto sarà inutile se il tesoro insostituibile della cultura, luce dell’intelletto e lume dell’intelligenza, non sarà dato ad ognuno con estrema abbondanza e con amorosa sollecitudine8.

Con la sua rivista Antonio Cossu intendeva portare nel suo paese le buone pratiche che si sperimentavano a Ivrea. Si trattava di favorire la costruzione di una comunità vera e solidale in un piccolo paese periferico, Santu Lussurgiu, ma evitando che la stessa si concepisse irrelata, autosufficiente. È infatti a un’area antropologicamente omogenea che si rivolge la testata, il Montiferru appunto, una sub-regione della Sardegna centro-occidentale caratterizzata da un’economia prevalentemente agro-pastorale. Il primo editoriale di Cossu, intitolato Oltre il campanilismo, colloca l’intera operazione tra due tendenze insidiose della modernità politica, il centralismo e l’individualismo, e chiarisce il senso dell’impegno coesivo e solidaristico in chiave federalista. Se la stampa e la politica ignorano e sottovalutano gli interessi dei piccoli paesi, è necessario avere una rivista che ne accolga e amplifichi le istanze, al fine di dotare le piccole patrie comunali di una forza contrattuale maggiore nei confronti delle istituzioni centrali. A supporto degli argomenti esposti, Cossu chiude l’editoriale con la citazione di un brano tratto da un libro di Luigi Einaudi e con un Appello del Consiglio dei Comuni d’Europa. Il brano di Einaudi – che avrebbe terminato il suo mandato da Presidente della Repubblica nel maggio di quello stesso anno 1955 – è particolarmente incisivo per il modo in cui connette il tema del federalismo a quello della libertà:

Federalismo è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni ad un unico centro. Il pericolo del concentramento della cultura in un solo luogo si ha negli stati altamente accentrati, dove la vita fluisce da un solo centro politico verso la periferia, dall’alto verso il basso. Ma federazione vuol dire invece liberazione degli stati dalle funzioni accentratrici.9

La questione del rapporto tra il centro del potere e le periferie è – come dicevamo – una costante olivettiana nella rivista, sino all’ultimo numero del luglio-settembre 1957, dove Antonio Cossu presenta un intervento intitolato La Regione e i comuni, per dare conto della terza edizione del Convegno Sardegna d’oggi tenutosi nell’agosto del medesimo anno. La questione del decentramento si pone in relazione al compimento dell’Autonomia regionale e alla pianificazione della rinascita della Sardegna garantita dall’articolo 13 dello Statuto. Per una vera rinascita – sostiene Cossu – occorre creare un reticolo di comuni dotati di sufficiente autonomia, ma saldati l’uno all’altro dagli interessi condivisi e da un progetto più grande, di respiro almeno regionale.

Non si può tuttavia pensare di giungere a un impegno corale di tante comunità verso il bene comune se non si agisce correttamente sui presupposti di ogni relazione, cioè sulla formazione dei singoli cittadini, per fare in modo che ogni individuo acquisti la dignità e la consapevolezza di persona. A questo tema è dedicato il fascicolo che raccoglie i numeri 7-8-9 dell’ottobre-novembre-dicembre 1955. Più precisamente il tema centrale del fascicolo è quello dell’istruzione nella scuola e l’epigrafe viene da Manlio Rossi Doria, politico ed economista di primissimo piano:
[segue]

Editoriali

img_4562Lezione domenicale
di Gianni Loy

Sarà perché ho frequentato a lungo la Chiesa, ma ricordo che fin da giovane ho maturato anticorpi, così non mi sono mai lasciato suggestionare, e tantomeno convincere, da chi mi parla con il rosario in mano.
Sarà perché le chiese sono sempre meno frequentate che i missionari di oggi hanno ripreso ad andare per le strade, ad esibire croci, rosario e medagliette della madonna. Cercano di risvegliare il nostro sentimento di pietà, il nostro buon cuore, la nostra solidarietà.
In materia di emigrazione, per esempio. Si presentano – uno in particolar modo – in barba e camicia, per dirci che gli esuli africani e asiatici starebbero meglio a casa loro. Forse per risvegliare, in un sol colpo, pietà e solidarietà. Ma se sul congiuntivo ci ho già fatto la croce, anche il condizionale non mi convince più tanto: stanno meglio o potrebbero star meglio? Se “potrebbero star meglio” significa che a casa loro stanno male, nel senso che soffrono e muoiono, imbarcarli per riportarli indietro non mi pare la soluzione migliore.
Sempre nel nome del Signore, come ai tempi delle vecchie crociate verso il medio-oriente, agitano la guerra santa contro gli scafisti, i nuovi untori che incitano quanti starebbero meglio a casa loro a venirsene in Europa, nel paese di Bengodi. Come a dire che, se non fosse per questi mascalzoni, questi milioni di persone se ne sarebbero rimasti tranquilli a casa loro …
Fortuna che, proprio ieri, ho ascoltato la voce di un anticlericale, vestito di bianco, che si è affacciato alla finestra di una piazza romana poco dopo mezzogiorno. Senza mai nominare né Dio né la Madonna, ci ha offerto una ben diversa versione del fenomeno. Ci ha ricordato, prima di tutto, che milioni di persone sono costrette – ha detto proprio costrette – ad abbandonare il proprio paese, la propria casa, per cercare di sopravvivere. E ci ha ricordato che tutte queste persone hanno un diritto di vivere nella loro terra. Un diritto umano, fondamentale. Quel loro diritto viene violato, ogni giorno, da un sistema economico che li costringe ad andar via.
Cosa ci vengono a dire quei predicatori che, con aria compunta e sofferente, vorrebbero convincerci che se cingiamo il mare di filo spinato è solo per il loro bene? Non si tratta, quindi – secondo quell’umile signore che non sembra del tutto sprovveduto in materia di diritto e di economia, – di rispedirli, con le buone o con le cattive, a casa loro. Ma di prendere atto del perché tutto ciò accada, non sulla base della compassione ma dei diritti, e di porvi rimedio, se ne saremo capaci. E poiché si tratta di persone private del diritto di stare a casa loro, in attesa di cambiare il mondo, cioè gli egoismi che lo governano, il minimo che si possa fare è quello di accoglierle dignitosamente queste persone, che, guarda caso, quel predicatore in barba e camicia che sventola il crocifisso, non chiama mai con il loro nome: fratelli e sorelle.
Devo dire che il ragionamento di quel vecchio anticlericale che, con voce sempre più stanca, si affaccia quasi tutte le domeniche da una finestra romana, mi convince.

(25.9.2023) Gianni Loy
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b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 132 del 20 settembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 313 del 20 settembre 2023
LA DIFESA DEI CONFINI

Cari amici,
il Consiglio dei ministri di lunedì scorso ha inserito nel decreto-legge per gli aiuti al Mezzogiorno nuove norme di contrasto all’immigrazione, ciò che nel linguaggio di Giorgia Meloni significa “la difesa dei confini”. Finora si intendeva come difesa dei confini il contrasto alle invasioni armate. Ma i profughi non sbarcano sulle nostre coste facendosi ragione con le armi, quindi non si possono mandare le Frecce Tricolori a bombardare i barchini, né fare con le navi da guerra il blocco navale, né spedire la Folgore per sbarrare i porti né si possono schierare i carri armati Ariete e Leopard sulla spiaggia dell’isola dei Conigli a Lampedusa, dove a sbarcare sono le tartarughe che vengono a deporvi le uova. Sicché, venuta meno la difesa avanzata dei confini, il governo ha deciso una difesa arretrata decretando l’istituzione in tutte le regioni, di concerto con il ministro della Difesa, di centri di detenzione che dovranno essere messi “in località scarsamente popolate”, facili a delimitare e “facilmente sorvegliabili”, cioè in prigioni o lager dove i reclusi potranno essere ristretti fino a un anno e mezzo, prima dell’espulsione. C’è però un problema, che si è posto il prefetto di Agrigento dopo che due o trecento profughi erano scappati dal centro di Porto Empedocle per cercare cibo ed acqua nella città vicina; poiché tecnicamente gli evasi non erano in stato di detenzione, si è chiesto il prefetto, come faccio a riacchiapparli? E così si scopre che è stata istituita una nuova figura giuridica, quella di detenuti con diritto di fuga, salvo ad essere poi riacciuffati dalla polizia, se no si disperdono nel territorio.
Che cosa si intende quindi per “difesa dei confini”? L’immagine più rappresentativa è quella che la Stampa ha definito “un video-choc”, della polizia francese che aggredisce una famiglia ivoriana con donna incinta e un bambino in braccio al padre sul treno Cuneo-Ventimiglia per farli scendere alla stazione di Breil. Altri modi di difendere i confini sono quelli della polizia di frontiera francese che respinge ed espelle decine di minori non accompagnati falsificandone perfino i dati anagrafici per spacciarli come maggiorenni.
Ma poi c’è l’invenzione della Meloni e della Von der Meyen di dare soldi in cambio di migranti al presidente tunisino, e di fare accordi per ricollocare i profughi comunque sbarcati in Europa nei lager libici o ributtarli nel deserto del Sahara; e queste sono due donne che orgogliosamente rivendicano di essere madri, la Meloni se ne gloria in spagnolo (“yo soi madre”), la Von der Meyen ha sette figli tra cui due gemelle: esse giustamente difendono la natalità e la famiglia, ma la loro, non quella delle altre. C’è poi da dire che le nuove misure decretate in Italia dal governo hanno anche un sapore razzista perché destinate a colpire soprattutto profughi di pelle scura, e bisogna stare attenti a questo in tempi in cui in Europa ci si scambia accuse di nazismo.
Ma se la risposta alla tragedia dei migranti viene iscritta nel capitolo della difesa dei confini, è proprio l’istituto dei confini, celebrati finora come sacri e inviolabili, che bisogna riformare. Finora la riforma è stata quella di liberalizzare e aprire le frontiere alle ricchezze e alle merci, ma non alle persone; ora si tratta di destinare i confini non a circondare territori chiusi e presidiati da sovrani l’un contro l’altro armati, che si sbranano tra loro come oggi accade, ma a delimitare dei grandi spazi giuridici, degli ordinamenti comunicanti tra loro, dotati di legislazioni specifiche ma subordinate a un costituzionalismo di diritti e di garanzie fondamentali a tutti comune. In questo quadro, la libertà di movimento dovrebbe essere riconosciuta come un diritto fondamentale tra questi spazi giuridici aperti. E per evitare migrazioni di massa occorrerebbe una bonifica dei rapporti economici tra gli stati, compreso il debito, in prospettiva mondiale. A vigilare sulla sicurezza dei confini dovrebbero essere eserciti anche nazionali, ma nella forma dei caschi blu come sono previsti dal capitolo VII dello Statuto dell’Onu. A questo compito è chiamata la politica, e a proporlo come nuovo modello per il mondo può essere un grande soggetto politico: e proprio questo dovrebbe essere l’Europa, se si converte, e proprio questo è il cimento a cui essa dovrebbe essere chiamata nella prossima competizione europea.
Non è la sostituzione etnica che si dovrebbe temere, ma piuttosto la catastrofe etica dei valori universalisti dell’Europa e dell’Occidente.
Costituente Terra
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Nel sito di Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri viene pubblicato l’importante discorso sull’armonia tra le religioni, pronunciato da papa Francesco al recente incontro interreligioso in Mongolia.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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È online il numero 19/2023 di Rocca
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img_4497È online il n.19 della Rivista Rocca, a cui ci lega un antico e sempre attuale rapporto di collaborazione. Su gentile concessione del nostro amico direttore Mariano Borgognoni, che ringraziamo, ne pubblichiamo l’editoriale.
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Memoria e politica

di Mariano Borgognoni su Rocca 19/2023
(21 Settembre 2023)
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di Marco Meloni Lai
In Italia si sta normalizzando e legalizzando l’inumanità e la violazione dei diritti umani più elementari.
I migranti sono persone. I migranti minorenni sono persone minorenni. Le invasioni nazi-fasciste sono venute ad opera militare dopo che buona parte dell’Occidente aveva normalizzato, accettato e riprodotto logiche razziste e suprematiste provenienti da Italia prima e Germania dopo, non da parte di chi fugge da un continente affamato da secoli di colonialismo, guerre e sfruttamento.

Editoriali

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LA DIFESA DEI CONFINI

Cari amici,
il Consiglio dei ministri di lunedì scorso ha inserito nel decreto-legge per gli aiuti al Mezzogiorno nuove norme di contrasto all’immigrazione, ciò che nel linguaggio di Giorgia Meloni significa “la difesa dei confini”. Finora si intendeva come difesa dei confini il contrasto alle invasioni armate. Ma i profughi non sbarcano sulle nostre coste facendosi ragione con le armi, quindi non si possono mandare le Frecce Tricolori a bombardare i barchini, né fare con le navi da guerra il blocco navale, né spedire la Folgore per sbarrare i porti né si possono schierare i carri armati Ariete e Leopard sulla spiaggia dell’isola dei Conigli a Lampedusa, dove a sbarcare sono le tartarughe che vengono a deporvi le uova. Sicché, venuta meno la difesa avanzata dei confini, il governo ha deciso una difesa arretrata decretando l’istituzione in tutte le regioni, di concerto con il ministro della Difesa, di centri di detenzione che dovranno essere messi “in località scarsamente popolate”, facili a delimitare e “facilmente sorvegliabili”, cioè in prigioni o lager dove i reclusi potranno essere ristretti fino a un anno e mezzo, prima dell’espulsione. C’è però un problema, che si è posto il prefetto di Agrigento dopo che due o trecento profughi erano scappati dal centro di Porto Empedocle per cercare cibo ed acqua nella città vicina; poiché tecnicamente gli evasi non erano in stato di detenzione, si è chiesto il prefetto, come faccio a riacchiapparli? E così si scopre che è stata istituita una nuova figura giuridica, quella di detenuti con diritto di fuga, salvo ad essere poi riacciuffati dalla polizia, se no si disperdono nel territorio.
Che cosa si intende quindi per “difesa dei confini”? L’immagine più rappresentativa è quella che la Stampa ha definito “un video-choc”, della polizia francese che aggredisce una famiglia ivoriana con donna incinta e un bambino in braccio al padre sul treno Cuneo-Ventimiglia per farli scendere alla stazione di Breil. Altri modi di difendere i confini sono quelli della polizia di frontiera francese che respinge ed espelle decine di minori non accompagnati falsificandone perfino i dati anagrafici per spacciarli come maggiorenni.
Ma poi c’è l’invenzione della Meloni e della Von der Meyen di dare soldi in cambio di migranti al presidente tunisino, e di fare accordi per ricollocare i profughi comunque sbarcati in Europa nei lager libici o ributtarli nel deserto del Sahara; e queste sono due donne che orgogliosamente rivendicano di essere madri, la Meloni se ne gloria in spagnolo (“yo soi madre”), la Von der Meyen ha sette figli tra cui due gemelle: esse giustamente difendono la natalità e la famiglia, ma la loro, non quella delle altre. C’è poi da dire che le nuove misure decretate in Italia dal governo hanno anche un sapore razzista perché destinate a colpire soprattutto profughi di pelle scura, e bisogna stare attenti a questo in tempi in cui in Europa ci si scambia accuse di nazismo.
Ma se la risposta alla tragedia dei migranti viene iscritta nel capitolo della difesa dei confini, è proprio l’istituto dei confini, celebrati finora come sacri e inviolabili, che bisogna riformare. Finora la riforma è stata quella di liberalizzare e aprire le frontiere alle ricchezze e alle merci, ma non alle persone; ora si tratta di destinare i confini non a circondare territori chiusi e presidiati da sovrani l’un contro l’altro armati, che si sbranano tra loro come oggi accade, ma a delimitare dei grandi spazi giuridici, degli ordinamenti comunicanti tra loro, dotati di legislazioni specifiche ma subordinate a un costituzionalismo di diritti e di garanzie fondamentali a tutti comune. In questo quadro, la libertà di movimento dovrebbe essere riconosciuta come un diritto fondamentale tra questi spazi giuridici aperti. E per evitare migrazioni di massa occorrerebbe una bonifica dei rapporti economici tra gli stati, compreso il debito, in prospettiva mondiale. A vigilare sulla sicurezza dei confini dovrebbero essere eserciti anche nazionali, ma nella forma dei caschi blu come sono previsti dal capitolo VII dello Statuto dell’Onu. A questo compito è chiamata la politica, e a proporlo come nuovo modello per il mondo può essere un grande soggetto politico: e proprio questo dovrebbe essere l’Europa, se si converte, e proprio questo è il cimento a cui essa dovrebbe essere chiamata nella prossima competizione europea.
Non è la sostituzione etnica che si dovrebbe temere, ma piuttosto la catastrofe etica dei valori universalisti dell’Europa e dell’Occidente.
Costituente Terra
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Nel sito di Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri viene pubblicato l’importante discorso sull’armonia tra le religioni, pronunciato da papa Francesco al recente incontro interreligioso in Mongolia.
Con i più cordiali saluti,

Chiesa di Tutti Chiesa dei Poveri
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È online il numero 19/2023 di Rocca
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img_4497È online il n.19 della Rivista Rocca, a cui ci lega un antico e sempre attuale rapporto di collaborazione. Su gentile concessione del nostro amico direttore Mariano Borgognoni, che ringraziamo, ne pubblichiamo l’editoriale.
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Memoria e politica

di Mariano Borgognoni su Rocca 19/2023
(21 Settembre 2023)
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Dove finiremo?

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INVECE DELLA RAGIONE

Cari amici,
è sempre più difficile dire come potremo uscire dalla tragedia universale che stiamo vivendo, perché siamo vittime non solo della protervia dei potenti che si sono arrogati il diritto di decidere della nostra sorte e della stessa vita del mondo, ma della loro condotta del tutto irrazionale, e per conseguenza incoerente e ingannevole. Nel nostro orgoglio di occidentali nipotini di Kant, credevamo che la ragione ci avrebbe salvato, e invece è proprio l’eclissi della ragione che ci sta perdendo.
Il primo esempio di questo agire senza ragione sta nell’origine stessa della guerra d’Ucraina; ora sappiamo perché essa è scoppiata, e come sarebbe stato facile, e addirittura ovvio, evitarla. Ci ha spiegato perché non l’hanno fatto il segretario generale della NATO, Stoltenberg, parlando in una sede istituzionale e ufficiale come la Commissione Affari Esteri del Parlamento europeo. È forse per la sua genialità che egli è stato confermato per un altro anno alla testa della Forza Armata dell’Occidente.
“Nell’autunno del 2021 – ha rivelato – il presidente russo Vladimir Putin ci inviò una bozza di trattato: voleva che la NATO firmasse l’impegno a non allargarsi più”. Bisogna notare che a quella data la NATO aveva già inglobato, dopo il fatidico ’89, la Polonia, la Repubblica Ceca, l’Ungheria, la Bulgaria, l’Estonia, la Lettonia, la Lituania, la Romania, la Slovacchia, la Slovenia, l’Albania, la Croazia, il Montenegro, la Macedonia del Nord, Paesi non tanto lontani dai confini della Russia, su cui pertanto la NATO poteva già abbaiare a suo piacere. “Inoltre – ha aggiunto Stoltenberg – voleva che rimuovessimo le infrastrutture militari in tutti i Paesi entrati dal 1997, il che voleva dire che avremmo dovuto rimuovere la NATO dall’Europa centrale e Orientale, introducendo una membership di seconda classe. Ovviamente non abbiamo firmato, e lui è andato alla guerra per evitare di avere confini più vicini alla NATO, ottenendo l’esatto contrario».
Commentando queste dichiarazioni su “Il Fatto Quotidiano”, Salvatore Cannavò fornisce altri particolari su quel tentativo di accordo fallito: Il documento con le “proposte concrete” di Putin, presentato il 15 dicembre 2021 “fu accolto in Occidente come un diktat, anche se gli uomini di Putin lo consideravano comunque una bozza su cui avviare la trattativa. I nove articoli muovevano da un preambolo che citava vari trattati, da quello di Helsinki del 1975 sino alla Carta per la sicurezza europea del 1999 per poi sostenere l’impegno delle parti a “non partecipare o sostenere attività che incidano sulla sicurezza dell’altra parte “, a “non usare il territorio di altri Stati per preparare o effettuare un attacco armato” o ad azioni che ledano “la sicurezza essenziale” reciproca facendo in modo che le alleanze militari o le coalizioni di cui fanno parte rispettino “i principi contenuti nella Carta delle Nazioni Unite”. Propositi a nostro parere sacrosanti.
L’articolo 4 era quello tendente a escludere l’ulteriore espansione della NATO ad Est, e l’ammissione ad essa degli Stati che facevano parte dell’Unione Sovietica; gli Stati Uniti non avrebbero dovuto installare basi militari sul territorio degli Stati già membri dell’URSS né avrebbero dovuto stabilire con loro una cooperazione militare bilaterale. Tale proposta non metteva in discussione tutto l’Est europeo ma i soli Paesi baltici, Estonia Lettonia e Lituania entrati nell’alleanza nel 2004. La Russia chiedeva poi di non schierare missili terrestri a raggio corto e intermedio se questi minacciassero l’altra parte e di “evitare il dispiegamento di armi nucleari”. C’era poi l’impegno che le parti non avrebbero dovuto creare “condizioni o situazioni che costituiscano o possano essere percepite come una minaccia alla sicurezza nazionale di altre parti”, con una certa “moderazione” nell’organizzazione delle esercitazioni. Per la risoluzione delle controversie si rimandava ai rapporti bilaterali e al consiglio Nato-Russia, con la richiesta di creare hotline di emergenza. Per quanto in particolare riguardava l’Ucraina la richiesta era che tutti gli Stati membri della NATO si astenessero dal suo ulteriore allargamento compresa l’adesione dell’Ucraina e di altri Stati, e non conducessero alcuna attività militare sul territorio dell’Ucraina e di altri Stati dell’Europa orientale, del Caucaso meridionale e dell’Asia centrale”. Il rifiuto di queste proposte arrivò subito, già il giorno dopo, il 16 dicembre, in una conferenza stampa di Stoltenberg con il presidente ucraino Zelenski. La posizione degli Stati Uniti, di Biden, di Stoltenberg, ribadita in più sedi, era che “è la NATO che decide chi aderisce all’Alleanza e non la Russia”, e l’Europa tacque del tutto.
Un altro esempio di un comportamento “alienum a ratione”, per dirla con papa Giovanni XXIII, ossia “fuori della ragione” se non di follia, sta nella posizione assunta dall’Ucraina come l’ha enunciata il portavoce ufficiale di Zelenski, Mikhailo Podolyak. Egli prima ha liquidato papa Francesco, dicendo: “Non ha senso parlare di un mediatore chiamato papa, se questi assume una posizione filorussa… Se una persona promuove chiaramente il diritto della Russia di uccidere i cittadini di un altro Paese…sta promuovendo la guerra… Il Vaticano non può avere alcuna funzione di mediazione: ingannerebbe l’Ucraina o la giustizia”. Marco Politi ha definito queste dichiarazioni “uno schiaffo pesante” al papa, paragonandolo allo “schiaffo di Anagni”. Poi Podolyak ha descritto il mondo come l’Ucraina di Zelensky se lo immagina oggi e dopo la vittoria sulla Russia: “Smettetela di assecondare i mostri” (rivolto a Lula che aveva detto che non avrebbe fatto arrestare Putin se andrà al prossimo G20 del 2024 a Rio de Janeiro), “Smettetela di flirtare con i maniaci ignorando le loro vere intenzioni. Smettetela di pensare che sia possibile negoziare con la Russia e che sia importante. La decisione sulla Russia deve ancora essere presa: isolamento geopolitico, status di terrorista, sospensione dall’appartenenza a istituzioni globali, mandati di arresto individuali per alti funzionari. E soprattutto la sconfitta nella guerra seguita dalla trasformazione interna” (dal Corriere della Sera dell’11 settembre). Povera Ucraina e poveri noi in un mondo così.
La terza performance insensata è quella di Biden che è andato in Vietnam, teatro di quella guerra che gli Stati Uniti non hanno accettato di concludere con un negoziato cercando invece la vittoria, e ne sono usciti sconfitti fuggendo da Saigon, per proporre una qualche partnership nell’Indopacifico, ignorando forse che il Vietnam, dopo la dura esperienza da cui è uscito, è ora il Paese “dei quattro NO”: no alle alleanze militari, no a schierarsi con un Paese contro un altro, no alle basi militari straniere, no all’uso della forza nei rapporti internazionali. Fossimo anche noi come il Vietnam! E a Pechino Biden ha detto: “Non voglio il contenimento della Cina. Voglio solo assicurare che ci sia una relazione onesta e chiara”. Peccato che nella “Strategia della sicurezza nazionale americana”, da lui firmata nell’ottobre scorso, c’è scritto che il maggiore “competitore strategico” degli Stati Uniti è la Cina, che rappresenta la “sfida culminante” (pacing challenge) nel prossimo decennio e nei decenni successivi, a causa della sua intenzione e capacità di “rimodellare l’ordine internazionale a favore di un ordine che inclini il campo di gioco globale a suo vantaggio, e sempre più spesso ha il potere economico, diplomatico, militare e tecnologico per perseguire tale obiettivo”.
Sulla scia di questa “damnatio” pronunciata da Biden il documento operativo sulla “Strategia della Difesa Nazionale degli Stati Uniti” pubblicato dal Segretario alla Difesa Lloyd Austin, specificava che “la Repubblica Popolare Cinese ha ampliato e modernizzato quasi ogni aspetto dell’Esercito Popolare di Liberazione, concentrandosi sullo sforzo di riequilibrare le superiorità militari statunitensi. La Cina è quindi la sfida suprema per il Dipartimento della Difesa”. Lloyd Austin illustrava poi come l’immenso potenziale americano sarebbe stato predisposto a sostenere con la deterrenza questa sfida con la Repubblica Popolare Cinese e a “scoraggiare l’aggressione”; egli sosteneva bensì che il conflitto con la Cina non è “né inevitabile né auspicabile” ma anche che gli Stati Uniti sono pronti, se la deterrenza fallisce, “a prevalere nel conflitto”. Nonostante tutti i processi alle intenzioni, decisive motivazioni sul perché si debba fare della Cina l’ultimo Nemico in una guerra finale con lei, non erano date. Sono queste alcune delle ragioni che stanno alla base dell’Appello “Terra, Pace Dignità”, rivolto anche ai destinatari di questa newsletter, appello che pubblichiamo nel sito e di cui si potranno poi seguire gli sviluppi. Si tratta di dare una rappresentanza politica a tre soggetti ideali, tre ordinamenti, che non l’hanno o l’hanno perduta: la Terra, la Pace e la Dignità di tutte le creature; è la via, che non elude la dura prova della politica, per giungere infine, ripudiata sul piano mondiale la guerra, a quel costituzionalismo mondiale che è il nostro obiettivo e la ragione del nostro impegno.
Nel sito, nel giorno (12 settembre) in cui si sono registrati 5112 sbarchi di migranti sulle coste di Lampedusa pubblichiamo anche una drammatica lettera di don Mattia Ferrari, che assiste quanti sono impegnati nella salvezza dei profughi con la nave “Mediterranea”. Pubblichiamo inoltre l’articolo di Marco Politi sullo “schiaffo ucraino” al Papa, e un altro sulla carneficina in atto in Ucraina.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
(Raniero La Valle)

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La guerra che verrà
di Bertolt Brecht

img_4388La guerra che verrà
non è la prima. Prima
ci sono state altre guerre.
Alla fine dell’ultima
C’erano vincitori e vinti.
Fra i vinti la povera gente
Faceva la fame. Fra i vincitori
Faceva la fame la povera gente egualmente.
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POLITICA e CULTURA

trontibevilacqua-mario-tronti
In continuità con lo spazio/editoriale precedente proponiamo di soffermarci sul pensiero illuminante di Mario Tronti (nella foto), morto il 7 agosto u.s. all’età di 92 anni. Lo facciamo utilizzando i materiali degli ultimi numeri della rivista Rocca, a cui ci lega un rapporto di collaborazione, ringraziando il suo direttore, l’amico Mariano Borgognoni, per questa preziosa concessione (f.m.).
Tronti e la necessaria «autonomia del politico»
di Luigi Pandolfi su Rocca.
È stata una storia intellettuale e politica controversa, quella di Mario Tronti, scomparso a novantadue anni lo scorso 7 agosto. Teorico dell’operaismo italiano (nel 1966 esce Operai e capitale, per i tipi di Einaudi), poi dell’«autonomia del politico», la sua esperienza di dirigente politico e di uomo delle istituzioni è stato un conclamato caso di incoerenza tra pensiero e azione, almeno nell’ultima stagione del suo impegno in parlamento. È sufficiente ricordare, a tal proposito, il suo voto favorevole, da senatore del PD renziano, al Jobs Act, provvedimento che ha reso ancora più precario il lavoro nel nostro Paese, e all’abolizione dell’art.18 dello Statuto dei lavoratori. Ma lui, fino alla fine, ha vissuto tutto questo con curioso spirito di separazione, come se quei voti, quella corresponsabilità in determinate scelte, fossero di un altro Mario Tronti. Solo qualche settimana prima della sua dipartita, in un’intervista a Marco Bevilacqua proprio su Rocca, diceva che «la sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica», quasi ironizzando sulle suggestioni “americane” del Partito democratico. La conclusione era che «il potere vero è ormai nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta». Nessuna autocritica, ma l’analisi, presa a sé stante, era sensata. Economia e politica, conflitto e mediazione: il cuore della sua riflessione sulla politica moderna, entrata definitivamente e irrimediabilmente in crisi dopo il fallimento del socialismo reale in Urss e nei paesi dell’est, che ha tirato giù anche i benefici del compromesso keynesiano ad ovest. Vale la pena ritornarci su questo argomento. Ciò che, dal mio punto di vista, rimane di più vivo del lungo, e composito, comunque importantissimo, lavoro dell’intellettuale Mario Tronti.

La politica e il moderno
Il Novecento è stato il secolo della politica. La politica che contende il terreno all’economia, palmo a palmo, provando, e a volte riuscendovi, a cambiare il corso della storia. Rivoluzioni e riforme, lotte sociali e politicizzazione delle masse, partecipazione dei ceti popolari alla vita pubblica, l’irruzione nella società dei partiti di massa. Sono i tratti salienti della modernità, che per Tronti finisce per coincidere con la politica stessa. Ma il Novecento si è chiuso facendo fare all’Occidente un salto all’indietro. «Un ritorno di Ottocento ha sconfitto alla fine il nostro secolo», scrive Tronti in La politica al tramonto (Einaudi, 1998). È la fine dell’età della politica, «l’unica che poteva impensierire l’idea moderna di dominio fondata sull’economico». La crisi sarebbe iniziata all’inizio degli anni Settanta, col ’68 e le sue lotte a sugellarne l’epilogo. Da quel momento in poi, secondo Tronti, sarebbe iniziata la «storia minore del Novecento», nella quale, al conflitto, si sarebbe sostituito il basso compromesso, mentre al posto delle appartenenze si sarebbero imposte le cosiddette contaminazioni. Solo la rivoluzione femminile avrebbe «depositato pensiero» e fatto politica con la P maiuscola, cambiando con le lotte le leggi e, fin dove possibile, il senso comune. Lo stesso governo è diventato «amministrazione della casa», in assenza di conflitto tra visioni alternative del mondo e della società. C’entra molto, nella fine della politica, la caduta dell’idea di comunismo. Tronti non si è mai sottratto al confronto con la storia, grande e terribile, del tentativo di costruzione di una società alternativa a quella capitalistica. Ma, al contempo, ha sempre contrastato la vulgata secondo cui comunismo e fascismo/nazismo sarebbero stati due varianti di un medesimo fenomeno, quello del totalitarismo. Il nazismo, fino al parossismo, ha realizzato le sue idee, mentre il comunismo le ha tradite, è la sua condivisibile conclusione. Ancorché quello comunista non sia stato il governo politico della normalità, bensì dell’eccezionalità, a fronte della mancata rivoluzione in Occidente. Che fallisce nella sua impresa quando sposta sul terreno economico la competizione col mondo capitalistico. «Il socialismo, sottratto al conflitto politico e costretto alla competizione economica, lì ha perso», è la conclusione di Tronti. Non c’era partita. Un’inutile rincorsa. Ma ad ovest, lo spauracchio della dittatura del proletariato ha prodotto i suoi effetti. Si chiede Tronti, giustamente: «Ci sarebbe stato comunque il welfare state», senza lo spettro incombente di un diverso modello di società che aveva provato a farsi storia? E, infatti, proprio la fine del socialismo reale sciolse le briglie del neo-liberismo, fino a quel punto contenuto da una politica in grado di esercitare la propria autonomia, in un rapporto «agonico» con le forze dell’economia e della finanza.

Il Tronti attuale
Il nostro tempo è ancora più segnato dall’assenza di politica. La differenza tra gli schieramenti che si alternano alla guida dei governi è solo di superficie. Nessuno, da destra a sinistra, mette più in discussione le fondamenta di una società che produce «scarti», alienazione consumistica alimentata dal debito, nuove e più insidiose forme di sfruttamento del lavoro, distruzione dell’ambiente, precarietà lavorativa ed esistenziale, guerra. Quest’ultima è anche una delle leve che il capitalismo utilizza per far fronte alla propria tendenza al ristagno (molto attuale su questo la lezione dell’economista americano Paul Sweezy). Così si spiega l’esplosione delle spese militari (Nel 2022, la spesa militare mondiale ha raggiunto la cifra record di 2.240 miliardi di dollari, con gli Usa che ne rappresentano il 40%). Ma, a parte alcune minoranze, politiche ed intellettuali, o il Pontefice, chi si oppone seriamente a tutto questo? «Da quando, gli schieramenti non si distinguono più per il senso diverso che dànno alla politica?», si sarebbe chiesto il nostro. Eppure, senza politica il mondo non ha che la catastrofe dinanzi a sé. In essenza di una nuova soggettività capace di «deviare il corso del fiume», l’umanità è destinata a soccombere. È di nuovo tempo di grandi visioni, di progetti alternativi di società. Per la cui elaborazione servono soggetti collettivi portatori di «una ragione o di più ragioni» di contrasto allo stato di cose presente. Non è solo un problema Italiano, dove la spoliticizzazione della democrazia ha coinciso con la totale scomparsa delle forze politiche di riferimento del movimento operaio. È una questione globale. Tanto più che la partita principale, oggi, si gioca sul terreno geopolitico. Proprio Tronti, in una recente intervista rilasciata al quotidiano Il Riformista faceva notare che «la vecchia politica di potenza di paesi-nazione si muta in geopolitica, che vede protagonisti interessi di nazioni-continente», in un quadro, più generale, dove l’asse del mondo tende a spostarsi dall’Atlantico al Pacifico. Aspirazioni, legittime, di potenze emergenti che si scontrano con l’accanita resistenza di un impero decadente, quello a stelle e strisce. In mezzo, l’assenza dell’Europa, che è assenza di una politica europea. Una «unione economica con l’elmetto della Nato», che rischia la deindustrializzazione. La «grande politica» – usiamo ancora un’espressione di Mario Tronti – oggi sarebbe pertanto una politica di pace, contro l’economia di guerra, la corsa alle spese militari, per salvare il mondo dalla catastrofe atomica e indirizzare l’economia verso la produzione di «valori d’uso» sociali e ambientali. «Grande politica» contro la «piccola politica», che tende ad «annullare, comprimere, mascherare, i conflitti», ma giustifica la guerra in nome di sacri principi che non mancano mai alla bisogna. Come anche la guerra d’Ucraina sta dimostrando.
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La morte annunciata di una sinistra senza storia
di Marco Bevilacqua
8 Agosto 2023
Conversazione con Mario Tronti

Non solo in Italia, ma in generale nel mondo occidentale, oggi la sinistra sembra in crisi di identità, di rappresentanza, di credibilità. Ci si potrebbe chiedere: ha ancora senso una sinistra nel ventunesimo secolo? Ne parliamo con Mario Tronti, grande saggio del marxismo operaista, ex senatore della Repubblica e già parlamentare del Pd.

Professore, esiste ancora la sinistra?

La sua è una domanda difficile. La sinistra esiste ancora formalmente, ma ormai si è scavato un solco fra questa esistenza formale e la vita sociale e politica. Tale distanza può essere più o meno marcata a seconda del Paese. Negli Stati Uniti la sinistra, senza mai definirsi come tale, si è sempre identificata nel partito democratico, e comunque ha esercitato una certa forza attrattiva nei confronti della sinistra europea. In Europa, la socialdemocrazia tedesca possiede ancora sia la solidità organizzativa, sia la capacità di esercitare una presenza reale nel sistema politico. In Francia la sinistra si è ripresentata in forme nuove, in Spagna c’è un partito socialista al governo. Esiste pure un partito socialista europeo, che a me sembra un morto che cammina. In generale, è pur vero che il panorama è un po’ desolante, ma ci sono anche delle eccezioni in controtendenza, come il partito socialista portoghese, che sta portando qualche segnale di freschezza.

E in Italia che succede?

Succede che il Pd voleva somigliare ai democratici americani, e pur nella sua breve vita ha finito con il non riuscire più a rappresentare la sinistra italiana. Poi esiste una galassia di sinistre minoritarie che non riescono a incidere nella vita reale. Una situazione molto frastagliata, poco leggibile. Il problema è che bisognerebbe ridefinire ciò che si intende per sinistra.

Qual è l’aspetto dirimente per poter definire la sinistra?

Da vecchio militante del Pci, ho sempre creduto in un progetto chiaro, definito, organico. In un partito che non aveva bisogno di definirsi: il nome parlava chiaro, senza fraintendimenti circa la sua collocazione politica. La sua stessa evoluzione in Pds, poi Ds e infine Pd, non ha mai esercitato la forza attrattiva, vorrei quasi dire evocativa, che quel nome storico possedeva. Il cammino affrettato, e per certi aspetti raffazzonato, da Pci a Pd ha molto disorientato l’elettorato, che non ha più compreso di che si trattava. Perciò vengo alla sua domanda: la sinistra per me è qualcosa che deve avere un passato, un percorso storico, un radicamento sociale. Il movimento operaio non è più riproponibile, nelle forme storiche in cui si è manifestato, perché oggi l’industria tradizionale non è più centrale nel capitalismo. Però l’errore è stato pensare che la storia del movimento operaio si fosse conclusa con la disintegrazione, dopo settant’anni, del tentativo di costruzione del socialismo cosiddetto reale. Un esperimento fallito che però non portava alla fine della storia. Il movimento operaio ha una storia molto più lunga, nata a fine Settecento con la prima rivoluzione industriale e proseguita per i due secoli successivi attraverso tante esperienze di mutualismo, associazionismo e di lotta organizzata, e non doveva essere liquidato così grossolanamente. Tanto più che il movimento operaio si è espresso e sviluppato in profondità anche nel mondo cattolico. Ecco, se la sinistra, pur mutando le forme, non si porta dietro questa lunga storia, fatta di cura e assistenza quotidiana alle persone che lavorano, di lotta antagonista, di alternativa all’ordine costituito, allora non ha più senso definirla tale. E invece, dagli anni ‘80 in poi, sembra che l’unica preoccupazione dei vertici della sinistra sia stata quella di demonizzare il passato, di emanciparsene, di aprirsi al nuovo che avanza. Ma non si sono accorti che il nuovo che avanza è sempre lo stesso: la ragione capitalistica, che oggi si chiama neoliberismo.

Quindi, l’errore è stato buttare il bambino con l’acqua sporca…

(Ride). Sì, è andata proprio così. Si potrebbe anche dire che, nell’ansia di legittimarsi, hanno tagliato il ramo su cui erano seduti. Dimenticando per sempre la propria storia e il fatto che la grande rivoluzione del 1917 aveva ben altre premesse di quelle poi costruite dallo Stato sovietico, che le ha in buona parte deluse e contraddette. E hanno anche dimenticato che il conflitto, la critica allo stato delle cose, di cui oggi hanno paura, è sempre stato l’anima del movimento operaio.

Nell’Italia oggi governata dal centrodestra, quale realistico obiettivo possono porsi le forze di centrosinistra in campo, così diverse fra loro, per progettare un’alternativa credibile?

Porrei l’attenzione su un fatto: per la prima volta al governo dell’Italia non c’è il centrodestra, ma la destra tout court. Si è esaurito il ruolo di garanzia che ha avuto per decenni il centro, prima espresso dalla Dc e poi in parte dal berlusconismo. Di conseguenza, sarebbe logico aspettarsi che a contrapporsi a una vera destra ci sia una sinistra altrettanto vera. Non c’è più bisogno del centrosinistra. Ecco perché falliscono tutti i tentativi di coagulare un centro, il famoso “terzo polo”, che non ha più un senso politico. La situazione si è radicalizzata (guardiamo cosa sta succedendo negli Stati Uniti e nella stessa Francia) e richiede svolte radicali, non pateracchi e soluzioni nebulose. Se da sinistra non si coglie questo passaggio, non si può proporre un’alternativa strutturata e attendibile.

Si può dire che la sinistra ha rinunciato a portare avanti le sue istanze “tradizionali”, lasciando così campo libero al populismo emotivo della destra, che ha così tanta presa nelle grandi periferie?

Più che populismo, lo definirei sentimento antipolitico. È lo stesso che ha sciaguratamente cavalcato il movimento Cinque Stelle, che con il suo “uno vale uno” ha diffuso demagogia, approssimazione, incompetenza e superficialità. Tutte cose che non devono appartenere a una sinistra seria, che al contrario, per sua natura, dovrebbe perseguire una conflittualità sociale riconoscibile e affidarsi alla sua vocazione di responsabilità sociale e capacità di analisi. Non a caso Conte si guarda bene dal dichiararsi di sinistra e parla sempre d’altro, di un concetto generico di “popolo”. Il M5S si è sempre definito “né di destra né di sinistra”. Secondo me, chi si definisce così è sempre di destra… Mi ricorda tanto il Fronte dell’Uomo Qualunque di Guglielmo Giannini.

Ma il Pd è diventato veramente il partito delle Ztl?

Quando scrissi Il popolo perduto, uscito all’indomani del grande exploit elettorale del M5S nel 2018, sottolineai come il Pd avesse perso l’elettorato della sinistra, essendo un partito composto da persone mediamente benestanti, ma anche mediamente benpensanti, che ambiscono a una vita tranquilla e tutelata. Poco a che vedere con gli abitanti delle grandi periferie metropolitane, delle città medio-piccole e delle campagne, che infatti hanno cominciato a votare a destra. Il popolo del Pci, così come quello della Dc, era un popolo politico; con la disgregazione di questi due grandi partiti, anche il popolo si è disorientato. Dunque, non solo il Pd ha perso il suo popolo, ma il popolo stesso si è perduto: ora che è diventato “antipolitico”, è costituito da una moltitudine di individui dominati da umori e impressioni fugaci, poco interessati alla consapevolezza e all’approfondimento e caratterizzati da un’aperta ostilità verso il ceto politico, giudicato come depositario del potere. Ma in realtà il potere vero è nelle mani di chi lo produce e lo controlla, vale a dire dei grandi attori del sistema economico-finanziario, che possono agire indisturbati perché nessuno, tantomeno chi cavalca sentimenti demagogici, li mette in discussione. Il fatto è che bisognerebbe ri-politicizzare il popolo, e lo potrebbe fare solo una sinistra propriamente detta.

Sui social l’emotività ha soppiantato l’autorevolezza e la credibilità dei contenuti. I messaggi politici si riducono a dichiarazioni ad effetto, prive di sostanza eppure efficaci nel colpire il bersaglio. Il medium è il messaggio, diceva McLuhan. Perché la destra (un esempio per tutti: l’ex presidente Trump) sembra più a suo agio nel maneggiare i nuovi media?

È l’effetto della cosiddetta dittatura della comunicazione, in base alla quale non è tanto importante cosa comunico, ma come lo faccio. Il concetto di demagogia è profondamente di destra, per questo alla destra riesce molto bene produrre una grande mole di messaggi adatti ai social. Ma non è una novità, cambia solo lo scenario: anche negli anni Trenta la propaganda fascista e nazista si serviva massicciamente del medium più diffuso e innovativo dell’epoca, la radio. Un recente articolo del sociologo Giuseppe De Rita ragionava sul fatto che le persone siano sempre più orientate dall’opinione più che dalla coscienza o dal senso di appartenenza a un campo, a uno schieramento. Impera l’emotività, l’attrazione per la novità: in campo elettorale, è successo con Berlusconi, e poi con altre meteore del firmamento politico, come Grillo, Salvini, Renzi, gente che ha fatto dello spettacolo della novità la sua vera cifra politica. Gli elettori sono governati da innamoramenti sempre più fugaci, totalmente scissi dalla profondità e della credibilità del messaggio. Anche la Meloni sta godendo di questo stesso sentimento, fondato sull’equivoco del “nuovo”. E pure la Schlein, se ci pensiamo, è salita alla ribalta grazie alla fascinazione per il cambiamento. Diamole un po’ di tempo, prima di giudicarla. Sta di fatto che l’opinione pubblica oggi non è più orientata dai partiti, dalle ideologie, da sentimenti forti di analisi della realtà, ma vive di impressioni fugaci, di brevi suggestioni, di equivoci, di battibecchi sui talk show. [continua]

Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo

img_4224Mario Tronti: il Regno, se noi lo vogliamo*
di Marcello Tarì•

Mario Tronti è morto il 7 agosto, nella sua casa di Ferentillo, a 92 anni da poco compiuti; un’«età da patriarchi» disse per i 90 anni di Ingrao[1], così come poi dovette dire di sé stesso con un pizzico della sua consueta ironia, tagliente e dolce allo stesso tempo.

Per buona parte del piccolo e grande pubblico, il suo nome è legato al suo primo e giovanile libro, Operai e capitale, pubblicato da Einaudi nel 1966[2], che fu in seguito definito «la bibbia dell’operaismo». Un libro che, comunque lo si voglia giudicare, segnò, a ridosso del ’68, e specialmente delle grandi lotte operaie del 1969, una grande novità ma anche una forte rottura teorica nel marxismo del secondo Novecento, questo secolo duro e difficile a cui lui è sempre rimasto fedele.

L’opera prima

In quelle pagine Tronti compiva infatti la cosiddetta «rivoluzione copernicana» nell’interpretazione del conflitto epocale tra capitale e lavoro: prima viene il soggetto operaio e le sue lotte, dopo il capitale e il suo sviluppo; quindi, al partito va la tattica, al movimento operaio la strategia, proprio quella che in uno dei passaggi più celebri e densi di conseguenze chiamò la «strategia del rifiuto».

C’era già, a ben guardare, in quel rovesciamento di prospettiva, un aspetto della radicalità evangelica a cui più tardi Tronti avrebbe fatto direttamente riferimento: i primi saranno gli ultimi e gli ultimi saranno i primi. Conflitto radicalissimo, espressione organizzata della forza degli oppressi e tuttavia conflitto senza violenza: «Il conflitto è sapere. (…) La forza è il negativo della resistenza, la violenza è il positivo dell’aggressione. (…) Lo sciopero è per eccellenza decisione collettiva, azione che interrompe le attività, è un dire no, no alla continuazione del lavoro, lotta nonviolenta,
conflitto senza guerra». Il conflitto di classe come alternativa di civiltà alla guerra di massacro, perché sono «le forme della lotta [che] rivelano gli scopi del movimento»[3].

Un comunismo eterodosso

Operai e capitale fu un vero choc anche per il suo linguaggio, il suo stile e i suoi riferimenti teorici: tutto materiale estraneo all’ortodossia comunista di quel tempo. A una cultura militante che in Italia era ancora invischiata nel Diamat staliniano coniugato alla triade Croce-Gentile-Gramsci, Tronti oppose l’urto portentoso del pensiero negativo e della cultura della crisi. Nietzsche e Weber venivano introdotti con grande fracasso tra le mura delle fabbriche, le note di Mahler «tra un disperante adagio e un maestoso presto»[4] accompagnavano la marcia degli operai in sciopero e la grande letteratura della crisi, da Musil a Mann a Dostoevskij, impregnava persino la riflessione sul partito. Tutti i concetti dell’economia politica diventavano motivo di conflitto e questo, dalla fabbrica, arrivava come lava incandescente a investire la società intera. La rivista culturale del Partito comunista italiano, Rinascita, lo stroncò inorridita e spaventata.

Ma la sua storia teorico-militante non si concluse certo con quel libro. In queste righe vorrei piuttosto richiamare il Tronti degli ultimi decenni, quello che, dopo la fase dell’«autonomia del politico» degli anni ’70[5], un passaggio importante e generalmente mal compreso, si è avventurato nello studio della teologia politica, sperimentata dapprima in un inedito e ardito connubio della teoria sviluppata da Carl Schmitt con la tradizione marxiana – “Karl und Carl”, come recita un capitolo del suo La politica al tramonto – e quindi nella coltivazione di una spiritualità che affonda nelle profondità e nelle altezze della Scrittura, dei Padri della Chiesa e della letteratura monastica.

E infine, il comunismo messianico di Walter Benjamin, l’insurrezionalismo escatologico di Ernst Bloch e il san Paolo apocalittico-rivoluzionario di Jacob Taubes, tutti chiamati da Tronti a dare una forte correzione tanto all’apocalittica reazionaria espressa dalla teologia politica di Schmitt, quanto all’aridità del materialismo, dialettico o storico che fosse.

Fu infatti in un dialogo pubblico che avemmo qualche anno fa in un piccolo teatro romano che Tronti disse, scandendo bene le parole, che «in fondo, il materialismo è una cosa da borghesi». È in questo orizzonte, credo, che bisogna comprendere il suo autodefinirsi un «rivoluzionario conservatore». Realista sì, materialista no.

Fallimento della rivoluzione e teologia politica

La teologia politica certamente gli arrivava dalla precoce lettura che, tra i primi a sinistra, fece di Schmitt e dei grandi conservatori e tuttavia concerneva anche una più sottile valutazione di carattere esistenziale, personale: bisognava «correggere» la direzione della storia fin dentro la soggettività, poiché «tutto il Moderno è stato il contrario dell’Annuncio»[6].

Nel 1980, in una discussione sul terrorismo, rispondendo ad Angelo Bolaffi, il quale sosteneva che il limite della sinistra stava nel fatto che aveva prodotto una teologia della rivoluzione, lui, con una delle sue classiche risposte fulminanti, replicava che: «Proprio perché c’è stato il fallimento della rivoluzione in Occidente, la rivoluzione è diventata teologia»[7]. O quanto meno lo era diventata per lui. La sconfitta, il fallimento, anche l’umiliazione, diventavano pienamente categorie teologico politiche per poi trasformarsi in qualcos’altro.

Per il Tronti degli anni a cavallo dei due millenni, la dimensione teologica, da essere sintomo e tentativo di risposta a una catastrofe storica, doveva corrispondere alla necessità di una resistenza soggettiva, espressa paradossalmente tramite un approfondimento della crisi. Perché è il cristianesimo stesso, il Vangelo, ad essere «krisis», nel suo senso più vero di scelta e decisione.

Crisi della soggettività, crisi della storia, crisi del «mondo». Ma specialmente crisi rivoluzionaria perché vissuta per e con gli ultimi, gli espropriati, gli oppressi, gli umiliati e offesi: la parte di umanità a cui Tronti ha sempre sentito intimamente di «appartenere», con il suo punto di vista partigiano che deve lottare sempre e di nuovo contro la totalità di «questo mondo» così com’è: ingiusto, violento, egoista, nichilista, individualista.

Il capitalismo per Tronti non era più solamente un modo di produzione odioso, difeso da un altrettanto odioso sistema politico-ideologico, ma una costruzione antropologica vertiginosa, un’idea e una pratica distruttiva della Terra e della Persona che si è accampata nelle anime, corrompendo gli spiriti, minandone la capacità a discernere il bene dal male. Non si trattava più, per lui, di crisi del modo di produzione o dei rapporti di classe, oppure di quella della politica come gestione degli affari dello Stato, bensì di una verticale «crisi di civiltà».

Il problema del marxismo, diceva Tronti, era invece proprio quello di non essere stato in grado di proporre un’antropologia all’altezza dei tempi e della sfida che questi ponevano. Ed è anche in questo senso che bisogna comprendere quel suo costante lamentare, come una ferita aperta, lo scontro che lui reputava assurdo e che pure ci fu tra movimento comunista e cristianesimo, arrivando a delle conclusioni molto vicine a quelle di padre Turoldo, un uomo, un monaco, un partigiano e un poeta per il quale condividevamo una grande passione, che una volta ebbe a scrivere: «il comunismo poteva essere la vera rivoluzione dei poveri; a una condizione, che non fosse tradita precisamente la legge della povertà. Invece tutto è fallito miseramente.

Non si è tenuto conto della cupido rerum, della possibilità del peccato (…) si è pensato di fare un comunismo prescindendo dalla forza della religione, quando essenza della vera religione è “conservarsi puri da questo mondo”»[8].

Ma l’assunzione del paradigma teologico-politico permetteva anche lo svelarsi di una verità inconfessabile per molti militanti di sinistra: se con Schmitt si assumeva che «tutti i concetti della dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati», allora, seguendo una suggestione benjaminiana, è vero anche che «tutti i concetti della dottrina rivoluzionaria sono concetti teologici secolarizzati», come scrivemmo in un testo del 2020 dal titolo Xeniteia. Contemplazione e combattimento[9].

Questo articolo doveva aprire un piccolo cantiere di ricerca tramite il quale, con il contributo di altri amici, abbiamo voluto provare a pensare nuovamente il legame «originario» tra cristianesimo e comunismo, in specie attraverso quella tradizione monastica che ha ispirato profondamente la riflessione trontiana degli ultimi decenni e la sua stessa vita, attraversata dall’amicizia con il camaldolese dom Benedetto Calati e con Enzo Bianchi insieme alle loro comunità.

Il comunismo come forma di vita

«Originario» perché, ne abbiamo molto discusso in questi anni, Tronti si era infine convinto che il comunismo non fosse riducibile al marxismo, che pure ne resta un importante episodio, ma che avesse una più ampia profondità storica e una magnetica dimensione trascendente, indicando una «forma di vita» che contempliamo nelle righe luminose degli Atti degli Apostoli e che poi si può seguire lungo il filo della controstoria dei poveri e degli oppressi: «Che l’idea di comunismo abbia a che fare con il cristianesimo delle origini è un fatto che il movimento comunista del Novecento non ha contemplato. È una grave mancanza»[10]. E d’altronde questo è forse il solo modo di salvare lo spirito del comunismo dall’oblio annichilente a cui «questo mondo», la storia dei vincitori, destina i suoi antagonisti.

Ma dunque, se da un lato la teologia politica riguarda le categorie fondamentali della politica moderna, dello Stato e dei conflitti sul potere – diciamo, per semplificare, le categorie del «che fare?» – dall’altro, quello svelare le radici teologiche del comunismo significa volgere lo sguardo al tema della spiritualità, cioè al «come fare?», ovvero al «come vivere» qui e ora, magari da sconfitti, come Tronti stesso ammetteva senza giri di parole, ma senza mai abiurare l’antica promessa della liberazione.

Insomma, il tema della spiritualità come forma di vita, poiché questo in fondo era stato secondo Tronti il comunismo per molti della sua generazione: un modo d’essere ancor prima di una dottrina o il sogno di un’istituzione alternativa. In uno scambio epistolare, che avemmo attorno a un mio testo sulla spiritualità[11], scriveva: «In fondo in qualche modo la civitas Dei, in contrasto con la civitas hominis, ormai dell’ultimo uomo, è ancora lì ad attendere la forza dello spirito che si proponga di realizzarla. L’uomo nuovo è allora questa forza propositiva generante, non il prodotto finale della realizzazione».

Ancora rovesciamenti di prospettiva: prima lo forza dello spirito, poi la realizzazione; prima l’uomo nuovo, poi le strutture. Il contrario di quanto avevano fatto le rivoluzioni del passato. Nelle quali, all’inizio, diceva Turoldo, c’è sempre la potente presenza disordinante dello Spirito, ma i rivoluzionari non seppero o vollero seguirlo e quindi si perdettero nel credere che l’uomo nuovo dovesse essere il risultato delle unità di produzione, come cantavano i C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti): «Sogno Tecnologico Bolscevico/Atea Mistica Meccanica/Macchina Automatica-no anima» (C.S.I., Unità di produzione, 1998).

Coltivare la spiritualità

In realtà, se stiamo a quanto scritto da Tronti, la teologia politica stessa è affare del passato[12], bisogna studiarla e usarla, per afferrare il nesso tra «politica e trascendenza»[13], ma senza illusioni sul presente, perciò quello che invece resta da fare urgentemente è la coltivazione di una forte spiritualità e puntare magari verso un altro continente, quello della «mistica e politica» che l’ultimo Tronti richiamava spesso, anche tramite autori contemporanei come il teologo indiano-catalano Raimon Panikkar, da lui conosciuto per la mediazione di sua figlia Antonia che di Panikkar è una profonda conoscitrice[14]. Lo cita ad esempio in una conferenza tenutasi a Roma nel 2006, nella quale cercava di spiegare che cosa fosse per lui “spiritualità”: «Ora, la spiritualità ha una storia lunga. Arriva a noi da molto lontano.

Panikkar parla di quel terzo senso che è – dice lui – come un barlume più o meno chiaro di consapevolezza che nella vita c’è qualcosa in più di ciò che è percepito dai sensi o inteso dalla mente. (…) non è un prolungamento orizzontale, verso ciò che ancora non sappiamo o che ancora non siamo, è piuttosto un salto verticale verso un’altra dimensione della realtà (…) Stare sulla terra andando verso l’alto, e cioè non piegati sotto qualcosa. Che è poi la condizione dell’essere liberi (…) E tuttavia quella conflittualità della spiritualità – perché io di questo parlo, della conflittualità della spiritualità – credo sia possibile trovarla di più e meglio nella nostra tradizione, la tradizione ebraico-cristiana (…) La mia tesi è questa: la spiritualità è un linguaggio della crisi»[15].

Invece di continuare a dilatare nichilisticamente la secolarizzazione dei concetti teologici, Tronti sembrava impegnato nel senso contrario, cioè nella riteologizzazione dei concetti secolarizzati del politico, come giustamente ha fatto notare il filosofo e teologo svedese Mårten Björk[16].

D’altronde è Tronti stesso che nel 1992, in un saggio significativamente intitolato “Oltre l’amiconemico”, scriveva: «Dobbiamo assumere noi, come filosofia dell’avvenire, il progetto di una riteologizzazione dei concetti secolarizzati? È un problema di pensiero sul politico, ma anche di pratica del politico. Forse occorre tornare a distinguere tra “nuovi cieli” e “nuove terre”. Bisogna darsi il coraggio di riproporre il “regno” utopico di un altro mondo degli uomini e per gli uomini»[17].

I tempi di Bailamme

Di fatto, uno dei laboratori di pensiero più interessanti che Tronti contribuì ad animare a cavallo tra gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, insieme a credenti e non, fu quello della rivista Bailamme che portava come sottotitolo programmatico non “rivista di teologia e politica” bensì di “spiritualità e politica”[18].

Se ne apprezzerà la differenza. Dove è importante anche quella e che sta lì in mezzo a dire una possibile congiunzione ma anche un possibile conflitto, una tensione mai del tutto risolvibile e che, proprio per questo, è capace di generare pensiero alternativo e persino di orientare una vita e dargli una forma[19].

Per cui, vi sono due campi: non opposti, anzi strettamente connessi, e tuttavia differenti. Da un lato quello teologico-politico della ricerca sul potere e sulle forme del conflitto attorno ad esso, senza mai dimenticare la dimensione trascendente che agita e informa il tutto, dall’altro quello della spiritualità come «armatura» della soggettività contro il culto dell’ego pubblicizzato dal liberalismo esistenziale, come slancio della libertà dello spirito dentro e contro il deserto mondano, come quella della speranza contro ogni speranza che ti lacera fin nella carne, come l’utopia concreta di un altro mondo, quello che «diventa possibile (…) solo quando diventa necessario»[20]. È di tutto ciò che parla il suo ultimo grande libro, a cui teneva molto, Dello spirito libero, in cui rivendicava la scelta di una spiritualità «non per sé, ma contro il mondo (…) Stare in pace con sé vuol dire entrare in guerra con il mondo»[21].

E a proposito di speranze, in uno dei suoi più bei testi scritti di recente[22], Tronti diede infine la sua definizione di teologia politica, che credo meriti di essere qui ricordata e meditata: «Nel Magnificat leggiamo: abbattere i potenti, innalzare gli umili. Ecco il teologico. Come abbattere i potenti, come innalzare gli umili. Ecco il politico». Ancora una volta: lo Spirito ispira e guida, il politico segue e cerca di operare per la realizzazione del regno.

Teologia della liberazione

Mi diceva che avremmo dovuto riprendere e approfondire la conoscenza della teologia della liberazione perché, scriveva, «lì in effetti c’è il combattimento». E quindi: contemplazione – guardando ai padri del deserto – e combattimento – guardando alle barricate evangeliche del Sud del mondo.

Il suo dubbio, che condivido, era se si potesse davvero impiantare un discorso come quello della teologia della liberazione da noi, in Occidente, dove i poveri, gli ultimi, come soggetto, sono «da noi ormai oltre che non riconosciuti, anche irriconoscibili, per la causa, come si diceva una volta».

Questa invisibilità degli ultimi, che credo cominciò a riconoscere grazie all’intensa amicizia che ebbe con il gesuita Pio Parisi, lo toccava profondamente[23]. Bisogna riuscire a «vedere oltre», appunto, e nel suo ultimo intervento pubblico dello scorso giugno, parafrasando il Gesù di Giovanni 9,39, diceva così la sua speranza, che era anche un incitamento alla lotta: «chi non vede vedrà, chi vede sarà accecato»[24].

Gigi Roggero, che di quell’ultimo incontro è stato l’organizzatore, scrive che in quella frase c’è «un Gesù che non porge l’altra guancia. Un Gesù molto benjaminiano, che lotta per vendicare il passato.

Un Gesù che divide il mondo in due. Ricchi e poveri, per il cristianesimo delle origini. Operai e capitale, per noi. Amico e nemico, nel lessico del realismo»[25].

Credo che in questo commento risuoni un aspetto chiliastico che è effettivamente presente in un certo Tronti – aspetto che, devo dire, io stesso ho coltivato per lungo tempo – e quindi un’impazienza, dunque una tentazione, per cui la divisione finale non è, come è nel Vangelo e come diceva in realtà Benjamin[26], nelle mani del Messia, ma si secolarizza e quindi va fatta qui e ora con le nostre stesse mani, e tanto peggio, se insieme alla zizzania, verranno strappate delle spighe di grano.

Il mistero di una vita

E tuttavia Mario Tronti, come ogni vita umana, è un mistero e vi era in lui anche un’altra tensione, un corpo a corpo con la Parola, attraverso cui credo sentisse che l’ultima, vera e definitiva rivoluzione, la grande divisione escatologica, la «rottura totale» come diceva Bonhoeffer, non è nelle nostre possibilità e che invece a noi tocca adesso forse spostare quel «fuoco nella mente», che sempre ci ha portato in battaglia, per farlo ardere nel cuore, nel mentre volgiamo lo sguardo verso l’alto, lottando, certo, per affrettare la venuta del regno; ma è un affrettare che non corrisponde a una nostra imposizione sul mondo, a una scarica della volontà di potenza, bensì alla forza e all’intensità del nostro desiderio.

In quell’articolo che scrivemmo a quattro mani, alla frase «un regno, ci è stato annunciato, che è già tra noi», fu la sua mano ad aggiungere «se noi lo vogliamo». È qualcosa che ha a che fare con una conversione del cuore e un desiderio di comunione nello spirito, dalle quali consegue una politica.

Almeno così intendo le parole che mi scrisse due anni fa: «Se capisco bene, la direzione di marcia si configura nel senso di tornare a coniugare, dentro e contro tutte le repliche della storia, libertà e comunismo. Libertà dello spirito per resistere al mondo, comunismo degli spiriti per ascendere al regno». È interessante la scelta del verbo: «ascendere». Ma è giusto, perché il Suo regno non è di «questo mondo» e verso l’alto è la direzione della libertà.

Tanto ancora ci sarebbe da dire e verrà il tempo, ma adesso, carissimo Mario, mentre noi continuiamo a guardare le cose «per speculum in aenigmate» e ci prepariamo a mordere ancora la polvere, forse tu già vedi e conosci e ami «facie ad faciem» nella comunione degli spiriti. Così sia.

* in “SettimanaNews” del 23 agosto 2023ripreso sul Blog di Enzo Bianchi del 28 agosto 2023.

Marcello Tarì è autore e traduttore. Si è occupato dei movimenti antagonisti italiani e di teoria politica. Suoi i volumi: Il ghiaccio era sottile, DeriveApprodi 2012 e Non esiste la rivoluzione infelice, DeriveApprodi 2017. Negli ultimi anni la sua ricerca riguarda la spiritualità e la politica dalla radicalità evangelica. Con l’amico e maestro Mario Tronti ha animato dal 2020 al 2022 la rubrica Xeniteia. Contemplazione e combattimento.
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Note

Prendiamo Partito per la Pace

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 129 del 21 agosto 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 310 del 21 agosto 2023

PACE TERRA E DIGNITÀ

Cari amici,
ormai dopo 18 mesi di orrori, la guerra d’Ucraina ha assegnato vittorie e sconfitte. Una vittoria l’ha conseguita l’Ucraina che è diventata la star del mondo e ha preservato la sua sovranità e indipendenza. Ma ha pur vinto la Russia perché ha fronteggiato la NATO, non è stata ridotta alla condizione di paria, come Biden voleva, né è stata espulsa dal consorzio mondiale, mentre ha rimesso in gioco le terre russofone aggregate all’Ucraina, il cui status potrebbe passare al vaglio di un nuovo referendum, e ha ribadito la sovranità russa in Crimea.
Ma la guerra ha anche inflitto alla Russia, all’Ucraina e all’America una severa sconfitta. La Russia ne esce perdente perché con l’aggressione ha compromesso il suo onore. L’Ucraina è sconfitta perché chi la doveva difendere l’ha gettata in una fornace di fuoco ardente facendole credere che la scelta fosse tra la schiavitù e la morte, e non era vero, né il popolo ci ha creduto, mentre in tutti i 72 distretti di reclutamento la corruzione ha permesso a molti di sottrarsi alle armi. E, come ormai anche i suoi alleati riconoscono, la sua controffensiva è fallita. Ma sconfitta è stata anche l’America perché non ha raggiunto i suoi scopi e ha profuso miliardi che peseranno sul suo debito, mentre viene messo in gioco il monopolio del dollaro negli scambi mondiali, la sua vera ricchezza. Né le basterà accrescere la sua potenza militare per affrontare la “sfida culminante” con la Cina e assicurarsi un dominio mondiale, che è contro natura e che non potrà conseguire.
Perciò la guerra d’Ucraina ha già dato tutto quello che poteva dare, vittoria e sconfitta a entrambi i contendenti, per non parlare di noi, i veri corrotti e sconfitti nel giudicarla e darne conto. Dunque perchè non finisce? Oltre questa soglia c’è solo la guerra mondiale e forse perfino l’atomica.
Non finisce perché l’antagonista alla pace non è semplicemente la guerra, ma è il sistema di guerra che ormai è diventato il vero sovrano e “padre di tutti”, tanto che comanda ogni cosa, pervade l’economia e domina la politica anche quando la guerra non c’è o non è dichiarata. È questa la ragione per cui la stessa guerra d’Ucraina non riesce a finire, benché in essa entrambi i nemici già ne siano allo stesso tempo vincitori e sconfitti, e non finisce perché essa, così ben piantata nel cuore dell’Europa per rialzare la vecchia cortina sul falso confine tra Occidente ed Oriente, è funzionale o addirittura necessaria al sistema di guerra, e perciò gli stessi negoziati sono stati proibiti.
Per questo la pace non può essere solo una guerra che finisce, essa deve essere istituita, anch’essa come un sistema, alternativo al sistema di guerra. Ciò vuol dire stabilire un “nómos” della Terra, una sintesi armonica di pensiero e ordinamenti, di cui la pace sia sovrana, rovesciando la scelta che dall’antichità è stata fatta fino ad ora, della guerra come sovrana da cui tutto il resto dipende. Non è solo un sogno di “pacifisti”, è un compito di tutti i pacifici.
Perché questa prospettiva alternativa sia assunta, e diventi programma e oggetto di lotta politica, il 26 agosto alla Versiliana, a Marina di Pietrasanta, sarà lanciato un appello per dar vita a un’ “assemblea permanente” che “prenda partito” per la Pace, per la salvezza della Terra e per l’affermazione della Dignità di tutte le creature, iniziativa di cui si dovrà poi discutere per giungere a fine settembre alle opportune decisioni operative. Tra i promotori Michele Santoro e Raniero La Valle. I destinatari di questa lettera sono i primi invitati a prenderne atto e a partecipare all’impresa.
Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)
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Un appello di padre Alex Zanotelli
ROMPIAMO IL SILENZIO SULL’AFRICA
16 AGOSTO 2023 / EDITORE / DICONO I DISCEPOLI / Costituente Terra

Le tante e ignorate guerre che imperversano in Africa: un appello ai giornalisti italiani, ma più ancora un’informazione per tutti. Dal “mare nostrum” al cimitero del Mediterraneo

Alex Zanotelli

Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il mondo del resto.

Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.

So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.

È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.

È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.

È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.

È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.

È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dove è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.

È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.

È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.

È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.

È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.

Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.

Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.

Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.

Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimanere in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).

Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?

Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

Alex Zanotelli*

*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, conoscitore dell’Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace
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EUROPA TERRA METICCIA Newsletter Costituente Terra e Chiesadituttichiesadeipoveri

b8d4f079-0a9d-4306-b131-9b630a570a4ecostituente-terra-logo Costituente Terra Newsletter n. 128 del 16 agosto 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 309 del 16 agosto 2023

EUROPA TERRA METICCIA

Cari amici,
negli ultimi giorni si sono moltiplicati i naufragi e gli approdi dell’ormai immenso popolo dei migranti, vittima del nostro genocidio. In un naufragio a Lampedusa ci sono stati 41 morti, al largo di Marettimo 2 morti e due “dispersi”, cioè annegati, nei pressi della Tunisia, a Sidi Mansour, 18 morti, altri 12 al largo di Sfax e un naufragio anche nella Manica, con 6 vittime che i francesi hanno sepolto a Calais. Il cimitero del mare: ma un cimitero ancora più grande, ha detto papa Francesco tornando da Lisbona, è il Nordafrica, dove prima dei naufragi, i profughi finiscono nei lager. Ormai flottiglie intere attraversano il Mediterraneo, perfino la Guardia costiera, nonostante Salvini, è costretta a chiedere aiuto alle navi umanitarie altrimenti sequestrate o mandate dal governo in porti lontani.
Sempre più si avvicina una situazione per la quale saranno possibili solo due scelte: una, la più facile e perversa, mandare la flotta , secondo la prima idea di Giorgia Meloni, per difendere i confini marittimi sul “Mare nostrum” come diceva il fascismo ora tornato di moda; e la seconda, la più difficile ma virtuosa e aperta alle speranze del domani, è quella di far mancare il mare sotto i piedi ai trafficanti, e aprire i porti e i confini, e riconoscere il diritto universale di migrare (lo ius migrandi per la prima volta teorizzato da Francisco de Vitoria una volta “scoperta” l’America). La scelta politica di domani dovrà essere dunque di fare arrivare i profughi, i richiedenti asilo, i fuggiaschi per le guerre la fame ed il clima, o anche semplicemente i migranti in cerca di un nuovo mondo, con le navi di linea, gli aerei di ogni compagnia, i bus, le macchine e ogni altro vettore palese e legale.
Allora sì, che si dovrà organizzare l’accoglienza, e dovranno cambiare molte cose, nei nostri stessi modi di vita, nell’incontro con gli altri. Ma, come diceva De Gaulle, che pure si può considerare un cultore della nazione, “l’avvenire è nel meticciato”; come ricordava Senghor “tutte le grandi civiltà sono state civiltà di meticciato” e, come scriveva già nel 1999 il teologo francese Jacques Audinet nel suo libro “Le temps du métissage” (in italiano Ed. Queriniana), “Guardare in faccia il meticciato promette all’Europa di intraprendere un immenso mutamento di mentalità: la fine della sua egemonia politica ma ancor più intellettuale e culturale. In positivo, dire la novità di quanto sta accadendo sul suo suolo, la trasformazione delle identità, delle relazioni. Insomma il proseguimento di ciò che l’Europa ha sempre fatto e di ciò che ha fatto l’Europa, ma che curiosamente gli ultimi secoli hanno occultato. L’Europa terra meticcia. Il tema comincia a imporsi. Terra di mescolanze, sicuramente. La Francia in particolare si è costituita attraverso un apporto costante e un’interpenetrazione di vari popoli. Ma allora, perché mascherarlo, o cercare di dimenticarlo?”
Nel sito pubblichiamo “Naufragi e lager” di don Mattia Ferrari, che opera con “Mediterranea”, un rinnovato appello per l’Africa di Alex Zanotelli [anche di seguito] e “La Terra non ci appartiene”, di John Scales Avery, della Danish Peace Academy.

Con i più cordiali saluti,

Costituente Terra (Raniero La Valle)

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Un appello di padre Alex Zanotelli
ROMPIAMO IL SILENZIO SULL’AFRICA
16 AGOSTO 2023 / EDITORE / DICONO I DISCEPOLI / Costituente Terra

Le tante e ignorate guerre che imperversano in Africa: un appello ai giornalisti italiani, ma più ancora un’informazione per tutti. Dal “mare nostrum” al cimitero del Mediterraneo

Alex Zanotelli

Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo

Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il mondo del resto.

Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.

So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.

Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.

È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.

È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.

È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.

È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.

È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.

È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.

È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dove è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.

È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.

È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.

È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.

È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).

Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.

Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.

Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact , contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.

Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.

Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.

E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimanere in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).

Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?

Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.

Alex Zanotelli*

*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, conoscitore dell’Africa e direttore della rivista Mosaico di Pace
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«Intelligenze artificiali e pace» il messaggio di Papa Francesco per la Giornata Mondiale della Pace il primo gennaio 2024

img_3998dc21647d-bc11-491c-9c4b-09b4895e040eTRA ALGORITMI E CUORE: L’INTELLIGENZA ARTIFICIALE SIA STRUMENTO DI PACE
[Da Famiglia Cristiana 10/08/2023] Che le nuove tecnologie siano a servizio della casa comune. Il tema del messaggio della prossima Giornata mondiale che si svolgerà il primo gennaio 2024 reso noto dal Dicastero per lo sviluppo umano integrale

di Annachiara Valle su Famiglia Cristiana.
Sarà dedicato al tema «Intelligenze artificiali e pace» il messaggio per la prossima Giornata Mondiale della Pace che si svolgerà il primo gennaio 2024. «I notevoli progressi compiuti nel campo delle intelligenze artificiali hanno un impatto sempre più profondo sull’attività umana, sulla vita personale e sociale, sulla politica e l’economia», sottolinea la nota il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, che ha divulgato il tema, «Papa Francesco sollecita un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti. Egli richiama la necessità di vigilare e di operare affinché non attecchisca una logica di violenza e di discriminazione nel produrre e nell’usare tali dispositivi, a spese dei più fragili e degli esclusi: ingiustizia e disuguaglianze alimentano conflitti e antagonismi».
Il Dicastero aggiunge che «l’urgenza di orientare la concezione e l’utilizzo delle intelligenze artificiali in modo responsabile, perché siano al servizio dell’umanità e della protezione della nostra casa comune, esige di estendere la riflessione etica all’ambito dell’educazione e del diritto. La tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo».
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Comunicato del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale: Tema del Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2024, 08.08.2023

[B0555 sala stampa vaticana]

“Intelligenze artificiali e Pace”. Questo è il tema del prossimo Messaggio della Giornata Mondiale della Pace.

I notevoli progressi compiuti nel campo delle intelligenze artificiali hanno un impatto sempre più profondo sull’attività umana, sulla vita personale e sociale, sulla politica e l’economia.

Papa Francesco sollecita un dialogo aperto sul significato di queste nuove tecnologie, dotate di potenzialità dirompenti e di effetti ambivalenti. Egli richiama la necessità di vigilare e di operare affinché non attecchisca una logica di violenza e di discriminazione nel produrre e nell’usare tali dispositivi, a spese dei più fragili e degli esclusi: ingiustizia e disuguaglianze alimentano conflitti e antagonismi. L’urgenza di orientare la concezione e l’utilizzo delle intelligenze artificiali in modo responsabile, perché siano al servizio dell’umanità e della protezione della nostra casa comune, esige di estendere la riflessione etica all’ambito dell’educazione e del diritto.

La tutela della dignità della persona e la cura per una fraternità effettivamente aperta all’intera famiglia umana sono condizioni imprescindibili perché lo sviluppo tecnologico possa contribuire alla promozione della giustizia e della pace nel mondo.

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“Artificial Intelligence and Peace”. This is the theme of the next Message of the World Day of Peace.

The remarkable advances made in the field of artificial intelligence are having a rapidly increasing impact on human activity, personal and social life, politics and the economy.

Pope Francis calls for an open dialogue on the meaning of these new technologies, endowed with disruptive possibilities and ambivalent effects. He recalls the need to be vigilant and to work so that a logic of violence and discrimination does not take root in the production and use of such devices, at the expense of the most fragile and excluded: injustice and inequalities fuel conflicts and antagonisms. The urgent need to orient the concept and use of artificial intelligence in a responsible way, so that it may be at the service of humanity and the protection of our common home, requires that ethical reflection be extended to the sphere of education and law.

The protection of the dignity of the person, and concern for a fraternity effectively open to the entire human family, are indispensable conditions for technological development to help contribute to the promotion of justice and peace in the world.

[01215-XX.01] [Testo originale: Plurilingue]
[B0555-XX.01]
——————————Costituzione Via Maestra————
coordinamento-dcostimg_4024DIFENDERE LA COSTITUZIONE IL 7 OTTOBRE
Da Milano arriveremo in molti a Roma per la manifestazione nazionale “LA VIA MAESTRA- Insieme per la Costituzione, non solo perché tra le organizzazioni che hanno firmato ce sono alcune di cui sono associato da più di un decennio e di altre sono stato addirittura tra i fondatori, ma perché in contrasto agli attacchi alla Costituzione è uno dei miei impegni permanenti, come dimostrano i miei scritti e le azioni giudiziarie.
Proprio perché la manifestazione deve riuscire a sensibilizzare l’opinione pubblica, non solo le minoranze attive e militanti, anche attraverso i mezzi di informazione e comunicazione generali e di massa devo esprimere una perplessità, che è anche una seria preoccupazione perché nell’appello non c’è una parola sulla legge elettorale.
Se è una dimenticanza è sorprendente, perché è stato definitivamente accertato dalla Corte Costituzionale con una sentenza, la n. 1/2014 di annullamento parziale della legge n. 270/2005, più conosciuta come il Porcellum, che abbiamo rinnovato il Parlamento nel 2006, 2008 e 2013 con una legge incostituzionale non in aspetti secondari ma per l’assegnazione di un premio di maggioranza e la previsione di liste di candidati totalmente bloccate. Non solo maggioranze costituzionalmente illegittime hanno adottato, grazie all’imposizione al Camera dei Deputati di tre voti di fiducia a richiesta del Governo, una nuova legge elettorale, la n. 52/2015, dichiarata costituzionalmente illegittima in parti qualificanti prima che fosse mai applicata, con la sentenza n. 35/2015.
È sufficiente una lettura di queste due sentenze per capire che non è indenne da problemi di costituzionalità anche la terza legge elettorale, la n. 165/2017, con cui abbiamo votato nel 2018 e nel 2022, con le modifiche della legge n. 51/2019 e gli effetti gravemente distorsivi del taglio medio del 36,50% dei parlamentari.
Basta un dato la coalizione vincente con un consenso del 43,79% alla Camera ha 237 seggi su 400 ha più del 59% dei seggi e al Senato con il 44,02% 115 su 200 elettivi, il 57,5% dei seggi.
Se è stata una scelta è grave e non solo perché non è stata motivata o almeno enunciata come riflessione in corso ovvero come segno di una mancanza di un’ idea di riforma condivisa.
Tra il centinaio di organizzazioni, che hanno indetto una Manifestazione nazionale per la difesa della Costituzione, non figura nessun partito politico, malgrado l’art. 49 della Costituzione e gli articoli 10 par. 4 TUE, 224 TFUE e 12 CDFUE, che li individuano come soggetti essenziali per determinare, come strumenti di partecipazione dei cittadini, la politica nazionale ed europea.
Se è una scelta per non mettere in imbarazzo i partiti, responsabili delle leggi elettorali e del taglio eccessivo dei parlamentari, sarebbe ancora più grave perché senza una critica a una legge elettorale vigente frutto dei governi Gentiloni e Conte 1 e delle mancate promesse del Conte 2 non è credibile la difesa della Costituzione, ma anche l’opposizione a Presidenzialismo/Semipresidenzialismo/ Premierato , che sono cose diverse: hanno in Comune solo l’elezione diretta del Presidente della Repubblica o del Premier, quest’ultima soluzione la maggioranza in Parlamento anche per l’apporto di settori non di maggioranza.
I vincitori delle ultime elezioni hanno nel Parlamento in seduta comune il 58% dei seggi, decisivi per l’elezione di un Presidente della Repubblica o per controllarlo ex art. 90 Costituzione. Se l’ottimo Presidente in carica si agitasse, questa maggioranza potrebbe richiamarlo o eleggere, anche grazie ai 31 delegati regionali su 58, alla quarta votazione un burattino al suo posto se lasciasse.
Non è credibile nemmeno la giusta e netta opposizione all’Autonomia differenziata, senza questa maggioranza artificiale non sarebbe neppure iniziata
Tutto ciò grazie ad una legge elettorale incostituzionale per violazione dei principi della sentenza della Corte costituzionale, in particolare della sentenza costituzionale n. 1/2014 Considerato in diritto paragrafi 3.1 e5.1. Si tenga presente che il primo paragrafo riguarda l’uguaglianza del voto e il secondo la sua libertà dell’elettore e la personalità del voto dell’elettore al candidato quindi violazione grave degli articoli 3, 48 e 51 Cost, e anche degli artt. 6, 56, 58 e 67 Cost. Se gli elettori non possono scegliere i candidati, questi se eletti non possono rappresentare la Nazione ( con iniziale maiuscola come Patria) senza vincolo di mandato, ma saranno agli ordini dei partiti che li hanno nominati con le liste bloccate e le multicandidature in violazione dell’art. 49 della Costituzione come dice in un passaggio la Suprema Corte di Cassazione nell’ordinanza n. 12060/2013 di rinvio alla Consulta del Porcellum.
Ci sono poi le violazioni delle minoranze linguistiche gravissime nella legge elettorale europea che ne riconosce solo tre ignorando le altre 9 tutelate dalla legge n. 482/1999 di attuazione dell’art. 6 COST, che sono penalizzate anche dal Rosatellum se vivono come l’albanese in sei regioni a statuto ordinario (Calabria, Basilicata, Campania, Puglia, Molise, Abruzzo) il grecanico in due (Calabria e Puglia) e l’occitano in Piemonte.
Se non si contesta per incostituzionalità la legge elettorale significa non accettare il risultato elettorale con una legge non approvata solo da Fratelli d’Italia, una posizione debole e controproducente. Bisogna essere pronti a presentare riforme della procedura di approvazione degli emendamenti costituzionali e del referendum ex art. 138 Cost. per potere far rispettare l’art. 139 Cost e la sentenza n. 1146/1988. e se passa il premierato cambiare il metodo di elezione del Capo dello Stato.
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sbilanciamociSeguendo l’appello La via Maestra
[Redazione Sbilanciamoci!]

30 Luglio 2023 | Sezione: Italie, primo piano Sbilanciamoci.
Il titolo dell’Altra Cernobbio (*) di quest’anno (La strada maestra) prende ispirazione dalla iniziativa “ La via maestra”, promossa dieci anni fa da Rodotà, Landini, Zagrebelsky, Carlassarre, don Luigi Ciotti. A dieci anni di distanza, ripubblichiamo il testo dell’appello.

LA VIA MAESTRA

1. Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione. La difesa della Costituzione non è uno stanco richiamo a un testo scritto tanti anni fa. Non è un assurdo atteggiamento conservatore, superato dai tempi. Non abbiamo forse, oggi più che mai, nella vita d’ogni giorno di tante persone, bisogno di dignità, legalità, giustizia, libertà? Non abbiamo bisogno di politica orientata alla Costituzione? Non abbiamo bisogno d’una profonda rigenerazione bonificante nel nome dei principi e della partecipazione democratica ch’essa sancisce?

Invece, si è fatta strada, non per caso e non innocentemente, l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che la solidarietà sia parola vuota; che i drammi e la disperazione di individui e famiglie siano un prezzo inevitabile da pagare; che la partecipazione politica e il Parlamento siano ostacoli; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. In una parola: s’è fatta strada l’idea che la democrazia abbia fatto il suo tempo e che si sia ormai in un tempo post-democratico: il tempo della sostituzione del governo della “tecnica” economico-finanziaria al governo della “politica” democratica. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” – come sono state definite –, ineludibili per passare da una costituzione all’altra.

La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.

2. Eppure, per quanto si sia fatto per espungerla dal discorso politico ufficiale, nel quale la si evocava solo per la volontà di cambiarla, la Costituzione in questi anni è stata ben viva. Oggi, ci accorgiamo dell’attualità di quell’articolo 1 della Costituzione che pone il lavoro alla base, a fondamento della democrazia: un articolo a lungo svalutato o sbeffeggiato come espressione di vuota ideologia. Oggi, riscopriamo il valore dell’uguaglianza, come esigenza di giustizia e forza di coesione sociale, secondo la proclamazione dell’art. 3 della Costituzione: un articolo a lungo considerato un’anticaglia e sostituito dall’elogio della disuguaglianza e dell’illimitata competizione nella scala sociale. Oggi, la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali, proclamate dall’art. 2 della Costituzione, rappresentano la difesa contro la mercificazione della vita degli esseri umani, secondo le “naturali” leggi del mercato. Oggi, il dovere tributario e l’equità fiscale, secondo il criterio della progressività alla partecipazione alle spese pubbliche, proclamato dall’art. 53 della Costituzione, si dimostra essere un caposaldo essenziale d’ogni possibile legame di cittadinanza, dopo tanti anni di tolleranza, se non addirittura di giustificazione ed elogio, dell’evasione fiscale. Ecco, con qualche esempio, che cosa è l’idea di società giusta che la Costituzione ci indica.

Negli ultimi anni, la difesa di diritti essenziali, come quelli alla gestione dei beni comuni, alla garanzia dei diritti sindacali, alla protezione della maternità, all’autodeterminazione delle persone nei momenti critici dell’esistenza, è avvenuta in nome della Costituzione, più nelle aule dei tribunali che in quelle parlamentari; più nelle mobilitazioni popolari che nelle iniziative legislative e di governo. Anzi, possiamo costatare che la Costituzione, quanto più la si è ignorata in alto, tanto più è divenuta punto di riferimento di tante persone, movimenti, associazioni nella società civile. Tra i più giovani, i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi, come bene sanno coloro che frequentano le aule scolastiche. Nel nome della Costituzione, ci si accorge che è possibile parlare e intendersi politicamente in un senso più ampio, più elevato e lungimirante di quanto non si faccia abitualmente nel linguaggio della politica d’ogni giorno.

In breve: mentre lo spazio pubblico ufficiale si perdeva in un gioco di potere sempre più insensato e si svuotava di senso costituzionale, ad esso è venuto affiancandosi uno spazio pubblico informale più largo, occupato da forze spontanee. Strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità d’incontro e di riconoscimento reciproco. Devono continuare ad esserlo, perché lì la novità politica ha assunto forza e capacità di comunicazione; lì si sono superati, per qualche momento, l’isolamento e la solitudine; lì si è immaginata una società diversa. Lì, la parola della Costituzione è risuonata del tutto naturalmente.

3. C’è dunque una grande forza politica e civile, latente nella nostra società. La sua caratteristica è stata, finora la sua dispersione in tanti rivoli e momenti che non ha consentito di farsi valere come avrebbe potuto, sulle politiche ufficiali. Si pone oggi con urgenza, tanto maggiore quanto più procede il tentativo di cambiare la Costituzione in senso meramente efficientistico-aziendalistico (il presidenzialismo è la punta dell’iceberg!), l’esigenza di raccogliere, coordinare e potenziare il bisogno e la volontà di Costituzione che sono diffusi, consapevolmente e, spesso, inconsapevolmente, nel nostro Paese, alle prese con la crisi politica ed economica e con la devastazione sociale che ne consegue.

Anche noi abbiamo le nostre “ineludibili riforme”. Ma, sono quelle che servono per attuare la Costituzione, non per cambiarla.

Lorenza Carlassare, Don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky
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Aladinpensiero è formalmente in ferie, fino al 31 agosto… Tutto ciò che verrà pubblicato in detto periodo è lavoro volontario e gratuito (!). Buone ferie agostane a tutte e a tutti!

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La Costituzione via Maestra

sbilanciamociSeguendo l’appello La via Maestra
[Redazione Sbilanciamoci!]

30 Luglio 2023 | Sezione: Italie, primo piano Sbilanciamoci.
Il titolo dell’Altra Cernobbio (*) di quest’anno (La strada maestra) prende ispirazione dalla iniziativa “ La via maestra”, promossa dieci anni fa da Rodotà, Landini, Zagrebelsky, Carlassarre, don Luigi Ciotti. A dieci anni di distanza, ripubblichiamo il testo dell’appello.

LA VIA MAESTRA

1. Di fronte alle miserie, alle ambizioni personali e alle rivalità di gruppi spacciate per affari di Stato, invitiamo i cittadini a non farsi distrarre. Li invitiamo a interrogarsi sui grandi problemi della nostra società e a riscoprire la politica e la sua bussola: la Costituzione. La dignità delle persone, la giustizia sociale e la solidarietà verso i deboli e gli emarginati, la legalità e l’abolizione dei privilegi, l’equità nella distribuzione dei pesi e dei sacrifici imposti dalla crisi economica, la speranza di libertà, lavoro e cultura per le giovani generazioni, la giustizia e la democrazia in Europa, la pace: questo sta nella Costituzione. La difesa della Costituzione non è uno stanco richiamo a un testo scritto tanti anni fa. Non è un assurdo atteggiamento conservatore, superato dai tempi. Non abbiamo forse, oggi più che mai, nella vita d’ogni giorno di tante persone, bisogno di dignità, legalità, giustizia, libertà? Non abbiamo bisogno di politica orientata alla Costituzione? Non abbiamo bisogno d’una profonda rigenerazione bonificante nel nome dei principi e della partecipazione democratica ch’essa sancisce?

Invece, si è fatta strada, non per caso e non innocentemente, l’idea che questa Costituzione sia superata; che essa impedisca l’ammodernamento del nostro Paese; che i diritti individuali e collettivi siano un freno allo sviluppo economico; che la solidarietà sia parola vuota; che i drammi e la disperazione di individui e famiglie siano un prezzo inevitabile da pagare; che la partecipazione politica e il Parlamento siano ostacoli; che il governo debba essere solo efficienza della politica economica al servizio degli investitori; che la vera costituzione sia, dunque, un’altra: sia il Diktat dei mercati al quale tutto il resto deve subordinarsi. In una parola: s’è fatta strada l’idea che la democrazia abbia fatto il suo tempo e che si sia ormai in un tempo post-democratico: il tempo della sostituzione del governo della “tecnica” economico-finanziaria al governo della “politica” democratica. Così, si spiegano le “ineludibili riforme” – come sono state definite –, ineludibili per passare da una costituzione all’altra.

La difesa della Costituzione è dunque innanzitutto la promozione di un’idea di società, divergente da quella di coloro che hanno operato finora tacitamente per svuotarla e, ora, operano per manometterla formalmente. È un impegno, al tempo stesso, culturale e politico che richiede sia messa in chiaro la natura della posta in gioco e che si riuniscano quante più forze è possibile raggiungere e mobilitare. Non è la difesa d’un passato che non può ritornare, ma un programma per un futuro da costruire in Italia e in Europa.

2. Eppure, per quanto si sia fatto per espungerla dal discorso politico ufficiale, nel quale la si evocava solo per la volontà di cambiarla, la Costituzione in questi anni è stata ben viva. Oggi, ci accorgiamo dell’attualità di quell’articolo 1 della Costituzione che pone il lavoro alla base, a fondamento della democrazia: un articolo a lungo svalutato o sbeffeggiato come espressione di vuota ideologia. Oggi, riscopriamo il valore dell’uguaglianza, come esigenza di giustizia e forza di coesione sociale, secondo la proclamazione dell’art. 3 della Costituzione: un articolo a lungo considerato un’anticaglia e sostituito dall’elogio della disuguaglianza e dell’illimitata competizione nella scala sociale. Oggi, la dignità della persona e l’inviolabilità dei suoi diritti fondamentali, proclamate dall’art. 2 della Costituzione, rappresentano la difesa contro la mercificazione della vita degli esseri umani, secondo le “naturali” leggi del mercato. Oggi, il dovere tributario e l’equità fiscale, secondo il criterio della progressività alla partecipazione alle spese pubbliche, proclamato dall’art. 53 della Costituzione, si dimostra essere un caposaldo essenziale d’ogni possibile legame di cittadinanza, dopo tanti anni di tolleranza, se non addirittura di giustificazione ed elogio, dell’evasione fiscale. Ecco, con qualche esempio, che cosa è l’idea di società giusta che la Costituzione ci indica.

Negli ultimi anni, la difesa di diritti essenziali, come quelli alla gestione dei beni comuni, alla garanzia dei diritti sindacali, alla protezione della maternità, all’autodeterminazione delle persone nei momenti critici dell’esistenza, è avvenuta in nome della Costituzione, più nelle aule dei tribunali che in quelle parlamentari; più nelle mobilitazioni popolari che nelle iniziative legislative e di governo. Anzi, possiamo costatare che la Costituzione, quanto più la si è ignorata in alto, tanto più è divenuta punto di riferimento di tante persone, movimenti, associazioni nella società civile. Tra i più giovani, i discorsi di politica suonano sempre più freddi; i discorsi di Costituzione, sempre più caldi, come bene sanno coloro che frequentano le aule scolastiche. Nel nome della Costituzione, ci si accorge che è possibile parlare e intendersi politicamente in un senso più ampio, più elevato e lungimirante di quanto non si faccia abitualmente nel linguaggio della politica d’ogni giorno.

In breve: mentre lo spazio pubblico ufficiale si perdeva in un gioco di potere sempre più insensato e si svuotava di senso costituzionale, ad esso è venuto affiancandosi uno spazio pubblico informale più largo, occupato da forze spontanee. Strade e piazze hanno offerto straordinarie opportunità d’incontro e di riconoscimento reciproco. Devono continuare ad esserlo, perché lì la novità politica ha assunto forza e capacità di comunicazione; lì si sono superati, per qualche momento, l’isolamento e la solitudine; lì si è immaginata una società diversa. Lì, la parola della Costituzione è risuonata del tutto naturalmente.

3. C’è dunque una grande forza politica e civile, latente nella nostra società. La sua caratteristica è stata, finora la sua dispersione in tanti rivoli e momenti che non ha consentito di farsi valere come avrebbe potuto, sulle politiche ufficiali. Si pone oggi con urgenza, tanto maggiore quanto più procede il tentativo di cambiare la Costituzione in senso meramente efficientistico-aziendalistico (il presidenzialismo è la punta dell’iceberg!), l’esigenza di raccogliere, coordinare e potenziare il bisogno e la volontà di Costituzione che sono diffusi, consapevolmente e, spesso, inconsapevolmente, nel nostro Paese, alle prese con la crisi politica ed economica e con la devastazione sociale che ne consegue.

Anche noi abbiamo le nostre “ineludibili riforme”. Ma, sono quelle che servono per attuare la Costituzione, non per cambiarla.

Lorenza Carlassare, Don Luigi Ciotti, Maurizio Landini, Stefano Rodotà, Gustavo Zagrebelsky
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(*) Il programma dell’Altra Cernobbio a Como
Redazione di Sbilanciamoci

30 Luglio 2023 | Sezione: Politica, primo piano di Sbilanciamoci.
Il XIII Forum della Campagna Sbilanciamoci! a causa dei divieti del sindaco di Cernobbio si sposta a Como, presso lo Spazio Gloria, gestito dall’Arci, sempre nei giorni 1 e 2 settembre 2023.

Il XIII Forum della Campagna Sbilanciamoci! si tiene a Como, presso lo Spazio Gloria, gestito dall’ARCI nei giorni 1 e 2 settembre.

La prima giornata 1 settembre ha inizio alle 16.15 con la sessione dal titolo:
Un’Alleanza Clima Lavoro per la giusta transizione e la mobilità sostenibile.

Nella prima parte della giornata si discute di:
Le politiche per la giusta transizione sociale e ambientale e intervengono:
Enrico Giovannini – ASVIS, già ministro delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili
Giovanni Mininni – Segretario generale della FLAI CGIL
Mariagrazia Midulla – Responsabile Clima del WWF Italia
Michele De Palma – Segretario generale della FIOM CGIL
Pippo Onufrio – Direttore generale di Greenpeace Italia (in collegamento).
Coordina: Giulio Marcon – Sbilanciamoci!

Il secondo dibattito della giornata è su
La mobilità di oggi e di domani e intervengono:
Stefano Malorgio – Segretario generale della FILT CGIL
Simone D’Alessandro – Università di Pisa
Giorgio Airaudo – Segretario della CGIL Piemonte
Carlo Tritto – Policy officer di Transport&Environment
Francesco Naso – Segretario generale di Motus-E (in collegamento),
Coordina: Rachele Gonnelli – Sbilanciamoci!

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Sabato 2 settembre si inizia alle 9.30 con la sessione su:

La pace che vogliamo, con gli interventi di:
Francesco Vignarca – Coordinatore della Rete Pace e Disarmo
Martina Pignatti – Presidente del Comitato Etico di Banca Etica
Emiliano Manfredonia – Presidente delle ACLI
Coordinano: Celeste Grossi – ARCI e Sara Sostini – ARCI Como ed Ecoinformazioni

La seconda sessione ha per titolo:
La società che vogliamo e partecipano:
Vittorio Agnoletto – Medicina Democratica, già presidente della LILA
Nicoletta Dentico – Society for International Development, già presidente di Mani Tese e direttrice di Medici senza Frontiere Italia
Don Virginio Colmegna – Fondatore Casa della Carità
Coordinano: Carlo Testini – Presidenza nazionale ARCI Massimo Cortesi – presidente ARCI Lombardia.

***

Nel pomeriggio (inizio alle 14.30) altre due sessioni.
Alla prima, L’economia che vogliamo, intervengono:
Misha Maslennikov – Oxfam Italia, Responsabile del Rapporto Diseguitalia
Daniele Archibugi – IRPPS CNR
Lucrezia Fanti – Ricercatrice di Sbilanciamoci, Università La Cattolica
Simone D’Alessandro – Università di Pisa
Coordina: Sandro Estelli – Segretario della Camera del Lavoro di Como

L’ultima sessione ha per titolo: La costituente del cambiamento e intervengono:
Carlo Testini – ARCI, Direzione nazionale
Alessandro Pagano – Segretario CGIL Lombardia
Alfio Nicotra – presidente di Un Ponte per
Ludovico Ottolina – Unione degli studenti
Daniela Padoan – presidente di Libertà e Giustizia (in collegamento)
Alberto Poggio – tecnico Movimento No Tav
Barbara Meggetto – Presidente Legambiente Lombardia
Coordina: Giulio Marcon – Sbilanciamoci!

Per informazioni e se verrai anche tu all’altra Cernobbio faccelo sapere, in modo da organizzare al meglio la logistica, scrivi a: info@sbilanciamoci.org

Il forum si svolgerà in Via Varesina, 72, 22100 Como CO presso Arci Xanadù, Spazio Gloria, Como
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Viaggio Apostolico di Sua Santità Francesco in Portogallo in occasione della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù (2 – 6 agosto 2023) – Cerimonia di Accoglienza presso il Parque Eduardo VII, 03.08.2023

[B0545]

Cerimonia di Accoglienza presso il Parque Eduardo VII

Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua italiana

Nel pomeriggio, il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto al Parque Eduardo VII di Lisbona per la Cerimonia di Accoglienza della XXXVII Giornata Mondiale della Gioventù.

Dopo alcuni giri in papamobile tra i giovani, alle ore 17.45 (18.45 ora di Roma), la Cerimonia di Accoglienza ha avuto inizio con l’esecuzione di un canto e un breve saluto di benvenuto del Patriarca di Lisbona, Em.mo Card. Manuel Clemente. Quindi hanno avuto luogo il programma di benvenuto dei giovani, l’entrata delle bandiere, della Croce e dell’Icona della GMG.

Dopo i riti introduttivi, l’orazione e la lettura di un brano del Vangelo, il Papa ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine, dopo la recita delle Litanie e del Padre Nostro, la Benedizione finale e il momento di invio, Papa Francesco è rientrato in auto alla Nunziatura Apostolica di Lisbona dove ha cenato in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Santo Padre ha pronunciato nel corso della Cerimonia di Accoglienza dei Giovani presso il Parque Eduardo VII:

Discorso del Santo Padre

Queridos jóvenes: Boa tarde!
Cari giovani, buonasera!

Benvenuti! Benvenuti e grazie di essere qui, sono felice di vedervi! Sono felice di ascoltare il simpatico chiasso che fate e di farmi contagiare dalla vostra gioia. È bello essere insieme a Lisbona: siete stati chiamati qui da me, dal Patriarca, che ringrazio per le sue parole, dai vostri Vescovi, sacerdoti, catechisti e animatori. Ringraziamo tutti coloro che vi hanno chiamato e tutti quelli che hanno lavorato per rendere possibile questo incontro, e lo facciamo con un forte applauso! Però è soprattutto Gesù che vi ha chiamati: ringraziamo Gesù con un altro forte applauso!

Voi non siete qui per caso. Il Signore vi ha chiamati, non solo in questi giorni, ma dall’inizio dei vostri giorni. Tutti ci ha chiamati fin dall’inizio della nostra vita. Sì, Lui vi ha chiamati per nome: abbiamo ascoltato dalla Parola di Dio che ci ha chiamati per nome. Provate a immaginare queste tre parole scritte a grandi lettere; e poi pensate che stanno scritte dentro ciascuno di voi, nei vostri cuori, come a formare il titolo della vostra vita, il senso di quello che sei: tu sei chiamato per nome, tu, tu, tu, tutti noi che siamo qui, io, tutti siamo stati chiamati con il nostro nome. Non siamo stati chiamati automaticamente, siamo stati chiamati per nome. Pensiamo a questo: Gesù mi ha chiamato con il mio nome. Sono parole scritte nel cuore. E poi pensiamo che sono scritte dentro ciascuno di noi, nei nostri cuori, e formano una specie di titolo della tua vita, il senso di quello che siamo, il senso di quello che siete: sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome, sei stato chiamato per nome! Nessuno di noi è cristiano per caso: tutti siamo stati chiamati per nome. Al principio della trama della vita, prima dei talenti che abbiamo, delle ombre e delle ferite che portiamo dentro, siamo stati chiamati. Siamo stati chiamati, perché? Perché siamo amati. Siamo stati chiamati perché siamo amati. È bello! Agli occhi di Dio siamo figli preziosi, che Egli ogni giorno chiama per abbracciare e incoraggiare; per fare di ciascuno di noi un capolavoro unico e originale; ognuno di noi è unico, è originale, e la bellezza di tutto questo non la possiamo intravedere.

Cari giovani, in questa Giornata Mondiale della Gioventù, aiutiamoci vicendevolmente a riconoscere questa realtà: siano questi giorni echi vibranti di questa chiamata d’amore di Dio, perché siamo preziosi agli occhi di Dio, nonostante quello che a volte vedono i nostri occhi; a volte i nostri occhi sono annebbiati dalle negatività e abbagliati da tante distrazioni. Che questi siano giorni in cui il mio nome, il tuo nome, il tuo nome attraverso fratelli e sorelle di tante lingue e nazioni – vediamo tante bandiere! – che lo pronunciano con amicizia, risuoni come una notizia unica nella storia, perché unico è il palpito di Dio per te. Siano giorni in cui fissare nel cuore che siamo amati così come siamo, non come vorremmo essere: come siamo adesso. Questo è il punto di partenza della GMG, ma soprattutto il punto di partenza della vita. Ragazzi e ragazze: siamo amati come siamo, senza trucco! Capito, questo?

Siamo chiamati per nome, ciascuno di noi. Non è un modo di dire, è Parola di Dio (cfr Is 43,1; 2 Tm 1,9). Amico, amica, se Dio ti chiama per nome significa che per Dio nessuno di noi è un numero. È un volto, è una faccia, è un cuore. Vorrei che ognuno di voi noti una cosa: tanti, oggi, sanno il tuo nome, ma non ti chiamano per nome. Il tuo nome infatti è noto, appare sui social, viene elaborato da algoritmi che gli associano gusti e preferenze. Tutto questo però non interpella la tua unicità, ma la tua utilità per le indagini di mercato. Quanti lupi si nascondono dietro sorrisi di falsa bontà, dicendo di conoscere chi sei ma non volendoti bene, insinuando di credere in te e promettendoti che diventerai qualcuno, per poi lasciarti solo quando non interessi più. Queste sono le illusioni del virtuale e dobbiamo stare attenti a non lasciarci ingannare, perché tante realtà che oggi ci attirano e promettono felicità poi si mostrano poi per quello che sono: cose vane, bolle di sapone, cose superflue, cose che non servono e che ci lasciano il vuoto dentro. Vi dico una cosa: Gesù non è così, non è così! Lui ha fiducia in te, ha fiducia in ciascuno di voi, in ciascuno di noi perché per Gesù ciascuno di noi è importante, ciascuno di voi è importante. Questo è Gesù.

E allora noi, sua Chiesa, siamo la comunità di quelli che sono chiamati: non siamo la comunità dei migliori, no, siamo tutti peccatori, ma siamo chiamati, così come siamo. Pensiamo un poco a questo, nel nostro cuore: siamo chiamati così come siamo, con i problemi che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo, con la nostra gioia travolgente, con il nostro desiderio di essere migliori, con il nostro desiderio di vincere. Siamo chiamati così come siamo. Pensate a questo. Gesù mi chiama così come sono, non come mi piacerebbe essere. Siamo la comunità dei fratelli e delle sorelle di Gesù, figli e figlie dello stesso Padre.

Amici, vorrei essere chiaro con voi, che siete allergici alle falsità e alle parole vuote: nella Chiesa c’è spazio per tutti, per tutti! Nessuno è inutile, nessuno è superfluo, c’è spazio per tutti. Così come siamo, tutti. E questo Gesù lo dice chiaramente quando manda gli apostoli a invitare al banchetto di quell’uomo che lo aveva preparato, dice: “Andate e portate tutti, giovani e vecchi, sani e malati, giusti e peccatori: tutti, tutti, tutti”. Nella Chiesa c’è posto per tutti. “Padre, ma io sono un disgraziato…, sono una disgraziata, c’è posto per me?”. C’è posto per tutti! Tutti insieme, ognuno nella sua lingua, ripeta con me: “Tutti, tutti, tutti!”. [ripetono] Non si sente, ancora! “Tutti, tutti, tutti!”. E questa è la Chiesa, la Madre di tutti. C’è posto per tutti. Il Signore non punta il dito, ma apre le sue braccia. Questo ci fa pensare: il Signore non sa fare questo [puntare il dito], ma sa fare questo [abbracciare], ci abbraccia tutti.

Ce lo mostra Gesù in croce, che tanto ha aperto le sue braccia da essere crocifisso e morire per noi. Gesù non chiude mai la porta, mai, ma ti invita a entrare: “entra e vedi”. Gesù ti riceve, Gesù accoglie. In questi giorni ciascuno di noi trasmetta il linguaggio d’amore di Gesù: “Dio ti ama, Dio ti chiama”. Che bello che è questo! Dio mi ama, Dio mi chiama, vuole che io sia vicino a Lui.

Voi stasera mi avete fatto anche delle domande, tante domande. Non stancatevi mai di fare domande! Fare domande è giusto, anzi spesso è meglio che dare risposte, perché chi domanda resta “inquieto” e l’inquietudine è il miglior rimedio all’abitudine, a quella normalità piatta che anestetizza l’anima. Ciascuno di noi ha dentro di sé le proprie inquietudini. Portiamo con noi queste inquietudini e portiamole nel dialogo tra di noi, portiamole con noi quando preghiamo davanti a Dio. Queste domande che con la vita diventano risposte, dobbiamo soltanto aspettarle. C’è una cosa molto interessante: Dio ama per sorpresa, non è programmato. L’amore di Dio è sorpresa. Sempre sorprende, sempre ci tiene svegli e ci sorprende.

Cari ragazzi e ragazze, vi invito a pensare a questa cosa tanto bella: che Dio ci ama, Dio ci ama come siamo, non come vorremmo essere o come la società vorrebbe che fossimo: come siamo. Ci ama con i difetti che abbiamo, con le limitazioni che abbiamo e con la voglia che abbiamo di andare avanti nella vita. Dio ci chiama così. Abbiate fiducia perché Dio è Padre, ed è un Padre che ci ama, un Padre che ci vuole bene. Questo non è molto facile, e per questo abbiamo un grande aiuto nella Madre del Signore, che è anche nostra Madre. Lei è nostra Madre. Solo questo volevo dirvi. Non abbiate paura, abbiate coraggio, andate avanti, sapendo che siamo protetti dall’amore di Dio. Dio ci ama. Diciamolo insieme, tutti: “Dio ci ama”. Più forte, che non sento! [ripetono] Non si sente qui… [ripetono] Grazie!

[01188-IT.02] [Testo originale: Spagnolo]
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Papa Francesco a Lisbona per la GMG con i giovani di tutto il Mondo. Svegliati Europa, hai una urgente missione da compiere!

img_3926[Dal sito della sala stampa vaticana]
Alle ore 12.20 locali (13.20 ora di Roma), il Santo Padre Francesco ha incontrato le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico presso il Centro Cultural de Belém di Lisbona.

Al Suo arrivo il Papa è stato accolto dal Presidente della Repubblica del Portogallo, S.E. il Sig. Marcelo Rebelo de Sousa, all’entrata laterale del Centro ed insieme si sono recati sul palco.

Dopo il discorso introduttivo del Presidente, il Santo Padre ha pronunciato il Suo discorso.

Al termine dell’incontro, dopo essersi congedato dal Presidente della Repubblica, Papa Francesco si è trasferito in auto alla Nunziatura Apostolica di Lisbona dove, dopo l’accoglienza all’ingresso del personale della Nunziatura, ha pranzato in privato.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha pronunciato nel corso dell’incontro con le Autorità, la Società Civile e il Corpo Diplomatico:

Discorso del Santo Padre

Signor Presidente della Repubblica,
Signor Presidente dell’Assemblea della Repubblica,
Signor Primo Ministro,
Membri del Governo e del Corpo diplomatico,
Autorità, Rappresentanti della società civile e del mondo della cultura,
Signore e Signori!

Vi saluto cordialmente e ringrazio il Signor Presidente per l’accoglienza e per le cortesi parole che mi ha rivolto – è molto accogliente il Presidente, grazie! Sono felice di essere a Lisbona, città dell’incontro che abbraccia vari popoli e culture e che diventa in questi giorni ancora più universale; diventa, in un certo senso, la capitale del mondo, la capitale del futuro, perché i giovani sono futuro. Ciò ben si adatta al suo carattere multietnico e multiculturale – penso al quartiere Mouraria, dove vivono in armonia persone provenienti da più di sessanta Paesi – e rivela il tratto cosmopolita del Portogallo, che affonda le radici nel desiderio di aprirsi al mondo e di esplorarlo, navigando verso orizzonti nuovi e più vasti.

Non lontano da qui, a Cabo da Roca, è scolpita la frase di un grande poeta di questa città: «Aqui… onde a terra se acaba e o mar começa» (L. Vaz de Camões, Os Lusíadas, VIII). Per secoli si credeva che lì vi fosse il confine del mondo, e in un certo senso è vero: ci troviamo ai confini del mondo perché questo Paese confina con l’oceano, che delimita i continenti. Lisbona ne porta l’abbraccio e il profumo. Mi piace associarmi a quanto amano cantare i portoghesi: «Lisboa tem cheiro de flores e de mar» (A. Rodrigues, Cheira bem, cheira a Lisboa, 1972). Un mare che è molto più di un elemento paesaggistico, è una chiamata impressa nell’animo di ogni portoghese: «mar sonoro, mar sem fundo, mar sem fin» l’ha chiamato una poetessa locale (S. de Mello Breyner Andresen, Mar sonoro). Davanti all’oceano, i portoghesi riflettono sugli immensi spazi dell’anima e sul senso della vita nel mondo. E anch’io, lasciandomi trasportare dall’immagine dell’oceano, vorrei condividere alcuni pensieri.

Secondo la mitologia classica, Oceano è figlio del cielo (Urano): la sua vastità porta i mortali a guardare in alto e a elevarsi verso l’infinito. Ma, al contempo, Oceano è figlio della terra (Gea) che abbraccia, invitando così ad avvolgere di tenerezza l’intero mondo abitato. L’oceano, infatti, non collega solo popoli e Paesi, ma terre e continenti; perciò Lisbona, città dell’oceano, richiama all’importanza dell’insieme, a pensare i confini come zone di contatto, non come frontiere che separano. Sappiamo che oggi le grandi questioni sono globali, eppure spesso sperimentiamo l’inefficacia nel rispondervi proprio perché davanti a problemi comuni il mondo è diviso, o per lo meno non abbastanza coeso, incapace di affrontare unito ciò che mette in crisi tutti. Sembra che le ingiustizie planetarie, le guerre, le crisi climatiche e migratorie corrano più veloci della capacità, e spesso della volontà, di fronteggiare insieme tali sfide.

Lisbona può suggerire un cambio di passo. Qui nel 2007 è stato firmato l’omonimo Trattato di riforma dell’Unione Europea. Esso afferma che «l’Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli» (Trattato di Lisbona che modifica il Trattato sull’Unione Europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea, art. 1,4/2.1); ma va oltre, asserendo che «nelle relazioni con il resto del mondo […] contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all’eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani» (art. 1,4/2.5). Non sono solo parole, ma pietre miliari per il cammino della comunità europea, scolpite nella memoria di questa città. Ecco lo spirito dell’insieme, animato dal sogno europeo di un multilateralismo più ampio del solo contesto occidentale.

Secondo un’etimologia discussa, il nome Europa deriverebbe proprio da una parola che indica la direzione di occidente. È certo invece che Lisbona è la capitale più a ovest dell’Europa continentale. Essa richiama dunque la necessità di aprire vie di incontro più vaste, come il Portogallo già fa, soprattutto con Paesi di altri continenti accomunati dalla stessa lingua. Auspico che la Giornata Mondiale della Gioventù sia, per il “vecchio continente” – possiamo dire l’“anziano” continente -, un impulso di apertura universale, cioè un impulso di apertura che lo renda più giovane. Perché di Europa, di vera Europa, il mondo ha bisogno: ha bisogno del suo ruolo di pontiere e di paciere nella sua parte orientale, nel Mediterraneo, in Africa e in Medio Oriente. Così l’Europa potrà apportare, all’interno dello scenario internazionale, la sua specifica originalità, delineatasi nel secolo scorso quando, dal crogiuolo dei conflitti mondiali, fece scoccare la scintilla della riconciliazione, inverando il sogno di costruire il domani con il nemico di ieri, di avviare percorsi di dialogo, percorsi di inclusione, sviluppando una diplomazia di pace che spenga i conflitti e allenti le tensioni, capace di cogliere i segnali di distensione più flebili e di leggere tra le righe più storte.

Nell’oceano della storia, stiamo navigando in un frangente tempestoso e si avverte la mancanza di rotte coraggiose di pace. Guardando con accorato affetto all’Europa, nello spirito di dialogo che la caratterizza, verrebbe da chiederle: verso dove navighi, se non offri percorsi di pace, vie creative per porre fine alla guerra in Ucraina e ai tanti conflitti che insanguinano il mondo? E ancora, allargando il campo: quale rotta segui, Occidente? La tua tecnologia, che ha segnato il progresso e globalizzato il mondo, da sola non basta; tanto meno bastano le armi più sofisticate, che non rappresentano investimenti per il futuro, ma impoverimenti del vero capitale umano, quello dell’educazione, della sanità, dello stato sociale. Preoccupa quando si legge che in tanti luoghi si investono continuamente fondi sulle armi anziché sul futuro dei figli. E questo è vero. Mi diceva l’economo, alcuni giorni fa, che il migliore reddito di investimenti è nella fabbricazione di armi. Si investe più sulle armi che sul futuro dei figli. Io sogno un’Europa, cuore d’Occidente, che metta a frutto il suo ingegno per spegnere focolai di guerra e accendere luci di speranza; un’Europa che sappia ritrovare il suo animo giovane, sognando la grandezza dell’insieme e andando oltre i bisogni dell’immediato; un’Europa che includa popoli e persone con la loro propria cultura, senza rincorrere teorie e colonizzazioni ideologiche. E questo ci aiuterà a pensare ai sogni dei padri fondatori dell’Unione europea: questi sognavano alla grande!

L’oceano, immensa distesa d’acqua, richiama le origini della vita. Nel mondo evoluto di oggi è divenuto paradossalmente prioritario difendere la vita umana, messa a rischio da derive utilitariste, che la usano e la scartano: la cultura dello scarto della vita. Penso a tanti bambini non nati e anziani abbandonati a sé stessi, alla fatica di accogliere, proteggere, promuovere e integrare chi viene da lontano e bussa alle porte, alla solitudine di molte famiglie in difficoltà nel mettere al mondo e crescere dei figli. Verrebbe anche qui da dire: verso dove navigate, Europa e Occidente, con lo scarto dei vecchi, i muri col filo spinato, le stragi in mare e le culle vuote? Verso dove navigate? Dove andate se, di fronte al male di vivere, offrite rimedi sbrigativi e sbagliati, come il facile accesso alla morte, soluzione di comodo che appare dolce, ma in realtà è più amara delle acque del mare? E penso a tante leggi sofisticate sull’eutanasia.

Lisbona, abbracciata dall’oceano, ci dà però motivo di sperare, è città della speranza. Un oceano di giovani si sta riversando in quest’accogliente città; e io vorrei ringraziare per il grande lavoro e il generoso impegno profusi dal Portogallo per ospitare un evento così complesso da gestire, ma fecondo di speranza. Come si dice da queste parti: «Accanto ai giovani, uno non invecchia». Giovani provenienti da tutto il mondo, che coltivano i desideri dell’unità, della pace e della fraternità, giovani che sognano ci provocano a realizzare i loro sogni di bene. Non sono nelle strade a gridare rabbia, ma a condividere la speranza del Vangelo, la speranza della vita. E se da molte parti oggi si respira un clima di protesta e insoddisfazione, terreno fertile per populismi e complottismi, la Giornata Mondiale della Gioventù è occasione per costruire insieme. Rinverdisce il desiderio di creare novità, di prendere il largo e navigare insieme verso il futuro. Vengono in mente alcune parole ardite di Pessoa: «Navigare è necessario, vivere non è necessario […]; quello che serve è creare» (Navegar é preciso). Diamoci dunque da fare con creatività per costruire insieme! Immagino tre cantieri di speranza in cui possiamo lavorare tutti uniti: l’ambiente, il futuro, la fraternità.

L’ambiente. Il Portogallo condivide con l’Europa tanti sforzi esemplari per la protezione del creato. Ma il problema globale rimane estremamente serio: gli oceani si surriscaldano e i loro fondali portano a galla la bruttezza con cui abbiamo inquinato la casa comune. Stiamo trasformando le grandi riserve di vita in discariche di plastica. L’oceano ci ricorda che la vita dell’uomo è chiamata ad armonizzarsi con un ambiente più grande di noi, che va custodito, va custodito con premura, pensando alle giovani generazioni. Come possiamo dire di credere nei giovani, se non diamo loro uno spazio sano per costruire il futuro?

Il futuro è il secondo cantiere. E il futuro sono i giovani. Ma tanti fattori li scoraggiano, come la mancanza di lavoro, i ritmi frenetici in cui sono immersi, l’aumento del costo della vita, la fatica a trovare un’abitazione e, ancora più preoccupante, la paura di formare famiglie e mettere al mondo dei figli. In Europa e, più in generale, in Occidente, si assiste a una fase discendente della curva demografica: il progresso sembra una questione riguardante gli sviluppi della tecnica e gli agi dei singoli, mentre il futuro chiede di contrastare la denatalità e il tramonto della voglia di vivere. La buona politica può fare molto in questo, può essere generatrice di speranza. Essa, infatti, non è chiamata a detenere il potere, ma a dare alla gente il potere di sperare. È chiamata, oggi più che mai, a correggere gli squilibri economici di un mercato che produce ricchezze, ma non le distribuisce, impoverendo di risorse e certezze gli animi. È chiamata a riscoprirsi generatrice di vita e di cura, a investire con lungimiranza sull’avvenire, sulle famiglie e sui figli, a promuovere alleanze intergenerazionali, dove non si cancelli con un colpo di spugna il passato, ma si favoriscano i legami tra giovani e anziani. Questo dobbiamo riprenderlo: il dialogo tra giovani e anziani. A questo richiama il sentimento della saudade portoghese, la quale esprime una nostalgia, un desiderio di bene assente, che rinasce solo a contatto con le proprie radici. I giovani devono trovare le proprie radici negli anziani. In tal senso è importante l’educazione, che non può solo impartire nozioni tecniche per progredire economicamente, ma è destinata a immettere in una storia, a consegnare una tradizione, a valorizzare il bisogno religioso dell’uomo e a favorire l’amicizia sociale.

L’ultimo cantiere di speranza è quello della fraternità, che noi cristiani impariamo dal Signore Gesù Cristo. In tante parti del Portogallo il senso del vicinato e la solidarietà sono molto vivi. Però, nel contesto generale di una globalizzazione che ci avvicina, ma non ci dà la prossimità fraterna, tutti siamo chiamati a coltivare il senso della comunità, a partire dalla ricerca di chi ci abita accanto. Perché, come notò Saramago, «ciò che dà il vero senso all’incontro è la ricerca, e bisogna fare molta strada per raggiungere ciò che è vicino» (Todos os nomes, 1997). Com’è bello riscoprirci fratelli e sorelle, lavorare per il bene comune lasciando alle spalle contrasti e diversità di vedute! Anche qui ci sono d’esempio i giovani che, con il loro grido di pace e la loro voglia di vita, ci portano ad abbattere i rigidi steccati di appartenenza eretti in nome di opinioni e credo diversi. Ho saputo di tanti giovani che qui coltivano il desiderio di farsi prossimi; penso all’iniziativa Missão País, che porta migliaia di ragazzi a vivere nello spirito del Vangelo esperienze di solidarietà missionaria nelle zone periferiche, specialmente nei villaggi all’interno del Paese, andando a trovare molti anziani soli, e questo è un’ “unzione” per la gioventù. Vorrei ringraziare e incoraggiare, accanto ai tanti che nella società portoghese si occupano degli altri, la Chiesa locale, che fa tanto bene, lontana dalla luce dei riflettori.

Fratelli e sorelle, sentiamoci tutti insieme chiamati, fraternamente, a dare speranza al mondo in cui viviamo e a questo magnifico Paese. Deus abençoe Portugal!

[01184-IT.02] [Testo originale: Italiano]
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[3 agosto 2012 Dalla sala stampa vaticana] Incontro con i Giovani Universitari presso la Universidade Católica Portuguesa di Lisbona
Discorso del Santo Padre

Traduzione in lingua italiana

Questa mattina, Papa Francesco ha celebrato la Santa Messa in forma privata in Nunziatura. Erano presenti quattro familiari della donna francese, animatrice di catechesi di 62 anni, venuta a Lisbona per la GMG e deceduta nei giorni scorsi a causa di un incidente nella casa in cui era ospitata.

Prima di lasciare la Nunziatura, Papa Francesco ha incontrato un gruppo di quindici giovani pellegrini dall’Ucraina accompagnati dal Sig. Denys Kolada, Consulente per il Dialogo con le organizzazioni religiose presso il Governo ucraino. Dopo aver ascoltato le loro toccanti storie, il Papa ha rivolto ai ragazzi alcune parole, manifestando la sua vicinanza, “dolorosa e di preghiera”. Nel concludere l’incontro, durato circa 30 minuti, il Papa e i ragazzi hanno recitato insieme il Padre Nostro, con il pensiero rivolto alla martoriata Ucraina.

Quindi, il Santo Padre Francesco ha lasciato la Nunziatura Apostolica e si è trasferito in auto all’Universidade Católica Portuguesa di Lisbona dove, alle ore 9.00 (10.00 ora di Roma), ha incontrato i Giovani Universitari nel piazzale antistante l’Università.
Dopo l’esecuzione di un brano musicale e il saluto di benvenuto della Prof.ssa Isabel Capeloa Gil, Rettore dell’Università Cattolica Portoghese, hanno avuto luogo due testimonianze, una ispirata alla Laudato si’ e un’altra ispirata dal Patto Educativo Globale. Poi, dopo un canto della Corale, hanno fatto seguito una testimonianza sull’Economy of Francesco e una di una giovane aiutata dal Fondo Papa Francesco per una cultura dell’incontro. Quindi il Papa ha pronunciato il Suo discorso.
Al termine, dopo la recita del Padre Nostro, la Benedizione finale e l’esecuzione di un ultimo brano musicale, il Santo Padre ha benedetto la Prima Pietra del Campus Veritatis. Secondo le autorità locali hanno partecipato all’incontro circa 6500 persone.
Quindi, il Papa ha lasciato l’Università e si è trasferito in auto alla sede di Scholas Occurrentes di Cascais.

Pubblichiamo di seguito il discorso che Papa Francesco ha pronunciato nel corso dell’incontro con i Giovani Universitari.

Discorso del Santo Padre

[01186-ES.02] [Texto original: Español]
Traduzione in lingua italiana

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Grazie, Signora Rettrice, per le sue parole. Obrigado! Ha detto che tutti ci sentiamo «pellegrini». È una parola bella, il cui significato merita di essere meditato; letteralmente vuol dire lasciare da parte la routine abituale e mettersi in cammino con un’intenzione, muovendosi «attraverso i campi» o «oltre i propri confini», cioè fuori dalla propria zona di comfort verso un orizzonte di senso. Nel termine “pellegrino” vediamo rispecchiata la condizione umana, perché ognuno è chiamato a confrontarsi con grandi domande che non hanno risposta, una risposta semplicistica o immediata, ma invitano a compiere un viaggio, a superare sé stessi, ad andare oltre. È un processo che un universitario comprende bene, perché così nasce la scienza. E così cresce pure la ricerca spirituale. Essere pellegrino è camminare verso una meta o cercando una meta. C’è sempre il pericolo di camminare in un labirinto, dove non c’è meta. E nemmeno uscita. Diffidiamo delle formule prefabbricate – sono labirintiche –, diffidiamo delle risposte che sembrano a portata di mano, di quelle risposte sfilate dalla manica come carte da gioco truccate; diffidiamo di quelle proposte che sembrano dare tutto senza chiedere nulla. Diffidiamo! Questa diffidenza è un’arma per poter andare avanti e non continuare a girare in tondo. Una delle parabole di Gesù dice che la perla di grande valore colui la cerca con intelligenza e con intraprendenza, e dà tutto, rischia tutto ciò che ha per averla (cfr Mt 13,45-46). Cercare e rischiare: ecco i due verbi del pellegrino. Cercare e rischiare.

Pessoa ha detto, in modo tormentato ma corretto, che «essere insoddisfatti è essere uomini» (Mensagem, O Quinto Império). Non dobbiamo aver paura di sentirci inquieti, di pensare che quanto facciamo non basti. Essere insoddisfatti, in questo senso e nella giusta misura, è un buon antidoto contro la presunzione di autosufficienza e contro il narcisismo. L’incompletezza caratterizza la nostra condizione di cercatori e pellegrini; come dice Gesù, “siamo nel mondo, ma non siamo del mondo” (cfr Gv 17,16). Siamo in cammino verso… Siamo chiamati a qualcosa di più, a un decollo senza il quale non c’è volo. Non allarmiamoci allora se ci troviamo interiormente assetati, inquieti, incompiuti, desiderosi di senso e di futuro, com saudade do futuro! E qui, insieme alla saudade do futuro, non dimenticatevi di mantenere viva la memoria del futuro. Non siamo malati, siamo vivi! Preoccupiamoci piuttosto quando siamo disposti a sostituire la strada da fare col fare sosta in qualsiasi punto di ristoro, purché ci dia l’illusione della comodità; quando sostituiamo i volti con gli schermi, il reale con il virtuale; quando, al posto delle domande che lacerano, preferiamo le risposte facili che anestetizzano. E le possiamo trovare in qualsiasi manuale sui rapporti sociali, su come comportarsi bene. Le risposte facili anestetizzano.

Amici, permettetemi di dirvi: cercate e rischiate, cercate e rischiate. In questo frangente storico le sfide sono enormi, e i gemiti dolorosi. Stiamo vedendo una terza guerra mondiale a pezzi. Ma abbracciamo il rischio di pensare che non siamo in un’agonia, bensì in un parto; non alla fine, ma all’inizio di un grande spettacolo. Ci vuole coraggio per pensare questo. Siate dunque protagonisti di una “nuova coreografia” che metta al centro la persona umana, siate coreografi della danza della vita. Le parole della Signora Rettrice sono state per me ispiratrici, in particolare quando ha detto che «l’università non esiste per preservarsi come istituzione, ma per rispondere con coraggio alle sfide del presente e del futuro». L’autopreservazione è una tentazione, è un riflesso condizionato della paura, che fa guardare all’esistenza in modo distorto. Se i semi preservassero sé stessi, sprecherebbero completamente la loro potenza generativa e ci condannerebbero alla fame; se gli inverni preservassero sé stessi, non ci sarebbe la meraviglia della primavera. Abbiate perciò il coraggio di sostituire le paure coi sogni. Sostituite le paure coi sogni: non siate amministratori di paure, ma imprenditori di sogni!

Sarebbe uno spreco pensare a un’università impegnata a formare le nuove generazioni solo per perpetuare l’attuale sistema elitario e diseguale del mondo, in cui l’istruzione superiore resta un privilegio per pochi. Se la conoscenza non viene accolta come responsabilità, diventa sterile. Se chi ha ricevuto un’istruzione superiore (che oggi, in Portogallo e nel mondo, rimane un privilegio) non si sforza di restituire ciò di cui ha beneficiato, non ha capito fino in fondo cosa gli è stato offerto. Mi piace pensare al Libro della Genesi; le prime domande che Dio pone all’uomo sono: «Dove sei?» (Gen 3,9) e «Dov’è tuo fratello?» (Gen 4,9). Ci farà bene chiederci: dove sono? Me ne sto chiuso nella mia bolla o corro il rischio di uscire dalle mie sicurezze per diventare un cristiano praticante, un artigiano della giustizia, un artigiano della bellezza? E ancora: Dov’è mio fratello? Esperienze di servizio fraterno come la Missão País e molte altre che nascono in ambito accademico dovrebbero essere considerate indispensabili per chi passa da un’università. Il titolo di studio non deve infatti essere visto solo come una licenza per costruire il benessere personale, ma come un mandato per dedicarsi a una società più giusta, una società più inclusiva, cioè più progredita. Mi è stato detto che una vostra grande poetessa, Sophia de Mello Breyner Andresen, in un’intervista che è una sorta di testamento, alla domanda: «Che cosa le piacerebbe vedere realizzato in Portogallo in questo nuovo secolo?», ha risposto senza esitare: «Vorrei vedere realizzata la giustizia sociale, la riduzione del divario tra ricchi e poveri» (Entrevista de Joaci Oliveira, in Cidade Nova, nº 3/2001). Giro a voi questa domanda. Voi, cari studenti, pellegrini del sapere, cosa volete vedere realizzato in Portogallo e nel mondo? Quali cambiamenti, quali trasformazioni? E in che modo l’università, soprattutto quella cattolica, può contribuirvi?

Beatriz, Mahoor, Mariana, Tomás, vi ringrazio per le vostre testimonianze. Avevano tutte un tono di speranza, una carica di entusiasmo realista, senza lamentele ma nemmeno senza fughe in avanti idealiste. Volete essere «protagonisti, protagonisti del cambiamento», come ha detto Mariana. Ascoltandovi, ho pensato a una frase che forse vi è familiare, dello scrittore José de Almada Negreiros: «Ho sognato un Paese in cui tutti arrivavano a essere maestri» (A Invenção do Dia Claro). Anche questo anziano che vi parla – ormai sono vecchio –, sogna che la vostra generazione divenga una generazione di maestri. Maestri di umanità. Maestri di compassione. Maestri di nuove opportunità per il pianeta e i suoi abitanti. Maestri di speranza. E maestri che difendano la vita del pianeta, minacciata in questo momento da una grave distruzione ecologica.

Come alcuni di voi hanno sottolineato, dobbiamo riconoscere l’urgenza drammatica di prenderci cura della casa comune. Tuttavia, ciò non può essere fatto senza una conversione del cuore e un cambiamento della visione antropologica alla base dell’economia e della politica. Non ci si può accontentare di semplici misure palliative o di timidi e ambigui compromessi. In questo caso «le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro» (Lett. enc. Laudato si’, 194). Non dimenticatelo: le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta invece di farsi carico di quello che purtroppo continua a venir rinviato: ossia la necessità di ridefinire ciò che chiamiamo progresso ed evoluzione. Perché, in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Studiate bene questo che vi dico: in nome del progresso, si è fatto strada troppo regresso. Voi siete la generazione che può vincere questa sfida: avete gli strumenti scientifici e tecnologici più avanzati ma, per favore, non cadete nella trappola di visioni parziali. Non dimenticate che abbiamo bisogno di un’ecologia integrale, abbiamo bisogno di ascoltare la sofferenza del pianeta insieme a quella dei poveri; abbiamo bisogno di mettere il dramma della desertificazione in parallelo con quello dei rifugiati; il tema delle migrazioni insieme a quello della denatalità; abbiamo bisogno di occuparci della dimensione materiale della vita all’interno di una dimensione spirituale. Non creare polarizzazioni, ma visioni d’insieme.

Grazie, Tomás, per aver detto che «non è possibile un’autentica ecologia integrale senza Dio, che non può esserci futuro in un mondo senza Dio». Vorrei dirvi: rendete la fede credibile attraverso le scelte. Perché se la fede non genera stili di vita convincenti non fa lievitare la pasta del mondo. Non basta che un cristiano sia convinto, deve essere convincente; le nostre azioni sono chiamate a riflettere la bellezza, gioiosa e insieme radicale, del Vangelo. Inoltre, il cristianesimo non può essere abitato come una fortezza circondata da mura, che alza bastioni nei confronti del mondo. Perciò ho trovato toccante la testimonianza di Beatriz, quando ha detto che proprio «a partire dal campo della cultura» si sente chiamata a vivere le Beatitudini. In ogni epoca uno dei compiti più importanti per i cristiani è recuperare il senso dell’incarnazione. Senza l’incarnazione, il cristianesimo diventa ideologia – e la tentazione delle ideologie cristiane, tra virgolette, è molto attuale. È l’incarnazione che permette di essere stupiti dalla bellezza che Cristo rivela attraverso ogni fratello e sorella, ogni uomo e donna.

A tale proposito, è interessante che nella vostra nuova cattedra dedicata all’«Economia di Francesco» abbiate aggiunto la figura di Chiara. Il contributo femminile è indispensabile. Nell’inconscio collettivo, quante volte si pensa che le donne sono di seconda categoria, sono riserve, non giocano come titolari. Questo esiste nell’inconscio collettivo. Il contributo femminile è indispensabile. Del resto, nella Bibbia si vede come l’economia della famiglia è in larga parte in mano alla donna. Lei, con la sua saggezza, è la vera “reggente” della casa, che non ha per fine esclusivamente il profitto, ma la cura, la convivenza, il benessere fisico e spirituale di tutti, e pure la condivisione con i poveri e i forestieri. È entusiasmante intraprendere gli studi economici con questa prospettiva: con l’obiettivo di restituire all’economia la dignità che le spetta, perché non sia preda del mercato selvaggio e della speculazione.

L’iniziativa del Patto Educativo Globale, e i sette principi che ne formano l’architettura, includono molti di questi temi, dalla cura della casa comune alla piena partecipazione delle donne, fino alla necessità di trovare nuove modalità d’intendere l’economia, la politica, la crescita e il progresso. Vi invito a studiare il Patto educativo globale e ad appassionarvene. Uno dei punti che tratta è l’educazione all’accoglienza e all’inclusione. Non possiamo fingere di non aver sentito le parole di Gesù nel capitolo 25 di Matteo: «ero straniero e mi avete accolto» (v. 35). Ho seguito con emozione la testimonianza di Mahoor, quando ha evocato cosa significa vivere con «il sentimento costante di assenza di un focolare, della famiglia, degli amici […], di essere rimasta senza casa, senza università, senza soldi […], stanca, esausta e abbattuta dal dolore e dalle perdite». Ci ha detto di aver ritrovato speranza perché qualcuno ha creduto nell’impatto trasformante della cultura dell’incontro. Ogni volta che qualcuno pratica un gesto di ospitalità, provoca una trasformazione.

Amici, sono molto contento di vedervi comunità educativa viva, aperta alla realtà, e consapevoli che il Vangelo non fa da ornamento, ma anima le parti e l’insieme. So che il vostro percorso comprende diversi ambiti: studio, amicizia, servizio sociale, responsabilità civile e politica, cura della casa comune, espressioni artistiche… Essere un’università cattolica vuol dire anzitutto questo: che ogni elemento è in relazione al tutto e che il tutto si ritrova nelle parti. Così, mentre si acquisiscono le competenze scientifiche, si matura come persone, nella conoscenza di sé e nel discernimento della propria strada. Strada sì, labirinto no. Allora, avanti! Una tradizione medievale racconta che quando i pellegrini del Cammino di Santiago si incrociavano, uno salutava l’altro esclamando «Ultreia» e l’altro rispondeva «et Suseia». Sono espressioni di incoraggiamento a continuare la ricerca e il rischio del cammino, dicendoci reciprocamente: “Dai, coraggio, vai avanti!”. Questo è ciò che auguro anch’io a tutti voi, con tutto il cuore. Grazie.

[01186-IT.02] [Testo originale: Spagnolo]
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L’incontro con i giovani universitari: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/08/03/0544/01187.html
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Quale Italia? Sud, Sardegna: poveri noi!

img_3586Sud e Nord, la Costituzione vangelo di una fede laica

Massimo Villone su il manifesto
[Pubblicato 8 giorni fa - Edizione del 20 luglio 2023]

SVIMEZ 2023. Il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008

img_3904Negli ultimi giorni due voci si sono segnalate con forza nella cacofonia della politica italiana. Una è lo Svimez, che ha presentato le Anticipazioni sul Rapporto 2023. L’altra è quella di don Mimmo Battaglia, arcivescovo di Napoli, che ha rivolto una dura critica all’autonomia differenziata.

Tema principale in entrambi i casi la faglia tra il Sud e il resto del paese.Per la Svimez il divario territoriale non si riduce, ed anzi tende per molti profili ad allargarsi, sia pure meno e più lentamente rispetto alla caduta seguita alla crisi del 2008.

Dopo quell’anno il Sud non ha mai del tutto recuperato, rimanendo tuttora a -7 punti di PIL. Così, vediamo al Sud una inflazione più alta, una perdita di potere di acquisto dei salari maggiore, una più alta quota di lavoro precario e a termine, nonché di salari al di sotto dei 9€ all’ora tanto osteggiati dalla destra (25% al Sud, circa il 16% al Centro-Nord). Al Sud il termine lavoro povero non è un’espressione letteraria, ma la condizione di vita di milioni.

PREOCCUPANO, POI, le previsioni Svimez fondate su dati settoriali, come ad esempio l’industria che nel Sud contribuisce alla crescita assai meno che nel Centro-Nord (10% vs 25%), o i minori investimenti in macchine e attrezzature. Questi elementi suggeriscono che non si rafforza la capacità produttiva, in ipotesi essenziale per il rilancio del Sud come secondo motore del paese. Preoccupano, altresì, i dati sugli investimenti in materia di istruzione che non risultano mirati ai territori con maggiori carenze e bisogni. Uno scenario coronato dalla terribile cifra di 460000 laureati emigrati dal Sud verso il Centro-Nord nell’arco di venti anni.

NELLE ANTICIPAZIONI Svimez le parole autonomia differenziata non compaiono. Ma non sono invero necessarie, perché la posizione critica della Svimez sul tema è nota, è stata in molteplici occasioni manifestata dal presidente Adriano Giannola e dal direttore Luca Bianchi, ed è da ultimo ribadita nella memoria per l’audizione in Senato (che si legge sulla pagina web della I Commissione). Anche per la Chiesa potremmo dire che la critica all’autonomia differenziata non è una prima assoluta. Ma certo le parole dell’Arcivescovo Battaglia segnano un salto di qualità per chiarezza di posizione e forza argomentativa.

Don Battaglia non parla solo in termini di fede e carità. Critica duramente la scarsa tensione morale di una parte della politica, che ha indebolito le istituzioni e sprecato risorse pubbliche. Censura una voglia di separatezza che viene dall’idea di fare “tante piccole Italie”, attraverso riforme costituzionali rabberciate. Attacca direttamente l’autonomia differenziata. Parole – argomenta – che prese singolarmente recano un messaggio positivo. Ma in perversa sinergia spaccano il paese ed accrescono la povertà che già colpisce milioni. Contesta persino la tesi – cara ai fan – dell’autonomia differenziata come attuazione della Costituzione, che invece persegue l’eguaglianza, impegnando lo stato a realizzarla.

CONDIVIDIAMO. Se le parole di Don Battaglia indicano che la Chiesa come istituzione scende esplicitamente in campo contro l’autonomia differenziata siamo di fronte a una importante e positiva novità. Non sembra dubbio che questa dovrebbe essere la posizione della Chiesa di Papa Francesco. Ma esiste pur sempre una parte della Chiesa che potrebbe dissentire. Per questo sarebbero opportune iniziative utili a dimostrare che la posizione di Don Battaglia non è isolata.

Inoltre, è in atto una discussione sulla collocazione politica dei cattolici. Il contrasto all’autonomia differenziata meriterebbe un posto di onore in un manifesto o una carta di valori. Nell’esperienza quotidiana capita di incontrare qualcuno che frequenta con devozione formale i sacramenti mentre si nega alla mano che chiede aiuto. Don Battaglia ammonisce che non è “politicismo” se la Chiesa prende parte per gli ultimi e i bisognosi. E conclude che oggi “questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud …”. È la stessa conclusione cui deve arrivare la politica, con le proprie ragioni.

CARO DON BATTAGLIA, un passaggio ci è molto piaciuto nella sua riflessione. Laddove racconta che ha scritto avendo per caso davanti uno accanto all’altro il Vangelo e la Costituzione, le cui parole “stanno bene insieme”. Non potrebbe essere diversamente. Cos’è infine la Costituzione se non il vangelo di una fede laica?
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Riforme. «Autonomia differenziata, da Vangelo e Costituzione i criteri per un giudizio»

Mimmo Battaglia su Avvenire sabato 15 luglio 2023*

L’arcivescovo di Napoli interviene nel dibattito sulla discussa riforma che incide sulla struttura dello Stato e, ancor più, sullo spirito e i valori che lo animano, sorretti dall’idea di persona

C’è un’aria strana che si muove nel cielo. Da troppo tempo, ormai. Non si comprende bene se è di vento, e di che vento. O di temporale che minaccia. È certa, però, la direzione in cui essa si muove. È quella della povera gente, resa ogni giorno più povera da una certa politica che non la considera, se non per la convenienza, magari elettorale. La gente, resa più distante dalle istituzioni, che si vorrebbero asservite al potere e questo a pochi uomini, e assai più poche donne, che lo detengono. La gente, trascurata anche dalla cultura che, smarrendo la sua vocazione originaria, si volta dall’altra parte e si ubriaca di parole che essa stessa ha consumato. La gente, che non riesce più a sentirsi popolo, perché le antiche bandiere sono ferme e gli inni gloriosi muti, davanti a una falsa idea di nazione che scambia la patria per un campo di battaglia, dove una parte si contrapponga a un’altra. E dove ciascuno è straniero se viene da lontano, da una terra che non li caccia, la propria. E da un’altra, di là dal mare, che non li vuole.

L’Italia, il nostro bel Paese, ricco di storia buona e di cultura bella, di paesaggi ineguagliabili e di ricchezze artistiche e culturali incommensurabili, è sotto quel cielo, a respirare quest’aria strana. E io, nell’umiltà della mia fatica pastorale, in una terra di confine sono preoccupato seppur non rassegnato. Terra di confine, è la mia Napoli. Territoriale, tra il Sud e il Nord, in tutte le accezioni considerabili. Di confine tra un Sud che non parte e un Nord che non viene. E dove Sud è l’arretratezza, con tutto il carico di dolori e di errori, e il Nord è lo sviluppo, con tutto il peso delle sue contraddizioni. Terra di confine, è la mia Napoli, tra un Meridione che si modernizza e cresce, come essa sta facendo da non pochi anni (pur con le ferite che le squarciano il petto e sanguinano nelle carni di tanti ragazzi) e la mia Calabria, la regione da cui provengo, che resta, nonostante i buoni sforzi di parti della politica e delle istituzioni, ferma al palo dell’antico abbandono e delle moderne speculazioni. Su cui, pesante come un macigno, grava la scarsa tensione morale di parte della politica che ha indebolito le istituzioni e sprecato in un tempo lungo ingenti risorse pubbliche.

E non è la sola a essere in queste situazioni. All’interno di questo quadro, il nostro Paese, che dalla grave pandemia è uscito impoverito e diviso, rischia di essere trascinato in un campo in cui l’egoismo che ci prende sempre di più si codifica in scelte politiche nette. Scelte che alimentano quel desiderio di separatezza di una parte del territorio da tutto il resto del Paese. Un desiderio, questo, che ha un’origine lontana. In quel tempo in cui si pensava a una diversa articolazione dello Stato, di fatto divisiva e separatista, mascherata da decentramento e partecipazione dal basso, quando invece altro non era che il tentativo di fare dell’Italia, nazione grande e prestigiosa, tante piccole italie, lontanissime dalla più grande e potente che si sarebbe agganciata all’Europa. Quel tentativo, di cui non è responsabile solo una parte della rappresentanza parlamentare, si confuse in modifiche costituzionali rabberciate, i cui danni si vedono a occhio nudo ancora adesso. Oggi quella cultura della divisione, quel sentimento di egoismo che si è progressivamente trasformato in una sorta di indifferenza collettiva nei confronti della sorte dell’altro, sta prendendo sempre più la forma di un’altra legge possente. Di un altro colpo, cioè, all’impalcatura democratica dello Stato fondato sulla partecipazione di tutti (territori e cittadini e istituzioni e culture, nessuno escluso) alla costruzione della ricchezza del Paese.

Lo chiamano in più modi, questo disegno di legge, che, varato dal Governo, ha già fatto un gran pezzo di strada parlamentare. Lo chiamano in tanti modi, ripeto, alcuni leggeri ed eleganti, per indorare la pillola sbagliata da ricetta ancora più sbagliata. La più nota denominazione é “Autonomia differenziata”. Ecco l’eleganza delle parole. Sono due sole. Prese autonomamente procurano una sensazione più piacevole di quella che pure si prova se lette insieme. Autonomia. Che bella questa parola! Cosa c’è in un qualsiasi consorzio umano di meglio che avere garantita l’autonomia. Autonomia si coniuga con libertà. È magnifico essere autonomi, magnifico essere liberi. Poter decidere del proprio futuro e della propria vita attraverso il pieno utilizzo dei propri mezzi è il sogno di tutti. Qui si potrebbe innestare un principio anch’esso affascinante, di chiara marca liberista o come meglio dir si voglia: a ciascuno secondo le proprie capacità. Fin qui potremmo essere quasi felici, se non intervenisse la fatica dell’essere autonomo e il rischio che la libertà applicata in quel contesto possa procurare voglia di fare senza gli altri. Ovvero, di non vedere altro interesse che il proprio. Del territorio e di quanti all’interno di esso vivono, specialmente. Forte crescerebbe qui il desiderio di costruire tutt’intorno a quella autonomia confini più rigidi e invalicabili.

L’altra parola, egualmente bella e affascinante, è “differenziata”. Essere differenti, cioè sé stessi diversi dagli altri per legge determinati, è interessante. Fare cose differenti, agire in maniera differente in un’area differenziata, è atto straordinario, che solletica vanità e senso di superiorità. Voglia di far da soli e per sé stessi e con le proprie risorse, senza, soprattutto, dover dar conto agli altri e fare i conti con gli altri, non è vantaggio da buttare, direbbero gli interessati se già non l’hanno pensato.
Dicono i sostenitori della nuova legge in itinere che è tutto previsto dalla Carta costituzionale, che da tempo attenderebbe che venisse attuata in quel principio più largamente affermato nelle cinque regioni autonome. Ed è forse davvero così. Costoro, però, dimenticano, che la Costituzione, prima, durante e dopo, quell’articolo narra dell’eguaglianza autentica fra tutti cittadini e prescrive che sia lo Stato a garantire l’effettiva parità, secondo modi e criteri che non sto qui a elencare. In tanti ancora dimenticano che la bellezza della nostra Costituzione è nella inscindibile unità tra autonomie e solidarietà, tra libertà individuale e azione sociale, tra ricchezza individuale e ricchezza complessiva, tra singoli territori e unità territoriale. Tra regioni e nazione. Tra comuni e Stato, tra pluralismo e compattezza. Dimenticano che al centro di ogni divenire sociale c’è la persona, non l’individuo singolo privo di tutto quel corredo umano che fa l’uomo l’essere speciale che è.

L’autonomia differenziata, per quanto la si voglia edulcorare con nuovi innesti terminologici che la gente non comprende, rompe questo concetto di unità, lacera il senso di solidarietà che è proprio della nostra gente, divide il Paese, accresce la povertà già troppo estesa ed estrema per milioni di italiani. Infine, cancella d’un colpo quel bagaglio ricchissimo di conquiste democratiche realizzato dalle lotte popolari dal Risorgimento a oggi. Abbiamo di recente visto che da soli non si va da nessuna parte, che anche le zone ricche subiscono il rischio di diventare povere e di incontrare la sofferenza e il dolore. Il terribile terremoto e la devastante alluvione che in due ravvicinate “sventure” ha subito la nobile e fiera Emilia Romagna, hanno visto ancora una volta la straordinaria grandezza del popolo italiano. La solidarietà è partita subito. Specialmente dal Sud il cuore della generosità è volato su quelle terre così duramente colpite. Nessuno ha fatto i conti della spesa. Qui al Sud si è pregato e tifato, e si è gioito quando il Governo ha elargito somme considerevoli, che anche qui sono considerate insufficienti per far tempestivamente rinascere quella parte della nostra Italia. Il territorio è la prima ricchezza che hanno i poveri, indebolirglielo è colpa grave, non solo politica. Le ferite ai territori, in qualsiasi modo inferte, sono ferite sulle carni già aperte dei poveri. Sfugge ai responsabili della cosa pubblica il significato della parola “gente”, della parola “popolo”. Della parola “comunità”. Essa ha valore se si comprende che gente, popolo, comunità è la Persona, con tutto il suo carico di diritti inalienabili.

Sono un prete, soltanto un prete, che ha toccato e tocca ogni giorno la sofferenza. Della persona che lotta e non vince mai. Che si affatica e non si riposa un minuto. Che sta sempre in fondo alla fila che non scorre mai. Che vorrebbe avere fiducia e non trova ascolto. Che vorrebbe parlare e non la si lascia esprimere. Il Santo Padre, che si batte strenuamente per difendere le persone da ogni guerra che si muove loro contro (quella della fame è la guerra che un miserabile mondo opulento e obeso muove prima di quelle guerreggiate), ci esorta a non abbandonare quella che si manifesta sempre di più come la più grande delle azioni umane, la solidarietà verso gli ultimi. La difesa della vita umana e della tutela della sua piena dignità. Dinanzi alle enormi sofferenze di famiglie intere che non riescono a fronteggiare il più piccolo dei bisogni nessuno osi tirarsi indietro. La Chiesa non può e non lo farà. Il prete non può e non lo farà. E non tema alcuno di essere accusato di politicismo: la Chiesa prende parte, sì, quella dei poveri, dei bisognosi. Si fa parte essa stessa degli ultimi e non perché li carezzi mentre li si vorrebbe ultimi ma per dar loro la forza di riscattarsi dalla povertà e dall’arretratezza. Oggi questo sostegno deve andare anche ai territori, affinché non siano lasciati soli. A quelli del Sud perché in essi splenda pienamente il sole. Il sole incontro al quale devono correre i nostri ragazzi, per costruire insieme la felicità. Di tutti.

Ho scritto questa riflessione di getto, lasciando parlare solo il mio cuore. Di prete e di uomo. L’ho fatto trovandomi sulla scrivania, l’uno accanto all’altro, così casualmente, il Vangelo e la Costituzione. Tenendo ben divisi questi due “libri”, trovo felicemente che la Parola e quelle parole stanno proprio bene insieme. Questa sensazione in me è bellissima. La dirò domattina ai miei amici più piccoli, che si chiamino Ciro, Concetta, Carmela, Gennaro, o altri nomi che ho conosciuto attraverso i loro volti bellissimi, affinché provino gioia e desiderio di camminare con questi valori e questi princìpi. Ma non da soli, però. Da soli no. Con gli altri. Sempre più numerosi. Perché la Bellezza vince sempre. E l’Amore pure.

Arcivescovo di Napoli

*Questo testo è pubblicato in contemporanea da Avvenire e www.chiesadinapoli.it. Una sintesi sull’edizione di Avvenire del 16 luglio.
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img_3442img_3907img_2775Se son rose fioriranno. Qualcuna è già fiorita!
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di Franco Meloni
Il dibattito politico sulle prossime elezioni sarde è in rapida crescita. Per quanto riguarda il centro destra tutto sembra ruotare sulla contrastata ricandidatura di Christian Solinas, che solo la Lega e la parte maggioritaria del PSdAz propongono. La destra rampante di Fratelli d’Italia e quella moderata di Forza Italia più cespugli vari vogliono un cambio di cavallo. E a parere di molti credibili osservatori ci riusciranno. E anch’io così penso. Basterà trovare un beatiful exit per l’ingombrate Christian: per lui si aprirebbe un dorato pensionamento al Parlamento europeo. La destra vincente punterebbe su un candidato di prestigio come l’attuale leader della Coldiretti Sardegna Luca Saba. Scelta intelligente che riunirebbe in una sola coalizione il centro destra. Sulla sponda opposta il centro sinistra stenta a trovare l’unità, nonostante una sola lista avrebbe ragionevoli previsioni di vittoria. Ma, si sa, come per primo disse il prof. Luigi Gessa: “il più grande avversario della sinistra è la stessa sinistra”.
Purtroppo le diverse formazioni della sinistra rischiano ancora una volta di perdere, perché incapaci di costruire un’alleanza intorno a un solo candidato presidente, con diverse liste che garantirebbero la diversità di posizioni. Viaggiano nell’ipotesi di una sola coalizione il Pd, il M5S, i Progressisti, Possibile, e altre importanti 6802d991-52f6-4acf-9de5-bf92b0b994ccaggregazioni, tra le quali Demos con Insieme, queste ultime due rappresentanti un’area di Cattolici democratici, che in questa fase tentano, con qualche successo, di riportare molti Cattolici (o comunque persone che si ispirano ai valori cristiani) all’impegno politico. Significativo al riguardo un esplicito gradimento della conferenza dei vescovi italiani (CEI), che non manca di richiamare la entusiasmante stagione del grande compromesso costituzionale del dopoguerra. Il Vangelo e la Costituzione (Vangelo laico), sono i due fondamentali riferimenti; ma come non vedervi l’incitamento esplicito in dimensioni planetarie di Papa Francesco? Nel nostro piccolo, questa posizione è maggioritaria nell’ambito del Movimento Patto per la Sardegna, che si muove vivacemente nel nostro ambiente.
Ma torniamo al centro sinistra e dintorni. In direzione contraria alla grande coalizione si muovono, allo stato, l’arcipelago degli indipendentisti e, separatamente, la sinistra tout court. Sembrerebbe prevalere per ciascuna di queste aggregazioni la scelta di liste separate. Scelta sciagurata, soprattutto in caso di presentazione di coalizioni (anziché di liste singole), inesorabilmente punite dall’attuale pessima legge elettorale sarda. In sostanza: si può vincere e conquistare il governo della Regione solo con la presentazione di un’unica lista con un solo candidato presidente. Semplice a spiegarsi, duro a capirsi nonostante l’esperienza delle img_3910ultime tornate elettorali. Da segnalare l’incognita del neo movimento di “Sardegna chiama Sardegna”, che ha costruito un bellissimo programma per la Sardegna, ma che stenta a concretizzare la scelta sulla presentazione, attualmente affascinata da uno “splendido isolamento”. Noi di Aladinews siamo schierati senza alcuna reticenza per l’unica lista di coalizione del centro sinistra, guidata da un candidato (meglio da una candidata) scelta attraverso il meccanismo delle primarie. Si discuta apertamente senza preclusioni, badando al possibile e auspicabile risultato vittorioso. Il programma va costruito sulle bozze esistenti, trovando l’unità su una serie di punti, rispettando le diversità che devono essere esplicitate. Avanti nell’interesse dei sardi e dell’intera Sardegna!
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