Editoriali

E’ Natale!

ccd17166-6827-4dce-890d-e7064bf084fdNatale: «La parola avvenne nella carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Giovanni 1,14)

22-12-2023 – di: Andrea Bigalli su Volerelaluna*.

Una lettura storica sulle prospettive della chiesa cattolica non appare certo consolante. L’erosione del patrimonio culturale e sociale che portava a sentirsi parte di essa è evidente. Da un lato c’è la mancata trasmissione generazionale di un’identità sempre meno compresa; dall’altro il peso di vari scandali (in primis quello degli abusi del clero) ha creato una frattura di fiducia nei confronti di una istituzione che faceva proprio della formazione fiduciaria delle giovani generazioni uno dei suoi punti di forza. Neanche un pontificato ricco di aperture e intuizioni straordinarie sembra invertire una tendenza che non appare transitoria. È un’analisi sommaria che potrebbe elencare altro: in ultima analisi comprendendo l’ipotesi che il cristianesimo – il teismo in genere – abbia esaurito la sua spinta propulsiva nel rispondere alle esigenze dell’antropologia contemporanea. Se fino a qualche anno fa si poteva pensare che fosse il positivismo scientifico a minare i presupposti della fede, quanto constatato nella stretta contemporaneità (le contestazioni arbitrarie al pensiero medico scientifico in pandemia, per esempio) fa supporre che il pensiero religioso non sia stato sostituito da una costruzione del tutto logica delle convinzioni esistenziali. Ma ne occorrono davvero? Magari no. Non mi sembra però che rimuovere la questione della metafisica abbia prodotto serenità diffusa, fiducia nel futuro, gratificazione dalla buona qualità di vita. Se si pensa alla trascendenza solo su un piano religioso, si perde la prospettiva di un’evoluzione consapevole, che per gli esseri umani può passare solo per la dimensione della domanda difficile, della provocazione, della consapevolezza della finitudine, ma, al contempo, del valore dell’esperienza umana in quanto tale. Su tutto questo c’è molta poca analisi, la società in cui viviamo ci educa alle prospettive unidirezionali. Herbert Marcuse aveva ragione. Un altro Natale. Ancora più spoglio di significati che non siano quelli del mercato, della convenzione artificiosa riguardo alle relazioni affettive, di modelli di vita sicuramente usurati ed inadeguati. Prevale un crescente disagio, venato dalla preoccupazione riguardo al futuro e dal senso di colpa che ci portiamo dentro. Stiamo assistendo a conflitti sempre più pervasivi, da cui niente sembra poterci esentare: inclusi quelli rappresentati dalla violenza di genere e dalla guerra suicida all’ecosistema. In colpa perché la nostra impotenza diventa rassegnazione. Atterriti nel constatare che le vie di progresso si fanno involute. Lettrici e lettori penseranno che mi sto mettendo nei guai da solo. Da un lato enuncio una crisi, quella del cattolicesimo, dall’altro ne inserisco i termini in quella generale della contemporaneità. Quindi? Ciò che dovrebbe sostenere le Chiese cristiane, la Bibbia, scaturisce per lo più da contesti di crisi, personale e delle società, fino al punto di farmi sostenere che il concetto stesso di crisi ne sia una chiave di lettura basilare. I cattolici arrivano a celebrare Natale guidati da un profeta, Isaia, il cui libro è ossatura fondamentale delle liturgie di Avvento: questo testo, con almeno tre diversi livelli storici e composto a più mani, ruota intorno alla memoria storica e teologica dell’evento più devastante vissuto dal Regno di Israele. Annientati dall’impero babilonese, gli ebrei sono destinati alla deportazione e alla cattività. Nel prima, durante e dopo l’esilio, Isaia ammonisce, contesta, prospetta, consola, sostiene, illumina. Soprattutto presenta una visione: letto il presente con gli occhi di Dio, se ne possono proiettare gli elementi verso il futuro. Non troverete in ciò traccia alcuna di un ottimismo fine a sé stesso, un’ingenuità sul tempo vissuto, la prospettiva artificiosa del fideismo. La Scrittura è scabra, aspra, brutale nel dichiarare ciò che avviene e mettere ognuno davanti alle proprie responsabilità. Ma proprio per questo è veritiera anche quando ti espone il dato dell’imprevedibile, che non può essere solo foriero di negatività. Il Dio che si presenta così educa alla speranza: chiede l’onestà sugli errori, sostiene il cambiamento, condurrà ogni popolo al proprio Esodo, ad una pedagogia di liberazione. I Vangeli sono scritti con lo stile letterario profetico, Cristo è il compimento della profezia stessa: è un codice di comprensione importante, talvolta poco seguito dagli esegeti. Gesù di Nazareth nasce in un tempo difficilissimo: un tempo di dominazione imperiale, di difficile resistenza alle sue istanze culturali di idolatria della forza e del potere, di minorità e marginalità di popoli interi. La società era governata da un potere teocratico che aveva perso ogni autorità, ripetendo stancamente a favore del fariseismo la lettura di un Dio giudicante, divisivo, escludente. Il dio classista dei potenti e dei garantiti: sempre invocato per stroncare le dissidenze, spegnere le profezie, annichilire le speranze. Dio avviene nella carne in questo quadro. E avviene riducendosi a niente, nascendo povero, mite, coraggioso e veritiero in un tempo – quando mai no, però? – della menzogna eletta a sistema di comunicazione. Giovanni, nel primo capitolo, ci dice che il Logos, il senso più alto dell’intelletto, il genio comunicativo e intessuto di razionalità pienamente umana – quindi affettiva, generativa, fantasiosa – avviene nella fragilità e nella contraddittorietà della carne. La prospettiva della condizione effimera, sia pur meravigliosa, della corporeità umana, deve far sintesi con il presupposto intellettivo mai così definito in positivo come nell’idea del Logos/Parola. Il Divino si immerge totalmente nella contraddizione, la crudeltà, la fatica, la sofferenza, la dignità e la bellezza di ciò che è nella dimensione concreta dell’esistere delle donne e degli uomini. Se il Natale lo leggo in questa prospettiva trovo la necessità di incarnarsi nel proprio vivere, nella stagione storica a cui siamo stati consegnati. La verità dei nostri limiti si definisce attraverso le fragilità del relazionarsi: il desiderio, il bisogno, la transitorietà di tutto. Al contempo possiamo capire che ciò che stiamo vivendo si iscrive nella potenzialità dell’altrove, di ciò che procede più in là da quanto definito e conosciuto. La crisi si può abitare in una dimensione profetica: imparando a decifrare i segni di quella che attanaglia l’istituzione che la produce, la governa, gode e profitta del suo essere. Certo, qui una componente fideista c’è e passa per pensare che le vittime e i violentati vedranno la crisi volgersi in crescita perché è l’Impero, racconta l’Apocalisse, il libro che è la summa delle intuizioni profetiche di tutta la Scrittura, che dovrà rassegnarsi al proprio crollo. L’Impero è il simbolo di tutto quel male che ha preteso di governare la storia umana: è stato fondato sul disumanesimo, sussiste in virtù di esso, non può che sprofondare nelle sue stesse logiche di morte. Chi ha conservato una logica di vita, di tenerezza e di solidarietà, sopravviverà. Quando parlo di fede ne intendo una vasta, non necessariamente teista, anzi: sostenuta da quell’umanesimo distillato dalle grandezze e dai fallimenti delle prassi storiche, è la fiducia che gli esseri umani – come sosteneva il mio maestro Ernesto Balducci – hanno in sé potenzialità inedite ancora nascoste, in lento travaglio verso la piena espressione. L’umano della pace non si è del tutto svelato, ma è già presente. Talvolta soccombe, ma la sua piena e feconda espressione è irriducibile, avverrà comunque. Nel 2024 celebreremo i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, la cui azione ha espresso un umanesimo totale e radicale, che si genera e si comprende a partire dalla ragione dei sofferenti, dei malati, di quelli e quelle ascritte alle varie categorie dell’esclusione. Per capire che siamo comunque ai margini, dato che tutti chiediamo salvezza, soffriamo il male di vivere. Essere consapevoli del nostro male, per questo solidali e dediti alla cura, è l’unico modo per acquisire lucidità riguardo alla propria crisi, la comprensione di come essa si tramuti nella pace. Può sembrare mera retorica ma bisogna assumere tutto il peso dello scandalo folle del Vangelo che dichiara beati i poveri, chiedendoci di ragionare secondo la logica della vera povertà, liberi dal troppo, gioiosi nell’essenziale. Un conto è la tutela del necessario e di quel di più che garantisce autentica contentezza, un conto è farsi soffocare dal bisogno indotto, che snatura il senso bello dell’avere senza possedere, di esistere per l’abbondanza del condiviso. «Para todos, todo. Para nosotros, nada» affermano gli zapatisti dell’Ezln (continuano a resistere all’Impero, anche se non si parla di loro). Il senso di questa povertà è pienezza dell’avere, perché è avere insieme. Il Vangelo non esalta la povertà in sé, avversa semmai radicalmente la miseria, perché sa che l’avere non è male: dominare senza condividere, quello è il peccato alla radice della condizione umana. Avere senza cuore, pensiero, fantasia, com/passione. È un bambino, nasce ai margini, non nei luoghi garantiti, privilegiati e sicuri. Accolto tra i primi dai pastori. I membri della mia comunità sono rimasti molto colpiti quando abbiamo studiato insieme che erano parte di una categoria disprezzata, guardata con sospetto per la promiscuità con il mondo animale, randagia, nomade, talora irregolare e violenta, per reazione al disamore. Eppure sono i primi ad ascoltare, andare, vedere, gioire. Cosa? Il tempo nuovo di un umanesimo che non si fa dominare, spengere, addomesticare, irregimentare. Libero, intelligente, felice. Spinto da una creatività invincibile. Impastato con le sante essenze della sororità e della fraternità. In transito, eppure nella stabilità in equilibrio non definitivo di chi ha una tenda e non la prigionia dei palazzi.
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* Andrea Bigalli, fiorentino, è stato ordinato sacerdote nel 1990. Dal 1999 è parroco a Sant’Andrea in Percussina (San Casciano Val di Pesa). Vice direttore della “Caritas” toscana dal 1998 al 2005 è attualmente referente di Libera per la Toscana e membro del direttivo della rivista “Testimonianze”. Insegna religione nelle scuole superiori di Firenze.
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Gli Auguri del nostro Editore
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Illustrazione in testa
Stupendo! La Natività è un dipinto, olio su tavola (124,4×122,6 cm), dell’ultima fase artistica di Piero della Francesca, databile al 1470-1475 (o secondo alcuni fino al 1485) e oggi conservato nella National Gallery di Londra (oggetto di un restauro molto discusso nel 2022) Da wikipedia.
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Editoriale

di Franco Meloni

Sono un semplice elettore, anzi un elettore semplice, e dichiaro di non capire cosa sta succedendo nella politica sarda. I protagonisti da tutte le parti se la cantano e se la suonano, senza preoccuparsi che la gente capisca. L’agone politico è roba loro e non hanno da dare spiegazioni a nessuno. Ma così gli elettori sono sempre più disorientati. Sicuramente aumenteranno coloro che diserteranno le urne. Alcuni esperti valutano che l’astensionismo supererà il 50% dell’elettorato. Ma, che importa. Anzi per i nostri politici, almeno per la maggior parte di essi, vale lo slogan “meno siamo meglio stiamo”, che riferito all’elettorato si traduce in “meno sono [gli elettori] meglio stiamo noi, a meno gente dobbiamo rendere conto: lasciate fare a noi…”. La “partecipazione popolare” è un bel concetto che nessun politico rinnegherà, a parole, nei fatti “una grande rottura di c.”. Gli astensionisti avrebbero tutte le ragioni di questo mondo: perché scomodarsi a votare se la propria opinione è ininfluente rispetto alle decisioni da prendere per l’amministrazione della Regione? C’è poi il sospetto che gli stessi politici alla guida della Regione contino ben poco rispetto alle grandi scelte dell’economia, appannaggio di livelli superiori (bene che vada) o delle potenti multinazionali. Tale e’ la sensazione di impotenza, che ci si chiede se ha senso mantenere in piedi diverse Istituzioni. Se per ipotesi si potesse fare un referendum per abrogare l’Istituzione regionale, il risultato sarebbe probabilmente maggioritariamente favorevole.

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Il vecchio mondo sta morendo. Quello nuovo tarda a comparire. E in questo chiaroscuro nascono i mostri.
Antonio Gramsci

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Mario Arca, leader sardo di Demos* , chiudendo la bella serata presso la Collina, il 6 dicembre u.s., promossa da diverse formazioni politiche di ispirazione cristiana, ha fatto una citazione a me molto cara: quella

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Per cominciare: Shomèr ma mi llailah? Un verso di Isaia (21,11- 12), Shomèr ma mi-lailah è alla base di una delle canzoni più famose di Francesco Guccini. Il verso è misterioso. Tradotto, vuol dire: Sentinella, a quanto della notte, a che punto è la notte? Isaia, uno di quei profeti che minacciano in continuazione e lanciano fuoco e fiamme, all’improvviso si lascia andare, in questo verso bellissimo e altamente poetico, ad una grande speranza.
La sentinella risponde: La notte sta per finire ma l’alba non è ancora arrivata. Tornate, domandate, insistete.
http://www.specchiomagazine.it/2019/06/shomer-ma-mi-lailah-sentinella-a-quanto-della-notte/?fbclid=IwAR29kHJnQi5hq0ixBZdeutd-OtG4tJxY9lO4sENYSbqIGKp7WyikzHf3nLU
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La canzone di Guccini: https://youtu.be/gyTqIV7otos

Su Dossier Caritas 2023. COP28: Dubai e oltre Dubai

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Lunedì 18 dicembre la Caritas di Cagliari ha presentato il XIII Dossier Caritas 2023. Il volume è ricco di informazioni sulla vasta attività dell’istituzione durante il corrente anno, nonché di riflessioni su quanto accade nel nostro tempo. Avremo occasioni per riproporre almeno una parte di tali contenuti nella nostra news, dando ad essi adeguato spazio e rilievo. Nel presente spazio-editoriale riportiamo l’articolo del direttore sull’esortazione apostolica Laudate Deum di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre u.s., dedicata alle questioni ambientali, un vero e proprio aggiornamento dell’enciclica Laudato si’, in previsione della COP28 tenutasi come previsto a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre (prolungatasi per alcuni giorni). Lo stesso pontefice avrebbe dovuto parteciparvi nei gg. 1-3 dicembre, ma ha dovuto rinunciare per ragioni di salute. L’articolo è andato in stampa ben prima dell’evento di Dubai, riporta pertanto previsioni e auspici, da confrontare oggi con quanto effettivamente accaduto e deciso nei documenti finali. Per completezza di informazione, aggiornata ad oggi, riportiamo di seguito all’articolo del direttore, tre pezzi di valutazione a conclusione della COP28 di Dubai, che crediamo ne mostrino luci ed ombre, obbiettivi raggiunti (pochi), obbiettivi parzialmente soddisfacenti, obbiettivi totalmente mancati (tanto che alcuni parlano di fallimento). Ai lettori un giudizio motivato, sulla base della documentazione fornita o comunque di altra disponibile in rete.
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L’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum
di Franco Meloni

Premessa: con Papa Francesco, Giovanni XXIII, Paolo VI

Papa Francesco tiene molto nelle sue encicliche ed esortazioni e, in generale, nelle sue dichiarazioni a ricollegarsi ai suoi predecessori, soprattutto a quelli più vicini, nella linea della “continuità nel rinnovamento” del magistero della Chiesa. Ma sono specialmente due i Pontefici a cui fa riferimento, quelli più legati al Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII, che lo ha indetto e iniziato; Paolo VI, che lo ha ripreso e portato a compimento [1]. E sappiamo quanto Papa Francesco ami e consideri il Concilio: «evento di grazia per la Chiesa e per il mondo», «i cui frutti non si sono esauriti» e che «non è stato ancora interamente compreso, vissuto e applicato (…) Dal Concilio Ecumenico Vaticano II abbiamo ricevuto molto. Abbiamo approfondito, ad esempio, l’importanza del popolo di Dio, categoria centrale nei testi conciliari, richiamata ben centottantaquattro volte, che ci aiuta a comprendere il fatto che la Chiesa non è un’élite di sacerdoti e consacrati e che ciascun battezzato è un soggetto attivo di evangelizzazione”. E continua: “dobbiamo riscoprire l’ispirazione del Concilio e come passo dopo passo questo evento abbia trasformato la vita della Chiesa, è l’occasione per affrontare meglio il percorso sinodale, che è fatto innanzitutto di ascolto, di coinvolgimento, di capacità di far spazio al soffio dello Spirito, lasciando a Lui la possibilità di guidarci”.[2]
Anch’io in premessa delle mie considerazioni sull’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum (LD) [3] faccio riferimento ai medesimi due Pontefici.
- A Giovanni XXIII, laddove mi soffermo sui destinatari del messaggio pontificio che appare nel titolo stesso della LD: “…a tutte le persone di buona volontà”.
Si tratta di un’ulteriore innovazione che va oltre quanto Papa Francesco già sottolineava nella Laudato sì’ sotto l’intitolazione “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, Papa Francesco ricordava: “Più di cinquant’anni fa, mentre il mondo vacillava sull’orlo di una crisi nucleare, il santo Papa Giovanni XXIII scrisse un’Enciclica con la quale non si limitò solamente a respingere la guerra, bensì volle trasmettere una proposta di pace. Diresse il suo messaggio Pacem in terris a tutto il “mondo cattolico”, ma aggiungeva «nonché a tutti gli uomini di buona volontà». Adesso, di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo pianeta (…)”. E ribadisce: “In questa Enciclica (LS), mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune” (LS 3). La novità della Laudate Deum consiste, nel rivolgersi “a primo acchito” all’intera umanità, almeno a quella pensante, di buona volontà, (formata da “persone”, non “uomini”, al fine di superare la tradizionale prevalenza del maschile), prima ancora che ai “fedeli cattolici”, a cui dedica gli ultimi paragrafi dell’Esortazione (LD 61-73).
- A Paolo VI [4], precisamente alla sua prima Enciclica, Ecclesiam Suam (ES) [4bis], laddove individua “le posizioni concrete, in cui l’umanità si trova rispetto alla Chiesa cattolica (…) a guisa di tre cerchi concentrici” che la circondano [5] In questa trattazione ci interessa il primo.

Dall’Enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam alla Costituzione conciliare Gaudium et Spes

Paolo VI lo descrive come “(…) un immenso cerchio, di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio”. E prosegue: “Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti gli altri come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato; non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall’altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa. (…)” (ES 101-102).
È un’anticipazione della costituzione conciliare “Gaudium et Spes” [6] di cui cito lo splendido incipit: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti”.

Dall’Enciclica Laudato sì’ all’Esortazione Laudate Deum

Nell’intervista fattagli di recente dalla Rai [7], Papa Francesco ricorda un suo viaggio a Strasburgo: “Non dimentico quando il 25 novembre 2014, invitato dal Parlamento europeo, incontrai la ministra francese dell’Ambiente, Ségolène Royal, con cui parlai di quello che stavo scrivendo sull’ambiente e del progetto di un lavoro comune con scienziati e teologi. «Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza sul clima di Parigi [8]»: furono queste le parole della ministra. Ed in effetti il 24 maggio 2015 fu emanata l’enciclica Laudato si’” (LS). Il Papa dunque giocò d’anticipo, riuscendo in certa misura a far pesare, con l’autorevolezza di un’Enciclica, le sue argomentazioni, che non sono dogma, ma rappresentano l’aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa cattolica in materia di ambiente, cambiamento climatico, ecologia integrale… in sostanza quanto si compendia nella “cura del Creato”. La capacità di Papa Francesco di “cogliere i segni dei tempi” [9] fino ad anticipare gli eventi è un suo carisma che si è appalesato non solo rispetto alla COP21 di Parigi, ma, come rilevo sul Dossier Caritas 2019 [10], anche rispetto alla risoluzione dell’Onu con cui il 25 settembre 2015 fu approvata l’Agenda Onu 2030 [11], anticipata di quattro mesi dalla Laudato sì’. Ma su questo argomento rinvio ad altri approfondimenti.

Con l’Esortazione Laudate Deum, ad oltre otto anni dalla LS, il Papa si comporta in modo analogo rispetto alla imminente scadenza della COP28 a Dubai [12], non certo per il gusto dell’arrivare primo, quanto piuttosto per enfatizzarne l’importanza, dando la sveglia a tutti… .
Dice il Papa in una delle sue esternazioni “Dopo Parigi purtroppo le cose non sono andate come speravo, e questo continua a preoccuparmi”. Il perché lo spiega nell’Esortazione: “(…) con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti” (LD 2) . Le conseguenze della crisi climatica globale sono sotto gli occhi di tutti: “Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi (…) È verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano in modo significativo la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi. Sappiamo quindi che ogni volta che la temperatura globale aumenta di 0,5 gradi centigradi, aumenta anche l’intensità e la frequenza di forti piogge e inondazioni in alcune aree, di grave siccità in altre, di caldo estremo in alcune regioni e di forti nevicate in altre ancora. Se fino a ora potevamo avere ondate di calore alcune volte all’anno, cosa accadrebbe con un aumento della temperatura globale di 1,5 gradi centigradi, a cui siamo vicini? Tali onde di calore saranno molto più frequenti e più intense. Se si superano i 2 gradi, le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti” (LD 5).

Dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992 alla COP 28 di Dubai

Dopo aver passato in rassegna le COP che hanno preceduto e seguito quella di Parigi e che dopo quest’ultima hanno prodotto risultati deludenti [13], il Papa s’interroga: “Cosa ci si aspetta dalla COP28 di Dubai?” [13] Si mostra speranzoso: “Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta, comprovando che tutto quanto si è fatto dal 1992 [14] era serio e opportuno, altrimenti sarà una grande delusione e metterà a rischio quanto di buono si è potuto fin qui raggiungere”. E ancora: “Nonostante i numerosi negoziati e accordi, le emissioni globali hanno continuato a crescere. È vero che si può sostenere che senza questi accordi sarebbero cresciute ancora di più. Ma su altre questioni ambientali, dove c’è stata la volontà, sono stati raggiunti risultati molto significativi, come nel caso della protezione dello strato di ozono. Invece la necessaria transizione verso energie pulite, come quella eolica, quella solare, abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre (…) Se c’è un sincero interesse a far sì che la COP28 diventi storica, che ci onori e ci nobiliti come esseri umani, allora possiamo solo aspettarci delle forme vincolanti di transizione energetica che abbiano tre caratteristiche: che siano efficienti, che siano vincolanti e facilmente monitorabili. Questo al fine di avviare un nuovo processo che sia drastico, intenso e possa contare sull’impegno di tutti. Ciò non è accaduto nel cammino percorso finora, ma solo con un tale processo si potrebbe ripristinare la credibilità della politica internazionale, perché solo in questo modo concreto sarà possibile ridurre notevolmente l’anidride carbonica ed evitare in tempo i mali peggiori. (…) Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna. Ai potenti oso ripetere questa domanda: «Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?». [15] (…) Sappiamo che, di questo passo, in pochi anni supereremo il limite massimo auspicabile di 1,5 gradi centigradi e a breve potremmo arrivare a 3 gradi, con un alto rischio di raggiungere un punto critico. Anche se questo punto di non ritorno non venisse raggiunto, gli effetti sarebbero disastrosi e bisognerebbe prendere misure in maniera precipitosa, con costi enormi e con conseguenze economiche e sociali estremamente gravi e intollerabili. Se le misure che adotteremo ora hanno dei costi, essi saranno tanto più pesanti quanto più aspetteremo.

Il paradigma tecnocratico
Papa Francesco non manca l’occasione di rammentare, come già affermato nella Laudato si’, che alla base della degradazione dell’ambiente, vi è quello che lui chiama il paradigma tecnocratico [15] , «un modo di comprendere la vita e l’azione umana che è deviato e che contraddice la realtà fino al punto di rovinarla; come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (LD 20; LS 101-106).

Ricorda che «un ambiente sano è anche il prodotto dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, come avviene nelle culture indigene e come è avvenuto per secoli in diverse regioni della Terra. I gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente, rimodellandolo in qualche modo senza distruggerlo o metterlo in pericolo. Il grande problema di oggi è che il paradigma tecnocratico ha distrutto questo rapporto sano e armonioso» (LD 28). E’ dunque un imperativo fermare il degrado del nostro ecosistema, invertire la rotta e promuovere azioni concrete, forti e senza perdere tempo prezioso, per mitigare il più possibile il cambiamento climatico e, nello stesso tempo, per adattarci alle condizioni climatiche che si vanno determinando. Al riguardo sono importanti sia gli accordi tra i governi delle nazioni in un’ottica di un nuovo multilateralismo che nasce dal basso, sia la condotta individuale e collettiva delle persone, adottando stili di vita sostenibili con l’ambiente e solidali con la gran parte dell’umanità che soffre drammaticamente le violenze esercitate dall’uomo sulla terra. (LD 37-38). Giova rammentare che il Papa a sostegno delle sue posizioni sul clima si appoggia alla stragrande maggioranza degli studiosi in materia [16] e non ha alcuna timidezza nel condannare i negazionismi e a richiamare alla ragione quanti se ne fanno portatori, anche all’interno della Chiesa cattolica (LD 14). Certo è che non bisogna illudersi che l’attuale economia che egemonizza il mondo, basata sulla “logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie” possa avere la priorità del bene comune, della difesa della casa comune, della “promozione degli scartati della società” (LD 31). Occorre la ricerca e la pratica di una diversa economia che non sia disgiunta dall’etica e che pertanto metta al centro la persona e il suo benessere. Dice il Papa che “dobbiamo tutti ripensare alla questione del potere umano”, per difendere “la nostra stessa sopravvivenza”. E’ efficace al riguardo la citazione ironica di Solov’ëv: “Un secolo così progredito che perfino gli era toccato in sorte essere l’ultimo” (LD 28) [17]. Il Papa coglie l’occasione per richiamare la necessità di quello che chiama “il pungiglione etico”, richiamando il valore dell’impegno, della crescita delle capacità, del lodevole spirito di iniziativa, della ricerca e pratica della reale uguaglianza di opportunità, contro le “idee sbagliate sulla cosiddetta ‘meritocrazia’” (LD 29-33).

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Armato di queste convinzioni, come detto, Papa Francesco si recherà a Dubai nei gg. 1, 2 e 3 dicembre 2023 per implorare tutti i governanti del mondo affinché facciano qualcosa di molto preciso per salvare la Terra, la nostra casa comune. E’ una “chiamata a responsabilità” che si aggiunge ai numerosi altri appelli che il Papa fa quotidianamente per la Pace del mondo, sconvolto da innumerevoli guerre e conflitti, portatori di morte e distruzioni e anch’essi gravemente colpevoli dei disastri ambientali. Ci consola che Papa Francesco non sia solo tra i grandi leader religiosi. Non sappiamo quanti altri fisicamente parteciperanno alla Conferenza, ma è di buon auspicio il documento firmato da 28 leader religiosi il 6 novembre 2023 ad Abu Dhabi, con il quale i religiosi chiedono ai delegati mondiali un’azione decisiva per frenare il cambiamento climatico [18].

Aspettando Dubai, oltre Dubai

Altrimenti? Quanto potrà ancora accadere non è forse attendibilmente prevedibile, come continuamente afferma la stragrande maggioranza degli studiosi? Lo confermano una serie di simulazioni che sono oggi già in grado di farci vedere drammaticamente come sarà la Terra se non si interverrà con la massima urgenza, subito. Gli artisti con la loro capacità immaginifica sono in grado di farci vedere anticipatamente tutto quello che potrà accadere. Tra i tanti, il cantautore-poeta Francesco Guccini ce lo mostra in una sua bellissima e struggente canzone [19].

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Il vecchio e il bambino, di Francesco Guccini.

Un vecchio e un bambino si preser per mano
E andarono insieme incontro alla sera
La polvere rossa si alzava lontano
Il sole brillava di luce non vera
Immensa pianura sembrava arrivare
Fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare
E tutto di intorno, non c’era nessuno
Solo il tetro contorno di torri di fumo
I due camminavano e il giorno cadeva
Il vecchio parlava, e piano piangeva
Con l’anima assente, con gli occhi bagnati
Seguiva il ricordo di miti passati
I vecchi subiscon le ingiuria degli anni
Non sanno distinguere il vero dai sogni
I vecchi non sanno nel loro pensiero
Distinguer nei sogni il falso dal vero
Il vecchio diceva guardando lontano
“Immagina questo coperto di grano
Immagina i frutti, immagina i fiori
E pensa alle voci e pensa ai colori”
E in questa pianura, fin dove si perde
Crescevano gli alberi e tutto era verde
Cadeva la pioggia, segnavano i soli
Il ritmo dell’uomo e delle stagioni
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste
Gli occhi guardavano cose mai viste
E poi disse al vecchio con voce sognante
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre” [19]
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Note
(Segue)

SA NOVENA de PASCH’E NADALE in CASTEDDU

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img_5602A partire dal 16 dicembre, alle ore 18, la Confraternita di S. Efisio riproporrà nella chiesa dedicata al Santo, la Novena di Natale in Gregoriano, con una novità: la liturgia avverrà integralmente in lingua sarda.
img_5609Si tratta, allo stesso tempo, di un ritorno alla tradizione e di una prospettiva per il futuro. La Novena di Natale era particolarmente sentita nel quartiere di Stampace, introdotta dal solenne canto del Regem Venturum Dominum eseguito all’organo. A partire da quest’anno, l’organo accompagnerà i canti dei fedeli assieme alle launeddas, il più antico strumento musicale della Sardegna.
E’ una proiezione verso il futuro, perché, con la celebrazione della novena in lingua sarda, si vuol favorire il compimento delle novità del Concilio Vaticano II che, guardando ai segni dei tempi, ha aperto la liturgia all’uso delle lingue nazionali. La Sardegna vive proprio l’attesa – l’avvento – del riconoscimento della sua lingua anche per la celebrazione della Santa Messa. Il rapido diffondersi, in diverse località dell’Isola, della celebrazione della Novena di Natale in lingua sarda – avvenuta proprio a Cagliari nel 2008 nella Chiesa del Santo Sepolcro – spinge in tale direzione.
Nella chiesa di Sant’Efiso, assieme alla Novena, sarà inoltre possibile visitare anche lo storico presepio della Gioc, che la Confraternita di S. Efisio, negli ultimi anni, ha recuperato e riproposto.

Ogni ulteriore informazione sarà fornita il 16 dicembre, a partire dalle ore 17,30, prima dell’inizio della Novena.

Il presidente Andrea Loi

Si allega una breve introduzione all’iniziativa.
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PRESENTAZIONE

Quando si arrivava alla metà del mese di dicembre, la sera – nelle vie del quartiere – cominciava ad essere accompagnata dalle esplosioni di una miscela di zolfo e clorato di potassio, innescata dalle scintille prodotta dallo sfregamento di una piccola pietra levigata che, molti di noi, in quelle settimane, custodivano nella tasca di calzoni corti attillati.
La pietra veniva poggiata sul mucchietto di polvere esplosiva; poi un colpo secco con il tallone, a strisciare, provocava lo scoppio. Quegli scoppi annunciavano che era giunto il tempo delle lunghe feste di fine anno e avrebbero fatto compagnia alle nostre serate sino ai botti trionfali con i quali si salutava l’anno nuovo.
E poi c’era la Novena, in Chiesa, solennemente introdotta dal “Regem venturum Dominum”, accompagnato dall’organo in tonalità maggiore, e l’odore intenso di incenso che ci penetrava nell’anima.
I canti gregoriani si susseguivano, l’uno dopo l’altro, con l’inno “En clara vox”, gregoriano di tempi uguali che la maggior parte di noi trasformava in marcetta: e il “Tantum ergo”
Cosa volessero dire quelle parole, naturalmente, lo sapevano solo i preti e pochi laici eruditi; ché le nostre madri, e le nostre nonne, per poter rispondere all’invocazione del celebrante, erano state costrette ad elaborare un versario, in puro vernacolo dialettale, ricco di assonanze con quella lingua sconosciuta. Così, “procedenti ab utroque”, diventava facilmente “proceddeddus a ogus trottus”. Il celebrante, di solito, non percepiva la storpiatura del testo latino, ma anche nel caso se ne avvedesse, preferiva tacere. Al Padre eterno, poi, che aveva ben altre rogne a cui badare, al più scappava un sorrisetto.
Così, tra botti, canti, luminarie, e le immancabili bancarelle, la festa prendeva vigore. L’intero quartiere di Stampace vi partecipava.
Il fatto di esordire con un richiamo all’ambiente di una Novena di Natale – che siamo in pochi, oramai, ad aver vissuto in prima persona – potrebbe suggerire l’idea che il lavoro che presentiamo sia espressione della vena nostalgica che spesso accompagna l’età avanzata. Niente di più errato.
Rispettiamo ogni nostalgia, ovviamente, a patto che non riveli incapacità di vivere il presente, ma l’intendimento di questo lavoro, che ricostruisce e traduce in lingua sarda le liturgie e i canti che hanno accompagnato l’età della nostra fanciullezza, è ben altro.
La stagione di una liturgia, spesso solenne e pomposa, per di più celebrata in una lingua incomprensibile ai più, è terminata. Anzi, a dirla tutta, è durata anche troppo.
Il Concilio Vaticano II, oltre mezzo secolo fa, ha invitato la Chiesa a saper leggere i segni dei tempi, ci ha ricordato che i laici non sono “fedeli” ma parte integrante e indispensabile delle Chiese; ci ha ricordato l’importanza della comunità ecclesiale …
E poi, finalmente, ha posto fine al tabù della lingua latina per la celebrazione, aprendo all’uso del volgare, che ha consentito una più intensa partecipazione del popolo. Grazie a quel segno di uguaglianza il celebrante ha anche smesso di dare le spalle ai “fedeli”, ha incominciato a rivolgersi ad essi “faccia a faccia” durante le celebrazioni. Tante Comunità hanno potuto tornare a nuova vita, e prosperare.
Tuttavia, il declino del latino ha lasciato il posto a volgari nobili, quelli “legittimamente approvati” e quelli che invece, come la lingua sarda, ancora attendono una “autorizzazione” che, per la verità, è stata avanzata soltanto nel 2023, nonostante le insistenti richieste di laici e sacerdoti sardi che risalgono almeno dall’ultimo decennio del secolo scorso.
Più recentemente, l’allora Arcivescovo di Cagliari mons. Arrigo Miglio ha incoraggiato con convinzione l’avvio di un percorso finalizzato al riconoscimento della piena dignità della lingua sarda nella vita della chiesa locale. Un riconoscimento che, ha affermato, “non solo è un percorso che si può compiere, ma assolutamente utile dal punto di vista pastorale e culturale”.
Ci troviamo, in questo, in perfetta sintonia con l’ammonimento di Papa Francesco che, più volte, in occasione del rito del battesimo nella Cappella Sistina, nel gennaio del 2018, ha ribadito con forza che “la trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, nella lingua intima delle coppie, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. Di Papa Francesco che ha ricordato che Gesù parlava in aramaico, perché era naturale che un bambino cresciuto in una modesta famiglia della Galilea parlasse la lingua del popolo, e che nella sua lingua materna, quella appresa da Giuseppe e da Maria abbia spezzato il pane e versato il vino.
Vorremo, in definitiva, contribuire, al compiersi del programma del Concilio Vaticano II, sostenere gli sforzi di quanti, negli ultimi anni, si sono adoperati in questa direzione, contribuire al movimento che reclama un pieno riconoscimento della lingua sarda in ambito liturgico e per questo la Confraternita di Sant’Efisio ripropone la liturgia della novena in lingua sarda.

Alcuni cenni storici della Novena gregoriana.
La novena in gregoriano è stata eseguita, per la prima volta, a Torino, nella chiesa dell’Immacolata, affidata ai preti della Missione, nel Natale del 1720.
Su sollecitazione della Marchesa Gabriella Marolles delle Lanze, il padre Antonio Vacchetta compose una nuova Novena cantata, contenente testi delle Profezie e dei Salmi.
Dopo la prima celebrazione del 1720, la Marchesa, apprezzando la composizione, dispose un lascito di cinquemila lire per consentire che la Novena si continuasse a celebrare ogni anno.
I missionari e i preti che frequentavano la Casa della Missione, hanno poi diffuso questa Novena nelle Diocesi del Piemonte, della Lombardia e della Liguria e, successivamente, si è estesa ad altre regioni dell’Italia e del Mondo.

L’origine della Novena di Natale in lingua sarda.
La Novena in lingua sarda, ispirata al modello gregoriano, è stata celebrata per la prima volta a Cagliari, nel 2008, nella chiesa del Santo Sepolcro per iniziativa di Don Mario Cugusi, allora parroco della parrocchia di S. Eulalia, con la partecipazione del gruppo di laici che frequentava la parrocchia e con il sostegno della Fondazione Sardinia e del suo direttore Salvatore Cubeddu.
Il Concilio plenario sardo, promulgato il 1° luglio del 2001, ha rappresentato un significativo momento di svolta della Chiesa Sarda per quanto riguarda l’utilizzazione della lingua sarda nella liturgia. Mentre il Concilio Plenario del 1924, “inibiva l’uso della lingua sarda e la guardava con diffidenza”. Il Concilio del 2001, invertendo radicalmente tale orientamento, definisce la lingua sarda “un singolare strumento comunicativo della fede” e ne auspica la valorizzazione nella liturgia.
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http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?s=Sa+novena+de++nadale
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Ma si può sperare ancora?

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La pelle dura della speranza
L’Editoriale di Mariano Borgognoni*

Ma si può sperare ancora? Se lo chiedono in un piccolo Monastero umbro, avviandosi a vivere il tempo di Avvento e di Natale. Che cosa possiamo sperare? Si domandava Immanuel Kant a ridosso del secolo lungo, quello della scienza e del progresso. Ma il filosofo dell’Illuminismo che vedeva bene anche i limiti del lume, si poneva questa domanda in riferimento all’amara constatazione che in questa terra chi compie il bene è spesso sconfitto, deriso, umiliato. E a giusta ragione ci è quindi lecito sperare nell’esistenza di Dio che, alla fine, rimetta insieme rettitudine e felicità.

È stato un anno difficile in cui si è venuta accrescendo una rinnovata logica di potenza. L’idea che solo la forza possa regolare la vita collettiva e quella individuale. La guerra e il grande rilancio delle spese militari (fonte diretta e indiretta di morte e di povertà); la disattenzione o anche il negazionismo sulle sempre più evidenti ferite all’ecosistema e l’irresponsabilità verso i diritti delle generazioni future; l’insopportabile bollettino dei femminicidi da parte di chi non riesce a tollerare la libertà delle donne. Tutto questo ci parla del tentativo di un ritorno a una logica di dominio pericolosa e miope e ci ricorda che umani non si nasce ma si diventa e che sempre incombe il rischio di un ritorno all’homo homini lupus.

O a un suo superamento che cerchi la sicurezza nella negazione o nella riduzione della libertà, affidandosi a uomini o sistemi provvidenziali. Questo è il brodo di coltura di tutti i populismi senza popolo, i sovranismi senza sovranità, i maschilismi senza dignità.

Noi di Rocca speriamo di aver dato su questi argomenti tante chiavi di lettura e di riflessione critica. Questo è comunque sempre il nostro obiettivo e la nostra passione. Anche nel Natale di quest’anno, dentro lo sferragliare di armi vecchie e nuove, noi cristiani, ormai «piccolo resto», ricordiamo la venuta del Signore, il disarmato per eccellenza, il bambino che si affida alle nostre mani, l’uomo che si lascia inchiodare per essere per sempre vicino ai sofferenti. Il testimone di un amore più forte della morte. Su questo Messia sconfitto si fonda la speranza di quei monaci e di ogni cristiano. Un capovolgimento della «logica del mondo» tanto da essere presente nel malato, nel carcerato, nel povero, nelle vite spezzate, solo servendo le quali lo si incontra anche non riconoscendolo (Mt 25,31-46). Partire dall’autorità di coloro che soffrono per costruire percorsi di giustizia e attendere il ritorno del Signore, mettendo la speranza nella sua promessa. Una tenue, tenace e necessaria lanterna, per alludere alla splendida poesia che ci ha donato don Angelo Casati e che è il nostro augurio per le lettrici e i lettori di Rocca.

In un lontano editoriale parlammo dell’ultima rivoluzione. Si alludeva a quella gigantesca, molecolare, nonviolenta (in questo radicalmente diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta) rivoluzione costituita dall’emancipazione e dalla libertà femminile.

Il crudele assassinio di Giulia ci ha ridetto due cose: la resistenza ormai disperata ma ancora letale del maschilismo, in alcuni casi il suo rinculo belluino, ma anche l’inarrestabilità di un processo di liberazione che può aiutare tutti a diventare più umani, a far emergere il lato femminile del mondo come una ricchezza universale. E questo chiama alla responsabilità ognuno. Tutti veniamo, abbiamo vissuto e viviamo nell’ombra lunga di un millenario paradigma patriarcale che peraltro, in molte parti del mondo, è ancora esplicito e legittimato.

Anche all’orecchio della Chiesa dovrebbe arrivare il suono di un campanello: anche de te fabula narratur. Certo Maria la madre, Maria l’amica del Signore, le forti figure di comunità che compaiono negli Atti e poi scompaiono, Chiara, le tre grandi Teresa, Caterina, Angela, Magdaline e tante, tante altre hanno trovato nella Chiesa uno spazio di libertà, hanno alzato la voce, opportune et importune. Ma come rimuovere una lunga storia di marginalità, di esaltazione del femminile subalterno e appendicolare. Resta più che mai aperta, davvero sinodale, anzi sinodante, l’esigenza di dare una spallata all’impalcatura patriarcale del clericalismo e aprire nei ministeri, nei servizi (poteri!), nella teologia, nella rilettura biblica con altri occhi, ad una primavera femminile che rompa la separatezza dei cosiddetti principi petrino e mariano e li metta in una feconda relazione. Non sarebbe solo un servizio alla Chiesa ma un formidabile segno di portata catholica.
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* Su Rocca n.24 dicembre 2023 online
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Ad Assisi
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Cattolici in Politica

ccf95694-9b45-424f-8e27-a4c7fe9e7815Pubblichiamo il testo dell’intervento di Paolo Matta al Convegno promosso da Demos e altre formazioni politiche di ispirazione cristiana, il 6 dicembre 2023 a La Collina, Serdiana. Presente la candidata della coalizione di centro-sinistra a presidente della Sardegna, Alessandra Todde
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di Paolo Matta
A tutti noi, in presenza o attraverso il mezzo televisivo, sarà capitato di sicuro di assistere a un concerto.
E di certo, al termine dell’esecuzione, fissare la nostra attenzione al direttore, specie se di fama, al primo violino o al solista, fosse l’oboe o un flauto.
A me, per un’inclinazione naturale, ha sempre suscitato curiosità e simpatia, l’intervento (magari per il tempo di una sola battuta) di strumenti forse anche insignificanti per l’armonia complessiva del brano (penso al minuscolo triangolo) ma che, invece, mantengono intatta tutta la loro dignità e importanza.
Nulla di più vuole essere questo mio intervento nello spartito dell’incontro di oggi: una piccola battuta, spero non stonata o fuori tempo.
***
A sessant’anni dal Concilio Vaticano II, moderno spartiacque della teologia e della pastorale ancora, in gran parte, inattuato forse perché mal digerito e non ancora metabolizzato, ci ritroviamo ancora a parlare (e confrontarci) di cattolici e politica, di pensiero e valori cristiani e di azione nella polis. 
Parliamo, proprio alla luce del Vaticano II, di un qualcosa – la politica, appunto – definita dal Magistero pontificio (una di quelle definizioni raramente citate e ricordate) «la forma più alta di carità», sola cifra e metro di giudizio – personale e universale – una volta uscite, dalla scena di questo mondo, la fede e la speranza.
Per un credente, allora, quella alla vita politica resta “vocazione alta” assimilabile in toto a quella al sacerdozio o al matrimonio, alla vita claustrale, alla consacrazione verginale.
Un profeta dei giorni nostri, scomodo e ingombrante come tutti i profeti, don Tonino Bello, (scomparso neanche sessantenne nel 1993, consumato da una devastante forma tumorale) ebbe a scrivere: «Se uno mi chiedesse a bruciapelo di dargli una definizione di politico, non avrei esitazioni e direi: “un operatore di pace”».
Pace intesa come shalòm, non semplice assenza di conflitti, personali o tribali, ma sommatoria e sintesi di giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza, ma soprattutto solidarietà, l’unico imperativo morale che noi credenti chiamiamo anche comunione. Pace come frutto dell’etica del volto, il vivere radicalmente il faccia a faccia con l’altro.
Pace come saper deporre l’io dalla sovranità per far posto all’altro, una deposizione che – più che fatto politico – è prima ancora un fatto di giustizia e alta moralità.
***
Se la vocazione è quella di essere operatori di pace, una delle condizioni è quella della protesta, della sana indignazione, è quella della contestazione permanente dell’ideologia, se non se ne vuole fare un idolo, il bisogno di usare del partito ma sapendo andare oltre le indicazioni e le logiche del partito, quando corre il rischio di diventare anch’esso un idolo. Quelle che, sempre il vescovo prossimo beato Tonino Bello chiamava le “sporgenze dell’utopia”.
Un’altra condizione è quella della contempl-attività, scusando il bisticcio dei termini.
Contemplativi in azione.
Donne e uomini che non si lasciano distruggere la vita dalla dimensione faccendiera, non si sperperino nella dissolvenza delle manovre di contenimento o di conquista.
***
Viviamo, ne siamo tutti consapevoli, tempi di aridità e di stanchezza.
Prendo lo spunto da alcuni versi di Pierpaolo Pasolini.

«Vi siete assuefatti voi,
servi della giustizia, leve della speranza
al voluto tacere, al calcolato parlare,
al denigrare senza odio,
all’assaltare senza amore,
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia dell’amore.
Avete, accecati dal fare, servito il popolo
non nel suo cuore ma nella sua bandiera.
Dimentichi che deve, in ogni istituzione, sanguinare perché non torni mito,
e continuo il dolore della creazione»
.

Mai come oggi occorre riandare, con coraggio e radicalità,
alle fonti della vocazione politica, quella evangelica del sale e del lievito. Entrambi, sale e lievito, ben poca cosa, tutti prodotti che si trovano a buon mercato, a straccu barattu senza i quali, però, i cibi non avrebbero sapore, la pasta sarebbe inutilizzabile.
Un tempo ambita e protetta “riserva di caccia” (quando tutti andavano alla ricerca del voto cattolico, da destra e da sinistra) oggi viviamo invece l’epoca
del senza:
una scuola senza studenti,
una sanità senza medici,
una politica senza cittadini,
che rinunciano persino al diritto di voto. 
E possiamo tranquillamente aggiungere anche:
una chiesa senza cristiani,
una famiglia senza figli.

***
Non sembri facile e accidioso catastrofismo: è, al contrario, il quadro di riferimento del documento preparatorio della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema – altamente significativo e quanto mai pertinente – “Al cuore della democrazia” in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024, proprio a un mese esatto dall’appuntamento elettorale europeo del 6-9 giugno, decisivo per confermare o meno lo spostamento a destra dell’asse politico continentale.
Sarà, ancora una volta, dopo Cagliari e Taranto (per citare le ultime due edizioni), un grande laboratorio di partecipazione reale che, seppure parta da questi chiari segnali di riflusso al privato, da «una stanchezza che non lascia spazio alla vita comunitaria», da una «rinuncia alla fatica delle relazioni» chiede, pur tuttavia e con forza, «occhi nuovi» per scorgere la novità delle nuove forme di aggregazione e per leggere nel cuore della democrazia.
***
Scriveva Giorgio La Pira: «L’alba del terzo millennio sarà, così come fu l’alba del secondo, il tempo dei mistici e degli artisti».
“L’immaginazione al potere”, scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti del ’68. Qualche anno dopo, Paolo VI, oggi santo della Chiesa cattolica, nell’enciclica Octogesima Adveniens affermava: «In nessun’altra epoca l’appello all’immaginazione sociale è così esplicito come nella nostra. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche».

Mi piacerebbe concludere, allora, questa mia testimonianza con due brevissimi riferimenti ad altrettanti macro-temi che, mi pare in posizione mediaticamente marginale, stanno caratterizzando questa stagione pre-elettorale.
Insularità e difesa del creato, temi che si prestano a letture e approfondimenti non solo sociologici e politici ma anche in chiave cristiana.
***
Ho seguito, devo ammettere, con tiepido entusiasmo, via via sempre più raffreddatosi, la battaglia per l’inserimento della insularità in Costituzione.
Perché, alla fine, mi è parsa, sempre di più, manovra elitaria, bandiera di pochi (al di là di una farisaica, comoda convergenza dalle larghe intese) dalle scarse o, ancora oggi, nulle ricadute istituzionali e, men che meno, sociali ed economiche.
La Sardegna, terra nobile e antica, può configurarsi oggi – nel cuore del Mediterraneo –come un’autentica “Galilea delle genti”, crocevia di lingue, culture, commerci e scambi proprio come lo era, al tempo di Gesù, la regione fra Cesarea e il lago di Genezareth.
L’insularità può diventare allora – più che leva per sempre più stanche rivendicazioni – un autentico valore aggiunto, sale e lievito evangelici di cui si parlava, nella misura in cui sapremo declinare la disponibilità di territorio e di risorse con un’oculata accoglienza, che sappia mettere insieme emergenze e criticità con il sapere, le nuove economie e le nuove frontiere dell’intelligenza.
Ruolo fondamentale può giocarlo l’Università e tutto il sistema accademico per affermarsi come Ateneo autenticamente mediterraneo, (pensate, un auspicio contenute nelle dichiarazioni programmatiche del sindaco De Magistris risalenti appena al 1985, giusto 40 anni fa), faro sodale e solidale per tutte le terre che si affacciano sul mare nostrum per affrancarlo definitivamente, si spera, da un destino di maresanto, di liquido sarcofago per decine di migliaia di disperati e sfollati.
Questa, mi sembra, possa essere una vera battaglia di valorizzazione della nostra insularità e, forse, una delle chiavi per superare l’attuale spopolamento.
***
Altro tema che vede la Chiesa tutta, comunità in cammino dietro il suo pastore, è quello della difesa del creato, contenuta nella trilogia di Papa Francesco, “Laudato Sì’”, “Fratelli tutti” e, ultima, in ordine di tempo, “Laudate Deum”.
Parliamo di una sfida che non è solo dei credenti, ma di tutti gli uomini “di buona volontà”, sfida lanciata all’umanità intera, oramai da otto anni, da un uomo, Papa Francesco, icona vivente di cosa sia la politica per e dei cristiani.
Con buona pace di chi, presbiteri o laici, continua a essere più preoccupato delle forme e del culto, rinchiusi come sono nella loro torre d’avorio di devozioni e consuetudini in cui pensano, sperano, si illudono di circoscrivere la fede nel Risorto.
C’è una limpida correlazione tra san Francesco e Papa Francesco. Ai tempi del poverello d’Assisi la Chiesa era smarrita, diabolicamente invaghita della ricchezza e del potere.
Francesco e Chiara emersero come figure capaci di riportare tutti all’essenza del messaggio cristiano: compassione e comunione con l’uomo e con il creato.
Anche Papa Francesco ha sentito la chiamata a riparare la sua casa. Che, se per Francesco era la chiesetta di San Damiano, per Papa Francesco è una casa decisamente più grande, il globo intero.
E se c’è chi, come il segretario generale dell’ONU António Guterres, parla di “ebollizione globale” e non più di “riscaldamento globale”, anche la Laudate Deum riconosce che «forse, ci stiamo avvicinando a un punto di rottura, di non-ritorno».
Fa persino tenerezza questo papa nonno, la sua caparbietà a non arrendersi, che osa rompere gli schemi e venire in soccorso alla politica che non ha il coraggio di raccontare tutta la storia. Che continua a esortare: riproviamoci, aprite gli occhi!, non c’è più tempo, convertiamoci.
Perché il nostro futuro, il nostro solo futuro, è una questione di conversione, laica o religiosa poco importa, e non di pannelli solari.
Una conversione in cui fede e intelligenza (ma, forse, basterebbe anche il più basilare buon senso) finalmente si incontrano.

Grazie per la vostra pazienza.
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E’ online Rocca n. 24/2023
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Dubai Cop28. Papa Francesco: “ lasciamo alle spalle le divisioni e uniamo le forze! E, con l’aiuto di Dio, usciamo dalla notte delle guerre e delle devastazioni ambientali per trasformare l’avvenire comune in un’alba di luce”.

img_5448Pubblichiamo di seguito il discorso del Santo Padre preparato in occasione della Conferenza degli Stati parte alla Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (COP28), che ha luogo dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 presso Expo City, a Dubai, e di cui è stata data lettura dal Cardinale Segretario di Stato, Pietro Parolin:
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Signor Presidente,

Signor Segretario Generale delle Nazioni Unite,

illustri Capi di Stato e di Governo,

Signore e Signori!

Purtroppo non posso essere insieme a voi, come avrei desiderato, ma sono con voi perché l’ora è urgente. Sono con voi perché, ora come mai, il futuro di tutti dipende dal presente che scegliamo. Sono con voi perché la devastazione del creato è un’offesa a Dio, un peccato non solo personale ma strutturale che si riversa sull’essere umano, soprattutto sui più deboli, un grave pericolo che incombe su ciascuno e che rischia di scatenare un conflitto tra le generazioni. Sono con voi perché il cambiamento climatico è «un problema sociale globale che è intimamente legato alla dignità della vita umana» (Esort. ap. Laudate Deum, 3). Sono con voi per porre la domanda a cui siamo chiamati a rispondere ora: lavoriamo per una cultura della vita o della morte? Vi chiedo, in modo accorato: scegliamo la vita, scegliamo il futuro! Ascoltiamo il gemere della terra, prestiamo ascolto al grido dei poveri, tendiamo l’orecchio alle speranze dei giovani e ai sogni dei bambini! Abbiamo una grande responsabilità: garantire che il loro futuro non sia negato.

È acclarato che i cambiamenti climatici in atto derivano dal surriscaldamento del pianeta, causato principalmente dall’aumento dei gas serra nell’atmosfera, provocato a sua volta dall’attività umana, che negli ultimi decenni è diventata insostenibile per l’ecosistema. L’ambizione di produrre e possedere si è trasformata in ossessione ed è sfociata in un’avidità senza limiti, che ha fatto dell’ambiente l’oggetto di uno sfruttamento sfrenato. Il clima impazzito suona come un avvertimento a fermare tale delirio di onnipotenza. Torniamo a riconoscere con umiltà e coraggio il nostro limite quale unica via per vivere in pienezza.

Che cosa ostacola questo percorso? Le divisioni che ci sono tra noi. Ma un mondo tutto connesso, come quello odierno, non può essere scollegato in chi lo governa, con i negoziati internazionali che «non possono avanzare in maniera significativa a causa delle posizioni dei Paesi che privilegiano i propri interessi nazionali rispetto al bene comune globale» (Lett. enc. Laudato sì’, 169). Assistiamo a posizioni rigide se non inflessibili, che tendono a tutelare i ricavi propri e delle proprie aziende, talvolta giustificandosi in base a quanto fatto da altri in passato, con periodici rimpalli di responsabilità. Ma il compito a cui siamo chiamati oggi non è nei confronti di ieri, ma nei riguardi di domani; di un domani che, volenti o nolenti, o sarà di tutti o non sarà.

Colpiscono, in particolare, i tentativi di scaricare le responsabilità sui tanti poveri e sul numero delle nascite. Sono tabù da sfatare con fermezza. Non è colpa dei poveri, perché la quasi metà del mondo, più indigente, è responsabile di appena il 10% delle emissioni inquinanti, mentre il divario tra i pochi agiati e i molti disagiati non è mai stato così abissale. Questi sono in realtà le vittime di quanto accade: pensiamo alle popolazioni indigene, alla deforestazione, al dramma della fame, dell’insicurezza idrica e alimentare, ai flussi migratori indotti. E le nascite non sono un problema, ma una risorsa: non sono contro la vita, ma per la vita, mentre certi modelli ideologici e utilitaristi che vengono imposti con guanti di velluto a famiglie e popolazioni rappresentano vere e proprie colonizzazioni. Non venga penalizzato lo sviluppo di tanti Paesi, già gravati di onerosi debiti economici; si consideri piuttosto l’incidenza di poche nazioni, responsabili di un preoccupante debito ecologico nei confronti di tante altre (cfr ivi, 51-52). Sarebbe giusto individuare modalità adeguate per rimettere i debiti finanziari che pesano su diversi popoli anche alla luce del debito ecologico nei loro riguardi.

Signore e Signori, mi permetto di rivolgermi a voi, in nome della casa comune che abitiamo, come a fratelli e sorelle, per porci l’interrogativo: qual è la via d’uscita? Quella che state percorrendo in questi giorni: la via dell’insieme, il multilateralismo. Infatti, «il mondo sta diventando così multipolare e allo stesso tempo così complesso che è necessario un quadro diverso per una cooperazione efficace. Non basta pensare agli equilibri di potere […]. Si tratta di stabilire regole universali ed efficienti» (Laudate Deum, 42). È preoccupante in tal senso che il riscaldamento del pianeta si accompagni a un generale raffreddamento del multilateralismo, a una crescente sfiducia nella Comunità internazionale, a una perdita della «comune coscienza di essere […] una famiglia di nazioni» (S. Giovanni Paolo II, Discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del 50° di fondazione, New York, 5 ottobre 1995, 14). È essenziale ricostruire la fiducia, fondamento del multilateralismo.

Ciò vale per la cura del creato così come per la pace: sono le tematiche più urgenti e sono collegate. Quante energie sta disperdendo l’umanità nelle tante guerre in corso, come in Israele e in Palestina, in Ucraina e in molte regioni del mondo: conflitti che non risolveranno i problemi, ma li aumenteranno! Quante risorse sprecate negli armamenti, che distruggono vite e rovinano la casa comune! Rilancio una proposta: «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame» (Lett. enc. Fratelli tutti, 262; cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 51) e realizzare attività che promuovano lo sviluppo sostenibile dei Paesi più poveri, contrastando il cambiamento climatico.

È compito di questa generazione prestare orecchio ai popoli, ai giovani e ai bambini per porre le fondamenta di un nuovo multilateralismo. Perché non iniziare proprio dalla casa comune? I cambiamenti climatici segnalano la necessità di un cambiamento politico. Usciamo dalle strettoie dei particolarismi e dei nazionalismi, sono schemi del passato. Abbracciamo una visione alternativa, comune: essa permetterà una conversione ecologica, perché «non ci sono cambiamenti duraturi senza cambiamenti culturali» (Laudate Deum, 70). Assicuro in questo l’impegno e il sostegno della Chiesa cattolica, attiva in particolare nell’educazione e nel sensibilizzare alla partecipazione comune, così come nella promozione degli stili di vita, perché la responsabilità è di tutti e quella di ciascuno è fondamentale.

Sorelle e fratelli, è essenziale un cambio di passo che non sia una parziale modifica della rotta, ma un modo nuovo di procedere insieme. Se nella strada della lotta al cambiamento climatico, che si è aperta a Rio de Janeiro nel 1992, l’Accordo di Parigi ha segnato «un nuovo inizio» (ivi, 47), bisogna ora rilanciare il cammino. Occorre dare un segno di speranza concreto. Questa COP sia un punto di svolta: manifesti una volontà politica chiara e tangibile, che porti a una decisa accelerazione della transizione ecologica, attraverso forme che abbiano tre caratteristiche: siano «efficienti, vincolanti e facilmente monitorabili» (ivi, 59). E trovino realizzazione in quattro campi: l’efficienza energetica; le fonti rinnovabili; l’eliminazione dei combustibili fossili; l’educazione a stili di vita meno dipendenti da questi ultimi.

Per favore: andiamo avanti, non torniamo indietro. È noto che vari accordi e impegni assunti «hanno avuto un basso livello di attuazione perché non si sono stabiliti adeguati meccanismi di controllo, di verifica periodica e di sanzione delle inadempienze» (Laudato si’, 167). Qui si tratta di non rimandare più, di attuare, non solo di auspicare, il bene dei vostri figli, dei vostri cittadini, dei vostri Paesi, del nostro mondo. Siate voi gli artefici di una politica che dia risposte concrete e coese, dimostrando la nobiltà del ruolo che ricoprite, la dignità del servizio che svolgete. Perché a questo serve il potere, a servire. E a nulla giova conservare oggi un’autorità che domani sarà ricordata per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario (cfr ivi, 57). La storia ve ne sarà riconoscente. E anche le società nelle quali vivete, al cui interno vi è una nefasta divisione in “tifoserie”: tra catastrofisti e indifferenti, tra ambientalisti radicali e negazionisti climatici… È inutile entrare negli schieramenti; in questo caso, come nella causa della pace, ciò non porta ad alcun rimedio. È la buona politica il rimedio: se un esempio di concretezza e coesione verrà dal vertice, ne beneficerà la base, laddove tantissimi, specialmente giovani, già s’impegnano a promuovere la cura della casa comune.

Il 2024 segni la svolta. Vorrei che fosse d’auspicio un episodio avvenuto nel 1224. In quell’anno Francesco di Assisi compose il Cantico delle creature. Lo fece dopo una nottata trascorsa in preda al dolore fisico, ormai completamente cieco. Dopo quella notte di lotta, risollevato nell’animo da un’esperienza spirituale, volle lodare l’Altissimo per quelle creature che più non vedeva, ma che sentiva fratelli e sorelle, perché discendenti dallo stesso Padre e condivise con gli altri uomini e donne. Un ispirato senso di fraternità lo portò così a trasformare il dolore in lode e la fatica in impegno. Poco dopo aggiunse una strofa nella quale lodava Dio per coloro che perdonano, e lo fece per dirimere – con successo! – una scandalosa lite tra il Podestà del luogo e il Vescovo. Anch’io, che porto il nome di Francesco, con il tono accorato di una preghiera vorrei dirvi: lasciamo alle spalle le divisioni e uniamo le forze! E, con l’aiuto di Dio, usciamo dalla notte delle guerre e delle devastazioni ambientali per trasformare l’avvenire comune in un’alba di luce. Grazie.

[01842-IT.01] [Testo originale: Spagnolo]
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Testo in lingua originale

Señor Presidente,

señor Secretario General de las Naciones Unidas,

ilustres Jefes de Estado y de Gobierno,

señoras y señores:

Lamento no poder estar reunido personalmente con ustedes, como hubiera querido, pero me hago presente porque la hora es apremiante. Me hago presente porque, ahora más que nunca, el futuro de todos depende del hoy que escojamos. Me hago presente porque la devastación de la creación es una ofensa a Dios, un pecado no sólo personal sino estructural que repercute en el ser humano, sobre todo en los más débiles; un grave peligro que pende sobre cada uno y que amenaza con desencadenar un conflicto entre generaciones. Me hago presente porque el cambio climático es «un problema social global que está íntimamente relacionado con la dignidad de la vida humana» (Exhort. ap. Laudate Deum, 3). Me hago presente para formular una pregunta a la que estamos llamados a responder ahora: ¿trabajamos por una cultura de la vida o de la muerte? Les pido de corazón: ¡escojamos la vida, elijamos el futuro! ¡Escuchemos el gemido de la tierra, oigamos el clamor de los pobres, demos oídos a las esperanzas de los jóvenes y a los sueños de los niños! Tenemos una gran responsabilidad: velar porque no se les niegue el futuro.

Está demostrado que los cambios climáticos actuales derivan del calentamiento del planeta, causado principalmente por el aumento de gases de efecto invernadero en la atmósfera, provocado, a su vez, por la actividad humana, que en los últimos decenios se ha vuelto insostenible para el ecosistema. La ambición por producir y poseer se ha convertido en una obsesión, y ha desembocado en una avidez sin límites, que ha hecho del ambiente objeto de una explotación desenfrenada. El clima trastornado es una advertencia para que detengamos semejante delirio de omnipotencia. El único camino para poder vivir en plenitud es que volvamos a tomar conciencia, con humildad y valentía, de nuestro límite.

¿Qué obstaculiza este itinerario? Las divisiones que existen entre nosotros. Pero un mundo interconectado, como el actual, no puede estar desvinculado en quienes lo gobiernan, mientras las negociaciones internacionales «no pueden avanzar significativamente por las posiciones de los países que privilegian sus intereses nacionales sobre el bien común global» (Carta enc. Laudato si’, 169). Nos hallamos frente a posturas rígidas, cuando no inflexibles, que tienden a proteger los ingresos propios y de sus empresas, justificándose a veces por lo que otros han hecho en el pasado, con reiteradas evasiones de responsabilidad. Pero la tarea a la que estamos llamados hoy no es hacia el ayer, sino hacia el mañana; un mañana que, nos guste o no, será de todos o no será.

Impresionan, en particular, los tentativos de atribuirle la responsabilidad a los pobres o al número de nacimientos. Son tabús que hay que objetar con decisión. No es culpa de los pobres, porque casi la mitad del mundo, la más pobre, es responsable de apenas el 10% de las emisiones contaminantes, mientras que la distancia entre los pocos acomodados y los muchos desfavorecidos nunca ha sido tan profunda. Ellos son, en realidad, las víctimas de lo que está sucediendo. Pensemos en las poblaciones indígenas, en la deforestación, en el drama del hambre, de la inseguridad hídrica y alimentaria, en los flujos migratorios provocados. Con respecto a los nacimientos, no son un problema, sino un recurso; no están en contra de la vida, sino a su favor, mientras que ciertos modelos ideológicos y utilitaristas que se les imponen a las familias y poblaciones, con guantes de seda, son verdaderas colonizaciones. Que no se perjudique el desarrollo de tantos países, ya sobrecargados de pesadas deudas económicas, sino más bien se considere la repercusión que tienen pocas naciones, que son responsables de una preocupante deuda ecológica respecto a otras (cf. ibíd., 51-52). Sería justo encontrar modos adecuados para condonar la deuda económica que grava sobre varios pueblos, teniendo en cuenta la deuda ecológica que hay en favor de ellos.

Señoras y señores, permítanme que, en nombre de la casa común donde vivimos, me dirija a ustedes, como a hermanos y hermanas, para preguntarles: ¿cuál es el camino para salir de esto? Es el que ustedes están recorriendo en estos días: un camino conjunto, el multilateralismo. En efecto, «el mundo se vuelve tan multipolar y a la vez tan complejo que se requiere un marco diferente de cooperación efectiva. No basta pensar en los equilibrios de poder […]. Se trata de establecer reglas globales y eficientes» (Laudate Deum, 42). En tal sentido, causa preocupación que el calentamiento del planeta esté acompañado por un enfriamiento del multilateralismo, por una creciente desconfianza en la Comunidad internacional, por una pérdida de la «conciencia común de ser […] una familia de naciones» (S. Juan Pablo II, Discurso a la quincuagésima Asamblea General de las Naciones Unidas, Nueva York, 5 octubre 1995, 14). Es esencial reconstruir la confianza, fundamento del multilateralismo.

Esto es válido para el cuidado de la creación y también para la paz. Son las temáticas más urgentes y están mutuamente relacionadas. ¡Cuántas energías está malgastando la humanidad en las numerosas guerras en curso, como en Israel y Palestina, en Ucrania y en muchas regiones del mundo; conflictos que no resolverán los problemas, sino que los aumentarán! ¡Cuántos recursos desperdiciados en armamento, que destruyen vidas y arruinan la casa común! Lanzo de nuevo una propuesta: «con el dinero que se usa en armas y otros gastos militares, constituyamos un Fondo mundial para acabar de una vez con el hambre» (Carta enc. Fratelli tutti, 262; cf. S. Pablo VI, Carta enc. Populorum progressio, 51) y llevar a cabo actividades que promuevan el desarrollo sostenible de los países más pobres, para combatir el cambio climático.

Es tarea de nuestra generación prestar oído a los pueblos, a los jóvenes y a los niños para sentar las bases de un nuevo multilateralismo. ¿Por qué no comenzar por la casa común? Los cambios climáticos muestran la necesidad de un cambio político. Salgamos del atolladero de los particularismos y nacionalismos, que son esquemas del pasado. Abracemos una visión alternativa, común; esta nos permitirá una conversión ecológica, porque «no hay cambios duraderos sin cambios culturales» (Laudate Deum, 70). En tal sentido, les aseguro el compromiso y respaldo de la Iglesia católica, particularmente activa en la educación y sensibilización a la participación común, así como en la promoción de estilos de vida, porque si la responsabilidad es de todos, la de cada uno es fundamental.

Hermanas y hermanos, es esencial un cambio de ritmo que no sea una modificación parcial de ruta, sino un modo nuevo de avanzar juntos. Si en la senda de la lucha contra el cambio climático, que se abrió en Río de Janeiro en 1992, el Acuerdo de París supuso «un nuevo comienzo» (ibíd., 47), urge ahora relanzar el camino. Se necesita dar un signo de esperanza concreto. Que esta COP sea un punto de inflexión, que manifieste una voluntad política clara y tangible, que conduzca a una aceleración decisiva hacia la transición ecológica, por medio de formas que posean tres características: «que sean eficientes, que sean obligatorias y que se puedan monitorear fácilmente» (ibíd., 59). Y que se realicen en cuatro campos: la eficiencia energética, las fuentes renovables, la eliminación de los combustibles fósiles y la educación a estilos de vida menos dependientes de estos últimos.

Por favor, vayamos hacia adelante, no para atrás. Es notorio que varios acuerdos y compromisos asumidos «han tenido un bajo nivel de implementación porque no se establecieron adecuados mecanismos de control, de revisión periódica y de sanción de los incumplimientos» (Laudato si’, 167). Se trata aquí de no aplazar más, no sólo de desear sino de realizar el bien de vuestros hijos, de vuestros ciudadanos, de vuestros países, de nuestro mundo. Sean ustedes artífices de una política que dé respuestas concretas y unificadas, demostrando de este modo la nobleza de la responsabilidad que revisten y la dignidad del servicio que prestan. Porque para eso está el poder, para servir. No tiene ningún sentido preservar hoy una autoridad que mañana será recordada por su incapacidad de intervenir cuando era urgente y necesario (cf. ibíd., 57). La historia se los agradecerá. Y también las sociedades en las que viven que, en su interior, se encuentran nefastamente divididas en “bandos”: catastrofistas o indiferentes, ambientalistas radicales o negacionistas climáticos. Es inútil que nos adentremos en estas formaciones; en este caso, como en la causa de la paz, no llevan a ninguna solución. El remedio es la buena política: si un ejemplo de concreción y cohesión viene del vértice, beneficiará a las bases, donde tantos, sobre todo jóvenes, ya están comprometidos con la promoción del cuidado de la casa común.

Que el 2024 marque el punto de inflexión. Para ello, desearía que un episodio que tuvo lugar en 1224 fuera un signo favorable. En ese año Francisco de Asís compuso el Cántico de las criaturas. Lo hizo tras una noche de sufrimiento físico, ya completamente ciego. Después de esa noche de lucha, con el ánimo reconfortado gracias a una experiencia espiritual, quiso alabar al Altísimo por todas aquellas criaturas que ya no podía ver, pero que percibía como hermanos y hermanas, porque provenían del mismo Padre y eran comunes a todos los hombres y mujeres. Un iluminado sentido de fraternidad lo llevó, de esa manera, a transformar el dolor en alabanza y el cansancio en compromiso. Poco después le agregó otra estrofa, en la que alababa a Dios por los que perdonan, y lo hizo para zanjar ―con éxito― una escandalosa pelea entre el primer magistrado y el obispo. También yo, que llevo el nombre de Francisco, quisiera decirles con sinceridad de corazón: ¡dejemos atrás las divisiones y unamos las fuerzas! Y, con la ayuda de Dios, salgamos de la noche de la guerra y de la devastación ambiental para transformar el futuro común en un amanecer luminoso. Gracias.

[01842-ES.01] [Texto original: Español]
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Aspettando Dubai, oltre Dubai

cop28-schermata-2023-11-22-alle-22-29-01COP 28 a Dubai
di Cristina Moretti su Rocca 23/2023

La 28ª Conferenza delle Parti (COP) della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (UNFCCC), ratificata nel summit di Rio del 1992, per accelerare le politiche mirate a limitare il riscaldamento globale, sarà ospitata a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal 30 novembre al 12 dicembre 2023. Si tratta della prima COP che si tiene dopo la pubblicazione completa dell’ultimo aggiornamento del 6° Assessment Report dell’IPCC (AR6), il Panel Intergovernativo sul Cambiamento Climatico il quale fornisce un’analisi dettagliata dello stato attuale della scienza climatica.

Alcuni degli argomenti chiave che verranno trattati alla COP 28 includono:

- L’attuazione del Protocollo di Parigi, che mira a mantenere l’aumento globale della temperatura ben al di sotto dei 2°C, preferibilmente a 1,5°C, rispetto ai livelli preindustriali.
- La raccolta di finanziamenti e l’accesso alle tecnologie per i Paesi in via di sviluppo al fine di aiutarli ad adattarsi e mitigare gli impatti dei cambiamenti climatici.
- La graduale eliminazione dei combustibili fossili e la transizione verso un’economia a basse emissioni di carbonio.
- Il potenziamento della trasparenza e della responsabilità nell’affrontare i cambiamenti climatici e nella rendicontazione dei risultati.
- Il rafforzamento della cooperazione e del dialogo tra diversi attori coinvolti nella governance globale del clima, compresi la società civile, il settore privato, le comunità indigene, i giovani, le donne e le comunità locali.

La COP 28, presieduta da Ahmed al-Jaber, amministratore di Adnoc, il colosso petrolifero degli Emirati Arabi Uniti, rappresenta un momento cruciale per l’azione globale sul clima. Questo vertice precede, infatti, il primo Global Stocktake (GST), quel momento critico in cui verrà valutato il progresso verso gli obiettivi stabiliti nell’Accordo di Parigi del 2015. Inoltre, sarà un’opportunità per i Paesi di riesaminare i progressi nell’attuazione delle proprie NDC (Nationally Determined Contributions), che rappresentano le loro promesse di riduzione delle emissioni di gas serra e di adattamento agli impatti climatici.

Questa conferenza non è soltanto una riunione tecnica ma anche un evento politico di rilevanza significativa. Riflette le dinamiche di potere e gli interessi tra gli attori coinvolti nella governance globale del clima. Influisce direttamente sulla vita e sul benessere di milioni di persone in tutto il mondo, particolarmente vulnerabili agli impatti dei cambiamenti climatici.

Inoltre, la COP 28 sarà fondamentale per ragioni molto concrete: dopo un ritardo di 3 anni, i Paesi ricchi dovrebbero finalmente stanziare i 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti climatici a cui si erano impegnati nel 2009. Nel frattempo, il tema delle risorse necessarie per affrontare la crisi climatica è diventato centrale nel processo negoziale. Non si tratta più solo dei 100 miliardi. Nel frattempo sono emersi anche (nuovi) fattori politici di cui si dovrà tener conto, come la rivalità tra Stati Uniti e Cina che si fa sempre più intensa su alcuni fronti, sebbene fino ad ora il clima sia stato l’unico ambito in cui Pechino e Washington hanno cercato una collaborazione proficua. Non è affatto scontato che a Dubai tale intesa continui e produca risultati concreti.

Infine, c’è una ragione pratica per cui la conferenza di Dubai è di fondamentale importanza: molti osservatori ritengono che sia l’ultima occasione per preservare l’obiettivo degli 1,5 gradi Celsius stabilito nell’Accordo di Parigi.

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Una bussola per trovare la strada
di Fiorella Farinelli
21 Ottobre 2023 su Rocca

C’è una recentissima pubblicazione francese, l’Atlante delle migrazioni [1], che occorrerebbe studiare nelle scuole e nelle università. L’‘ecoansia’ e la paura del futuro, più acute tra i più giovani, non si curano con gli psicologi, ma con la conoscenza dell’impatto sulla vita e sui movimenti delle popolazioni generate delle due grandi crisi, quella migratoria e quella climatica, e sull’individuazione di quello che si deve e si può fare perché non ci travolgano. Non c’è più tempo da perdere in rimozioni, negazionismi, polarizzazioni ideologiche, strumentalizzazioni politiche. La paura dello straniero alle porte, che sta destabilizzando politicamente Europa e Stati Uniti, non si esorcizza con chiusure e barriere. Non sapere, non voler vedere che clima, migrazioni, trend demografici diventeranno sempre più pezzi di un unico quadro in rapido movimento rende ciechi, impotenti, rabbiosi, mentre abbiamo bisogno di tutta la nostra intelligenza e di tutta la nostra umanità per prepararci a immaginare e a costruire l’inedito di cui avremo presto bisogno. Le 74 pagine dell’Atlante, le analisi, i dati, le infografiche, le testimonianze – “Stiamo entrando nel secolo delle migrazioni climatiche” è il titolo dell’editoriale – è una bussola per trovare la strada. Geografia, storia, geopolitica, sociologia, statistica, antropologia, economia, scienze e tecnologie, lenti pluridisciplinari che rivelano un mondo molto più vasto dei piccoli che vediamo. E anche etica, i grandi interrogativi umanistici – solidarietà o guerre? uguaglianza o nuovi schiavismi? – a cui sarà è sempre più impossibile sfuggire. Se non ne saremo capaci, anche gli accorati appelli di papa Bergoglio resteranno inascoltati.

I muri
A più di 30 anni dalla caduta del più emblematico, quello di Berlino, il mondo è sempre più segnato da muri che dividono, respingono, uccidono. Le mappe di Atlante mostrano dove e quanti sono quelli già esistenti e gli altri in costruzione o reclamati, enormi e costose opere con dispositivi antintrusione antichi e moderni, droni, radar, controlli telematici e biometrici di identificazione. La scoperta è che non sono solo nel prospero Occidente (come i 3.000 chilometri del muro voluto da Trump, e poi più discretamente anche da Biden, tra USA e Messico) ma anche nei continenti da cui vengono i disperati in cerca di vite migliori: in Asia (tra India e Pakistan, e tra Cina e Birmania) e in Africa (come quelli che contornano l’Algeria o separano dai paesi limitrofi il Kenia). Il che spiega anche solo visivamente che le migrazioni che vediamo da Lampedusa sono solo la punta dell’iceberg, che il grosso dei movimenti non sono da un continente all’altro e dal Sud al Nord del mondo, ma in tante diverse direzioni all’interno dello stesso continente e molto spesso dei diversi paesi. In effetti, il 75% delle migrazioni avviene per ora all’interno dei paesi di origine, solo il 25% è extranazionale o extra continentale, e su 1 miliardo circa di popolazioni in movimento sui 7,7 mld della popolazione totale (dati 2020), solo 281 milioni sono gli spostamenti in altri paesi, e una piccola minoranza quelli che hanno puntato all’Europa. Ma sebbene l’Europa sia stata fondata proprio sull’abolizione delle frontiere, i muri ci sono anche da noi. La svolta, dopo decenni di flussi extracomunitari e di passaggi “secondari” dai luoghi di primo arrivo a quelli di elezione progressivamente assorbiti, c’è stata nel 2015. L’anno di un flusso inedito (330.000 le domande di asilo), il più importante dopo la II guerra mondiale, fatto per lo più di fuggiaschi dalle guerre in Siria, Afganistan, Iraq, in cui gli interessi geopolitici ed economici del mondo sviluppato hanno avuto notoriamente gran parte. Fu l’inizio di un’estesa destabilizzazione politica, anche se l’impatto più diretto riguardò sopratutto i paesi mediterranei. Ma se la Germania, in nome dei bisogni del suo mercato del lavoro aprì la porta a un milione di siriani, altrove e poi ovunque cominciarono altre politiche, muri compresi. La triste mappa delle barriere europee, erette per difendersi dalle migrazioni esterne o dai movimenti secondari, conta la barriera “antintrusione “ di Calais contro i passaggi da Francia a Regno Unito, quella dalla Norvegia alla Polonia che si è cominciata per iniziativa della Finlandia, il muro di Ceuta contro gli spostamenti dall’Africa in Spagna, le barriere tra Grecia e Nuova Macedonia e tra Turchia e Bulgaria. 1.700 kilometri di barriere già costruite, mentre da più paesi viene avanti la bella idea di finanziarne altre con risorse comunitarie. Funzionano? Dipende da cosa s’intende. Non bloccano i flussi, ma li complicano rendendo i viaggi più lunghi, costosi, pericolosi. L’obiettivo vero è del resto è un altro, dare soddisfazione agli elettorati spaventati dall’“invasione”. In Italia, dove non sono ipotizzabili muri lungo migliaia di km di coste, lo strumento di perdizione delle teste e dei cuori è quello, anch’esso impraticabile, del blocco navale. Ma il peggio sono finora le politiche europee di esternalizzazione della gestione delle migrazioni, con l’affidamento a suon di miliardi del compito di trattenere i migranti di là dal Mediterraneo a paesi inaffidabili, dove agiscono con la complicità dei governi mafie di sfruttatori, e anche peggio, dei migranti. Un marchio d’infamia per l’Europa “delle libertà e dei diritti” che ha ormai evidentemente paura di esserlo. Una paura in cui si sta perdendo l’anima. Costerebbero infinitamente meno, anche finanziariamente, corridoi umanitari, permessi di un anno per la ricerca del lavoro, politiche d’integrazione. A otto anni dal 2015, è evidente il fallimento di tutte le regole europee, compresi i dispositivi di redistribuzione dei migranti nei vari paesi. Nel 2023 i flussi sono ripresi con vigore (+64% rispetto al 2022), l’Europa è in cerca di una nuova regolamentazione entro l’anno elettorale 2024, ma la gran parte dei 27 è sull’orlo di una crisi di nervi. Sebbene tutti in calo demografico e in grandi difficoltà in un mercato del lavoro che non ha abbastanza lavoratori (chi pagherà, dal 2030, il welfare e le pensioni ?) sta affermandosi l’ossessione dell’”invasione “ e perfino della sostituzione etnica, anche in un paese come l’Italia dove gli immigrati non arrivano al 10% della popolazione. Il problema in verità non sono mai stati i numeri, l’Europa ha accolto con souplesse i 6 milioni di sfollati ucraini, ma sono bianchi, cristiani, coinvolti da una guerra che tocca da vicino. Gli africani sono neri, prevalentemente musulmani, e vengono da un continente in grande sviluppo demografico. Il razzismo è ormai tra noi.

Migrazioni e cambiamento climatico
Si stanno aggiungendo, e di sicuro cresceranno nei prossimi anni, i migranti per ragioni climatiche, nel 2021 sono già 32 milioni e 600mila quelli in fuga da zone dove siccità o allagamenti hanno fatto saltare i sistemi di alimentazione e di lavoro. La Banca mondiale prevede che in Asia e in Africa, nelle aree più esposte al riscaldamento globale, ci saranno nei prossimi dieci anni più di 216 milioni di costretti a lasciarle. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati calcola che nel primo decennio del 2000 gli spostamenti per questo motivo sono stati già due volte di più di quelli prodotti dalle guerre. La comunità internazionale, malgrado gli impegni ad abbassare le emissioni dei gas ad effetto serra resta lontana dalle tabelle di marcia dell’accordo di Parigi. Gli scienziati prevedono che se la situazione non cambierà la temperatura della Terra crescerà di 2,8 gradi di qui al 2100, e ogni grado di aumento metterà in movimento 1 miliardo di individui. Solo in Africa e in Asia? Niente affatto, le mappe disegnate da Atlante dei luoghi più critici comprendono anche gli USA e l’Europa, soprattutto meridionale e rivierasca (decine di migliaia sono già oggi gli evacuati dagli incendi della California). Ma nell’elenco delle cause che secondo la Convenzione di Ginevra danno diritto all’asilo le cause climatiche non ci sono, e in Europa non è di questo che si discute ma solo di confini esterni e interni e di nuove esternalizzazioni. Nel frattempo i veleni delle ossessioni xenofobe non ci fanno imparare, o ci fanno disimparare, come si fa una buona e rapida integrazione, mentre centinaia di migliaia di migranti illegali, di cui si può anche decidere l’espulsione ma che è impossibile rimandare nei paesi di provenienza in assenza di accordi con i governi, sono esposti a povertà estreme, lavoro nero e criminalità. Il gioco al massacro continua, ma a deperire è anche la nostra civiltà democratica.

Il messaggio di Atlante
Tutto ciò è puntualmente documentato da Atlante, che dà conto delle fonti ed offre una bibliografia utilissima. Ma c’è dell’altro, sintetizzato dal saggio di Gaia Vince, autorevole e pluripremiata giornalista britannica specialista in problematiche ambientali. Nel suo ultimo libro “Nomad Century”, si disegna cosa succederà quando le popolazioni delle aree oggi ancora temperate, abitate da migliaia di anni, dovranno progressivamente cercare rifugio nelle zone più fresche del pianeta (la Siberia, l’Islanda, la Groenlandia e, dall’altra parte, Patagonia e Terra del Fuoco ?) e contemporaneamente, accogliere ed integrare flussi imponenti di fuggiaschi da quelle rese assolutamente inabitabili. Nuove città da costruire in aree oggi poco o per niente abitate; modifica degli impianti, delle reti di energia, delle forniture d’acqua, dei sistemi abitativi, delle tecnologie messe a rischio da temperature su cui non sono state tarate; trasformazione degli stili di vita, dei consumi, e anche dei modelli di alimentazione perché a spostarsi, a sparire, a modificarsi saranno anche specie animali e vegetali (e di sicuro, dicono gli esperti del ramo, anche i temibili virus). Uno scenario a prima vista fantascientifico, anche per gli assetti e gli equilibri sociali perché ad essere colpiti non saranno solo i paesi e le persone più povere, ma anche quelli più ricchi e il ceto medio, e che è invece solo lungimirante. C’è solo da sperare che ci sia il tempo per adattarsi a trasformazioni tanto radicali (non a caso si parla di “transizione” ecologica) con l’aiuto delle scienze e delle tecnologie. Ma c’è una trasformazione, osserva la Vince, ancora più radicale che incombe sull’umanità del prossimo futuro, ed è il superamento della convinzione degli umani di appartenere a un territorio dai confini ben precisi e di esserne gli unici padroni. Come è già successo più volta nella storia del genere umano con le mille trasmigrazioni e i tanti rimescolamenti delle società prestatuali, il secolo nomade produrrà meticciati inediti e nuove forme di identità culturale e sociale. Se non altro perché le migrazioni bibliche richiederanno di trasformare quello che oggi è vissuto come un pericolo in risorsa fondamentale di lavoro e di vita. Ci stiamo preparando? A guardare i muri di oggi, le ossessioni xenofobe, i patetici sovranismi, il rifiuto dei migranti dove mancano milioni di lavoratori (e giovani donne disponibili a fare figli), si direbbe di no. Ma Gaia Vince e gli altri ci chiedono di saperne di più, di discuterne in modo laico, di costruire a partire dalle previsioni già certe le visioni e le pratiche che oggi ci mancano. Come dargli torto ?

[1] ATLAS DES MIGRATIONS, Courrier International, Hors-Série, Le Monde, settembre 2023
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Dobbiamo essere per la pace

img_5240 Amos Oz: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.
Contro il fanatismo
di Roberto Paracchini

C’era una volta un bambino che amava molto osservare le persone. E poi c’era un gelato, che a quel bambino piaceva molto. E c’era anche una promessa: “Se fai il buono ti compriamo il gelato”. E c’era pure un locale, un Caffè, dove quel bambino veniva portato dai genitori che “dovevano discutere con i loro amici”, come gli raccontavano. E a quel bambino non piaceva molto starsene lì con tutti quei grandi sette giorni su sette. “Allora dovevo pur fare qualcosa di me stesso, per non urlare o dar fuori di matto”. Sì, certo c’era la promessa del gelato, ma non bastava. “Così me ne stavo lì seduto, come un piccolo detective, a osservare il via vai del locale – gente che entrava, gente che usciva… e come uno Sherlock Holmes, ne studiavo gli abiti, le facce, i gesti, le scarpe, rimiravo le borsette e ingannavo l’attesa inventando piccole storie su questa gente, fantasticando sulla loro provenienza o sui rapporti tra quelle due donne e quell’uomo seduti al tavolino d’angolo…”.
Passano gli anni. Forse 50 o 60. E quel bambino, nato a Gerusalemme nel 1939, si chiama oggi Amos Oz: a 15 anni decise di cambiare il cognome originario Klausner in Oz, che in ebraico significa “forza”, poi entrò nel kibbutz Hulda dove scelse di andare in rotta coi genitori, fortemente di destra, e dove visse per i successivi 30 anni. Quel bambino, poi ragazzo, poi giovane adulto, con gli anni divenne l’Amos Oz scrittore che in molti conoscono e amano anche per la capacità di entrare nell’animo dei suoi personaggi facendoceli intimamente vivere: uno degli autori più importanti della letteratura contemporanea, morto nel 2018.
Passati tutti quegli anni e arrivati ai primi del XXI secolo, Oz confessò in alcune conferenze tenute a Tubinga (recentemente ripubblicate in Italia da Feltrinelli col titolo Contro il fanatismo) che continuava a comportarsi “così” come allora: “Quando mi capitano i cosiddetti ‘tempi morti’, in aeroporto o quando mi trovo in sala d’attesa dal dentista, o in coda da qualche parte… Ancora fantastico. E credetemi, è un passatempo utile, non solo per uno scrittore: per chiunque di noi. Accadono davvero tante cose, in ogni angolo di strada, in ogni coda in attesa dell’autobus, in qualunque sala d’aspetto di un ambulatorio, o in un Caffè… Tanta di quella umanità attraversa ogni giorno il nostro campo visivo, mentre per gran parte del tempo noi restiamo indifferenti, non ce ne accorgiamo neppure, vediamo ombre invece di persone in carne e ossa. Perciò, con l’abitudine di osservare gli estranei, e con un pizzico di fortuna, finirete presumibilmente per scrivere dei racconti congetturando intorno a quello che la gente si fa a vicenda, a come ci si appartiene a vicenda”.
Ed è proprio su questa importante constatazione, su “come ci si appartiene a vicenda”, che Oz costruisce la sua visione della letteratura, certamente, ma anche il suo modo di vivere la vita e, si potrebbe dire, il suo insegnamento. “Ogni mattina – racconta nel libro citato – faccio una piccola passeggiata nel deserto, prendo una tazza di caffè, mi siedo alla scrivania e comincio a domandarmi: ‘Come mi sentierei se fossi lei? Come dev’essere stare dentro la sua pelle?’ – questo è ciò che devi fare se vuoi scrivere anche il più semplice dei dialoghi: devi spartire non soltanto la tua fedeltà, ma persino i tuoi sentimenti tra diversi personaggi”. E non solo, “parafrasando D. H. Lawrence (…) per scrivere un romanzo bisogna essere capaci di assumersi una mezza dozzina di conflitti e sentimenti contraddittori e opinioni, con lo stesso grado di convinzione, veemenza ed empatia”.
Considerazioni, queste ultime, che gli attori teatrali ben conoscono, ma che in Amos Oz diventano non solo il propulsore della sua grande letteratura, ma anche il terreno per entrare nel dramma e nella tragedia dei luoghi in cui è vissuto. “Allora, forse – afferma – sono equipaggiato un po’ meglio degli altri per capire, con il mio punto di vista ebraico-israeliano, come ci si sente a essere un palestinese sradicato, come ci si sente ad essere un arabo palestinese cui degli ‘alieni di un altro pianeta’ hanno portato via la terra natale. E come ci si sente a essere coloni israeliani in Cisgiordania? Sì, talvolta mi infilo nei panni di quella gente oltranzista, o quanto meno ci provo”.
Nel 1967, Oz assieme a pochissime altre persone, “molto prima che fosse fondato il movimento Pace Adesso, qualche settimana dopo la spettacolare vittoria militare d’Israele nella guerra dei Sei Giorni, iniziò “a propugnare una soluzione binazionale, una Palestina accanto a Israele, cosa che in quei giorni di euforia nazionale in Israele veniva guardata non solo come un tradimento, ma anche come una manifestazione di totale idiozia”. Invece, per l’autore de “Lo stesso mare” e di tanti altri favolosi romanzi, “solo colui che ama può diventare un traditore. Il tradimento non è il contrario dell’amore, è una delle sue tante opzioni. Traditore è colui che cambia agli occhi di coloro che non possono cambiare e non cambierebbero mai e odiano cambiare e non lo concepiscono, a parte il fatto che vogliono continuamente cambiare te: così la penso io”.
“In altre parole – spiega Oz – agli occhi del fanatico il traditore è chiunque cambi. Triste alternativa quella fra il diventare un fanatico o un traditore. In un certo senso non essere fanatici significa essere un traditore agli occhi dei fanatici”. E così, “traditore lo sei comunque. Qualunque cosa tu faccia, tradisci o la tua arte o il tuo senso di dovere civile”. Ma per Oz la soluzione esiste ed è il compromesso. Per molti il compromesso “puzza, è disonesto. Non nel mio vocabolario. Nel mio mondo, la parola compromesso è sinonimo di vita. E dove c’è vita ci sono compromessi. Il contrario di compromesso è fanatismo, morte”. Per lo scrittore il fanatismo “dilaga ovunque. Non mi riferisco alle ovvie manifestazioni di fondamentalismo e oltranzismo… No, perché il fanatismo è praticamente dappertutto, e nelle sue forme più silenziose e civili è presente tutto intorno a noi, e fors’anche dentro di noi”. Poi Oz fa una serie di esempi tra cui quello, portato al paradosso, di certi pacifisti: “Conosco quei pacifisti, alcuni miei colleghi del movimento per la pace in Israele, capaci di spararmi in testa solo perché ho auspicato una strategia lievemente diversa per il processo di pace con i palestinesi”. Sia chiaro, spiega, “non voglio certo intendere che ogni opinione convinta sia una forma di fanatismo. Certo che no. Però penso che il seme del fanatismo si annidi immancabilmente nella rettitudine inflessibile, piaga di molti secoli”. E nemica inflessibile del compromesso.
Nei romanzi di Oz nessuno è un’isola, chiuso e impermiabile al mondo, ma tutti sono una penisola, legati alla terra del proprio modo di essere e all’oceano, gli spazi del cambiamento. “Se nei miei romanzi c’è messaggio metapolitico, è sempre, in un modo o nell’altro, il messaggio di un compromesso, un compromesso doloroso, e della necessità di scegliere tra vita e morte, fra l’imperfezione della vita e la perfezione di una morte gloriosa”, che tutto sommerge, si potrebbe aggiungere, come un macigno di “rettitudine inflessibile”. E non è certo un caso, sottolinea lo scrittore, che i fanatici non abbiamo senso dell’umorismo. “In vita mia non ho ancora visto un fanatico dotato di senso dell’umorismo”. Questo anche perché “l’umorismo implica la capacità di ridere di sé stessi”. Umorismo come antidoto al fanatismo e al fondamentalismo, che nasce anche da una profonda conoscenza dell’ebraismo (tra le altre cose Oz ha insegnato letteratura ebraica nell’università Ben Gurion, nel Negev). “Nella vita quotidiana degli anni quaranta – ricorda – ognuno pensava di appartenere a Gerusalemme nel vero senso del termine, mentre gli altri erano considerati alla stregua di una presenza ammissibile, di sfondo”. E le “tensioni interconfessionali erano tali che ci si poteva o diventare matti oppure sviluppare un ottimo senso dell’umorismo. O ancora un senso di relatività. La convinzione insomma che ognuno ha la sua storia, ma non ce n’è una più valida o avvincente dell’altra”.
Pure qui ritorna lo spazio di un Caffè come luogo di dialogo e di produzione di storie, come quella che vede discutere animatamente alcune persone, tra cui se ne nota una più vecchia degli altri che se ne sta in silenzio, ma che si scopre essere Dio. L’avventore più vicino “ha una domanda da fargli, ovviamente molto pressante. Dice: ‘Caro Dio, per favore dimmi una volta per tutte, chi possiede la vera fede? I cattolici o i protestanti o forse gli ebrei o magari i mussulmani? Chi possiede la vera fede?’. Allora Dio, in questa storia risponde: ‘A dirti la verità, figlio mio, non sono religioso, non lo sono mai stato, la religione nemmeno m’interessa’”. Insomma, prosegue Oz, “c’è una vena di anarchia non soltanto in Israele, ma credo piuttosto nel retaggio culturale dell’ebraismo”.
Una percezione di relatività, che nasce anche dal senso dell’umorismo, è indispensabile allo scrittore per capire le ragioni degli altri. Quand’era piccolo, Oz ricorda che le prime parole in inglese da lui pronunciate “sono state British, go home!, che noi marmocchi gerosolimitani (nativi di Gerusalemme – ndr) gridavamo gettando sassi contro le pattuglie inglesi a Gerusalemme nella nostra ‘intifada’ del 1945, 1946 e 1947”. Poi la storia è diventata ancora più complessa: “Come non far maturare un senso di relatività, un senso della prospettiva e anche una triste ironia sul fatto che gli occupati possono diventare occupanti, gli oppressi oppressori, le vittime di ieri aggressori? Con quanta facilità i ruoli si ribaltano”. E la storia si incancrenisce.
“Fra noi e i palestinesi – scrive nell’ultimo suo piccolo e illuminante saggio Resta ancora tanto da dire – c’è da più di cent’anni una ferita aperta, anzi c’è una ferita infetta, piena di pus. Un ascesso, ormai”. Ma “non si cura una ferita con un bastone… Non è ammissibile continuare a infierire in questo modo su una ferita aperta, sperando che così si rimargini, che smetta di sanguinare”. Certo, “la sopraffazione non di rado va fermata con la forza… Ma nessuna ferita si cura con un bastone”. Da pacifista coerente, Oz spiega che “una ferita va curata” e che “prima di tutto bisogna trovare la lingua della cura. Che non è quella dell’oppressione, né quella della deterrenza, non è la lingua del ‘dare una lezione’”. Per lo scrittore è una lingua più semplice: “Soffri. Lo so. Soffro anch’io. Su, ricominciamo insieme”.
Nella guerra arabo-israeliana del 1948, il punto – sostiene – non è di chi sia la responsabilità del conflitto. “Il punto è la tragedia. Che siano da accusare le dirigenze arabe, o i sionisti, o entrambi, resta il fatto che nel 1948 centinaia di migliaia di palestinesi persero le loro case. So bene che nello stesso anno, durante la stessa guerra, quasi un milione di ebrei orientali dei paesi arabi persero anche loro le case e molti di loro vennero cacciati via e arrivarono in Israele”. E prima e in parte assieme a loro, molti ebrei abbracciarono l’idea sionista ma con un ventaglio vastissimo di posizioni e interpretazioni, tanto da far dire ad Oz, seppure “cum grano salis, (…) che Israele non è un paese e nemmeno una nazione. È una feroce, schiamazzante collezione di argomentazioni, un perpetuo seminario di strada”.
“Ma allora che cos’è il sionismo? – si domanda retoricamente lo scrittore in Resta ancora tanto da dire, consapevole che è questa la domanda che molti gli pongono – Non riesco a rispondervi se non con la consapevolezza che non abbiamo un altrove”. Come dire che il sionismo nasce tra gli ebrei perseguitati da secoli, poi sterminati dal nazismo e infine rifiutati da tutti gli altri paesi, come gli stessi genitori di Oz.
In questo contesto il conflitto Israelo-palestinese era e resta una tragedia. Dopo la guerra del 1948 “un buon numero” di ebrei orientali, “finì in quelle stesse case che erano appartenute agli arabi palestinesi”. In pratica, “dopo tre quattro, cinque anni trascorsi nei campi di transito, gli ebrei sopravvissuti che venivano dall’Iraq, dal Nord Africa e dall’Egitto, Siria e Yemen ebbero finalmente una casa e un lavoro, mentre i profughi palestinesi no. La questione rimane aperta, e con dolore”.
Ed è per questo che questa lunga storia non ha “buoni da una parte e cattivi dall’altra. Non è un film western, e nemmeno un western capovolto”. C’è invece, “una tragedia: il contrasto tra un diritto e l’altro”. Un diritto e l’altro, entrambi calpestati, infatti “una delle cose che rendono il conflitto israeliano-palestinese particolarmente grave, è il fatto che esso sia essenzialmente un conflitto tra due vittime. Due vittime dello stesso oppressore. E qui Oz on ha dubbi. “L’Europa che ha colonizzato il mondo arabo, l’ha sfruttato, umiliato, ne ha calpestato la cultura, che l’ha controllato e usato come base d’imperialismo, è la stessa Europa che ha discriminato, perseguitato, dato la caccia e infine sterminato in massa gli ebrei perpetrando un genocidio senza precedenti”.
La storia poi diventa particolarmente crudele, racconta Oz, perché queste due vittime di uno stesso oppressore non solidarizzano tra loro, ma si odiano. Da un lato “l’ebreo, in particolare l’ebreo israeliano, è dipinto come un’estensione dell’Europa: bianca, sofisticata, tirannica, colonizzatrice, crudele, senza cuore”. E non come “un gruppo sparuto di sopravvissuti e profughi mezzo isterici, braccati da terribili incubi, traumatizzati non solo dall’Europa, ma anche dal modo in cui siamo stati trattati nei paesi arabi e islamici”. Dall’altro lato, “parimenti noi, ebrei israeliani, non consideriamo gli arabi, nello specifico i palestinesi, per quello che sono, e cioè vittime di secoli di oppressione, sfruttamento, colonialismo e umiliazione. E invece li vediamo come dei cosacchi da pogrom, dei nazisti con i baffi, abbronzati e con indosso la kefijah”.
A fronte di tutto questo “vige su entrambi i fronti una profonda ignoranza: non di carattere politico, su scopi e obiettivi, ma relativa al vissuto di traumi che le due vittime hanno subito”. Da un lato il movimento nazionale palestinese, per molti anni, “ha mancato di riconoscere l’autenticità del legame ebraico con la terra di Israele. Perché non ha voluto riconoscere che il moderno Israele non è affatto un prodotto dell’impresa coloniale”. Dall’altro, parimenti “aggiungo subito che sono altrettanto critico verso le generazioni di sionisti israeliani che hanno mancato di riconoscere l’esistenza di un popolo palestinese, un popolo vero con veri, legittimi diritti. Così, entrambe le leadership, tanto passate quanto presenti, sono colpevoli di non aver compreso la tragedia, o se non altro di non averla spiegata ai propri popoli”.
Che fare, infine? Oz chiude Contro il fanatismo con una esortazione quanto mai attuale: “A voi europei tocca riservare ogni oncia di aiuto e solidarietà a questi due pazienti, sin d’ora. Non dovete più scegliere fra essere pro Israele o pro Palestina. Dovete essere per la pace”.

​​​​​​​​​Roberto Paracchini
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Israele Palestina: il sogno necessario

di Mariano Borgognoni*
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*Su Rocca n. 22/2023
E dunque ora che fare? Cosa immaginare per il futuro della terra dolorante e insanguinata di Israele e di Palestina? Dentro lo spessore di un odio seminato nel tempo dell’indifferenza della comunità internazionale e nel prevalere dentro i due campi delle forze più ciniche, miopi e aggressive? Nel periodo caratterizzato da un lato dal crescente logoramento della democrazia israeliana fino alle ripetute e grandi manifestazioni di piazza contro l’attacco da parte di Netanyahu e del suo governo di iperdestra alla magistratura costituzionale di cui anche Rocca ha ripetutamente parlato, e dall’altro dalla sempre più irriducibile spaccatura dentro il mondo palestinese tra Fatah e Hamas fino alla rottura tra l’Amministrazione della Cisgiordania e quella di Gaza. Per ricreare le condizioni di sbocco di un conflitto senza fine bisogna prima di tutto cercare di comprendere la situazione, le forze in campo e le loro dinamiche. Mai come ora valgono, soprattutto per quanti amano questa terra e i suoi popoli, le parole di un grande ebreo perseguitato anche dalla sua comunità, Baruch Spinoza: nec ridere, nec lugere, neque detestari, sed intelligere. Non si tratta di mettere tutto sullo stesso piano. È evidente che tra un Paese pluralista e una organizzazione terrorista con basi di massa non c’è equidistanza però anche un Paese pluralista può con le sue scelte alimentare tensioni così profonde sulle quali finiscono per germinare e ingigantirsi le forze peggiori. Quelle che hanno portato a quello shabat di inizio ottobre che non solo deve essere condannato ma che, occorre dirlo, rappresenta un abominio senza precedenti. Ce lo dicono con grande sofferenza anche quanti, David Grossman e tanti altri intellettuali e pacifisti israeliani spesso residenti nei kibbuzzim violentati, hanno sempre combattuto per la pace e la convivenza ed hanno compreso e sostenuto la causa palestinese. Tuttavia il diritto di Israele a difendere la propria sicurezza non può, come sta avvenendo, scaricarsi sulla popolazione civile di Gaza nelle forme terribili cui stiamo assistendo e in violazione del diritto internazionale di guerra e di qualsiasi senso di umanità. C’è uno straordinario pensiero che Etty Hillesum scrive nel proprio diario di internata e poi di martire su cui varrebbe la pena riflettere: “È proprio l’unica possibilità che abbiamo, non vedo alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri. E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale…”

Non esiste altra strada di superamento di questo antico conflitto (lo Stato binazionale è solo una fuga in avanti pericolosa) se non quello di riprendere la via verso la costituzione di due Stati per due popoli avendo come bussola le risoluzioni delle Nazioni Unite e i diversi accordi disattesi lungo questi decenni. Forse quando si tocca il fondo dell’errore e dell’orrore si possono riaprire ipotesi apparentemente, sul momento, irrealistiche ma che costituiscono quel sogno necessario che abbiamo scelto come titolo di copertina di questo sofferto numero della rivista. Due popoli, due Stati con un rapporto confederativo che possa coinvolgere anche la Giordania, Paese i cui cittadini sono palestinesi per più del cinquanta per cento, in una terra che va dal Giordano al Mediterraneo. Per Israele è l’unico modo di garantirsi una sicurezza che non si fondi esclusivamente sulle armi, per i palestinesi l’unico modo per avere, per la prima volta, uno Stato, in un territorio che, lungo la storia, ha conosciuto solo una infinità di dominazioni. La comunità internazionale e in primo luogo l’Europa, se riesce ad uscire dalla sua invertebrata nanità politica, debbono sostenere con ogni sforzo questo processo. È fondamentale per la pace dentro un quadrante simbolico, culturale, economico e strategico tendenzialmente deflagrante. L’alternativa a questo è solo l’imporsi con la forza di uno dei soggetti in campo con la prospettiva di un ampliarsi della guerra fin dove non si sa e del dilagare del terrorismo interno e internazionale. In questo senso gli opposti fondamentalismi religiosi sono un veleno mortale. Israele non è tout court il popolo ebraico e il popolo ebraico è popolo che ha avvertito la chiamata di Dio non perché più virtuoso degli altri ma per essere, semmai, segno di pace tra gli altri, essendo come tutti gli altri, per dirla con uno dei fondatori del moderno Israele popolo di lavoratori, di donne e di uomini virtuosi, di ladri e di puttane. E cosi per il popolo arabo di Palestina sarebbe certo auspicabile che emergesse con più forza la compresenza di musulmani, cristiani, laici come per molti anni è stato che lascino immaginare un futuro non solo di indipendenza ma anche di libertà soprattutto per i giovani e le donne.

È ovvio che se si continua a coltivare il retropensiero secondo cui il male sta nella decisione delle Nazioni Unite di consentire la nascita dei due Stati prima inesistenti e che Israele deve essere espulso dall’area con le buone o con le cattive, allora non resta che il terrorismo e la guerra. E analogamente se in Israele si pensa ad un grande Stato “ebraico” non c’è che l’insicurezza permanente, la tensione, l’armarsi fino ai denti e l’aumento dell’odio e dello spirito di vendetta da parte di un popolo oppresso e privato dei propri diritti.

Capisco che questo ragionamento riposa ancora largamente su desideri ed auspici e tuttavia essi non sono campati in aria ma radicati in una terra che, in alcuni momenti preziosi, ha avvertito l’esistenza di una via d’uscita tanto ardua quanto reale e praticabile, un’altra via, per la quale valga la pena deporre le armi delle ragioni che, dall’una parte e dall’altra, possono essere accampate.

Le condizioni per seguire questa strada, l’unica realistica a dispetto delle apparenze contrarie, sono certamente difficili ma chi è fuori dal fuoco del conflitto ha il dovere di aiutare a definirle.

Innanzi tutto che cessi il massacro della popolazione civile a Gaza;

che si interrompa la crescente colonizzazione della Cisgiordania;

che l’Autorità Nazionale Palestinese, magari rinnovandosi e ponendosi all’altezza di questo tempo cruciale, prenda le distanze dal terrorismo e rilanci la proposta di un accordo sulla base del diritto internazionale;

che il mondo arabo moderato assuma la questione della costituzione dello Stato di Palestina dentro la cornice dei cosiddetti accordi di Abramo che invece stavano passando sulla testa dei palestinesi;

che la comunità internazionale accompagni un percorso sul quale, almeno a parole, i diversi Stati che la compongono si dicono concordi.

La via del terrorismo e della guerra non ha consentito di realizzare in settant’anni né la sicurezza di Israele né la nascita dello Stato palestinese. Avrà un senso o no imboccarne un’altra? Con molto realismo, senza massimalismi, senza integralismi e sovraeccitazioni religiose, si può immaginare non l’amore reciproco ma una convivenza decente. Il resto potrà farlo la scoperta progressiva di quanto quella terra, curata da due popoli, possa divenire ricca di benessere per tutti.

Non è troppo sperare in questa prospettiva, è troppo poco non fare tutto il possibile perché essa muova dei passi.
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PER CINQUE ANNI NON CI SARÀ NIENTE DA FARE
8 NOVEMBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / L’UNITÀ UMANA /
Il governo sarà al potere senza dipendere dalla fiducia parlamentare. L’ “antiribaltone” significa che potrà occupare tutte le istituzioni e fare qualsiasi fino alle riforme costituzionali

di Gustavo Zagrebelsky

Per una volta e contro l’indole dei vecchi che vedono sempre tutto nero, prometto di pensare positivo. Perciò non mi accodo alle prefiche e dico che la riforma è buona, molto buona, chiara, tecnicamente perfetta, democraticamente impeccabile. Direi, convincente. Si vede che vi hanno lavorato fini intelletti. Sarà certamente invidiata e imitata in giro per il mondo. I rancorosi dicono che saremmo i soli con questa riforma. E con ciò? È una critica? No, è che semplicemente siamo più svegli e più avanti. Il genio giuridico italico ancora una volta riluce.

Se le novità le guardiamo dal punto di vista del mondo politico, ci sono e ci saranno dissensi. Ma, se le guardiamo dal punto di vista dei cittadini – il nostro punto di vista – dobbiamo ammettere che è una riforma fatta per noi. Quantomeno, per il futuro ci libereremo di fastidiose incombenze.

Prevedibilmente, voteremo una volta sola ogni cinque anni per scegliere contemporaneamente il presidente del Consiglio e il Parlamento. Non abbiamo tante volte detto che in Italia si vota troppo? Le elezioni sono state una nostra persecuzione e, difatti, sempre più sono i cittadini che si sottraggono, disertando le urne elettorali. Ecco qua, allora: una volta sola ogni lustro. In più, si voterà “tramite un’unica scheda elettorale”. Non ci avevamo mai pensato finora: un voto che vale due. Altro che complicazioni nelle cabine elettorali, con l’elettore che ha in mano più schede, ci si perde, magari gli viene in mente di dare un “voto disgiunto” o qualcosa del genere.

Finalmente, le Camere la smetteranno di intralciare il lavoro del governo. Sapranno che, se mai passerà per la testa di sfiduciare il presidente del Consiglio che è stato “eletto per cinque anni”, oppure anche solo se gli daranno qualche fastidio inducendolo a “cessare dalla carica”, cioè a dimettersi di sua iniziativa, andranno incontro alla propria rovina, lo scioglimento. Parlamento e Governo saranno strettamente avvinghiati in vita e in morte ed entrambi vorranno vivere, mica morire. Basta tensioni; e basta anche prevaricazioni governative (l’altro lato della medaglia) come i decreti-legge a pioggia; i voti di fiducia per stroncare gli emendamenti del Parlamento; le forzature regolamentari: non ce ne sarà più bisogno.

Ciò malgrado, se qualche pur inimmaginabile incidente si verificasse, cioè se si incrinasse quel tacito patto di vita e di morte, poco male. I patti si basano sulla fiducia: fiducia per tutti i cinque anni successivi. Data la simultanea elezione del presidente del Consiglio e del Parlamento sarebbe assai strano che il governo non ottenga la fiducia all’inizio della sua vita. Ma, se per assurda ipotesi, ciò accadesse, poco male. Il presidente del Consiglio può riprovarci e, se di nuovo non ci riesce, c’è la sanzione: scioglimento delle Camere, a riprova che esse sono lì solo per dire sì al governo. Se invece la fiducia venisse meno in corso d’opera, cioè nel quinquennio, il presidente del Consiglio potrebbe – primo – tentare la pacificazione; oppure – secondo – un parlamentare della maggioranza potrebbe essere chiamato a sostituirlo, purché s’impegni ad attuare lo stesso programma del presidente del Consiglio precedente, sfiduciato; infine, se nemmeno questo risultasse possibile, allora scioglimento delle Camere. È l“anti-ribaltone”, invenzione al posto della “sfiducia costruttiva” che, sia pure piuttosto ipoteticamente, consentirebbe la formazione di un altro governo con diversa maggioranza. Qualche malpensante (non noi, che abbiamo deciso di pensare positivo) potrebbe rilevare una contraddizione: il presidente del Consiglio si vuole che nasca per il voto popolare diretto, invece così potrebbe essere uno dei tanti che sono stati, sì, eletti, ma per fare altro, cioè il parlamentare. E potrebbe anche pensare che così si voglia dare a un uomo forte della compagine governativa la possibilità di insidiare il presidente eletto direttamente, trafficando e tramando dentro la coalizione. Ma, insomma, qualche difetto siamo disposti ad accettarlo, anche a costo di complicazioni e raffazzonamenti.

Chiaro, comunque, è che non avremo più “governi tecnici”. Di fronte alla paralisi della politica, almeno ci saranno risparmiati i Ciampi, i Monti, i Draghi che tanto male hanno fatto al nostro Paese. Se la politica non riuscisse a produrre un governo, pazienza. Sempre meglio che mettersi nelle mani di qualcuno che dalla politica non proviene. C’è comunque, a garanzia, l’elezione diretta del capo del Governo, ogni volta “per cinque anni”. Questo è il cuore della riforma. Come si può dubitare che un tale “eletto” non sarà capace di governare, avendo dietro di sé una tale immensa spinta popolare? Come debba essere eletto, su questo la riforma è reticente. In unica tornata, bastando, per vincere, un voto in più rispetto agli altri; oppure, in due tornate, la seconda di ballottaggio? Sono due sistemi molto diversi, il secondo aprendo la strada alle coalizioni. Speriamo che non si finisca per scegliere quest’ultima: di coalizioni ne abbiamo avute fin troppe e ora è il tempo dell’uomo o della donna soli al potere, con la loro corte, anzi coorte, senza dover cedere a mediazioni e compromessi.

Basta, poi, con limiti, controlli, contrappesi. Sono zavorre. Perciò ben venga un sistema elettorale che garantisca a chi vince comunque, anche se con pochi voti, il 55% dei seggi in Parlamento. Garantirà la “governabilità”. Secondo il significato passivo della parola, saremo tutti felici d’essere governati: noi, così fastidiosamente indisciplinati e indocili. Con quel facile e bel premio a portata di mano, la maggioranza da sola potrà eleggere “il suo” presidente della Repubblica, rendendo obsolete le discussioni attuali circa la riduzione delle sue attuali prerogative; potrà con poca difficoltà eleggere “i suoi” giudici costituzionali e “i suoi” componenti del Consiglio superiore della Magistratura. Avendo vinto le elezioni, potrà occupare tutte le istituzioni, come è giusto che sia. Insomma, c’è un gran bisogno che ci si metta in riga, e la riforma promette bene. Se poi non basta, con quella maggioranza si potrà anche cercare di cambiare e ricambiare ancora la Costituzione, finché non si arrivi a ciò che serve. Insomma, stiamo tranquilli perché siamo in una botte di ferro.

Sì, stiamo tranquilli perché la volontà di questo governo di procedere senza sbavature è chiara, fin nei dettagli. Ne è l’esempio l’abolizione futura dei senatori a vita e la “categoria a esaurimento” in cui saranno messi e umiliati gli attuali. Esaurimento a uno a uno, fino a che morte non sopraggiunga o essi stessi non decidano di andarsene. Bene anche qui: chi credono di essere? Hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. E con ciò? Forse che anche noi non siamo ugualmente patrioti? Dove va a finire l’uguaglianza se tolleriamo la presenza di questi signori che, la Patria, se la possono benissimo illustrare a casa loro?

Ma, il maggior merito di questa riforma sta indubbiamente nel “presidente eletto” direttamente. È il modo migliore per animare la competizione elettorale: si combatte per vincere e umiliare. Un poco di verve in più sarà benvenuta. Già ora, anche da noi, lo scontro elettorale è “personalizzato”, ma non basta. Altri sono molto più avanti di noi, quando si tratta di eleggere il “capo del Governo”. Dossieraggi, maldicenze, insulti, sicofanti, “macchine del fango”, intimidazioni, violenze sono tutte cose utili. Non che non le conosciamo già, ma si può certo migliorare per spaccare il Paese e poi reprimere chi non ci vuole stare.

C’è solo un timore, il timore che le componenti minoritarie della maggioranza, si accorgano, dati alla mano, che la riforma servirebbe solo alla componente più forte, mentre loro diventerebbero quasi irrilevanti. Qualora si accorgessero – e speriamo di no – che rischiano di essere poi ricordati come i classici utili idioti, gli auspici di quanti pensano positivo andrebbero facilmente in fumo. Ora, però, deve venire – se pur superfluo – l’avvertimento ai lettori che siano giunti fin qui.

Si saranno chiesti se il “pensare positivo” proposto all’inizio non sia altro che un artificio paradossale per mettere in guardia e non cadere in trappola. Cioè per sollecitare proprio il contrario, cioè un “pensiero negativo” o oppositivo o almeno circospetto. Norberto Bobbio ha scritto: «Non dico che gli ottimisti siano sempre fatui, ma i fatui sono sempre ottimisti».

La posta in gioco non è da poco.

Molto meglio cauti che fatui.

Gustavo Zagrebelsky

(da “La Repubblica” del 4/11/2023)

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Convegno su Adriano Olivetti. Dibattito

img_4337Rileggendo Adriano Olivetti: che non era utopico ma oggi, forse, lo è.
img_4989di Gianni Loy

Che l’esperienza imprenditoriale di Adriano Olivetti sia da annoverare tra i successi più esemplari dell’industria italiana è fuor di dubbio. Quella fabbrica, per altro verso, non è soltanto il luogo dove si esaltano l’innovazione, l’efficienza, l’organizzazione, ma è anche luogo di sperimentazione di un’idea, di una filosofia, direi persino di una religione, di cui egli è il fondatore.

Adriano Olivetti, sia chiaro sin dall’inizio – in quanto costituisce il presupposto di quanto mi accingo ad esporre – non elabora quella sua filosofia sulla base della propria esperienza imprenditoriale ma, proprio al contrario, prima elabora la sua teoria – altri hanno esposto il percorso e le fonti – e successivamente si trova a doverla applicare all’impresa che governa. La successione è più logica che temporale, visto che i due percorsi, in realtà, procedono in parallelo.

La fabbrica, infatti, a prima vista, potrebbe costituire un ostacolo all’affermarsi di quella filosofia che va predicando per tutto il paese, perché nella fabbrica, come sino a non troppo tempo prima predicavano i papi, la materia esce nobilitata ma l’uomo – e soprattutto la donna – possono uscirne corrotti. La fabbrica, sia che la si osservi attraverso la lente del liberismo – di quello ingentilito ed ossequioso ai comandamenti – dove il padrone, con fare paterno, dovrebbe prendersi cura filiale dei propri operai (su quello più rude non occorre spendere parole); sia che la si osservi attraverso il paradigma del marxismo, che esalta il conflitto di classe proponendosi il rovesciamento dell’ordine costituito, quella fabbrica non sembra proprio il luogo dove possano prosperare “libertà e bellezza”, la libertà e la bellezza che dovrebbero insegnarci ad essere felici.

La fabbrica, quindi, è il luogo dove sarà più difficile dimostrare la fattibilità di quell’ordine, armonico e solidale, immaginato da Adriano Olivetti.

Solo che Adriano Olivetti, da una parte è un intellettuale, un filosofo, un sacerdote che predica l’instaurazione di un nuovo mondo dove regnino l’armonia e il bene ma, per altro verso, è il padrone di un’organizzazione che, secondo i principi dell’economia capitalista, ha quale unico ideale quello di massimizzare il profitto. All’interno della fabbrica si incontrano individui, e non persone, che altro non sono che fattori della produzione, da trattare e da retribuire, in ossequio al comandamento del liberismo, con una salario di pura sussistenza. Sia Pio XII che Adriano Olivetti, in quegli anni, avanzeranno l’auspicio di riconoscere ai lavoratori un salario almeno un po’ più elevato di quanto strettamente necessario alla sopravvivenza, seppure le motivazioni che ispirano quell’auspicio non coincidano del tutto.

Nel porgere gli auguri di Natale ai propri dipendenti, nel dicembre del 1955, – ricordando e annunciando misure che oggi verrebbero rubricate con il nome di welfare aziendale – Adriano Olivetti riconosceva che tali misure, “seppur importanti, non sostituiscono né il pane, né il vino, né il combustibile e non ci sottraggono al dovere di lottare strenuamente alla ricerca di un livello salariale più alto, quello che concederà finalmente ad ognuno la propria libertà, che consiste nel poter spendere qualcosa di più del minimo di sussistenza vitale”.

Ma non del solo salario minimo si tratta: Adriano Olivetti scava più a fondo e si chiede – in occasione dell’inaugurazione del nuovo stabilimento di Pozzuoli – se la finalità dell’impresa debba essere esclusivamente la massimizzazione del profitto o se l’impresa non debba avere qualche altra funzione sociale. «Può l’industria darsi dei fini? – egli scrive – Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profitti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinate, una destinazione, una vocazione anche nella vita della fabbrica? La nostra società crede nei valori spirituali, nei valori della scienza, crede nei valori dell’arte, crede nei valori della cultura, crede soprattutto nell’uomo, nella sua fiamma divina e nella sua possibilità di elevazione e riscatto».

È evidente che, per chi va predicando l’avvento di un mondo dove regnino “Armonia, ordine, bellezza, pace”, dirigere un’impresa in coerenza con quei principi costituisca una grande sfida.

Per meglio capire, occorre tener conto di alcuni aspetti dell’esperienza di Adriano Olivetti, non sempre sufficientemente evidenziati che tracciano uno scenario utile per gli approfondimenti. scenario che consente di per il successivo dibattito.

Innanzitutto, occorre ribadire che la sua esperienza non nasce dal nulla. Essa si muove nel solco di una tradizione familiare e di una formazione giovanile. Il padre, ebreo convertitosi da adulto ad una confessione cristiana, appassionato anticlericale, si era dedicato con cura al percorso formativo del giovane Adriano, che non includeva la formazione religiosa. E la madre, figlia di un pastore valdese. E poi i suo interessi giovanili, a cominciare dalla lettura de “I punti essenziali della questioni sociale”, di Rudolf Steiner, autore che avrebbe poi riempito gli scaffali della sua biblioteca, senza trascurare Freud.

Il padre Camillo, oltretutto, aveva un’idea precisa del rapporto da tenere con gli operai. Viene descritto come un uomo che “assumeva povera gente, facendola lavorare al mattino e insegnandole a leggere e scrivere nel pomeriggio”. Padre prodigo di consigli e di raccomandazioni per un figlio destinato alla sua successione. Padre al quale Adriano muove, però, un rimprovero: quella di averlo costretto ad intraprendere studi tecnici, mentre lo scalpitante Adriano avrebbe preferito seguire gli studi classici ed imparare il latino, a conferma di qual fosse, sin da giovane, la sua vocazione, una propensione che i suoi interessi confermeranno più avanti.

Il secondo aspetto è il rapporto con la fabbrica. Secondo un diffuso costume dell’imprenditoria familiare, anche Adriano fu mandato a fare esperienza di fabbrica ancora adolescente. Egli così descrive quell’esperienza: “Imparai così, ben presto a conoscere e odiare il lavoro in serie: una tortura per lo spirito che stava imprigionato per delle ore che non finivano mai”.

Dopo quella prima impressione, che conferma che il lavoro in fabbrica, come comunemente praticato, non coincideva con i sui istinti, ha approfondito la le proprie conoscenze nelle fabbriche degli Stati Uniti. Ha conosciuto il fordismo e il taylorismo. Da imprenditore non ha potuto che apprezzare i vantaggi derivanti dall’efficienza di quei modelli ritenendo che quella cultura potesse portare, secondo quanto aveva osservato in America, ad una situazione di piena occupazione.

Tuttavia, riteneva che, nell’importarli in Italia, andassero adattati. Occorreva conciliarli con quella sua visione, che qualcuno ancora definisce utopica, per poterli adattare alla propria visione illuministica. Per un certo verso illuministica, ma non troppo, se è vero, come spiega Geno Pampaloni, che la natura di quel pensiero era anche di carattere profetico e religioso.

Pertanto, la fabbrica, per potere essere inserita nella sua visione, per alcuni versi neo-platonica, dovrà essere capace di svolgere un ruolo funzionale all’avverarsi della visone, tutta spirituale, della società: l’armonia, l’ordine la bellezza…

Da qui, per un verso, la ricerca di una funzione della fabbrica diversa dal solo profitto, di cui ho già detto, e, per altro verso, l’introduzione di azioni concrete finalizzate ad una trasformazione della fabbrica che risulti sintonica con il suo iperuranio, nel quale la finalità della fabbrica è, anche, quello di perseguire il bene dei dipendenti e non soltanto il profitto. Fabbrica che dovrà produrre “il bene” e non semplicemente “i beni”.

Una cosa, quindi, sono le idee che stanno nell’altro mondo, altro la dura e faticosa realtà di tutti i giorni, rappresentata delle condizioni penose della classe operaia e dalle regole spietate del profitto.

La peculiarità di Adriano Olivetti è che intende provarci, con juicio, alternato a slanci volontaristici, se si vuole, ma sempre con tenacia e con perseveranza. Quindi Adriano Olivetti non è un utopista, come spesso si racconta; non lo è affatto, per la semplice ragione che di fatto ha trasformato la fabbrica in un laboratorio dove sperimentare – ed effettivamente ha sperimentato – pratiche e modelli indirizzati al superamento degli aspetti più brutali dell’organizzazione aziendale, e lo ha fatto in coerenza con i principi spirituali della verità, della giustizia, dell’amore e della bellezza. E lo ha fatto a tutto tondo, curando anche aspetti come quelli relativi all’estetica, all’architettura, al bello. Non tutti gli hanno creduto sino in fondo, se è vero, come racconta Giuseppe Lupo, che tra i “chierici”, gli intellettuali di cui si era circondato ed aveva accolto nella fabbrica, covava qualche scetticismo.

Le relazioni industriali partivano da una premessa ideologica, ovverossia dal rifiuto dei due modelli contrapposti che si contendevano la scena, quello capitalista e quello marxista, ed esploravano una terza via, collaborativa e non conflittuale. Quella scelta intaccava i territori ipotecati dalle due fazioni che si contendevano il campo, Così Adriano Olivetti si faceva nemici a destra e a manca, e si inimicava persino la Chiesa, per quanto fosse l’organizzazione più in sintonia con la sua visione. Al modello di gestione delle relazioni sindacali, si aggiungono le azioni realizzate all’interno della fabbrica e nelle sue periferie. Istruzione, edilizia, trasporti, tempo libero, conciliazione con la vita familiare e tanto altro. Alcune di queste si sono poi diffuse nella più o meno recente pratica di molte imprese, per libera scelta datoriale, o a seguito della contrattazione o perché introdotte dal legislatore.

Con riguardo a questi temi, occorre tener conto che facciamo riferimento ad un periodo assai lontano nel tempo, caratterizzato da un contesto culturale profondamente diverso. Facile, ad esempio, parlare oggi di cultura diffusa, ma quando la fabbrica di Olivetti si apriva alle biblioteche e si organizzavano eventi culturali, in Italia esisteva ancora l’avviamento professionale secondo il modello disegnato da Gentile, nella scuola si insegnava (solo alle ragazze) l’economia domestica, e l’ingresso delle donne in fabbrica non era guardato con favore. Il diritto al lavoro delle donne, proclamato nella formula costituzionale, era temperato dal richiamo al ruolo già esaltato dal regime fascista. Erano state superate (e neppure tutte) le formule giuridiche, ma quel modello era ancora radicato nella mentalità. Ciò consente di comprendere la portata delle “innovazioni” introdotte da Adriano Olivetti nella sua Fabbrica.

La puntuale ricostruzione del prof. Mastinu ha richiamato, con estrema chiarezza, le condizioni che hanno consentito “l’esperimento” di Adriano Olivetti. Ha ricordato che solo sinché la fabbrica produce profitti è consentito scongiurare i licenziamenti per riduzione di personale, mantenendo fede all’impegno che Adriano aveva ereditato dal padre Camillo. Allo stesso tempo, ha ricordato come le innovazioni in materia di welfare aziendale vengono meno via via che lo Stato sociale le fa proprie, riducendo, o annullando, quel differenziale che nella fabbrica di Adriano Olivetti era tanto evidente, per qualità e quantità, da suscitare preoccupazione presso altri imprenditori non altrettanto “illuminati”.

La successiva evoluzione della fabbrica Olivetti e l’evolversi della situazione economica del paese, in conclusione, non consentono di immaginare che quel modello, maturato in un contesto profondamente differente e in presenza di contingenze oggi non attuali, possa essere riproposto. Le circostante sono cambiate radicalmente. Non siamo più in presenza di due modelli contrapposti da superare attraverso una terza via – soluzione che, al tempo della guerra fredda, molti vagheggiavano -. Oggi governa un solo modello, che non è quello uscito vincente dal confronto con il socialismo reale, bensì una forma di capitalismo, più estremo, privo di quei temperamenti che lo avevano caratterizzato per buona parte della seconda metà del secolo scorso, probabilmente funzionali a reggere il confronto con l’altra campana. Un potere costruito sulla base di un liberismo sempre più sfrenato capace di prevalere sul potere statuale.

In più emergono fenomeni nuovi, come la tendenziale scomparsa della classe media e l’allargamento del divario tra ricchi e poveri; l’acuirsi del fenomeno migratorio che compensa il divario tra le economie ricche, con elevata percentuale di tecnologia e di lavoratori altamente qualificati, e quelle povere a livello di sussistenza.

Oggi, ripensare ad Adriano Olivetti è utile ed opportuno. Ma non può significare, sia ben chiaro, la riproposizione del modello all’epoca sperimentato nella fabbrica e nella società; un modello che, oltretutto, quando si misurò nella dimensione nazionale, non ottenne – salvo che nel proprio territorio – il successo sperato.

Ripensare, oggi, al pensiero di Adriano Olivetti, significa, piuttosto, tornare a porsi le stesse domande che egli si poneva, e che proponeva alla società tutta. Domande che, nonostante l’apparenza, non riguardavano essenzialmente la fabbrica, bensì, l’intera società ed il sistema delle relazioni umane. La fabbrica è il luogo dove Adriano Olivetti concepisce e sperimenta la propria filosofia, perché la sorte lo ha chiamato vivere tale esperienza, È per questo che si chiede, ripetutamente, se l’industria non possa darsi dei fini, se questi fini possano trovarsi semplicemente nell’indice dei profitti, se non vi sia, al di là del ritmo apparente, qualcosa di più affascinante, una vocazione anche nella vita della fabbrica. Ma non se lo chiede per soddisfare un’esigenza di filantropia, o di mecenatismo – esperienze che nella storia dell’impresa non è difficile incontrare – né per differenziarsi dal resto del mondo imprenditoriale. Quel clima che sperimenta all’interno propria fabbrica, con il suo welfare, con le sue relazioni sindacali, egli lo propone, quale modello all’intera società.

Il suo modello non è la trasformazione della fabbrica. Tale obiettivo è strumentale e necessario per il raggiungimento dell’obiettivo; ma il modello, “l’utopia”, è quella di una “nuova e autentica civiltà indirizzata a una più libera, felice, consapevole esplicazione della persona umana (Olivetti 2001, p. 102). È all’interno di tale visione che egli si impegna per “rendere la fabbrica e l’ambiente circostante economicamente solidali” (Olivetti 1952, p. 11).

Un progetto per la società, quindi, non espressione di mero volontarismo. Un progetto che richiede l’intervento dello Stato, per il raggiungimento del benessere materiale e spirituale della società, improntato all’umanesimo e alla solidarietà e finalizzato alla ricerca della felicità.

Non è facile immaginare come un tale obiettivo possa essere perseguito all’interno della fabbrica . Soprattutto se si tiene conto di quanto sia labile il collante – etico – che dovrebbe tenere assieme tutti gli elementi. Se è vero che “le forze materiali non sono mai intese da Olivetti come fini a sé stesse, ma sempre come strumento al servizio di mete spirituali” e che “l’impresa può vivere e crescere solo attraverso il proprio trascendimento spirituale indotto da una costante tensione religiosa”. (A. Peretti, in FabbricaFuturo, 25.12. 2012).

Le sue realizzazioni, il suo welfare, altro non sono che anticipazioni di un modello che dovrebbe estendersi all’intera società e quindi destinate ad essere superate. Ciò è avvenuto solo in parte. Il liberismo economico – seppure imbellettato dall’ambigua lusinga della responsabilità sociale dell’impresa – non tollera altri Dei se non il profitto, unico vero oggetto di devozione.

La comunità, piuttosto che esprimere solidarietà, si dissolve nell’individualismo.

La fabbrica, ritornando al programma di Adriano Olivetti, dovrebbe essere posta al servizio della verità, della giustizia, della bellezza, dell’amore. Verità intesa come libertà di ricerca e di progresso scientifico; giustizia, concepita come equa ridistribuzione a chi lavora della ricchezza da lui prodotta; bellezza, espressione visibile della raggiunta armonia tra esigenze materiali e spirituali; amore, rivolto all’essere umano, [alla] sua fiamma divina, [alla] sua possibilità di elevazione e di riscatto. (Olivetti 2001, p. 28).

A guardarsi intorno, oggi, rimane un dubbio: se si tratti di un reperto di archeologia rinascimentale o dell’ordito di una novella di fantascienza.

Gianni Loy

Il sonno della ragione. Siamo contro Hamas e contro il Governo israeliano di Netanyahu espressione della destra e di religiosi fanatici. Siamo per la convivenza pacifica tra israeliani e palestinesi. Chiediamo il cessate il fuoco e la fine dei massacri.

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Palestina: «Un caso di genocidio da manuale e il fallimento dell’Onu»
di Craig Mokhiber

A distanza di tre settimane dall’attacco terroristico di Hamas e mentre si susseguono i bombardamenti israeliani sulla Striscia di Gaza, il direttore dell’Ufficio di New York dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani dell’Onu, Craig Mokhiber, ha comunicato all’Alto Commissario le sue dimissioni, dopo oltre trent’anni di servizio. La lettera di dimissioni è un duro atto di accusa contro le politiche dello Stato di Israele («Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina»), la copertura ad esse assicurata dagli Stati Uniti, dal Regno Unito e dall’Unione Europea, la resa e il fallimento dell’Onu. È un documento che occorre conoscere anche per l’autorevolezza del suo autore. (la redazione di Volerelaluna 2 novembre 2023)

Caro Alto Commissario,

questa sarà la mia ultima comunicazione ufficiale a Lei in qualità di Direttore dell’Ufficio dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani di New York.

Scrivo in un momento di grande angoscia per il mondo, anche per molti dei nostri colleghi. Ancora una volta, stiamo assistendo a un genocidio che si sta svolgendo sotto i nostri occhi e l’Organizzazione che serviamo sembra impotente a fermarlo. Come persona che ha indagato sui diritti umani in Palestina fin dagli anni ’80, che ha vissuto a Gaza come consulente delle Nazioni Unite per i diritti umani negli anni ’90 e che ha svolto diverse missioni per i diritti umani nel Paese prima e dopo, questo mi coinvolge molto personalmente. Ho lavorato in questo Ufficio anche durante i genocidi contro i Tutsi, i musulmani bosniaci, gli Yazidi e i Rohingya. In ogni caso, quando la polvere si è posata sugli orrori perpetrati contro popolazioni civili indifese, è apparso dolorosamente chiaro che avevamo fallito nel nostro dovere di soddisfare gli imperativi di prevenzione delle atrocità di massa, di protezione dei vulnerabili e di denuncia delle responsabilità. E così è stato per le successive ondate di omicidi e persecuzioni contro i palestinesi durante l’intera vita delle Nazioni Unite.
Alto Commissario, stiamo fallendo di nuovo.

Come avvocato specializzato in diritti umani con oltre tre decenni di esperienza sul campo, so bene che il concetto di genocidio è stato spesso utilizzato abusivamente per scopi politici. Ma l’attuale massacro su larga scala del popolo palestinese, radicato in un’ideologia coloniale etno-nazionalista, in continuità con decenni di persecuzione ed epurazione sistematica, basata interamente sul loro status di arabi, e accompagnato da esplicite dichiarazioni d’intenti da parte dei leader del governo e dell’esercito israeliano, non lascia spazio a dubbi o discussioni. A Gaza, le case, le scuole, le chiese, le moschee e le istituzioni mediche dei civili sono state attaccate senza pietà, mentre migliaia di civili sono stati massacrati. In Cisgiordania, compresa Gerusalemme occupata, le case vengono confiscate e riassegnate in base alla razza e violenti pogrom dei coloni sono appoggiati da unità militari israeliane. In tutto il territorio regna l’apartheid.

Questo è un caso di genocidio da manuale. Il progetto coloniale europeo, etno-nazionalista e colonizzatore, in Palestina è entrato nella sua fase finale, verso la distruzione accelerata degli ultimi resti della vita indigena palestinese in Palestina. Inoltre, i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e di gran parte dell’Europa sono totalmente complici di questo orribile assalto. Non solo questi governi si rifiutano di adempiere ai loro obblighi di “garantire il rispetto” delle Convenzioni di Ginevra, ma di fatto stanno attivamente armando l’assalto, fornendo sostegno economico e di intelligence e dando copertura politica e diplomatica alle atrocità di Israele.

Allo stesso tempo, i media occidentali, sempre più succubi e filo-governativi violano apertamente l’articolo 20 del Patto internazionale sui diritti civili e politici, disumanizzando continuamente i palestinesi per facilitare il genocidio, e trasmettendo propaganda di guerra e odio nazionale, razziale o religioso, di fatto incitando alla discriminazione, all’ostilità e alla violenza. Le società di social media con sede negli Stati Uniti sopprimono le voci dei difensori dei diritti umani e amplificano la propaganda pro-Israele. Le lobby israeliane e le GONGOS [pseudo ONG create o sponsorizzate dai governi per promuovere i loro interessi, ndt] molestano e diffamano i difensori dei diritti umani, e le università e i datori di lavoro occidentali collaborano con loro per punire chi osa alzare la propria voce contro le atrocità. Per questo genocidio, è necessario chiedere conto anche a loro, proprio come per radio Milles Collines in Ruanda.

In queste circostanze, la richiesta alla nostra organizzazione di un’azione giusta ed efficace è più grande che mai. Ma non abbiamo raccolto la sfida. Il potere protettivo del Consiglio di Sicurezza è stato nuovamente bloccato dall’intransigenza degli Stati Uniti, il Segretario Generale è sotto attacco per le proteste più blande e il nostro impegno per la difesa dei diritti umani è oggetto di un continuo attacco diffamatorio da parte di una rete organizzata di impunità online.

Le promesse illusorie e in gran parte insincere di Oslo hanno distolto per decenni l’Organizzazione dal suo dovere fondamentale di difendere il diritto internazionale, i diritti umani internazionali e la stessa Carta. Il mantra della “soluzione a due Stati” è diventato una barzelletta nei corridoi delle Nazioni Unite, sia per la sua assoluta impossibilità di fatto, sia per il suo totale fallimento nel rendere conto dei diritti umani inalienabili del popolo palestinese. Il cosiddetto “Quartetto” [gruppo creato nel 2002 a Madrid per favorire una soluzione pacifica al conflitto israelo-palestinese; comprende le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, l’Unione europea e la Russia, ndt] non è diventato altro che una foglia di fico per l’inazione e per l’asservimento a uno status quo brutale. Il riferimento (scritto dagli Stati Uniti) agli “accordi tra le parti stesse” (al posto del diritto internazionale) è sempre stato un trasparente gioco di prestigio, progettato per rafforzare il potere di Israele sui diritti dei palestinesi occupati e diseredati.

Negli anni ’80 mi sono avvicinato a questa Organizzazione perché vi ho trovato un’istituzione basata su principi e norme, che si schierava decisamente dalla parte dei diritti umani, anche nei casi in cui i potenti Stati Uniti, Regno Unito ed Europa non erano dalla nostra parte. Mentre il mio governo, le sue istituzioni e gran parte dei media statunitensi continuavano a sostenere o giustificare l’apartheid sudafricana, l’oppressione israeliana e gli squadroni della morte centroamericani, l’ONU si schierava a favore dei popoli oppressi di quelle terre. Avevamo il diritto internazionale dalla nostra parte. Avevamo i diritti umani dalla nostra parte. Avevamo i principi dalla nostra parte. La nostra autorità era radicata nella nostra integrità. Ma ora non più.

Negli ultimi decenni, parti importanti delle Nazioni Unite si sono arrese al potere degli Stati Uniti e alla paura della lobby di Israele, abbandonando questi principi e ritirandosi dal diritto internazionale stesso. Abbiamo perso molto in questo abbandono, non da ultimo la nostra credibilità globale. Ma è il popolo palestinese ad aver subito le perdite maggiori a causa dei nostri fallimenti. È un’incredibile ironia storica che la Dichiarazione universale dei diritti umani sia stata adottata nello stesso anno in cui è stata perpetrata contro il popolo palestinese la Nakba [esodo forzato, ndt]. Mentre commemoriamo il 75° anniversario della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, faremmo bene ad abbandonare il vecchio cliché secondo cui la Dichiarazione sarebbe nata dalle atrocità che l’hanno preceduta, e ad ammettere che è nata accanto a uno dei più atroci genocidi del XX secolo, quello della distruzione della Palestina. In un certo senso, i redattori promisero i diritti umani a tutti, tranne che al popolo palestinese. E ricordiamoci anche che le stesse Nazioni Unite hanno il peccato originale di aver contribuito a facilitare l’espropriazione del popolo palestinese, ratificando il progetto coloniale europeo che ha sequestrato la terra palestinese e l’ha consegnata ai coloni. Abbiamo molto da espiare.

Ma la via dell’espiazione è chiara. Abbiamo molto da imparare dalle posizioni di principio assunte nelle città di tutto il mondo negli ultimi giorni, quando masse di persone si sono schierate contro il genocidio, anche a rischio di percosse e arresti. I palestinesi e i loro alleati, i difensori dei diritti umani di ogni genere, le organizzazioni cristiane e musulmane e le voci ebraiche progressiste che dicono “non in nostro nome”, sono tutti in prima linea. Tutto ciò che dobbiamo fare è seguirli. Ieri, a pochi isolati da qui, la Grand Central Station di New York è stata completamente occupata da migliaia di ebrei, difensori dei diritti umani, che si sono schierati in solidarietà con il popolo palestinese e hanno chiesto la fine della tirannia israeliana (molti rischiando l’arresto). Così facendo, hanno eliminato in un attimo il punto di vista della propaganda hasbara israeliana (e vecchio tropo antisemita) secondo cui Israele rappresenta in qualche modo il popolo ebraico. Non è così. E, in quanto tale, Israele è l’unico responsabile dei suoi crimini. A questo proposito, è bene ribadire, nonostante le calunnie della lobby israeliana, che le critiche alle violazioni dei diritti umani di Israele non sono antisemite, così come le critiche alle violazioni saudite non sono islamofobe, le critiche alle violazioni del Myanmar non sono anti-buddiste, o le critiche alle violazioni indiane non sono anti-induiste. Quando cercano di metterci a tacere con le calunnie, dobbiamo alzare la voce, non abbassarla. Sono certo che converrà con me, Alto Commissario, che questo è il senso di dire la verità al potere.

Ma trovo anche speranza in quelle parti dell’ONU che si sono rifiutate di compromettere i principi dei diritti umani dell’Organizzazione, nonostante le enormi pressioni in tal senso. I nostri relatori speciali indipendenti, le commissioni d’inchiesta e gli esperti degli organi dei trattati, insieme alla maggior parte del nostro personale, hanno continuato a difendere i diritti umani del popolo palestinese, anche quando altre parti delle Nazioni Unite (anche ai livelli più alti) hanno vergognosamente chinato la testa al potere. In quanto custode delle norme e degli standard sui diritti umani, l’Alto Commissariato ha il particolare dovere di difenderli. Il nostro compito, a mio avviso, è quello di far sentire la nostra voce, dal Segretario generale all’ultima recluta delle Nazioni Unite, e orizzontalmente in tutto il sistema ONU, insistendo sul fatto che i diritti umani del popolo palestinese non sono oggetto di discussione, negoziazione o compromesso in nessun luogo sotto la bandiera blu.

Come dovrebbe essere, allora, una posizione basata sulle norme delle Nazioni Unite? Per cosa dovremmo lavorare se fossimo fedeli ai nostri ammonimenti retorici sui diritti umani e sull’uguaglianza per tutti, sulla responsabilità per i colpevoli, sulla riparazione per le vittime, sulla protezione dei vulnerabili e sulla responsabilizzazione dei titolari dei diritti, il tutto nell’ambito dello Stato di diritto? La risposta, a mio avviso, è semplice – se solo avremo la lucidità di vedere al di là delle cortine propagandistiche che distorcono la visione della giustizia a cui abbiamo prestato giuramento, il coraggio di abbandonare la paura e la deferenza nei confronti degli Stati potenti, e la volontà di alzare veramente la bandiera dei diritti umani e della pace. Certo, si tratta di un progetto a lungo termine e di una salita ripida. Ma dobbiamo iniziare ora o arrenderci a un orrore indicibile. Vedo dieci punti essenziali:

Azione legittima: in primo luogo, noi delle Nazioni Unite dobbiamo abbandonare il fallimentare (e in gran parte falso) paradigma di Oslo, la sua illusoria soluzione a due Stati, il suo impotente e complice Quartetto e la sua sottomissione del diritto internazionale ai dettami di una presunta convenienza politica. Le nostre posizioni devono basarsi in modo inequivocabile sui diritti umani e sul diritto internazionale.

Chiarezza di visione: dobbiamo smettere di fingere che si tratti semplicemente di un conflitto per la terra o la religione tra due parti in guerra e ammettere la realtà della situazione in cui uno Stato dal potere sproporzionato sta colonizzando, perseguitando ed espropriando una popolazione indigena sulla base della sua etnia.

Uno Stato unico basato sui diritti umani: dobbiamo sostenere l’istituzione di uno Stato unico, democratico e laico in tutta la Palestina storica, con pari diritti per cristiani, musulmani ed ebrei e, quindi, lo smantellamento del progetto coloniale profondamente razzista e la fine dell’apartheid in tutta la terra.

Lotta all’apartheid: dobbiamo reindirizzare tutti gli sforzi e le risorse delle Nazioni Unite alla lotta contro l’apartheid, proprio come abbiamo fatto per il Sudafrica negli anni ’70, ’80 e primi anni ’90.

Ritorno e risarcimento: dobbiamo riaffermare e insistere sul diritto al ritorno e al pieno risarcimento per tutti i palestinesi e le loro famiglie che attualmente vivono nei territori occupati, in Libano, Giordania, Siria e nella diaspora in tutto il mondo.

Verità e giustizia: dobbiamo chiedere un processo di giustizia transitoria, facendo pieno uso di decenni di indagini, inchieste e rapporti delle Nazioni Unite, per documentare la verità e garantire la responsabilità di tutti i colpevoli, il risarcimento di tutte le vittime e i rimedi per le ingiustizie documentate.

Protezione: dobbiamo fare pressioni per il dispiegamento di una forza di protezione delle Nazioni Unite dotata di risorse adeguate e di un forte mandato per proteggere i civili dal fiume al mare [dal fiume Giordano alla costa del Mediterraneo, ndt].

Disarmo: dobbiamo sostenere la rimozione e la distruzione delle massicce scorte di armi nucleari, chimiche e biologiche di Israele, per evitare che il conflitto porti alla distruzione totale della regione e, forse, anche oltre.

Mediazione: dobbiamo riconoscere che gli Stati Uniti e le altre potenze occidentali non sono in realtà mediatori credibili, ma piuttosto parti effettive del conflitto, che sono complici di Israele nella violazione dei diritti dei palestinesi, e dobbiamo affrontarli come tali.

Solidarietà: dobbiamo spalancare le nostre porte (e le porte del Segretario Generale) alle legioni di difensori dei diritti umani palestinesi, israeliani, ebrei, musulmani e cristiani che sono solidali con il popolo palestinese e con i suoi diritti umani e fermare il flusso incontrollato di lobbisti israeliani negli uffici dei leader delle Nazioni Unite, dove sostengono la continuazione della guerra, della persecuzione, dell’apartheid e dell’impunità e diffamano i nostri difensori dei diritti umani per la loro difesa di principio dei diritti dei palestinesi.

Ci vorranno anni per raggiungere questi obiettivi, e le potenze occidentali ci combatteranno ad ogni passo, quindi dobbiamo essere saldi. Ora, anzitutto, dobbiamo lavorare per un cessate il fuoco immediato e la fine del lungo assedio su Gaza, opporci alla pulizia etnica di Gaza, Gerusalemme e Cisgiordania (e altrove), documentare l’assalto genocida a Gaza, contribuire a portare massicci aiuti umanitari e per la ricostruzione ai palestinesi, prenderci cura dei nostri colleghi traumatizzati e delle loro famiglie e lottare con tutte le forze per un approccio attento ai principi negli uffici politici delle Nazioni Unite.

Il fallimento dell’ONU in Palestina non è un motivo per ritirarsi. Piuttosto, dovrebbe darci il coraggio di abbandonare il paradigma fallimentare del passato e di abbracciare pienamente un percorso più basato sui principi. Come Alto Commissariato, uniamoci con coraggio e orgoglio al movimento anti-apartheid che sta crescendo in tutto il mondo, aggiungendo il nostro logo alla bandiera dell’uguaglianza e dei diritti umani per il popolo palestinese. Il mondo ci guarda. Tutti noi dovremo rendere conto della nostra posizione in questo momento cruciale della storia. Schieriamoci dalla parte della giustizia.

La ringrazio, Alto Commissario Volker, per aver ascoltato questo ultimo appello dalla mia scrivania. Tra pochi giorni lascerò l’Ufficio per l’ultima volta, dopo oltre tre decenni di servizio. Ma non esitate a contattarmi se potrò esservi utile in futuro.

28 ottobre 2023

Cordialmente

Craig Mokhiber

L’originale della lettera può leggersi al link https://volerelaluna.it/wp-content/uploads/2023/11/Lettera-Craig-Mokhiber-a-Alto-commissario-ONU-diritti-umani.pdf. La traduzione è opera della redazione .

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craig-mokhiberCraig Mokhiber è direttore dell’ufficio di New York dell’Alto Commissario per i diritti umani (OHCHR). Avvocato e specialista in diritto internazionale, politica e metodologia sui diritti umani, presta servizio alle Nazioni Unite dal 1992. In qualità di capo del gruppo per i diritti umani e lo sviluppo negli anni ’90, ha guidato lo sviluppo del lavoro originale dell’OHCHR sugli approcci basati sui diritti umani alla definizioni di povertà sensibili allo sviluppo e ai diritti umani. Ha anche ricoperto il ruolo di consulente senior per i diritti umani delle Nazioni Unite sia in Palestina che in Afghanistan, ha guidato il team di specialisti dei diritti umani assegnato alla missione ad alto livello in Darfur, ha guidato l’Unità per lo stato di diritto e la democrazia e ha servito come capo dell’Ufficio economico e delle questioni sociali e capo della sezione per lo sviluppo e le questioni economiche e sociali presso la sede dell’OHCHR.
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Il valore della Comunità

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Convegno di studi
ADRIANO OLIVETTI E LA SARDEGNA
Attualità di una prospettiva umanistica

Cagliari 27 e 28 ottobre 2023
Aula Bachisio Motzo – Facoltà di Studi Umanistici
dell’Università degli Studi di Cagliari, Sa Duchessa.
img_5003 La Comunità in una società individualizzata
di Remo Siza

Introduzione
Nel linguaggio corrente, in Italia, è molto ampio il richiamo alla comunità, sebbene, come ha rilevato Bagnasco (1999) l’uso del termine comunità per certi versi è problematico in quanto nella stessa parola si sovrappongono significati molto differenti. George Hillery (1955; Collins, 2010) rilevava che esistono 94 definizioni di comunità e l’unico aspetto comune a tutte queste definizioni è l’idea di un tessuto di relazioni sociali che si stabilisce tra le persone. Altre dimensioni del concetto quali la prossimità, la profondità emotiva delle relazioni non sempre sono condivise dai vari autori.
Nel dibattito politico e nei programmi dei principali partiti, il richiamo alla comunità assume differenti significati:
- la comunità locale, spesso come livello politico locale contrapposto a quello centrale
- la comunità come ambito della partecipazione diretta delle persone al governo che assicura l’efficacia e l’efficienza dell’azione pubblica
- come sistema delle autonomie locali capace di rispondere alla crisi dei partiti e della rappresentanza politica;
- come superamento dello squilibrio urbano/rurale, per riavvicinare la città alle aree interne dimenticate dal mercato e dall’attuale modello di sviluppo.
Infine, la comunità è stata riscoperta nei sistemi di welfare che intendono valorizzare il ruolo delle famiglie e le relazioni di comunità nella cura delle persone, il Servizio sociale di comunità, la comunità educativa; come iniziativa professionale di Sviluppo della comunità riconoscendone la sua rilevanza nella vita delle persone.
Nel pensiero di Adriano Olivetti tutte queste accezioni del termine comunità erano presenti: non per contrapporre comunità arcaica e città moderna, non come ritorno al passato, ma come idea-forza per una radicale riforma del sistema politico e la costruzione di una società ‘a misura d’uomo’ (Olivetti, 2001).
La comunità è vista come mediazione fra individuo e Stato, come riappropriazione inevitabilmente selettiva della tradizione, come ambito di innovazione, ambito di relazioni che rafforzano e danno sostanza umana allo sviluppo industriale. Il richiamo alla comunità era chiaramente legato alla necessità di valorizzare la comunità concreta come una forma nuova di rappresentanza più forte e più efficiente della democrazia ordinaria e ad una preoccupazione per la fragilità dei legami sociali, per i cambiamenti che travolgevano i sistemi di valore e le istituzioni in una società post-contadina.

I cambiamenti della società industriale
La comunità che Olivetti richiamava nel suo progetto di riforma era cambiata profondamente a partire dagli ultimi anni Cinquanta. Una straordinaria espansione economica e una imponente mobilità territoriale che aveva come destinazione le città del triangolo industriale contribuiva ad un cambiamento profondo della società italiana. Non cambiava soltanto l’economia, cambiavano, forse in modo più radicale, le relazioni fra le persone.
Lo sviluppo industriale incideva profondamente sull’equilibrio individuo e comunità e su un processo fondamentale della modernità: il processo di individualizzazione (Beck, 1992; Beck e Beck-Gernsheim, 2001).
Il processo di individualizzazione è il fondamento delle società occidentali e di ogni dinamica di innovazione e cambiamento. È un processo che valorizza l’autonomia individuale, che promuove il distacco dai ruoli e vincoli tradizionali, da ogni costrizione (della famiglia autoritaria tradizionale, della comunità), verso una crescita della libertà e della consapevolezza di sé dell’individuo, per costruire una vita indipendente sulla base dei valori e dei principi della nascente modernità industriale
In una fase di transizione, questi processi orientano le agenzie di socializzazione verso la costruzione di individualità che si distinguono dalle comunità di appartenenza.

Una individualizzazione parziale
Negli anni Sessanta, in particolare, i processi di individualizzazione si diffondono molto rapidamente e coinvolgono una larga parte della società italiana.
Una parte significativa della popolazione, soprattutto i più giovani, vuole realizzare il proprio progetto di vita, scegliere autonomamente il proprio destino spesso lontano dalla comunità di origine, assumere la propria indipendenza rispetto alle attese dei genitori, della rete parentale allargata, dalla comunità, dalle grandi associazioni collettive.
Le comunità tradizionali comunque non si dissolvono. In fondo, questi processi di emancipazione e di individualizzazione (cioè di distacco dai ruoli e vincoli tradizionali verso una crescita della libertà individuale) erano ancora governabili. Per certi versi era una individualizzazione contenuta e programmata secondo esigenze funzionali al nuovo sviluppo economico.
La società industriale era una società percorsa da grandi cambiamenti ma comunque solida nei suoi riferimenti culturali, era una società sostanzialmente integrata, in cui le patologie della modernità erano ancora governabili.
Il richiamo di Olivetti alla comunità aveva comunque una sua concretezza. La comunità aveva ancora la sua consistenza. Il Movimento Comunità declinò con la morte di Olivetti (1960), sebbene in quegli anni la comunità a cui Olivetti si riferiva era ancora vitale e poteva ancora contare su una larga parte delle sue risorse tradizionali di partecipazione e di relazioni sociali amichevoli. Il futuro di un movimento politico comunitario sembrò dipendere strettamente dall’iniziativa e dall’attivismo di Adriano Olivetti più che dai cambiamenti delle comunità concrete.
L’idea di comunità rimaneva comunque vitale nel linguaggio corrente, nelle iniziative sociali e culturali di associazioni, di gruppi locali molto attivi.
In fondo nella società industriale degli anni Cinquanta e Sessanta, i processi di individualizzazione si diffondono rapidamente nel tessuto sociale, ma sono ancora parziali. Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, la Chiesa, il sindacato, le grandi associazioni) sono ancora solide. La famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile: si riduce sensibilmente il numero di figli, è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali. Le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.
Gli individui sono più autonomi, ma le forme collettive di appartenenza (la comunità, il sindacato, le grandi associazioni, la Chiesa) sono ancora solide, si allentano i legami collettivi, ma non del tutto:
- la famiglia è diventata nucleare, ma è ancora stabile si riduce sensibilmente il numero di figli; ma i ruoli di genere persistono sebbene siano accettati con molte più resistenze dalla donna;
- la famiglia è ancora inserita nella rete parentale e nella rete dei diritti e dei doveri, seppure in termini meno vincolanti e più esplicitamente conflittuali;
- le abitudini e le tradizioni della comunità di appartenenza ancora persistono sebbene si siano indebolite nella loro capacità di orientare i comportamenti sociali.

Nelle società industriali, c’era ancora una continuità e un passaggio lineare tra due fasi del processo di individualizzazione
1. la fase “liberatoria” dai vincoli e costrizioni che limitano l’autonomia e la capacità di autodeterminazione delle persone e non consentono di realizzare i loro progetti di vita. Ciò che diventa importante è la raggiunta possibilità di scegliere la propria vita, senza rassegnazione e passività.
2. la successiva fase di ricomposizione di nuove forme di stare insieme, di convivenza, nuove relazioni di amicizia e di collaborazione, nuove relazioni con le istituzioni che di norma seguono questa fase liberatoria.

I cambiamenti economici e sociali travolgevano la civiltà contadina, le sue relazioni, le sue staticità, ma allo stesso tempo rivitalizzavano le istituzioni più moderne (famiglia nucleare, il ruolo della donna, i partiti, i sindacati…)
La società industriale è una società moderna che ha in mente il suo punto di arrivo:
- la famiglia nucleare (i genitori con un numero limitato di figli) modernizzata nelle sue relazioni, meno autoritaria;
- la Chiesa ha un ruolo cruciale nella vita delle persone seppure risulti indebolita da processi di secolarizzazione;
- le istituzioni politiche sono solide,
- il lavoro per una larga parte della popolazione è stabile, dignitoso, remunerato sufficientemente per partecipare a pieno titolo alla vita sociale.

I movimenti comunitari degli anni Novanta
Negli anni Novanta, cambia profondamente la relazione individuo-comunità ed emerge una radicalizzazione dei processi di individualizzazione. Le individualità che emergono sono più radicalmente indipendenti dalle comunità territoriali e i legami sociali si indeboliscono in termini molto più significativi.
In questi anni, i movimenti comunitari assumono particolarmente rilevanza in molte parti del mondo.
Così come era accaduto in Italia, in altre nazioni il movimento comunitario aveva una sua esplicita caratterizzazione politica e costituì una corrente fondamentale della Terza via il progetto politico che si proponeva di superare la tradizionale dicotomia tra destra (conservatrice o neoliberista) e la sinistra tradizionale.
Negli Stati Uniti e nel Regno Unito movimenti comunitari coinvogevano in un progetto di politica di riforma della società, politici come Bill Clinton e Tony Blair oltre che decine di altri Capi di Stato nel mondo. Il richiamo della comunità, lo ritroviamo qualche anno più tardi (nel primo decennio del duemila) nella Big Society del Governo conservatore inglese di David Cameron richiamato dal Governo Berlusconi nel Libro Bianco sul futuro del modello sociale (2009), verso un welfare community che sostituisca il welfare state.
Il Communitarian Network, fondato da Amitai Etzioni nel 1993, è il movimento più importante (Pesenti, 2002). Il movimento nasce da una forte preoccupazione sul futuro delle società contemporanee ed è fondato sulla rivitalizzazione delle comunità, sulla costruzione di valori comuni, di una cultura della coesione sociale.
Il perno di questo progetto di riforma sono gli agenti della socializzazione (famiglia, scuola, gruppo dei pari, lavoro, mass media) che orientano il comportamento individuale e collettivo e l’urgenza di un potenziamento delle loro capacità integrative:
- l’esigenza che la famiglia svolga la sua funzione educativa,
- che la scuola non si limiti a curare lo sviluppo cognitivo dei giovani senza alcuna attenzione ad aspetti morali;
- che la comunità si responsabilizzi rispetto ai problemi che sorgono nel suo ambito, sia realmente un punto d’incontro, di comunicazione, di sostegno reciproco tra le persone,
- sia responsive ‘capace di comprendere e dare risposta alle esigenze reali di tutti i membri della comunità.
- promuova il senso di responsabilità degli individui e delle collettività, un nuovo equilibrio tra diritti e doveri.
Il crescente individualismo sembrava delineare forme di vita non più socialmente ed ecologicamente percorribili (Etzioni, 1993; 1998).
Il neo comunitarismo costituiva una critica severa alla libertà del mercato, raccomandava una qualche prudenza nella libertà individuale e nelle scelte di vita, auspicava un ruolo più limitato dello stato e la necessità di un richiamo ad alcuni valori della tradizione.

Il richiamo alla comunità nella società individualizzata
In molte nazioni il pensiero comunitario ha costituito una delle radici culturali della Terza via: ha avuto capacità di mobilitazione nel primo decennio del nuovo millennio, ma negli anni successivi ha perso la capacità di affrontare le criticità che emergevano.
Dopo i primi anni di crescita, il pensiero comunitario non è emerso come sfida culturale credibile ai due principali sviluppi del liberalismo classico (espressione dominante dell’ideologia occidentale) analizzati da Fukuyama in un suo recente saggio (2022). L’idea centrale del liberalismo classico è la valorizzazione e la protezione della autonomia individuale, come libertà di parola, di associazione, di fede e di vita politica. Fukuyama, rileva che in questi ultimi due decenni il liberalismo ha avuto due sviluppi radicali:
- il neoliberismo nell’economia come libertà del mercato senza interferenze dello stato,
- il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella scelta dello stile di vita e dei valori, che valorizza l’autonomia delle persone nella vita quotidiana (p. 17).

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Il neoliberismo nell’economia ha travolto il conservatorismo delle destre tradizionali, sollecitato il cambiamento, l’innovazione, la conquista di nuovi mercati, la competizione, la liberazione dai vincoli e dalle costrizioni che limitano l’iniziativa individuale.
Il liberalismo negli stili di vita ha costituito il naturale compimento dell’affermata libertà individuale anche nella vita privata, sul piano culturale, piuttosto che il conservatorismo delle tradizioni, come espressione di una emancipazione e di una liberazione che finalmente era possibile assicurare a tutti, come espressione della modernità avanzata che il capitalismo intendeva rappresentare.
Queste due sviluppi del liberalismo hanno costituito i riferimenti fondamentali dello Spirito del nuovo capitalismo (Boltanski e Chiapello, 2014), di un capitalismo altamente tecnologico che si riappropria delle istanze di cambiamento, di modernità degli stili di vita, di diritti di libertà individuali negli stili di vita.
In nuovo capitalismo che emerge nella modernità avanzata si rivolge verso le azioni che concorrono alla realizzazione del profitto. Allo stesso tempo, in armonia con i valori e le preoccupazioni di coloro che sono coinvolti nei processi di produzione, si appoggia su un impianto culturale giustificatorio adeguato ad una società individualizzata che valorizza il cambiamento, la realizzazione individuale, il rischio e la mobilità (Boltanski e Chiapello, 2014: 76-84).
Nei primi due decenni del nuovo millennio il neoliberismo nell’economia e il liberalismo come costante rivendicazione dell’autonomia individuale hanno assunto un ruolo cruciale nella trasformazione dell’economia e delle relazioni fra le persone, hanno inciso significativamente sui processi di individualizzazione e sugli agenti di socializzazione (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, i mass media) che ne orientano l’evoluzione, radicalizzandone le dimensioni liberatorie rispetto alle regole, ai legami e alle tradizioni.
Queste due versioni del liberalismo hanno sostituito, solo parzialmente, e in parte marginalizzato, il conservatorismo dei movimenti tradizionali di destra, legato ai valori e ai principi morali del passato, alla continuità e il compromesso socialdemocratico tra capitale e lavoro che per circa tre decenni ha assicurato ad una parte considerevole della popolazione estesi sistemi di welfare e alti salari, stabilità e crescita.

La crisi dei processi di individualizzazione
Il mix di cambiamenti radicali del lavoro, delle condizioni economiche e delle relazioni nella vita privata creano instabilità e insicurezze insostenibili per molti gruppi sociali. Cresce la capacità di mobilitazione di movimenti che coinvolgono gruppi sociali travolti dall’apertura dei mercati, dalla globalizzazione e resi incerti e insicuri nella sfera di vita. In molte parti del mondo i movimenti populisti si rivolgono al popolo che lavora duramente contro l’establishment politico, economico culturale, scientifico (le “élite corrotte”), che ha creato insicurezza, impoverimento diffuso, disuguaglianze. Questi movimenti intendono valorizzare lo stato nazionale come risposta al mercato globalizzato, con un costante richiamo alla famiglia tradizionale, alla comunità tradizionale e a principi conservatori nelle relazioni private; alla politica come espressione della volontà della maggioranza del popolo (general will) e non come espressione di minoranze etniche o religiose.
Nei movimenti populisti il richiamo alle comunità perde i suoi significati innovativi. Si assume come riferimento la comunità tradizionali del passato, le relazioni tradizionali nella scuola, in famiglia, le gerarchie e le distinzioni di una volta. Ma per realizzare questo ritorno al passato non dovremmo soltanto cercare di sollecitare relazioni tradizionali di fiducia e rispetto, ma dovremmo ricostruire anche le istituzioni che rendevano possibile e funzionali queste relazioni umane: il lavoro di una volta, la famiglia tradizionale, la comunità come ambito di relazioni territoriali, l’assenza di tecnologie, le concezioni tradizionali del tempo e dello spazio. Certe disposizioni interiore alla collaborazione e alle relazioni amichevoli tipiche di una comunità tradizionale nascono in un contesto oggettivo ben definito, con molte difficoltà possono essere riproposte in contesti che hanno opportunità di relazione e difficoltà oggettive molto differenti.
Il richiamo alla comunità del passato rischia in molti casi di trasformarsi in un impegno attivo per una comunità chiusa di persone uguali, di minoranze etniche, religiose che non intendono confrontarsi e trovare punti di contatto con altre culture oppure in una autosegregazione delle persone con alti livelli di reddito, le cosiddette gated community, residenze separate vigilate e presidiate da operatori di polizia privata, con sistemi di recinzione e di controllo tecnologico sofisticati.

Una lunga transizione
Una rilettura degli scritti del movimento comunitario di Adriano Olivetti e una valutazione più attenta del neo comunitarismo possono esserci utili per promuovere un dibattito pubblico più articolato sulla relazione individuo-comunità:
- sul ruolo che svolgono le principali istituzioni (la famiglia, la scuola, il gruppo dei pari, l’ambiente di lavoro)
- sulla loro capacità di promuovere il senso di responsabilità degli individui e delle collettività;
- sui processi di socializzazione, cioè, sui processi di interazione, di sviluppo e di formazione della personalità umana;
- sull’equilibrio che intendiamo stabilire tra comunità, mercato e Stato
Ciò che sembra delinearsi è una lunga transizione tra la società industriale del secolo scorso, sostanzialmente stabile, prevedibile e lineare nel suo sviluppo e nelle sue frequenti conflittualità collettive e una modernità molto avanzata di cui ancora non riusciamo a cogliere e a definire a grandi linee il punto di arrivo, le istituzioni che possono rappresentarlo, i suoi riferimenti culturali, le forme di convivenza civile che possiamo condividere, i comportamenti che possiamo tollerare.
La normalità è sempre più estesa, comprende scelte e stili di vita che pochi anni fa la maggioranza delle persone marginalizzava; in fondo siamo disponibili a ritenere normale qualsiasi comportamento.
In una larga parte delle società occidentali contemporanee, non sappiamo più come governare l’autonomia e l’attivismo delle persone nella vita reale (Siza, 2022). Nelle relazioni virtuali queste difficoltà sono ancora più evidenti. Ciò che noi osserviamo nella nostra vita sociale:
- è la crescita di moltitudini di individui con deboli legami collettivi,
- attivi nel senso che con loro impegno radicale intendono cambiare e semplificare le regole della democrazia e della convivenza civile,
- riflessivi nel senso che valutano individualmente ogni sollecitazione, ogni richiesta delle istituzioni anche in ambiti che richiedono specifiche competenze (dal vaccino alle reazioni al riscaldamento globale) (Siza, 2022).
In società globalizzate, caratterizzate da rapide innovazioni tecnologiche, l’attivismo radicale delle persone che intendono promuovere un cambiamento profondo nell’ambito dei sistemi pubblici e nella vita ordinaria, crea una generale instabilità nella vita quotidiana e nella vita di ogni istituzione (la famiglia, la scuola, il sistema politico).
In molti contesti, i processi di individualizzazione sono diventati disfunzionali, tendono a produrre estesi conflitti sociali, nuove divisioni sociali nuove, chiare e distinte, nuove e competitive identità sociali in termini di valori e modelli comportamentali, nella vita pubblica e privata.
Dobbiamo chiederci, quali siano i valori interiorizzati nel nostro passato oppure presenti e attivi nel nostro vivere quotidiano che promuovono l’integrazione, una convivenza civile più amichevole; i valori che ci impediscono o limitano significativamente la discriminazione di alcuni gruppi sociali, le relazioni di sopraffazione.

L’emergere di individualità collaborative
Allo stesso tempo, però, emergono sistemi di valore, azioni individuali e collettive molto differenti dall’individualismo strumentale. In molti contesti i processi di individualizzazione contribuiscono alla creazione di individualità collaborative, creano individui che riconoscono il valore e l’autonomia degli altri; costruiscono nuovi rapporti di collaborazione e di innovazione; valorizzano la comunità in cui vivono e operano non come fonte di norme e controllo stabilizzati, ma come contesto relazionale in cui creare risposte collettive ai bisogni delle persone.
Il nostro impegno può essere indirizzato all’osservazione di contesti, di condizioni, di sistemi di valore che favoriscono questi processi di crescita delle persone; alle iniziative delle istituzioni, delle famiglie, delle comunità che creano disponibilità umane, gli atti concreti che creano individualità attive capaci non soltanto di inserirsi attivamente nel mercato del lavoro, ma anche di creare relazioni collaborative, iniziative collettive, costruire attivamente una convivenza civile più soddisfacente,
Forse dobbiamo incominciare a riflettere su una visione di una società differente, in qualche modo alternativa al neoliberismo e alla costante rivendicazione dell’autonomia individuale nella vita quotidiana. Non un modello da generalizzare e neanche una normalità stringente e ben definita da assumere come riferimento in ogni contesto di vita.
È necessario, invece, incominciare ad immaginare una società che valorizzi le iniziative autonome che danno concretezza a principi come l’uguaglianza, la dignità delle persone, la giustizia sociale, l’inclusione e la sicurezza fondate comunque su principi e un tessuto di valori che progressivamente, con i tempi del cambiamento culturale, diventino largamente condivisi alle individualità e alle collettività capaci di curare le relazioni con le persone
Così come in questi ultimi decenni abbiamo fatto per le relazioni uomo-natura, i cambiamenti climatici, il degrado ambientale, abbiamo bisogno di riprendere il discorso pubblico sulla fragilità dei legami sociali, sulla crescente frammentazione sociale, sulla esigenza di costruire relazioni sociali caratterizzate da profondità emotiva, impegno morale e continuità nel tempo (Nisbet, 1977: 68), dimensioni di vita che sono alla base di rapporti amichevoli e di una comunità concreta. Il miglioramento delle nostre relazioni fra le persone può essere generato da un discorso pubblico ricorrente sulla insostenibile fragilità dei legami sociali, avviare una riflessione pubblica sulla nostra convivenza civile, per quali motivi il tessuto di relazioni che sta emergendo crea troppo frequentemente insicurezza e inquietudine.
Il pensiero di Adriano Olivetti, sulla comunità, sul lavoro, sui rapporti fra istituzioni politiche rappresentative, sul ruolo della famiglia e della scuola, del gruppo dei pari, ci sarà sicuramente molto utile in queste riflessioni.

Riferimenti bibliografici
Hillery, G. (1955) Definitions of Community: Areas of Agreement. Rural Sociology, 20, pp. 111-123.
Bagnasco, A. (1999) Tracce di comunità, Bologna: il Mulino.
Beck U. (1992) La società del rischio, Roma: Carocci.
Beck U. and Beck-Gernsheim E. (2001) Individualisation, London: Sage.
Collins, P.H. (2010) The New Politics of Community, American Sociological Review, 1(75), pp. 7-30.
Etzioni, A. (1993) The Spirit of Community: Rights, Responsibilities and the Communitarian Agenda, New York: Crown Publishers.
Etzioni, A. (a cura di) (1998) Nuovi Comunitari, Castelvecchio (Bologna): Arianna Editrice.
Fukuyama, F. (2023) Liberalism and Its Discontents, London: Profile Book.
Nisbet, R.A. (1977) La tradizione sociologica, Firenze: la Nuova Italia.
Olivetti, A. (2001) Città dell’uomo, Torino: Edizioni di Comunità, Torino
Olivetti, A. (20013) Il cammino della Comunità, Torino: Edizioni di Comunità.
Pesenti, L. (2002) Comunitarismo-Comunitarismi: una tipologia essenziale, in I. Colozzi (a cura di) Varianti di comunitarismo, in Sociologia e Politiche Sociali, 2(5), pp. 9-38
Siza, R. (2022) The Welfare of the Middle Class. Changing Relations in European Welfare States, Bristol: Policy Press.
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The day after. Riflessioni (e proposte) personali del “dopo Convegno”

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di Franco Meloni
Il convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica” che si è concluso sabato 28 mattina ha sollecitato una grande quantità di approfondimenti su tematiche che si possono riproporre e su altre ulteriori, che richiedono una serie di nuove auspicabili iniziative.
Io provo ad avanzare qualche riflessione, si tratta per ora solo di suggestioni.
Innanzitutto una premessa che traggo dalla relazione del cardinale Arrigo Miglio: ci ha detto che Adriano Olivetti nella sua incessante e innovativa attività imprenditoriale, sociale e politica incontrò molti ostacoli e decisi oppositori, tra questi anche la Chiesa di Ivrea, che mal sopportava il suo intervento nel campo sociale (similmente i Sindacati, specie la Cisl, che lo vedevano invadere il proprio ambito, per non dire dei grandi partiti). Ma mons. Miglio, originario del Canavese e, in tempi più recenti del periodo di A. Olivetti, Vescovo di Ivrea, ha parlato soprattutto del rapporto con la Chiesa eporediese. Ebbene, nel tempo, i rapporti di ostilità si convertirono in collaborazione, sia con Adriano Olivetti in vita (che si convertì al cattolicesimo, non certo per convenienza, rimanendo profondamente laico), sia dopo la sua morte (1960), quando, sei anni dopo, divenne Vescovo di Ivrea mons. Luigi Bettazzi e, successivamente, mons. Arrigo Miglio. Una evoluzione analoga ha avuto in generale, in Italia, il mondo della Cultura laica, da una parte, e della Chiesa conciliare dall’altra, e non solo, dove da una contrapposizione tra laici e cattolici si è passati a un fecondo rapporto di dialogo. Ovviamente sono consapevole che il discorso è complesso e che sto ragionando per semplificazioni, che comunque mi consentono di affermare che il nostro convegno ne è una prova. Infatti, semplificando, in questo convegno si sono incontrati sostanzialmente due mondi, quello laico e quello cattolico. Gli intellettuali che hanno partecipato e animato il Convegno (relatori e no) appartengono a uno dei due mondi o a entrambi, ma, in questo ragionamento mi piace così schematizzare: Il mondo laico rappresentato dai diversi apporti dell’Università di Cagliari e di Sassari, il mondo cattolico rappresentato dagli esponenti della Facoltà teologica della Sardegna, presente sia nel comitato scientifico sia attraverso padre gesuita Giuseppe Riggio, che ha proposto – seppur costretto dalla tirannia del tempo – significative conclusioni. Lo ha fatto in una forma davvero intelligente, in quanto è riuscito a coinvolgere tutte le (poche) coraggiose persone che hanno resistito, sabato, fino alla fine del convegno, in tutto una ventina. Nel breve dibattito finale si sono registrati dieci interventi, che hanno proposto interessanti riflessioni. Io ne ho avanzate due: la prima riguarda la tematica del lavoro, molto spinosa, anzi drammatica, pensando soprattutto ai giovani e agli espulsi di ogni età dal mondo del lavoro. Il Mondo, e, in Italia, il Sud e la Sardegna in modo particolare, è afflitto dalla mancanza di lavoro, dal precariato, da compensi ai lavoratori non dignitosi, in presenza di vergognose discriminazioni e ingiustificate ineguaglianze. E, giustamente, al contrario, il Papa e la Chiesa sostengono il «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale» (cfr Papa Francesco, Esort. apost. Evangelii gaudium, 192), concetto riproposto come titolo della 48ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, tenutasi a Cagliari nei gg. 26-29 ottobre 2017, che non si discosta, anzi completa, uno dei motti programmatici, laici, del mondo del lavoro: “lavorare tutti, lavorare meno, lavorare meglio“. Adriano Olivetti praticava questi concetti, come abbiamo sentito in diverse relazioni del convegno, in modo anticipatorio rispetto alle normative attuali sul lavoro che attengono alla responsabilità sociale dell’impresa e al welfare aziendale.
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
La seconda suggestione riguarda il concetto di sussidiarietà, anche esso praticato – sebbene non chiamato nello stesso modo da Adriano Olivetti. Ricordo che il principio di sussidiarietà fu per primo introdotto dalla chiesa cattolica, precisamente nella Rerum Novarum di Leone XIII (1891). Il principio è stato “costituzionalizzato” dalla riforma costituzionale del 2001, articolo 118, laddove si parla sia di sussidiarietà verticale, che riguarda i vari livelli istituzionali: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e di sussidiarietà orizzontale che attiene alla partecipazione dei cittadini alla vita sociale per il raggiungimento degli interessi di carattere generale (*) Proprio basandoci su questo principio, su cui si fonda l’attività del Terzo Settore, possiamo pensare di riformare la politica, oggi tanto estranea al comune cittadino. Oggi la “Teoria di Comunità” elaborata e in certa parte sperimentata da Adriano Olivetti e dai suoi collaboratori, anche scontando dolorosi insuccessi, come il deludente risultato dell’avventura elettorale nelle Politiche del 1958, nella quale fu coinvolto il Psdaz. Proprio da quella sconfitta, superandone il trauma, poteva nascere un robusto movimento popolare sardo (ce n’è da dire e da fare!). Purtroppo la morte di Adriano Olivetti chiuse ogni possibilità per una prospettiva virtuosamente percorribile. Che il nostro Convegno ha l’ardire di rilanciare!
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
Lancio infine una proposta, che mi sembra abbiamo praticato in questa “due giorni convegnistica”, cioè una chiamata all’impegno di tutti noi (gli organizzatori), con il coinvolgimento di altri che vogliano aggiungersi, per l’istituzione anche nella nostra città di una “cattedra dei non credenti“ sul modello che tanto avuto successo e utilità, pensato e realizzato anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini, nel suo mandato di arcivescovo di Milano. Evidentemente, mutando ciò che c’è da mutare, tenendo conto delle persone e delle risorse di cui disponiamo. L’iniziativa si iscriverebbe nei percorsi sinodali della Chiesa universale e di quella italiana e sarda.

Voglio concludere con una celebre frase, a me tanto cara, del credente cardinale Martini, in totale sintonia con il non credente filosofo Norberto Bobbio: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza»

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(*) Cost., art.118 ult. comma (…) Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
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Articolo pubblicato in contemporanea su Aladinpensiero e su il manifesto sardo: media partner del Convegno.
Su il manifesto sardo:
https://www.manifestosardo.org/riflessioni-del-dopo-convegno-su-adriano-olivetti-e-la-sardegna/
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Gli intellettuali sardi chiedono un aiuto per la Sardegna ad Adriano Olivetti

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Nei giorni venerdì 27 (mattina e sera) e sabato 28 ottobre (solo mattina) si terrà nell’Aula Motzo della Facoltà di Studi Umanistici dell’Università di Cagliari un Convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.

Il Convegno è organizzato dalla Fondazione Sardinia, Università degli Studi di Cagliari: Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali – Gruppo di ricerca Comunità e lavoro del Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali dell’Università di Cagliari – Dipartimento di Giurisprudenza, dalla Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, con il patrocinio della Fondazione Adriano Olivetti.

Adriano Olivetti (1901-1960) “è tra le figure più influenti e singolari del Novecento. Imprenditore straordinario, eminente uomo di cultura, politico, innovatore delle scienze sociali e precursore dell’urbanistica e dell’architettura, tra il 1930 e il 1960 ha condotto la fabbrica di macchine per scrivere del padre e dei primi computer, ai vertici del successo mondiale e dell’innovazione tecnologica. Il suo progetto di riforma sociale in senso comunitario è oggi riconosciuto come una tra le realizzazioni più attuali e avanzate di sostenibilità”.

Dopo i saluti istituzionali, introdurrà i lavori Francesca Crasta, proponendo una prospettiva filosofica alla base del pensiero olivettiano, mentre Beniamino de’Liguori Carino, Segretario generale della Fondazione Olivetti parlerà dell’eredità culturale di Adriano Olivetti. Con il coordinamento di Salvatore Cubeddu, la prima sessione sarà dedicata all’esperienza di Adriano Olivetti in Sardegna, quando stipulò un accordo elettorale con il Psd’az. Le relazioni saranno tenute da Luca Lecis (Aspetti del dibattito sulla Rinascita), Stella Barbarossa (L’attività politica di Adriano Olivetti in Sardegna), Nicolò Migheli (L’esperienza comunitaria a Santu Lussurgiu), Duilio Caocci (Antonio Cossu: uno scrittore olivettiano in Sardegna), Franciscu Sedda (La simbologia comunicativa di Adriano Olivetti).

Nella II Sessione, pomeridiana, coordinata da Gianni Loy, sarà trattato il tema del lavoro e relazioni industriali nella fabbrica di Adriano Olivetti. Le relazioni saranno tenute da Enrico Mastinu (Le relazioni industriali nella “fabbrica” di Adriano Olivetti), Piera Loi (La responsabilità sociale dell’impresa), Sonia Fernandez Sanchez (Il welfare aziendale). La III Sessione, ultima della sera, coordinata da Duilio Caocci, tratterà la teoria della comunità. Le relazioni saranno tenute dal Card. Arrigo Miglio (Cattolici politica DC e Comunità-partito di Olivetti), Remo Siza (La Comunità in una società individualizzata), Simona Campus (Sinisgalli, Nivola, Pintori e l’umanismo pubblicitario di Olivetti), Mauro Pala (Ancestors: le radici britanniche del pensiero di Adriano Olivetti).

La III sessione riprenderà sabato mattina 28 ottobre 2023 con le relazioni di Antonella Camarda (Olivetti va in America. Italianità e internazionalismo negli show-room d’oltreoceano), Aldo Lino (Gli architetti di Adriano), Stefania Lucamante (Il ritratto di Adriano Olivetti nel “Lessico famigliare” di Natalia Ginzburg). Dopo uno spazio dedicato agli interventi del pubblico, le conclusioni saranno svolte a cura di Giuseppe Riggio s.j. e del Comitato scientifico composto da Duilio Caocci; Salvatore Cubeddu; Gianni Loy e Franco Meloni; Cardinale Arrigo Miglio; Giulio Parnofiello s.j. La conclusione dei lavori è prevista alle ore 13.30. I media partner sono Aladinpensiero News e il manifesto sardo.
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Convegno “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica”.
Cagliari, 27 e 28 ottobre 2023
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Comitato scientifico e Relatori
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Comitato Scientifico

Duilio Caocci

img_4708Duilio Caocci insegna Letteratura italiana e Letteratura sarda presso la Facoltà di Studi Umanistici di Cagliari. Tra il 2009 e il 2011 è stato componente del Comitato Nazionale per le Celebrazioni del centenario della nascita di Giuseppe Dessì e dal 2016 è segretario della Commissione Nazionale per l’opera omnia di Grazia Deledda istituita presso il Ministero per i beni e le attività culturali. È inoltre condirettore del Seminario internazionale sull’opera di Andrea Camilleri e redattore dei Quaderni camilleriani.
Ha pubblicato numerosi saggi sulla letteratura italiana medievale e sulla letteratura sarda tra Cinque e Novecento.
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Salvatore Cubeddu

img_4698Salvatore Cubeddu. Sociologo, già dirigente sindacale e politico. Giornalista pubblicista. Autore di saggi sulla politica e sulla società sarda contemporanea. Già Sindaco di Seneghe. Direttore della Fondazione Sardinia.
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Gianni Loy

img_4878Gianni Loy. Scrittore e poeta. Già professore ordinario di Diritto del Lavoro nell’Università di Cagliari.
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Franco Meloni

img_3744Franco Meloni, laureato in Economia e commercio, già dirigente dell’Università degli Studi di Cagliari, esperto di formazione degli adulti in ambito organizzativo. Giornalista pubblicista, direttore della news online Aladinpensiero.
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Card. Arrigo Miglio

img_4821Il card. Arrigo Miglio è Arcivescovo emerito di Cagliari. Presbitero dal 1967, Vescovo di Iglesias 1992, Vescovo di Ivrea 1999, Arcivescovo di Cagliari 2012, Cardinale dal 2022.
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Giulio Parnofiello sj

img_4703Giulio Parnofiello, dopo la laurea in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è entrato nella Compagnia di Gesù e ha completato la sua formazione con la licenza e il dottorato in teologia morale presso la Pontificia Università Gregoriana. È stato docente a Roma, Cagliari e Napoli, dove attualmente insegna presso la Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale – Sez. S. Luigi.

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Relatori e Coordinatori

Francesca Crasta
Beniamino de’ Liguori Carino
Salvatore Cubeddu
Luca Lecis
Stella Barbarossa 
Nicolò Migheli
Duilio Caocci
Franciscu Sedda
Gianni Loy
Enrico Mastinu
Piera Loi
Sonia Fernandez Sanchez
Card. Arrigo Miglio
Antonella Camarda
Remo Siza
Simona Campus
Mauro Pala
Stefania Lucamante
Aldo Lino
Giuseppe Riggio sj
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Francesca Crasta

img_4819Francesca Maria Crasta è Professoressa ordinaria di Storia della Filosofia presso l’Università degli Studi di Cagliari. Nell’ambito dei suoi studi si è occupata di metafisica e di cosmologia in età medievale e moderna; della filosofia della natura; della diffusione del razionalismo cartesiano; dei rapporti fra erudizione, filosofia e scienza; della tradizione neoplatonica in età moderna. Tra le sue pubblicazioni figurano: La filosofia della natura di Emanuel Swedenborg, L’eloquenza dei fatti. Filosofia, erudizione e scienze della natura nel Settecento veneto. Geografia celeste e Mundus imaginalis da Swedenborg a Strindberg.
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Beniamino de’ Liguori Carino

img_4827 Beniamino de’ Liguori Carino è Segretario Generale della Fondazione Adriano Olivetti e Vicepresidente dell’Associazione Archivio Storico Olivetti. La Fondazione nasce nel 1962, due anni dopo la sua morte, e nel primo articolo del suo statuto ha il mandato di “promuovere l’opera culturale e sociale suscitata da Adriano Olivetti”. Questo è l’obiettivo che la Fondazione cerca tuttora di perseguire, in risposta all’interesse che la storia imprenditoriale e intellettuale di Olivetti continua a suscitare.

Luca Lecis

img_4828Luca Lecis è professore associato di Storia contemporanea nel Dipartimento di Lettere, Lingue e Beni culturali, dove svolge anche la sua attività di ricerca.
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Stella Barbarossa

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Stella Barbarossa. 2 Novembre 2022 – in corso – Ammissione presso Scuola di Archivistica, Paleografia e
Diplomatica presso l’Archivio di Stato di Cagliari.
18 Febbraio 2022 Conseguimento Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totale dell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa.
Settembre 2018 – Febbraio 2022 Dottorato in Storia, Beni culturali e Studi internazionali presso l’Università degli Studi di Cagliari, con un progetto dal titolo “Per una rigenerazione totaledell’isola: il Partito Sardo d’Azione e la sua ripresa politica e organizzativa”.
20 Aprile 1018 – Conseguimento della Laurea magistrale in Storia e società presso l’Università degli Studi di Cagliari, con votazione 110/110 e lode e dignità di stampa; tesi in Storia e Società sulla nascita e lo sviluppo della Facoltà di Filosofia e Lettere presso l’Università di Cagliari dal 1764 al 1900. [titolo: Il Collegio e la Facoltà di Filosofia e Arti presso la Regia Università di Cagliari (1764- 1900). (Relatore: Professoressa Cecilia Tasca]
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Nicolò Migheli

img_4831Sociologo, si occupa di sviluppo rurale e di comportamento organizzativo. Ha al suo attivo diverse pubblicazioni di carattere scientifico, molte delle quali dedicate alla cultura, alla storia, alla tradizione di vari territori e comunità sarde. È anche autore di numerosi interventi e articoli su agricoltura, pastorizia, cibo e altre tematiche collegate alla conservazione e gestione dei saperi e peculiarità dell’isola. Esordisce nella narrativa nel 2011 con il fortunato romanzo Hidalgos (Arkadia Editore), con il quale è finalista al Premio Alziator 2012, al Premio Chambery 2013 e al Premio Cuneo, pubblicato anche in Bulgaria. Sempre per Arkadia Editore, nel 2013, partecipa all’antologia La cella di Gaudì e pubblica il romanzo La storia vera di Diego Henares de Astorga. Ultimo libro, 2023: Il cavaliere senza onore (Arkadia Editore).
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Franciscu Sedda

img_4706Franciscu Sedda è professore associato presso l’Università degli Studi di Cagliari, dove insegna Semiotica delle lingue e dei linguaggi, Semiotica della comunicazione contemporanea, Semiotica Culturale. È stato visiting professor presso la Harvard University e la Pontificia Universidade di São Paulo.

 

Enrico Mastinu

img_4823Enrico Maria Mastinu è professore associato di diritto del lavoro nel Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari in seno ai cui corsi di studio insegna Diritto del lavoro e Diritto della previdenza sociale.
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Piera Loi

img_4822Piera Loi è professoressa ordinaria di Diritto del lavoro presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università degli Studi di Cagliari. È componente di gruppi di ricerca sia a livello internazionale che nazionale; oltre ai temi del diritto comparato del lavoro e del diritto del lavoro dell’Unione Europea, in questi ultimi anni si è dedicata allo studio dei cambiamenti del diritto del lavoro causati dall’uso delle tecnologie digitali e dell’intelligenza artificiale.
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Sonia Fernandez Sanchez

img_4800 Sonia Fernandez Sanchez è professoressa Associata in Diritto del lavoro presso l’Università degli Studi di Cagliari.
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Remo Siza

img_4710Remo Siza. Collabora con riviste di politiche sociali in Italia e nel Regno Unito. È componente dell’Editorial Board del Journal of International and Comparative Social Policy (Cambridge University Press) e consulente scientifico dell’Osservatorio nazionale e delle politiche sociali. Docente di Politiche sociali e progettazione dei servizi presso l’Università di Sassari.

 

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Antonella Camarda

antonella-camarda-ftAntonella Camarda è ricercatrice RTDB in Museologia, Storia della Critica d’Arte e del Restauro presso l’Università di Sassari. Dal 2015 al 2022 è stata direttrice del Museo Nivola di Orani, con cui continua a collaborare come curatrice aggiunta. I suoi interessi di ricerca includono la scultura, la storia transculturale del Modernismo e il rapporto tra arte, artigianato, design e architettura.

 
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Simona Campus

img_4903 Simona Campus. È curatrice del MUACC Museo universitario delle arti e delle culture contemporanee, recentemente fondato in seno all’Università di Cagliari, e referente responsabile per il Sistema museale d’Ateneo. Il suo lavoro curatoriale muove dall’idea di mostra come luogo di ricerca, rivolgendosi alle istanze dell’epoca contemporanea.
All’Università di Cagliari ha, inoltre, l’incarico per gli insegnamenti di Museologia e Storia delle esposizioni e delle pratiche curatoriali. I suoi interessi si rivolgono, in particolare, alla pluralità e interazione tra differenti codici espressivi, alla restituzione e alla rilettura dell’opera delle artiste tra XX e XXI secolo, all’arte come possibilità di impegno, partecipazione, inclusione.

Mauro Pala

img_4817Mauro Pala è Professore Ordinario di Letterature Comparate presso il Dipartimento di Lingue, Lettere e Beni Culturali dell’Università di Cagliari; dal 2018 coordina il Dottorato Internazionale in Studi Filologici- Letterari e Storico-Culturali. I suoi interessi di ricerca comprendono la teoria critica, la letteratura postcoloniale, i Cultural Studies. Ha insegnato e tenuto conferenze presso università americane, statunitensi ed europee, tra le sue pubblicazioni recenti figurano saggi su John Steinbeck, Edward Said, Siegfried Kracauer, James Joyce, Stendhal, il concetto di intertestualità. Nel semestre in corso tiene un corso di Laurea Magistrale su letteratura e lavoro.

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Stefania Lucamante

img_4697Stefania Lucamante. Ha insegnato per circa trent’anni negli Stati Uniti e da quattro ha preso servizio all’Università di Cagliari dove insegna letteratura italiana contemporanea.
Ha pubblicato sulla scrittrice Elsa Morante, Primo Levi, Carlo Levi, Natalia Ginzburg e altri autori. In particolare si occupa della narrativa di donne e della narrazione della Shoah.

Aldo Lino

img_4829Aldo Lino, architetto per esclusione (di matematica, lettere e filosofia), professore per combinazione (architettonica e urbana), ai tempi giovane promessa nel paesaggio locale (degli architetti (eh…), insulari e peninsulari).
Il suo lavoro è stato pubblicato su diverse riviste e settimanali (Panorama, L’Europeo, Ottagono, Domus, L’industria delle Costruzioni, Vita Nostra, Archivi di Architettura, Quaderni oristanesi, D’Architettura, Quaderni del Corso di Progettazione della Facoltà di Ingegneria di Cagliari… ) e diversi libri (Muratore, Italia gli ultimi trent’anni; Masala, Architettura del Novecento in Sardegna; Lucchini, L’identità molteplice; Scaglione, Oltre i maestri; Atzeni, Sardinian young Architecture, …). Tra le varie attività di progetto e costruzione si possono citare le case popolari a Solarussa e Oristano, il Centro sociale a Palmas Arborea, le torri campanarie a Nurachi e Villasimius, il Municipio di Ollastra, la palestra a Solarussa, il Parco termale a Sardara, il restauro di numerose chiese tra cui la Basilica di Santa Giusta, la Chiesa cattedrale di Bosa, il Duomo di Oristano e diversi oggetti di arredo domestico (una culla, un seggiolino, un appendiabiti, una sedia, una panchina, un tavolo, una cassetta per le lettere, un lume, …).
Dopo aver infruttuosamente portato borse nelle università di Cagliari e di Sassari e aver cercato di essere all’altezza dell’Istituto Europeo del Design di Cagliari, luogo scomodo dove bisognava pensare in grande, attualmente insegna Progettazione architettonica, urbana e varie altre amenità al Dipartimento di Architettura di Alghero, raccontando degli altri ma non di se’.
Di scrittura avaro (Attorno alla storia, alla geografia, all’architettura; Le città di fondazione in Sardegna; La città ricostruita; Praga memories 1977), di parola scorrevole (numerose conferenze in diverse sedi universitarie sugli anni Cinquanta e i suoi protagonisti), instancabile animatore (Circolo di architettura, Aperitivi di architettura, Attività culturali del Dipartimento di Alghero, …), armatore fallito, marinaio disponibile, pittore e fotografo a tempo perso per guadagnare tempo e qualche sorriso. Coltiva l’ambizione di imparare a suonare la tromba.

Giuseppe Riggio sj

img_4810Giuseppe Riggio SJ è direttore di Aggiornamenti Sociali dal 2022. È autore di una monografia teologica sul gesuita francese Michel de Certeau (storico, antropologo e studioso dei mistici del Seicento) ed è coautore di Il nome giusto delle cose, pubblicato nel 2018, un volume sul discernimento ignaziano rivolto ai giovani e a quanti li accompagnano. Nel novembre 2021 è stato nominato Consulente ecclesiastico nazionale dell’UCSI, l’associazione dei giornalisti cattolici.

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