Editoriali

Riflessioni sull’enciclica Fratelli tutti: Libertà, Uguaglianza, sì, ma prima di tutto la Fraternità.

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di Franco Meloni.
Nell’enciclica “Fratelli tutti – Sulla fraternità e l’amicizia sociale”, il Papa riprende i tre grandi princìpi proclamati dalla Rivoluzione Francese, “Libertà, uguaglianza e fraternità”, valorizzando l’ultimo in relazione con gli altri due. Afferma il Papa [103]: “La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. [...]. La fraternità ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore. [104]. Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che “tutti gli esseri umani sono uguali”, bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità. Coloro che sono capaci solamente di essere soci creano mondi chiusi. [...] [105]. L’individualismo non ci rende più liberi, più uguali, più fratelli. La mera somma degli interessi individuali non è in grado di generare un mondo migliore per tutta l’umanità. Neppure può preservarci da tanti mali che diventano sempre più globali. Ma l’individualismo radicale è il virus più difficile da sconfiggere. Inganna. Ci fa credere che tutto consiste nel dare briglia sciolta alle proprie ambizioni, come se accumulando ambizioni e sicurezze individuali potessimo costruire il bene comune”.
Davvero opportuno l’intervento del Papa, preso atto che il valore della fraternità è stato sottovalutato nel tempo, da tutti. Forse solo gli artisti, in primis i poeti, lo hanno sempre tenuto in auge. Solo un esempio, che mi sovviene dai miei studi di gioventù: la poesia Fratelli di Giuseppe Ungaretti.

La ricordate?
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Di che reggimento siete
fratelli?

Parola tremante
nella notte

Foglia appena nata

Nell’aria spasimante
involontaria rivolta
dell’uomo presente alla sua
fragilità

Fratelli
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Con parole essenziali Ungaretti esalta il valore della fraternità. Ma perché un valore così importante è stato quasi dimenticato nel tempo? Una risposta convincente la dà lo scrittore-poeta Michele Tortorici, che in un post, datato 5 maggio 2013, ipotizza le ragioni di tale dimenticanza (1).

“Costatiamo ogni giorno che, dei tre grandi valori che la Rivoluzione Francese ha lasciato in eredità al mondo contemporaneo, «Liberté, Égalité, Fraternité», proprio su quest’ultimo il pensiero politico e filosofico occidentale si è esercitato meno che sugli altri. Questa disattenzione sarà stata forse causata da una certa difficoltà a considerare in termini laici un concetto che per solito associamo a una visione religiosa, e in particolare cristiana, della vita e del mondo. In questa visione, la fraternità non è tanto un valore quanto un dato riconducibile al piano biologico. La nostra volontà non c’entra: siamo fratelli non perché lo vogliamo, ma perché siamo figli di Dio che è, di tutti noi, padre. O forse la causa sarà stata una confusione – errata confusione – tra fraternità e uguaglianza sociale. E dunque, fallite le forme di realizzazione storicamente date di tale uguaglianza (fallito cioè il cosiddetto socialismo reale), si è preferito non pensarci più. Qualunque sia la causa, resta il fatto che si è trattato – e si tratta – di una disattenzione imperdonabile. Ma per fortuna ci sono i poeti. E la riflessione di Ungaretti nella poesia Fratelli ce lo dimostra”.
E, ribadisco io, non solo i poeti, ma tutti gli artisti. Strettamente connessa alla fraternità è la disponibilità all’incontro. Ecco perché è del tutto pertinente richiamare la citazione, che il Papa fa nel’enciclica, di un verso della canzone “Samba delle Benedizioni” (Samba da Bênção) di Vinicius de Moraes: «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita», che rende magnificamente l’invito a far crescere una cultura dell’incontro. Aggiunge il Papa “È uno stile di vita che tende a formare quel poliedro che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte».Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda, benché ciò comporti discussioni e diffidenze. Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo. Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti”.

Tornando a Enciclica e Rivoluzione francese, sulla stessa lunghezza d’onda Andrea Pubusa in un post scritto sul blog Democraziaoggi (2).

Francesco capovolge la triade rivoluzionaria: fraternité, egalité, liberté
Francesco nella sua enciclica capovolge in certo senso l’ordine della celebre triade della Grande Rivoluzione e mette per prima la fraternità, non a caso l’ultima e la più negletta delle tre. A ben vedere liberté si può intendere in vario modo e ognuno se la gira a suo comodo. Sono per la libertà gli oppressi, ma lo sono anche coloro che li opprimono. I primi ritengono che la libertà debba anzitutto essere liberazione dal bisogno come base di tutte le prerogative della persona verso gli altri e verso lo Stato. Anche gli oppressori, con molte sfumature, ritengono che la loro libertà non debba incontrare intralci e condizionamenti nè di ordine legislativo nè di natura sociale. Quante polemiche contro i lacci e i laccioli dello Stato, che altro non sono, generalmente, che limiti alla libertà dei ceti dominanti in favore di quelli subalterni o delle imprese in materia ambientale o di salvaguardia della salute dei lavoratori.
E l’egalité quante declinazioni ha avuto? Non si contano. E’ meno flessibile della liberté, ma, per esempio, anche in una versione avanzata come la uguaglianza dei punti di partenza, come pari opportunità, a quante e a quali disuguaglianze conduce? La sola esperienza storica insegna che coniugare eguaglianza e libertà è complicato, perché la prima non può essere piena, se non si limita la libertà dell’impresa o non si toglie a chi ha in eccesso. Il movimento comunista ci ha provato ma ha messo capo al c.d. socialismo reale, dove si era formata una casta di privilegiati con una compressione ingiustificata delle libertà formali. La fraternità è un’altra cosa è meno ambigua, si presta meno ad interpretazioni che la negano. Ho sempre pensato che la fraternité non abbia avuto il successo nominalistico di liberté ed egalité perché lo Stato come entità acorporea non può amare, può al più garantire e promuovere diritti e uguaglianza (ed è già molto), fraternité implica una rivoluzione intellettuale e morale, la creazione dell’uomo nuovo, liberato dall’ego e completamente immerso nel noi, come professava anche l’umanesimo marxista.
Francesco tira la palla avanti e rilancia questa sfida per il futuro, una sfida tanto ardua perché implica una rivoluzione integrale, che investe non solo le istituzioni e i rapporti sociali ed economici, ma l’uomo come singolo e come parte dell’umanità (…)
quella palla lanciata da Francesco noi dobbiamo spingerla con forza avanti perché è un mezzo di liberazione, non solo religioso, ma laico.

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Constato come il richiamo esplicito fatto da Papa Francesco ai valori della Rivoluzione francese venga ripreso anche da molti commentatori cattolici. Scontato quello di Raniero La Valle, più sorprendenti i richiami di appartenenti al clero. Per esempio il vescovo di Rimini, Francesco Lambiasi, del quale riportiamo alcuni passi di un recente discorso (3)

‘Fraternité’ è parola laica o cristiana?
(…) “Fraternità – si dice – non è (più) parola cristiana, bensì laica e rivoluzionaria. Perché ora la Chiesa se la (ri)annette indebitamente fino a (ri)‘battezzarla’?”. In verità, più che di appropriazione indebita, probabilmnte si dovrebbe parlare di condivisione appropriata. In effetti Liberté – Égalité – Fraternité formano il trionfale trinomio della Rivoluzione Francese. A pensarci bene, ritengo queste tre parole tutt’e tre, insieme, cristiane, laiche e rivoluzionarie.
Cristiane, perché vengono dal linguaggio del Nuovo Testamento.
Laiche, perché sono parole del comune linguaggio dell’umano.
Rivoluzionarie, perché provengono dal linguaggio sovversivo e contestatore della guerra, della disumanità, di una cattiva economia e di una politica boriosa, tracotante e disastrosa.
Purtroppo però il celebre trinomio è stato usato male. La libertà è stata ‘ristretta’ alla distruttiva (dis)illusione di un individualismo radicale e ripiegato. L’uguaglianza è stata equivocata e male interpretata come un “fare parti uguali tra disuguali, ma questa è somma ingiustizia” (Don L. Milani). Anche la fraternità è stata piegata a una interpretazione distorta. Perché tutti siamo fratelli, e tutti lo dimentichiamo. Ma un po’ di più noi cristiani. Così come le altre fedi religiose, quando hanno tradito il disegno del Creatore, insanguinando la vita e conculcando i diritti delle minoranze”
.
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Da più parti si invoca allora un riavvicinamento tra mondi che nel tempo si sono ignorati e spesso combattuti, come ricordato da Massimo Cacciari, in una recente intervista a Repubblica, ripresa dalle Agenzia di stampa (4).
“La Chiesa sposa l’Illuminismo ma sarà inascoltata”. Il Papa, spiega, “più volte utilizza le parole libertà, uguaglianza e fraternità, ossia il fulcro di quel pensiero laico storicamente opposto al pensiero della Chiesa. Da un punto di visto politico “Fratelli tutti” è un po’ più incisiva delle precedenti, anche se resta nel solco, ormai tradizionale, delle encicliche sociali di critica alla globalizzazione”. Aggiunge anche: “Il discorso di Bergoglio è un grande appello alla fraternità universale che resterà, lo sappiamo, purtroppo inascoltato”.
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Su un altro versante Papa Francesco lavora per consolidare i rapporti con il mondo dell’Islam. La fratellanza costituisce il terreno di confronto e integrazione sulla base della dichiarazione di Abu Dhabi del 4 febbraio 2019.

Mi piace, infine, chiudere queste riflessioni ancora una volta con le parole di Raniero La Valle: “Poiché è sull’amore, questa è un’enciclica laica, anzi di una straordinaria laicità, perché l’amore non si lascia irretire in un solo stampo, in una sola proposta, in un unico codice”.

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(1) Blog micheletortorici.it, 3 maggio 2013 https://www.micheletortorici.it/fratelli-em-di-giuseppe-ungaretti/
(2) Democraziaoggi, 8 Ottobre 2020 Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
(3) Osare la fraternità, ardire la speranza. Il discorso del vescovo di Rimini Francesco Lambiasi per la festività del patrono San Gaudenzo. Su newsrimini.it 13 ottobre 2020.
(4) Papa Francesco. Cacciari: la Chiesa sposa l’Illuminismo, inascoltata. Serena Campanini su AGF
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Nelle illustrazioni in testa:
- il mosaico situato all’ingresso del palazzo dell’Onu a New York.
“DO UNTO OTHERS AS YOU WOULD HAVE THEM DO UNTO YOU”
“FAI AGLI ALTRI QUELLO CHE VORRESTI ESSERE FATTO A TE”;
- il logo Aldinews per la pubblicizzazione dell’enciclica e del dibattito su di essa.

L’ULTIMA CARTA

samaritano-vincent_willem_van_gogh_022 La proposta di papa Francesco dopo sette anni di pontificato è di cambiare il paradigma dell’umano, di passare da una società di soci a una comunità di fratelli, non per utilità, ma per amore.
logo76(…) la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, prima ancora che quella di Francesco d’Assisi, è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito (e oggi sempre di più ci sono persone ferite,tutti i popoli sono feriti)ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’inequità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva. [Raniero La Valle].

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CAPITOLO SECONDO

UN ESTRANEO SULLA STRADA

56. Tutto ciò che ho menzionato nel capitolo precedente è più di un’asettica descrizione della realtà, poiché «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».[53] Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare.

«In quel tempo, un dottore della Legge si alzò per mettere alla prova Gesù e chiese: “Maestro, che cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. Gesù gli disse: “Che cosa sta scritto nella Legge? Come leggi?”. Costui rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il tuo prossimo come te stesso”. Gli disse: “Hai risposto bene; fa’ questo e vivrai”. Ma quello, volendo giustificarsi, disse a Gesù: “E chi è mio prossimo?”. Gesù riprese: “Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gerico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levita, giunto in quel luogo, vide e passò oltre. Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto, vide e ne ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi lo caricò sulla sua cavalcatura, lo portò in un albergo e si prese cura di lui. Il giorno seguente, tirò fuori due denari e li diede all’albergatore, dicendo: ‘Abbi cura di lui; ciò che spenderai in più, te lo pagherò al mio ritorno’. Chi di questi tre ti sembra sia stato prossimo di colui che è caduto nelle mani dei briganti?”. Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”. Gesù gli disse: “Va’ e anche tu fa’ così”» (Lc 10,25-37).

Lo sfondo

57. Questa parabola raccoglie uno sfondo di secoli. Poco dopo la narrazione della creazione del mondo e dell’essere umano, la Bibbia presenta la sfida delle relazioni tra di noi. Caino elimina suo fratello Abele, e risuona la domanda di Dio: «Dov’è Abele, tuo fratello?» (Gen 4,9). La risposta è la stessa che spesso diamo noi: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (ibid.). Con la sua domanda, Dio mette in discussione ogni tipo di determinismo o fatalismo che pretenda di giustificare l’indifferenza come unica risposta possibile. Ci abilita, al contrario, a creare una cultura diversa, che ci orienti a superare le inimicizie e a prenderci cura gli uni degli altri.

58. Il libro di Giobbe ricorre al fatto di avere un medesimo Creatore come base per sostenere alcuni diritti comuni: «Chi ha fatto me nel ventre materno, non ha fatto anche lui? Non fu lo stesso a formarci nel grembo?» (31,15). Molti secoli dopo, Sant’Ireneo si esprimerà in modo diverso con l’immagine della melodia: «Dunque chi ama la verità non deve lasciarsi trasportare dalla differenza di ciascun suono né immaginare che uno sia l’artefice e il creatore di questo suono e un altro l’artefice e il creatore dell’altro […], ma deve pensare che lo ha fatto uno solo».[54]

59. Nelle tradizioni ebraiche, l’imperativo di amare l’altro e prendersene cura sembrava limitarsi alle relazioni tra i membri di una medesima nazione. L’antico precetto «amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18) si intendeva ordinariamente riferito ai connazionali. Tuttavia, specialmente nel giudaismo sviluppatosi fuori dalla terra d’Israele, i confini si andarono ampliando. Comparve l’invito a non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (cfr Tb 4,15). Il saggio Hillel (I sec. a.C.) diceva al riguardo: «Questo è la Legge e i Profeti. Tutto il resto è commento».[55] Il desiderio di imitare gli atteggiamenti divini condusse a superare quella tendenza a limitarsi ai più vicini: «La misericordia dell’uomo riguarda il suo prossimo, la misericordia del Signore ogni essere vivente» (Sir 18,13).

60. Nel Nuovo Testamento, il precetto di Hillel ha trovato espressione positiva: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti» (Mt 7,12). Tale appello è universale, tende ad abbracciare tutti, solo per la loro condizione umana, perché l’Altissimo, il Padre celeste «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni» (Mt 5,45). E di conseguenza si esige: «Siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso» (Lc 6,36).

61. C’è una motivazione per allargare il cuore in modo che non escluda lo straniero, e la si può trovare già nei testi più antichi della Bibbia. È dovuta al costante ricordo del popolo ebraico di aver vissuto come straniero in Egitto:

«Non molesterai il forestiero né l’opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20).

«Non opprimerai il forestiero: anche voi conoscete la vita del forestiero, perché siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 23,9).

«Quando un forestiero dimorerà presso di voi nella vostra terra, non lo opprimerete. Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato tra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34).

«Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare. Sarà per il forestiero, per l’orfano e per la vedova. Ricordati che sei stato schiavo nella terra d’Egitto» (Dt 24,21-22).

Nel Nuovo Testamento risuona con forza l’appello all’amore fraterno:

«Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).

«Chi ama suo fratello, rimane nella luce e non vi è in lui occasione d’inciampo. Ma chi odia suo fratello, è nelle tenebre» (1 Gv 2,10-11).

«Noi sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i fratelli. Chi non ama rimane nella morte» (1 Gv 3,14).

«Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1 Gv 4,20).

62. Anche questa proposta di amore poteva essere fraintesa. Non per nulla, davanti alla tentazione delle prime comunità cristiane di formare gruppi chiusi e isolati, San Paolo esortava i suoi discepoli ad avere carità tra di loro «e verso tutti» (1 Ts 3,12); e nella comunità di Giovanni si chiedeva che fossero accolti bene i «fratelli, benché stranieri» (3 Gv 5). Tale contesto aiuta a comprendere il valore della parabola del buon samaritano: all’amore non importa se il fratello ferito viene da qui o da là. Perché è l’«amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa […]. Amore che sa di compassione e di dignità».[56]

L’abbandonato

63. Gesù racconta che c’era un uomo ferito, a terra lungo la strada, che era stato assalito. Passarono diverse persone accanto a lui ma se ne andarono, non si fermarono. Erano persone con funzioni importanti nella società, che non avevano nel cuore l’amore per il bene comune. Non sono state capaci di perdere alcuni minuti per assistere il ferito o almeno per cercare aiuto. Uno si è fermato, gli ha donato vicinanza, lo ha curato con le sue stesse mani, ha pagato di tasca propria e si è occupato di lui. Soprattutto gli ha dato una cosa su cui in questo mondo frettoloso lesiniamo tanto: gli ha dato il proprio tempo. Sicuramente egli aveva i suoi programmi per usare quella giornata secondo i suoi bisogni, impegni o desideri. Ma è stato capace di mettere tutto da parte davanti a quel ferito, e senza conoscerlo lo ha considerato degno di ricevere il dono del suo tempo.

64. Con chi ti identifichi? Questa domanda è dura, diretta e decisiva. A quale di loro assomigli? Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. Diciamolo, siamo cresciuti in tanti aspetti ma siamo analfabeti nell’accompagnare, curare e sostenere i più fragili e deboli delle nostre società sviluppate. Ci siamo abituati a girare lo sguardo, a passare accanto, a ignorare le situazioni finché queste non ci toccano direttamente.

65. Aggrediscono una persona per la strada, e molti scappano come se non avessero visto nulla. Spesso ci sono persone che investono qualcuno con la loro automobile e fuggono. Pensano solo a non avere problemi, non importa se un essere umano muore per colpa loro. Questi però sono segni di uno stile di vita generalizzato, che si manifesta in vari modi, forse più sottili. Inoltre, poiché tutti siamo molto concentrati sulle nostre necessità, vedere qualcuno che soffre ci dà fastidio, ci disturba, perché non vogliamo perdere tempo per colpa dei problemi altrui. Questi sono sintomi di una società malata, perché mira a costruirsi voltando le spalle al dolore.

66. Meglio non cadere in questa miseria. Guardiamo il modello del buon samaritano. È un testo che ci invita a far risorgere la nostra vocazione di cittadini del nostro Paese e del mondo intero, costruttori di un nuovo legame sociale. È un richiamo sempre nuovo, benché sia scritto come legge fondamentale del nostro essere: che la società si incammini verso il perseguimento del bene comune e, a partire da questa finalità, ricostruisca sempre nuovamente il suo ordine politico e sociale, il suo tessuto di relazioni, il suo progetto umano. Coi suoi gesti il buon samaritano ha mostrato che «l’esistenza di ciascuno di noi è legata a quella degli altri: la vita non è tempo che passa, ma tempo di incontro».[57]

67. Questa parabola è un’icona illuminante, capace di mettere in evidenza l’opzione di fondo che abbiamo bisogno di compiere per ricostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano. Ogni altra scelta conduce o dalla parte dei briganti oppure da quella di coloro che passano accanto senza avere compassione del dolore dell’uomo ferito lungo la strada. La parabola ci mostra con quali iniziative si può rifare una comunità a partire da uomini e donne che fanno propria la fragilità degli altri, che non lasciano edificare una società di esclusione, ma si fanno prossimi e rialzano e riabilitano l’uomo caduto, perché il bene sia comune. Nello stesso tempo, la parabola ci mette in guardia da certi atteggiamenti di persone che guardano solo a sé stesse e non si fanno carico delle esigenze ineludibili della realtà umana.

68. Il racconto, diciamolo chiaramente, non fa passare un insegnamento di ideali astratti, né si circoscrive alla funzionalità di una morale etico-sociale. Ci rivela una caratteristica essenziale dell’essere umano, tante volte dimenticata: siamo stati fatti per la pienezza che si raggiunge solo nell’amore. Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questo è dignità.

Una storia che si ripete

69. La narrazione è semplice e lineare, ma contiene tutta la dinamica della lotta interiore che avviene nell’elaborazione della nostra identità, in ogni esistenza proiettata sulla via per realizzare la fraternità umana. Una volta incamminati, ci scontriamo, immancabilmente, con l’uomo ferito. Oggi, e sempre di più, ci sono persone ferite. L’inclusione o l’esclusione di chi soffre lungo la strada definisce tutti i progetti economici, politici, sociali e religiosi. Ogni giorno ci troviamo davanti alla scelta di essere buoni samaritani oppure viandanti indifferenti che passano a distanza. E se estendiamo lo sguardo alla totalità della nostra storia e al mondo nel suo insieme, tutti siamo o siamo stati come questi personaggi: tutti abbiamo qualcosa dell’uomo ferito, qualcosa dei briganti, qualcosa di quelli che passano a distanza e qualcosa del buon samaritano.

70. È interessante come le differenze tra i personaggi del racconto risultino completamente trasformate nel confronto con la dolorosa manifestazione dell’uomo caduto, umiliato. Non c’è più distinzione tra abitante della Giudea e abitante della Samaria, non c’è sacerdote né commerciante; semplicemente ci sono due tipi di persone: quelle che si fanno carico del dolore e quelle che passano a distanza; quelle che si chinano riconoscendo l’uomo caduto e quelle che distolgono lo sguardo e affrettano il passo. In effetti, le nostre molteplici maschere, le nostre etichette e i nostri travestimenti cadono: è l’ora della verità. Ci chineremo per toccare e curare le ferite degli altri? Ci chineremo per caricarci sulle spalle gli uni gli altri? Questa è la sfida attuale, di cui non dobbiamo avere paura. Nei momenti di crisi la scelta diventa incalzante: potremmo dire che, in questo momento, chiunque non è brigante e chiunque non passa a distanza, o è ferito o sta portando sulle sue spalle qualche ferito.

71. La storia del buon samaritano si ripete: risulta sempre più evidente che l’incuranza sociale e politica fa di molti luoghi del mondo delle strade desolate, dove le dispute interne e internazionali e i saccheggi di opportunità lasciano tanti emarginati a terra sul bordo della strada. Nella sua parabola, Gesù non presenta vie alternative, come ad esempio: che cosa sarebbe stato di quell’uomo gravemente ferito o di colui che lo ha aiutato se l’ira o la sete di vendetta avessero trovato spazio nei loro cuori? Egli ha fiducia nella parte migliore dello spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome.

I personaggi

72. La parabola comincia con i briganti. Il punto di partenza che Gesù sceglie è un’aggressione già consumata. Non fa sì che ci fermiamo a lamentarci del fatto, non dirige il nostro sguardo verso i briganti. Li conosciamo. Abbiamo visto avanzare nel mondo le dense ombre dell’abbandono, della violenza utilizzata per meschini interessi di potere, accumulazione e divisione. La domanda potrebbe essere: lasceremo la persona ferita a terra per correre ciascuno a ripararsi dalla violenza o a inseguire i banditi? Sarà quel ferito la giustificazione delle nostre divisioni inconciliabili, delle nostre indifferenze crudeli, dei nostri scontri intestini?

73. Poi la parabola ci fa fissare chiaramente lo sguardo su quelli che passano a distanza. Questa pericolosa indifferenza di andare oltre senza fermarsi, innocente o meno, frutto del disprezzo o di una triste distrazione, fa dei personaggi del sacerdote e del levita un non meno triste riflesso di quella distanza che isola dalla realtà. Ci sono tanti modi di passare a distanza, complementari tra loro. Uno è ripiegarsi su di sé, disinteressarsi degli altri, essere indifferenti. Un altro sarebbe guardare solamente al di fuori. Riguardo a quest’ultimo modo di passare a distanza, in alcuni Paesi, o in certi settori di essi, c’è un disprezzo dei poveri e della loro cultura, e un vivere con lo sguardo rivolto al di fuori, come se un progetto di Paese importato tentasse di occupare il loro posto. Così si può giustificare l’indifferenza di alcuni, perché quelli che potrebbero toccare il loro cuore con le loro richieste semplicemente non esistono. Sono fuori dal loro orizzonte di interessi.
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[segue]

Che succede?

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ECONOMIA
una recessione mondiale senza precedenti

di Roberta Carlini, su Rocca.

La pandemia dell’economia corre in parallelo all’infezione da Covid 19. Come questa, non conosce confini ma è influenzata dal territorio che trova. Se la caduta del prodotto globale è generalizzata, dalle macerie lasciate dal minuscolo virus emergono le differenze tra i vari modelli dell’economia e del suo governo; e se l’incertezza sul futuro è comune a tutti, ci sono alcuni elementi per prevedere quale modello potrà uscire meglio, o meno peggio, dalla grande distruzione del 2020. Cominciamo dai numeri. L’Ocse ha eletto il periodo aprile-giugno del 2020 a peggior trimestre della storia, economicamente parlando. Per l’area del G20 – ossia l’aggregato che riunisce i diciannove maggiori paesi industrializzati, più l’Unione europea, e rappresenta il 90 per cento del Pil mondiale – il secondo trimestre del 2020 ha portato a una riduzione del prodotto del 6,9%; un record, se si pensa che il primo trimestre del 2009, quando il mondo era al picco della crisi finanziaria che poi sarebbe diventata la Grande recessione, segnò «solo» un meno 1,6%. E i numeri di questa nostra primavera confinata sarebbero ancora peggiori se non ci fosse, a migliorare la media, l’andamento in controtendenza della Cina, che essendo passata per l’emergenza sanitaria prima nel secondo trimestre dell’anno vedeva già un recupero dell’11,5%. Senza i numeri cinesi, la perdita del resto del G20 supera il 10%. All’interno di questa media, crolli che vanno dal meno 25% dell’India al meno 13,8% della Francia al meno 12,8% dell’Italia. Gli Stati Uniti nel secondo trimestre hanno visto un calo del Pil del 9,1%, la Germania del 9,7%.
I numeri trimestrali hanno il difetto di risentire della «tempistica» del virus con le sue diverse ondate e lo sfasamento degli effetti da lockdown, ma hanno il pregio di essere certi. Mentre le previsioni su come chiuderà l’anno sono aleatorie, nell’incertezza sull’andamento dei contagi in autunno, e dunque sulla eventualità di ulteriori lockdown; sulle decisioni dei governi per contrastarlo; e anche su altri elementi non direttamente collegati al Covid 19 ma con rilevante impatto sulle dinamiche commerciali ed economiche, come il risultato del voto negli Stati Uniti. In ogni caso, alcune previsioni ci sono e purtroppo non raddrizzano molto il quadro. Prendiamo sempre quelle dell’Ocse: secondo l’organizzazione internazionale di Parigi, per l’intero G20 l’anno potrebbe chiudere a -4,1%, con l’Unione Europea nel suo insieme al meno 7,9%, gli Stati Uniti a meno 10,1%. Il Pil italiano, nella previsione dell’Ocse, scenderà del 10,5%.
Dunque una recessione mondiale, senza precedenti la sua ampiezza ma soprattutto per le sue caratteristiche: essendo stata innescata da una emergenza sanitaria, all’inizio c’è stato l’effetto della chiusura di intere attività economiche (una specie di “coma indotto” sull’economia per proteggere le popolazioni, uno choc che ha colpito simultaneamente l’offerta e la domanda, ossia le produzioni materiali e la disponibilità della gente a spendere), ed è quello che vediamo adesso nei numeri; ma subito dopo ci sarà – o forse è già in corso – l’effetto del cambiamento dei processi economici. Per esempio: la Cina, entrata e uscita prima dalla pandemia, riprende a crescere. Ma non è detto che questa crescita potrà trainare gli altri, visto che le catene del valore sono state spezzate e nel ricostruirle le varie industrie seguiranno sentieri diversi. Per chiarire: cambierà l’intera faccia della globalizzazione che trionfava negli anni Novanta del secolo scorso e già era stata messa a dura prova dal protezionismo di ritorno.

il ruolo dei governi
C’è poi un altro fattore che plasmerà l’economia del mondo post-Covid, ed è nel ruolo dei governi. Già nel primo impatto dello choc pandemico, la differenza tra i diversi sistemi si è mostrata con evidenza. Quelli più centrati sul mercato, soprattutto sulla flessibilità del mercato del lavoro, come Stati Uniti, Canada e Regno Unito, hanno visto le perdite più forti dal punto di vista occupazionale. Se si confrontano i numeri sul calo del Pil con quelli sulla riduzione dell’occupazione e sull’aumento della disoccupazione, c’è una sproporzione evidente.
La disoccupazione si è impennata negli Stati Uniti e in tutto il mondo anglosassone, laddove – sia pure in misura diversa – i Paesi dell’Unione Europea hanno goduto degli ammortizzatori sociali ereditati dal Novecento. Strumenti come la cassa integrazione in Italia e modelli simili che mantengono le persone all’interno della forza lavoro di un’impresa, anche quando il lavoro non c’è, hanno impedito grandi fluttuazioni. Come sappiamo per l’Italia, nonostante il loro allargamento (con la cassa in deroga per esempio) non hanno coperto tutti, e larghi settori – come i precari e i giovani alla ricerca del primo impiego – sono rimasti al gelo della crisi. Ma questa sarebbe stata ancora più profonda senza quegli strumenti, che non a caso in economia sono chiamati «stabilizzatori automatici». Questi hanno fatto salire la spesa pubblica ovunque, ma hanno almeno tamponato le falle. La flessibilità del modello americano, che si affida agli aggiustamenti di mercato per passare da una fase all’altra del ciclo economico, ha ben pochi vantaggi quando la crisi non è dovuta a oscillazioni cicliche ma a uno choc generalizzato dal quale non si vede chiaramente l’uscita.
La stessa Ocse, nelle sue ricette contestuali alla diagnosi, raccomanda ai governi di non fare l’errore compiuto nel 2009, di continuare a spendere e a sostenere l’economia, continuare a elargire supporto pubblico per contrastare disoccupazione dei lavoratori e bancarotta delle imprese, e nel frattempo realizzare investimenti per far ripartire l’economia e guidarla su un sentiero di crescita sostenibile. Abbiamo visto come l’Unione Europa, con mille problemi dovuti alla sua architettura istituzionale e alle sue divisioni politiche, interpreti questa missione con il «Next generation Eu», il piano per la ripresa. Il suo successo dipenderà dall’effettività del piano stesso: messo sulla carta, adesso aspetta importanti e delicatissimi passaggi che potrebbero rallentarne l’attuazione e renderlo così poco utile oppure annacquarlo.
Dall’altra parte dell’Atlantico, l’attuale amministrazione americana pare invece puntare tutto su una ripresa spontanea, legata magari all’arrivo del vaccino; mentre il Regno Unito si dibatte nella doppia crisi da Covid e da Brexit, con pericolosissimi intrecci.

chi parteciperà e chi resterà indietro
In ombra in tutto ciò resta l’interrogativo su «chi» uscirà dalla crisi. La pandemia può agire da potente acceleratore di processi di innovazione – nelle catene del valore, come si è detto, ma soprattutto nel cambiamento tecnologico legato alla digitalizzazione; ma al tempo stesso può accelerare anche la tendenza che già era in atto all’aumento delle diseguaglianze, tra chi parteciperà alla ripresa e chi resterà indietro. Diseguaglianze tra Paesi, e all’interno dei Paesi stessi: tra poveri e ricchi, garantiti e non garantiti, giovani e vecchi, uomini e donne. Il piano europeo, pur puntando tutto sui due pilastri dell’innovazione digitale e degli investimenti ambientali, raccomanda di non perdere di vista la coesione sociale. Per la sua storia e cultura, l’Unione europea è maggiormente attrezzata a tentare una ripresa a trazione mista, pubblico-privato, ispirata al principio della solidarietà come strada più efficace, oltre che più giusta, per salvaguardare un bene comune. Ma se l’eredità del Novecento può essere utile per recuperare quella visione, gli strumenti non possono essere gli stessi. La riuscita della scommessa dipenderà dalla capacità di trovarne di nuovi, oltre che dalla forza di reggere ai contrapposti modelli in competizione: quello autoritario della Cina, e quello individualista finora prevalente degli Usa di Trump. Salvo inversioni di rotta nell’imprevedibile voto americano.
Roberta Carlini

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Fratelli tutti: «L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì»

schermata-2020-10-07-alle-11-09-43
lampadadialadmicromicroMolto si è già scritto e ancor di più si scriverà sull’enciclica e dintorni. Vale la pena leggerla per intero (eccola nel sito della sala stampa vaticana:
http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html).

In effetti sintetizzare i concetti che sono espressi nell’enciclica, utilizzando diverse parole, comporta guastarne la chiarezza e diminuirne la efficace forza comunicativa. Per evitare entrambe ricorreremo alla pubblicazione di interi brani dell’enciclica con il criterio di omogeneità di argomenti. E’ quanto facciamo nella news già da alcuni giorni e così proseguiremo nei prossimi, contrassegnando gli interventi con il logo pubblicato in testa.

Diverso è il discorso concernente riflessioni e commenti sull’enciclica che ospiteremo, come abbiamo cominciato a fare, con contributi di diverse provenienze, che riteniamo utili e significativi.
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Ecco l’indice dell’enciclica.

Introduzione (1-8)
- Capitolo Primo: Le ombre di un mondo chiuso (9-55)
- Capitolo Secondo: Un estraneo sulla strada (56-86)
- Capitolo Terzo: Pensare e generare un mondo aperto (87-127)
- Capitolo Quarto: Un cuore aperto al mondo intero (128-153)
- Capitolo Quinto: La migliore politica (154-197)
- Capitolo Sesto: Dialogo e amicizia sociale (198-224)
- Capitolo Settimo: Percorsi di un nuovo incontro (225-270)
- Capitolo Ottavo: Le religioni al servizio della fraternità nel mondo (271-287)
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Il focus odierno
Nell’enciclica il Papa, parlando della “cultura dell’incontro” cita testualmente alcuni passi del discorso da lui tenuto a Cagliari in occasione dell’incontro con il mondo della cultura nell’Aula Magna della Pontificia Facoltà Teologica Regionale. Per i contenuti nel discorso, di grande spessore e interesse, lo ripubblichiamo integrale.

[Dall'enciclica Fratelli tutti] Globalizzazione e progresso senza una rotta comune
(…)
30. Nel mondo attuale i sentimenti di appartenenza a una medesima umanità si indeboliscono, mentre il sogno di costruire insieme la giustizia e la pace sembra un’utopia di altri tempi. Vediamo come domina un’indifferenza di comodo, fredda e globalizzata, figlia di una profonda disillusione che si cela dietro l’inganno di una illusione: credere che possiamo essere onnipotenti e dimenticare che siamo tutti sulla stessa barca. Questo disinganno, che lascia indietro i grandi valori fraterni, conduce «a una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione. […] L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì».[28]
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[28] Discorso al mondo della cultura, Cagliari – Italia (22 settembre 2013): L’Osservatore Romano, 23-24 settembre 2013, p. 7.
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emmaus-michelangelo_caravaggio_034 VISITA PASTORALE DEL SANTO PADRE FRANCESCO A CAGLIARI, 22.09.2013

● INCONTRO CON IL MONDO DELLA CULTURA NELL’AULA MAGNA DELLA PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA REGIONALE
Poco dopo le 16 di oggi pomeriggio, il Santo Padre Francesco ha incontrato il mondo della cultura nell’Aula Magna della Pontificia Facoltà Teologica Regionale. Al suo arrivo, il Papa è stato accolto dalla Comunità religiosa dei Gesuiti che dirigono la Facoltà. Nell’Aula Magna erano presenti docenti e studenti della Pontificia Facoltà Teologica Regionale e Rettori, docenti e studenti delle Università statali della Sardegna. Dopo gli indirizzi di omaggio del Preside della Pontificia Facoltà Teologica Regionale, Padre Maurizio Teani. S.I., del Rettore Magnifico dell’Università di Cagliari, Prof. Giovanni Melis, e del Rettore Magnifico dell’Università di Sassari, Prof. Attilio Mastino, il Santo Padre ha pronunciato il discorso che riportiamo di seguito:

DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari amici, buon pomeriggio!

Rivolgo a tutti il mio saluto cordiale. Ringrazio il Padre Preside e i Rettori Magnifici per le loro parole di accoglienza, e auguro ogni bene per il lavoro delle tre Istituzioni. Mi piace aver sentito che lavorano insieme, come amici: e questo è buono! Ringrazio e incoraggio la Pontificia Facoltà Teologica, che ci ospita, in particolare i Padri Gesuiti, che vi svolgono con generosità il loro prezioso servizio, e l’intero Corpo Accademico. La preparazione dei candidati al sacerdozio rimane un obiettivo primario, ma anche la formazione dei laici è molto importante.

Non voglio fare una lezione accademica, anche se il contesto e voi che siete un gruppo qualificato forse lo richiederebbero. Preferisco offrire alcune riflessioni a voce alta che partono dalla mia esperienza di uomo e di Pastore della Chiesa. E per questo mi lascio guidare da un brano del Vangelo, facendone una lettura “esistenziale”, quello dei discepoli di Emmaus: due discepoli di Gesù che, dopo la sua morte, se ne vanno da Gerusalemme e tornano al paese. Ho scelto tre parole chiave: disillusione, rassegnazione, speranza.

1. Questi due discepoli portano nel cuore la sofferenza e il disorientamento per la morte di Gesù, sono delusi per come sono andate a finire le cose. Un sentimento analogo lo ritroviamo anche nella nostra situazione attuale: la delusione, la disillusione, a causa di una crisi economico-finanziaria, ma anche ecologica, educativa, morale, umana. E’ una crisi che riguarda il presente e il futuro storico, esistenziale dell’uomo in questa nostra civiltà occidentale, e che finisce poi per interessare il mondo intero. E quando dico crisi, non penso ad una tragedia. crisi-in-cineseI cinesi, quando vogliono scrivere la parola crisi, la scrivono con due caratteri: il carattere del pericolo e il carattere dell’opportunità. Quando parliamo di crisi, parliamo di pericoli, ma anche di opportunità. Questo è il senso in cui io utilizzo la parola. Certo, ogni epoca della storia porta in sé elementi critici, ma, almeno negli ultimi quattro secoli, non si sono viste così scosse le certezze fondamentali che costituiscono la vita degli esseri umani come nella nostra epoca. Penso al deterioramento dell’ambiente: questo è pericoloso, pensiamo un po’ avanti, alla guerra dell’acqua che viene; agli squilibri sociali; alla terribile potenza delle armi – ne abbiamo parlato tanto, in questi giorni; al sistema economico-finanziario, il quale ha al centro non l’uomo, ma il denaro, il dio denaro; allo sviluppo e al peso dei mezzi di informazione, con tutta la loro positività, di comunicazione, di trasporto. E’ un cambiamento che riguarda il modo stesso in cui l’umanità porta avanti la sua esistenza nel mondo.

2. Di fronte a questa realtà quali sono le reazioni? Ritorniamo ai due discepoli di Emmaus: delusi di fronte alla morte di Gesù, si mostrano rassegnati e cercano di fuggire dalla realtà, lasciano Gerusalemme. Gli stessi atteggiamenti li possiamo leggere anche in questo momento storico. Di fronte alla crisi ci può essere la rassegnazione, il pessimismo verso ogni possibilità di efficace intervento. In un certo senso è un “chiamarsi fuori” dalla stessa dinamica dell’attuale tornante storico, denunciandone gli aspetti più negativi con una mentalità simile a quel movimento spirituale e teologico del II secolo dopo Cristo che viene chiamato “apocalittico”. Noi ne abbiamo la tentazione, pensare in chiave apocalittica. Questa concezione pessimistica della libertà umana e dei processi storici porta ad una sorta di paralisi dell’intelligenza e della volontà. La disillusione porta anche ad una sorta di fuga, a ricercare “isole” o momenti di tregua. E’ qualcosa di simile all’atteggiamento di Pilato, il “lavarsi le mani”. Un atteggiamento che appare “pragmatico”, ma che di fatto ignora il grido di giustizia, di umanità e di responsabilità sociale e porta all’individualismo, all’ipocrisia, se non ad una sorta di cinismo. Questa è la tentazione che noi abbiamo davanti, se andiamo per questa strada della disillusione o della delusione.

3. A questo punto ci chiediamo: c’è una via da percorrere in questa nostra situazione? Dobbiamo rassegnarci? Dobbiamo lasciarci oscurare la speranza? Dobbiamo fuggire dalla realtà? Dobbiamo “lavarci le mani” e chiuderci in noi stessi? Penso non solo che ci sia una strada da percorrere, ma che proprio il momento storico che viviamo ci spinga a cercare e trovare vie di speranza, che aprano orizzonti nuovi alla nostra società. E qui è prezioso il ruolo dell’Università. L’Università come luogo di elaborazione e trasmissione del sapere, di formazione alla “sapienza” nel senso più profondo del termine, di educazione integrale della persona. In questa direzione, vorrei offrire alcuni brevi spunti su cui riflettere.

a. L’Università come luogo del discernimento. E’ importante leggere la realtà, guardandola in faccia. Le letture ideologiche o parziali non servono, alimentano solamente l’illusione e la disillusione. Leggere la realtà, ma anche vivere questa realtà, senza paure, senza fughe e senza catastrofismi. Ogni crisi, anche quella attuale, è un passaggio, il travaglio di un parto che comporta fatica, difficoltà, sofferenza, ma che porta in sé l’orizzonte della vita, di un rinnovamento, porta la forza della speranza. E questa non è una crisi di “cambio”: è una crisi di “cambio di epoca”. E’ un’epoca, quella che cambia. Non sono cambiamenti epocali superficiali. La crisi può diventare momento di purificazione e di ripensamento dei nostri modelli economico-sociali e di una certa concezione del progresso che ha alimentato illusioni, per recuperare l’umano in tutte le sue dimensioni. Il discernimento non è cieco, né improvvisato: si realizza sulla base di criteri etici e spirituali, implica l’interrogarsi su ciò che è buono, il riferimento ai valori propri di una visione dell’uomo e del mondo, una visione della persona in tutte le sue dimensioni, soprattutto in quella spirituale, trascendente; non si può considerare mai la persona come “materiale umano”! Questa è forse la proposta nascosta del funzionalismo. L’Università come luogo di “sapienza” ha una funzione molto importante nel formare al discernimento per alimentare la speranza. Quando il viandante sconosciuto, che è Gesù Risorto, si accosta ai due discepoli di Emmaus, tristi e sconsolati, non cerca di nascondere la realtà della Crocifissione, dell’apparente sconfitta che ha provocato la loro crisi, al contrario li invita a leggere la realtà per guidarli alla luce della sua Risurrezione: «Stolti e lenti di cuore… Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella gloria?» (Lc 24,25-26). Fare discernimento significa non fuggire, ma leggere seriamente, senza pregiudizi, la realtà.

b. Un altro elemento: l’Università come luogo in cui si elabora la cultura della prossimità, cultura della prossimità. Questa è una proposta: cultura della vicinanza. L’isolamento e la chiusura in se stessi o nei propri interessi non sono mai la via per ridare speranza e operare un rinnovamento, ma è la vicinanza, è la cultura dell’incontro. L’isolamento, no; vicinanza, sì. Cultura dello scontro, no; cultura dell’incontro, sì. L’Università è luogo privilegiato in cui si promuove, si insegna, si vive questa cultura del dialogo, che non livella indiscriminatamente differenze e pluralismi – uno dei rischi della globalizzazione è questo -, e neppure li estremizza facendoli diventare motivo di scontro, ma apre al confronto costruttivo. Questo significa comprendere e valorizzare le ricchezze dell’altro, considerandolo non con indifferenza o con timore, ma come fattore di crescita. Le dinamiche che regolano i rapporti tra persone, tra gruppi, tra Nazioni spesso non sono di vicinanza, di incontro, ma di scontro. Mi richiamo ancora al brano evangelico. Quando Gesù si avvicina ai due discepoli di Emmaus, condivide il loro cammino, ascolta la loro lettura della realtà, la loro delusione, e dialoga con loro; proprio in questo modo riaccende nei loro cuori la speranza, apre nuovi orizzonti che erano già presenti, ma che solo l’incontro con il Risorto permette di riconoscere. Non abbiate mai paura dell’incontro, del dialogo, del confronto, anche tra Università. A tutti i livelli. Qui siamo nella sede della Facoltà Teologica. Permettetemi di dirvi: non abbiate timore di aprirvi anche agli orizzonti della trascendenza, all’incontro con Cristo o di approfondire il rapporto con Lui. La fede non riduce mai lo spazio della ragione, ma lo apre ad una visione integrale dell’uomo e della realtà, e difende dal pericolo di ridurre l’uomo a “materiale umano”.

c. Un ultimo elemento: l’Università come luogo di formazione alla solidarietà. La parola solidarietà non appartiene solo al vocabolario cristiano, è una parola fondamentale del vocabolario umano. Come ho detto oggi, è una parola che in questa crisi rischia di essere cancellata dal dizionario. Il discernimento della realtà, assumendo il momento di crisi, la promozione di una cultura dell’incontro e del dialogo, orientano verso la solidarietà, come elemento fondamentale per un rinnovamento delle nostre società. L’incontro, il dialogo tra Gesù e i due discepoli di Emmaus, che riaccende la speranza e rinnova il cammino della loro vita, porta alla condivisione: lo riconobbero nello spezzare il pane. E’ il segno dell’Eucaristia, di Dio che si fa così vicino in Cristo da farsi presenza costante, da condividere la sua stessa vita. E questo dice a tutti, anche a chi non crede, che è proprio in una solidarietà non detta, ma vissuta, che i rapporti passano dal considerare l’altro come “materiale umano” o come “numero”, al considerarlo come persona. Non c’è futuro per nessun Paese, per nessuna società, per il nostro mondo, se non sapremo essere tutti più solidali. Solidarietà quindi come modo di fare la storia, come ambito vitale in cui i conflitti, le tensioni, anche gli opposti raggiungono un’armonia che genera vita. In questo, pensando a questa realtà dell’incontro nella crisi, ho trovato nei politici giovani un’altra maniera di pensare la politica. Non dico migliore o non migliore ma un’altra maniera. Parlano diversamente, stanno cercando… la musica loro è diversa dalla musica nostra. Non abbiamo paura! Sentiamoli, parliamo con loro. Loro hanno un’intuizione: apriamoci alla loro intuizione. E’ l’intuizione della vita giovane. Dico i politici giovani perché è quello che ho sentito, ma i giovani in genere cercano questa chiave diversa. Per aiutarci all’incontro, ci aiuterà sentire la musica di questi politici, “scientifici”, pensatori giovani.

Prima di concludere, permettetemi di sottolineare che a noi cristiani la fede stessa dona una speranza solida che spinge a discernere la realtà, a vivere la vicinanza e la solidarietà, perché Dio stesso è entrato nella nostra storia, diventando uomo in Gesù, si è immerso nella nostra debolezza, facendosi vicino a tutti, mostrando solidarietà concreta, specialmente ai più poveri e bisognosi, aprendoci un orizzonte infinito e sicuro di speranza.

Cari amici, grazie per questo incontro e per la vostra attenzione; la speranza sia la luce che illumina sempre il vostro studio e il vostro impegno. E il coraggio sia il tempo musicale per andare avanti! Che il Signore vi benedica!

[01318-01.02] [Testo originale: Italiano]

Al termine, il Santo Padre ha lasciato la Pontificia Facoltà Teologica Regionale e si è recato a Largo Carlo Felice per l’incontro con i giovani. [B0599-XX.02]
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Nell’illustrazione Cena in Emmaus (Caravaggio Milano).
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Fratelli tutti: l’enciclica della fraternità integrale.
Lilia Sebastiani su Rocca n. 20 del 15 ottobre 2020

Fratelli tutti: la pace reale e duratura è possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana».

schermata-2020-10-07-alle-11-09-43
lampadadialadmicromicroMolto si è già scritto e ancor di più si scriverà sull’enciclica e dintorni. Vale la pena leggerla per intero (eccola nel sito della sala stampa vaticana:
http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html).

In effetti sintetizzare i concetti che sono espressi nell’enciclica, utilizzando diverse parole, comporta guastarne la chiarezza e diminuirne la efficace forza comunicativa. Per evitare entrambe ricorreremo alla pubblicazione di interi brani dell’enciclica con il criterio di omogeneità di argomenti. E’ quanto facciamo nella news già da alcuni giorni e così proseguiremo nei prossimi, contrassegnando gli interventi con il logo pubblicato in testa.

Diverso è il discorso concernente riflessioni e commenti sull’enciclica che ospiteremo, come abbiamo cominciato a fare, con contributi di diverse provenienze, che riteniamo utili e significativi.
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Ecco l’indice dell’enciclica.

Introduzione (1-8)
- Capitolo Primo: Le ombre di un mondo chiuso (9-55)
- Capitolo Secondo: Un estraneo sulla strada (56-86)
- Capitolo Terzo: Pensare e generare un mondo aperto (87-127)
- Capitolo Quarto: Un cuore aperto al mondo intero (128-153)
- Capitolo Quinto: La migliore politica (154-197)
- Capitolo Sesto: Dialogo e amicizia sociale (198-224)
- Capitolo Settimo: Percorsi di un nuovo incontro (225-270)
- Capitolo Ottavo: Le religioni al servizio della fraternità nel mondo (271-287)
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Il focus sui beni comuni
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Diritti dei popoli

124. La certezza della destinazione comune dei beni della terra richiede oggi che essa sia applicata anche ai Paesi, ai loro territori e alle loro risorse. Se lo guardiamo non solo a partire dalla legittimità della proprietà privata e dei diritti dei cittadini di una determinata nazione, ma anche a partire dal primo principio della destinazione comune dei beni, allora possiamo dire che ogni Paese è anche dello straniero, in quanto i beni di un territorio non devono essere negati a una persona bisognosa che provenga da un altro luogo. Infatti, come hanno insegnato i Vescovi degli Stati Uniti, vi sono diritti fondamentali che «precedono qualunque società perché derivano dalla dignità conferita ad ogni persona in quanto creata da Dio».[104]

125. Ciò inoltre presuppone un altro modo di intendere le relazioni e l’interscambio tra i Paesi. Se ogni persona ha una dignità inalienabile, se ogni essere umano è mio fratello o mia sorella, e se veramente il mondo è di tutti, non importa se qualcuno è nato qui o se vive fuori dai confini del proprio Paese. Anche la mia Nazione è corresponsabile del suo sviluppo, benché possa adempiere questa responsabilità in diversi modi: accogliendolo generosamente quando ne abbia un bisogno inderogabile, promuovendolo nella sua stessa terra, non usufruendo né svuotando di risorse naturali Paesi interi favorendo sistemi corrotti che impediscono lo sviluppo degno dei popoli. Questo, che vale per le nazioni, si applica alle diverse regioni di ogni Paese, tra le quali si verificano spesso gravi sperequazioni. Ma l’incapacità di riconoscere l’uguale dignità umana a volte fa sì che le regioni più sviluppate di certi Paesi aspirino a liberarsi della “zavorra” delle regioni più povere per aumentare ancora di più il loro livello di consumo.

126. Parliamo di una nuova rete nelle relazioni internazionali, perché non c’è modo di risolvere i gravi problemi del mondo ragionando solo in termini di aiuto reciproco tra individui o piccoli gruppi. Ricordiamo che «l’inequità non colpisce solo gli individui, ma Paesi interi, e obbliga a pensare ad un’etica delle relazioni internazionali».[105] E la giustizia esige di riconoscere e rispettare non solo i diritti individuali, ma anche i diritti sociali e i diritti dei popoli.[106] Quanto stiamo affermando implica che si assicuri il «fondamentale diritto dei popoli alla sussistenza ed al progresso»,[107] che a volte risulta fortemente ostacolato dalla pressione derivante dal debito estero. Il pagamento del debito in molti casi non solo non favorisce lo sviluppo bensì lo limita e lo condiziona fortemente. Benché si mantenga il principio che ogni debito legittimamente contratto dev’essere saldato, il modo di adempiere questo dovere, che molti Paesi poveri hanno nei confronti dei Paesi ricchi, non deve portare a compromettere la loro sussistenza e la loro crescita.

127. Senza dubbio, si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasie. Ma se si accetta il grande principio dei diritti che promanano dal solo fatto di possedere l’inalienabile dignità umana, è possibile accettare la sfida di sognare e pensare ad un’altra umanità. È possibile desiderare un pianeta che assicuri terra, casa e lavoro a tutti. Questa è la vera via della pace, e non la strategia stolta e miope di seminare timore e diffidenza nei confronti di minacce esterne. Perché la pace reale e duratura è possibile solo «a partire da un’etica globale di solidarietà e cooperazione al servizio di un futuro modellato dall’interdipendenza e dalla corresponsabilità nell’intera famiglia umana».[108]
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NOTE
[104] Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti, Open wide our Hearts: The enduring Call to Love. A Pastoral Letter against Racism (Novembre 2018).

[105] Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 51: AAS 107 (2015), 867.

[106] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 6: AAS 101 (2009), 644.

[107] S. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus (1 maggio 1991), 35: AAS 83 (1991), 838.

[108] Discorso sulle armi nucleari, Nagasaki – Giappone (24 novembre 2019): L’Osservatore Romano, 25-26 novembre 2019, p. 6.
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L’Enciclica Fratelli Tutti
IL “DE AMICITIA” DI PAPA FRANCESCO
8 OTTOBRE 2020 / Su chiesadituttichiesadeipoveri.
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Lettera enciclica di Papa Francesco Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale. Dibattito.

6a5b8d0d-f3d7-4498-9899-02cacd5cadf4lampadadialadmicromicroMolto si è già scritto e ancor di più si scriverà sull’enciclica e dintorni. Vale la pena leggerla per intero (eccola nel sito della sala stampa vaticana:
http://www.vatican.va/content/francesco/it/encyclicals/documents/papa-francesco_20201003_enciclica-fratelli-tutti.html), ma se vogliamo averne una quasi istantanea visione complessiva, prima ancora di immergerci nel testo integrale, suggeriamo l’ottima sintesi che propone M.Michela Nicolais per l’Agenzia SIR (Servizio Informazione Religiosa – promossa e sostenuta dalla CEI), che trovate di seguito nel link https://www.agensir.it/chiesa/2020/10/04/fratelli-tutti-sintesi-dellenciclica-di-papa-francesco-serve-amicizia-sociale-per-un-mondo-malato/?fbclid=IwAR0jais8307S9vXbksjmEOKaMp_iWiqhB1HUU4FPrLMs-JLStK4ZdLMHAYA.
In effetti sintetizzare i concetti che sono espressi nell’enciclica, utilizzando diverse parole, comporta guastarne la chiarezza e diminuirne la efficace forza comunicativa. Per evitare entrambe si dovrebbe ricorrere in grande misura alla “virgolettatura”. E’ quanto faremo nella news a partire da domani e nei prossimi giorni, contrassegnando gli interventi con il logo che segue:
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Diverso è il discorso sui commenti che però devono avere come presupposto la conoscenza dell’enciclica. Di questo dibattito saremo conto nei prossimi giorni riportando contributi di diverse provenienze, che riteniamo utili e significativi. Il primo che pubblichiamo è quello di Tonino Dessì, apparso oggi anche sulla sua pagina fb.
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Antonio Dessì
su fb.
Bergoglio sviluppa i connotati di un Papato (e tendenzialmente di una Chiesa) “progressista”.
Sovranisti (persino rossobruni) e destre tradizionaliste fremono per il disappunto.
Già questo indurrebbe laici come me a guardare alla nuova enciclica con grande favore, cosa che effettivamente sono incline a fare.
Tuttavia ho come l’impressione che, almeno in un Occidente preoccupato delle proprie precarie condizioni materiali, messe in discussione dai fenomeni migratori, dalla crisi climatica, dall’inceppamento economico del neoliberismo senza che le contraddizioni sociali prodotte dal neoliberismo siano state neppure avviate a una qualche soluzione e infine dalle conseguenze della pandemia, l’enciclica “progressista” non sia destinata a scaldare troppo.
Non molto di più di quanto scaldi il progressismo laico, insomma (non parliamo poi della “sinistra” contemporanea).
Mi viene ancora in mente l’obiezione teologica di Ratzinger, che criticammo a suo tempo perché contingentemente rivolta alla “teologia della liberazione”: < >.
Nonostante non sia credente, col senno di oggi, nel richiamo di Ratzinger a un fondamento trascendente, ma tipicamente ed esclusivamente cristiano (Dio si incarna nell’Uomo e l’Uomo risorge sia come Uomo sia come Dio), riconosco che in realtà c’era la consapevolezza dei rischi di una secolarizzazione totale della Chiesa.
Raztzinger (o forse più i Papi regnanti, in modo particolare Woitila) indubbiamente individuava in forma acuta quel rischio in una sovrapposizione col “marxismo”, ma era presente anche la presa di distanza dal capitalismo, che oggi caratterizza più marcatamente la posizione di Bergoglio.
Già, ma dov’è, lo “scandalo”, oggi?
La nuova enciclica viene resa pubblica nella ricorrenza di calendario della nascita di Francesco d’Assisi (fra l’altro patrono d’Italia).
A San Francesco è legata tutta una tradizione simbolica religiosa e laica, derivante soprattutto dal “Cantico delle Creature”, anticipatore di tanto ecologismo contemporaneo e dall’ispirazione al dialogo con altre religioni (ma l’incontro col Sultano Al Malik nel 1219 non fu proprio un successo).
Benchè sia un tratto biografico assai ricordato, mi pare invece sempre più messo in ombra il vero “scandalo” francescano, ossia la “conversione” del rampollo di una ricca famiglia di commercianti attraverso lo spogliarsi e il rigetto radicale di ogni agio materiale per vestire la più totale povertà personale, fisica, esistenziale, filosofica, religiosa (l’essenzialità del ridursi a nudo uomo per tentare di ripercorrere la via dell’Uomo-Dio, Cristo).
Per quanto si possa comprendere come fatto storico e politico che nella dimensione contemporanea un’istituzione quale la Chiesa difficilmente possa rinunciare alla dotazione dei mezzi materiali indispensabili per garantirsi l’indipendenza, tuttavia (ancor più alla luce del ben più terreno scandalo finanziario di questi giorni), forse solo approfondire il tema della povertà non solo come vicinanza caritatevole, o sociale, o politica, con i poveri, ma come immedesimazione e pratica radicale della conversione e della predicazione della conversione, potrebbe riaprire una nuova storia della Chiesa cattolica, in una prospettiva peraltro in qualche modo indicata e praticata da alcune correnti del protestantesimo, ma tutt’altro che estranea alla stessa tradizione sia pur internamente conflittuale del cattolicesimo.
(Beh, insomma, lo so: sembra, la mia, un’incursione pretenziosa, se non addirittura presuntuosa, su terreni che non dovrebbero competermi, però il pensiero corre un po’ dove gli pare e questo appunto lo lascio comunque agli atti).
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Sulle due diverse concezioni della Chiesa: la Chiesa dei poveri e la Chiesa “costantiniana”, una dialettica, un confronto, uno scontro che ha attraversato la sua storia millenaria. E che nella storia carsicamente emerge in alcuni periodi, per inabissarsi (…). Un interessante e condivisibile analisi di Francesco Casula su il manifesto sardo.
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Documentazione. 4 ottobre 2020 Introduzione e Intervento di Franco Meloni

diapositiva8-2C’è un’alternativa nel mondo malato? Come superare la crisi sociale, ecologica e sanitaria. Riflessioni dall’enciclica “Fratelli tutti”.

Appunti dell’intervento di Franco Meloni

L’alleanza tra la Laudato sì’ e l’Agenda Onu 2030 per affrontare i problemi del Pianeta con e dopo la pandemia
Allarme sulla urgenza di politiche di radicale alternativa se non si vuole portare l’umanità intera al disastro.
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“Niente sarà come prima”: è quanto sentiamo sempre più spesso a commento del “dopo la pandemia del coronavirus”. Già, ma intanto non siamo ancora al “dopo” e poi non è detto che tutto andrà meglio. Anzi, constatiamo come purtroppo molto sta andando peggio e che “tutto andrà meglio” è sopratutto un auspicio.

A pagare il prezzo di questa situazione sono e saranno centinaia di milioni di persone, molte delle quali già segnate da disuguaglianze e povertà. Sappiamo con sicurezza che crescono e cresceranno vertiginosamente i poveri. La loro grande numerosità prima della crisi del coronavirus verrà paurosamente incrementata dal passaggio di interi ceti sociali da condizioni di benessere alla povertà relativa e finanche assoluta. Fasce consistenti di popolazione si trovano già oggi senza le risorse minime per vivere.

Siamo ancora in prevalenza sconcertati e disorientati, anche se dobbiamo dare atto che tanti segnali positivi inducono a non abbandonarci al pessimismo. Gioiamo che il virus oggi venga combattuto e vinto da farmaci e terapie efficaci. E poi la bella notizia: si avvicina il tempo del vaccino che possa prevenire l’infezione, considerato che diversi team scientifici internazionali (anche con collaborazioni delle Università italiane e sarde) sono già arrivati a risultati affidabili, con l’attuazione ormai avanzata delle fasi di sperimentazione.

Nel nostro tempo abbiamo comunque bisogno di riferimenti solidi e affidabili, che ci soccorrano per le scelte concrete, a tutti i livelli e situazioni, collettive ed individuali, in cui ci troviamo a vivere.

Ci aiutano in questa impresa tre documenti di Papa Francesco: le due ultime sue encicliche, la “Laudato si’” del 2015 e “Fratelli tutti – Sulla fraternità e l’amicizia sociale”, firmata il 3 ottobre ad Assisi (il testo è stato appena pubblicato e occorre che ne facciamo oggetto di studio), e la Dichiarazione di Abu Dhabi del 4 febbraio 2019. Ancora, tra i documenti di riferimento, l’Agenda Onu 2030, che configura un difficile ma non impossibile mondo migliore per tutti. Su quest’ultimo mi soffermerò brevemente [in considerazione che sulle due encicliche e sulla dichiarazione di Abu Dhabi interverranno altri relatori].

Solo un cenno di carattere generale, con specifico riferimento alla Laudato si’: non è un “manifesto politico”, bensì un messaggio pastorale che impegna in primo luogo i cattolici affinchè perseguano un percorso di riconversione ecologica, nella sua accezione di “ecologia integrale”: interdipendenza tra ambiente e società, natura e persone. Tuttavia, così come avevano fatto suoi predecessori, a partire da Giovanni XXIII con l’Enciclica Pacem in terris (11 aprile 1963), Papa Francesco si rivolge non solo al “mondo cattolico” ma “a tutti gli uomini di buona volontà”: a “ogni persona che abita questo pianeta”, per “entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune”.

Bisogna dire che questa impostazione ha avuto notevole successo dal momento in cui anche grandi settori del mondo laico hanno risposto entusiasticamente alle sollecitazione dell’enciclica, accettandone le raccomandazioni e impostando comuni azioni di sensibilizzazione e d’intervento concreto a salvaguardia del pianeta e di chi lo abita. Alcuni mesi dopo l’uscita dell’enciclica – precisamente il 25 settembre 2015 – l’Onu ha approvato l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, che propone il raggiungimento di 17 Obbiettivi di Sviluppo Sostenibile entro l’anno 2030, che vanno dalla tutela del’ambiente, alla lotta contro le povertà, ai diritti dell’umana convivenza (lavoro, salute, istruzione, uguaglianza). Si afferma pertanto una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo, proprio come prevede la Laudato sì’!

Occorre evidenziare il carattere fortemente innovativo dell’Agenda, che si basa su un chiaro giudizio dell’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo capitalista neo liberista, non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Tutti i Paesi – senza distinzioni, anche se evidentemente le problematiche sono diverse a seconda del posizionamento socio-economico – devono impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli Obbiettivi entro il 2030. Ciascun Paese viene valutato periodicamente sui risultati conseguiti all’interno di un processo coordinato dall’Onu e dagli Stati nazionali, auspicabilmente sostenuto dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali. L’attuazione dell’Agenda richiede pertanto un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese alle pubbliche amministrazioni, dalla società civile, al volontariato e alle entità del terzo settore, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura. Vero è che l’Agenda non può obbligare nessuno Stato a comportamenti virtuosi, ed è questo il suo maggiore limite, ma intanto tutti possono distinguere i buoni dai cattivi. E si potrà constatare – come già accade – che gli Stati che si attengono alle indicazioni dell’Agenda Onu rispondono più efficacemente ai problemi delle loro popolazioni, aggravati dalla pandemia. Ma la risposta evidentemente deve essere di dimensioni mondiali.

Al riguardo appare coerente l’appello formulato dal Premio Nobel per la Pace (1980) Adolfo Perez Esquivel per “l’unità umana da costruire e dell’obiettivo politico primario, difficile ma non impossibile, di giungere a una Costituzione della Terra, da cui i diritti fondamentali di tutti gli abitanti del pianeta siano salvaguardati”. E denuncia come “l’attuale pandemia non sia solo quella del virus, ma quella della fame, della paura, delle diseguaglianze, della povertà, del dissesto ambientale”. Lancia pertanto un allarme sulla urgenza di politiche di radicale alternativa se non si vuole portare l’umanità intera al disastro. “Il giorno dopo della Pandemia è oggi, non domani: domani può essere troppo tardi”.

Infine, dobbiamo constatare che tuttora permane una insufficiente conoscenza sia della Laudato sì’ che dell’Agenda Onu 2030, e che è necessario incrementare delle stesse iniziative di sensibilizzazione a tutti i livelli e in ogni possibile circostanza, sollecitandone l’applicazione concreta nelle politiche di sviluppo, come peraltro risulta nella strada intrapresa dall’Unione Europea e dal nostro Paese, avendo bene a mente l’avvertimento di papa Francesco nel giorno di Pentecoste (31 maggio 2020): “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.

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- La video-conferenza tenutasi domenica 4 ottobre si può rivedere anche su Youtube da questo link.
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C’è un’alternativa nel mondo malato? Come superare la crisi sociale, ecologica e sanitaria. Riflessioni dall’enciclica “Fratelli tutti”

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Domenica 4 ottobre 2020 alle ore 18.00 si svolgerà la video-conferenza organizzata da il manifesto sardo, Aladinpensiero e Giornalia dal titolo: C’è un’alternativa nel mondo malato? Come superare la crisi sociale, ecologica e sanitaria. Riflessioni dall’enciclica “Fratelli tutti”.

Una conferenza in diretta dal sito, dalla pagina Facebook e YouTube del manifesto sardo coordinata da Roberto Loddo de il manifesto sardo a cui partecipano: Franco Meloni, direttore Aladinpensiero; Don Marco Lai, Direttore Caritas diocesana di Cagliari; Maria Chiara Cugusi, giornalista, addetta stampa Caritas Sardegna; Andrea Giulio Pirastu, direttore editoriale Giornalia; Annalisa Columbu presidente Legambiente Sardegna; Ahmed Naciri, presidente della rete sarda della cooperazione internazionale; Patrizia Manduchi, docente di Storia dei Paesi islamici dell’Università di Cagliari; Ester Cois, docente di Sociologia urbana dell’Università di Cagliari; Imam Usama el Santawy della moschea Assalam di Lecco; Francesca Bocca-Aldaqre, Teologa e professoressa di lingua e cultura araba alla Società Umanitaria di Milano.
- La video-conferenza si potrà seguire anche su Youtube da questo link.
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Il Pianeta è in pericolo, ma comunque sopravvivrà. Chi rischia l’estinzione è l’umanità intera (e gli altri esseri viventi), travolta da sconvolgimenti ambientali che non si vogliono adeguatamente contrastare. Nonostante la pandemia, purtroppo ancora in atto, continuano le guerre in tutto il mondo, una «terza guerra mondiale a pezzi», mentre crescono dappertutto le diseguaglianze in un quadro mondiale “dominato dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi”.

Su questi temi vogliamo incentrare una riflessione a più voci [vedasi il programma], consapevoli di essere anche noi pienamente coinvolti e in qualche misura responsabili dell’attuale situazione, con riferimento anche alle realtà in cui operiamo. Ne discuteremo pertanto con la finalità evidenziata nel titolo dell’evento.

Ci aiutano in questa impresa tre documenti di Papa Francesco: le due ultime sue encicliche, la “Laudato sì’” del 2015 e “Fratelli tutti”, che sarà firmata il 3 ottobre ad Assisi, e, la Dichiarazione di Abu Dhabi del 4 febbraio 2019. Ancora, tra i documenti di riferimento, l’Agenda Onu 2030, che configura un difficile ma non impossibile mondo migliore per tutti.

Ci piace, infine, trasmettere il senso che vogliamo dare all’impegno dei nostri tre giornali in questo evento e oltre, esprimendolo con un concetto condiviso da due grandi personalità del 900, il filosofo Norberto Bobbio e il cardinale Carlo Maria Martini:

«La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza».

il manifesto sardo, Aladinpensiero, Giornalia

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VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
NEGLI EMIRATI ARABI UNITI
(3-5 FEBBRAIO 2019)

DOCUMENTO SULLA
FRATELLANZA UMANA
PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE


وثيقـة

الأخــوة الإنســانية

من أجل السلام العالمي والعيش المشترك

PREFAZIONE

La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.

Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi.

Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo «Documento sulla Fratellanza Umana». Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.

DOCUMENTO

In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.

In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.

In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.

In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della «fratellanza umana» che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.

In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.

In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.

In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.

In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.

Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.

Ci rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valori come àncora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.

Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti.

Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà moderna ha compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e del benessere, in particolare nei Paesi sviluppati, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione, conducendo molti a cadere o nel vortice dell’estremismo ateo e agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.

La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi.

Affermiamo altresì che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.

È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare. Attaccare l’istituzione familiare, disprezzandola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappresenta uno dei mali più pericolosi della nostra epoca.

Attestiamo anche l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni.

Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo.

Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.

Questo Documento, in accordo con i precedenti Documenti Internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, attesta quanto segue:

- La forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune; a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a risvegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuove generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza, basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge.

- La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.

- La giustizia basata sulla misericordia è la via da percorrere per raggiungere una vita dignitosa alla quale ha diritto ogni essere umano.

- Il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano.

- Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni; significa anche evitare le inutili discussioni.

- La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee – è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale.

- Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

- Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli.

- Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura.
[segue]

NEXT GENERATION UE: i soldi ci sono ma come spenderli?

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NEXT GENERATION EU
ambiente e digitale
i due pilastri
del finanziamento europeo

Roberta Carlini su Rocca

C’è una parola che ricorre spesso, nel discorso sullo stato dell’unione che la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha tenuto a metà settembre. È la parola «fragilità». Eppure, è stato uno dei discorsi più forti che dall’alto scranno di Bruxelles siano mai stati fatti. Il suo primo dall’insediamento, avvenuto il primo dicembre 2019, pochi mesi prima che il mondo cambiasse tutto. «Siamo fragili, ha detto la presidente Ue, come persone, come collettività, come istituzioni, come comunità internazionale. Il virus prevedibile ma imprevisto ci ha esposti e lasciato esposti e tutti ci sentiamo, e siamo, più vulnerabili. E l’Unione europea è fragile, con le sue diversità, i suoi percorsi incompiuti, l’assenza di un potere centrale in grado di governare quel che è già di per sé ingovernabile. Eppure, questo è il momento dell’Europa. «Il momento di aprire la strada che porta da questa fragilità a una nuova vitalità».

l’Europa cambia linguaggio
Si può pensare che sia solo retorica – e in questo caso, è stata una buona retorica, capace di riscattare l’immagine non tanto gradevole dei «burocrati» di Bruxelles, di usare parole ispirate e all’altezza della drammaticità del momento, con la malattia e i morti, il virus che ritorna e una crisi economica senza precedenti che già morde. Anche la retorica, in alcuni casi, serve, così come serve l’enunciazione di obiettivi che vanno verso una vita migliore (un salario minimo per tutti, un’economia che salvi l’ambiente, un’innovazione digitale che serva agli uomini e alle donne), laddove gli scopi dell’Unione europea da decenni si presentano solo in numeri, tetti, vincoli e proibizioni.
Il cambiamento del linguaggio, dovuto all’eccezionalità del momento ma forse non a caso attuato dalla prima donna presidente della Commissione, è già qualcosa. Ma basterà, servirà a cambiare l’Europa e a farci stare meglio? In fondo, l’Unione europea è la stessa di prima, i suoi membri litigiosi lo potranno diventare ancor di più in tempi di crisi, i nazionalismi e gli estremismi di destra governano in alcuni suoi Paesi, mentre appena fuori dai confini (in Bielorussia) si calpestano libertà, diritti, vite e dentro i suoi confini vengono lasciati morire o rinchiusi in modo disumano i migranti in cerca di salvezza. E, quanto all’economia, continua ad essere uno spazio con un mercato comune ma 27 governi diversi, al cui interno c’è un altro spazio con un gruppo di importanti Paesi che hanno una sola moneta ma 19 governi, dunque con una politica monetaria comune ma differenti politiche della spesa, delle tasse, della sicurezza sociale.

rimediare ai difetti
Dunque la prudenza è d’obbligo e un po’ di scetticismo pure, dati i trascorsi della politica europea e gli choc dell’ultimo decennio: a partire dalla gestione disastrosa della crisi iniziata nel 2008, importata dagli Stati Uniti ma aggravata e anzi poi trasformata in una crisi tutta europea, quella dei debiti sovrani, sulla quale tutta la costruzione europea ha rischiato di saltare – e sarebbe saltata, se non fosse stato per la decisione della Bce di Mario Draghi di ergersi a protezione della stabilità della zona dell’euro, facendo svolgere alla politica monetaria e alla banca centrale un ruolo di salvagente e supplenza dell’Europa politica. Ma pur riuscendo a salvare in qualche modo l’Unione e l’eurozona da se stesse, il «bazooka» di Draghi non è riuscito a tamponare la crisi di fiducia che intanto si spargeva in tutti i Paesi membri, ricchi e poveri, alimentando i partiti antieuropeisti ovunque e culminando nell’uscita del Regno Unito con la Brexit.
La crisi del 2008, come scrive l’economista Francesco Saraceno in un bel libro appena uscito, intitolato «La riconquista. Perché abbiamo perso l’Europa e come possiamo riprendercela» (Luiss University Press, 2020), è stata un’occasione mancata per rimediare ai difetti di fabbricazione dell’Unione e dell’euro, e voltare pagina; mentre la grande crisi della pandemia del 2020 potrebbe essere l’occasione per «riprendersi» l’Europa. Tutto dipenderà dal seguito che si darà alle decisioni, finora senza precedenti, prese nei primi mesi del Covid 19: la sospensione dei vincoli ai bilanci nazionali; l’allungamento e potenziamento dei poteri della Banca centrale europea come rete di protezione e pompa di liquidità nel sistema; i programmi temporanei messi in piedi dalla Commissione (Sure e nuovo Mes); e il primo strumento di condivisione del debito, con il Recovery plan all’interno del «Next generation EU».

i due pilastri della spesa europea
Di queste novità si è già parlato in precedenti articoli su Rocca. Con la ripresa di settembre, il discorso della presidente von der Leyen e i documenti usciti da Bruxelles hanno segnato il passaggio a una ulteriore fase: adesso che è chiaro che c’è un imponente pacchetto di aiuti pubblici, e per la prima volta la sfera del «pubblico» è davvero europea, cioè parte da decisioni e risorse comuni, cosa ne facciamo di questi soldi? Oltre il bisogno e dovere immediati di salvare le persone, il lavoro, l’economia, quale è la visione? Quale futuro prepariamo, o cerchiamo di agevolare, per la famosa «prossima generatione»?

l’ambiente e il digitale
I due pilastri della spesa europea – finanziata o consentita dal programma Next Generation UE – sono l’ambiente e il digitale. Ossia gli investimenti in imprese e opere capaci di fermare il surriscaldamento del pianeta e ridurre le emissioni inquinanti; e nella diffusione dell’innovazione tecnologica a tutti i livelli della società, dell’economia, delle istituzioni, sia a livel- lo di offerta (che le opportunità offerte dalle nuove tecnologie siano accessibili a tutti) che di domanda (che tutti siano in grado di sfruttarle). A questi grandi titoli, sono ora aggiunti alcuni numeri. Sull’ambiente: il 37 per cento delle risorse del programma – dunque, 277 miliardi a livello europeo – dovranno andare al «green deal», e il 30 per cento dei finanziamenti sarà reperito sul mercato emettendo degli speciali «green bonds», dei titoli pubblici il cui rimborso è garantito dalla Ue e che serviranno esclusivamente per pagare gli investimenti «verdi».
Al digitale andrà il 20 per cento delle risorse del Next generation UE – 150 miliardi, sempre a livello europeo – che dovranno servire per trovare e finanziare la via europea a uno sviluppo che finora è stato guidato dai colossi americani (prima) e cinesi (poi).
Nel primo «pilastro», si tratta di una sfida difficile; quel che si deve fare è chiaro, ma è anche chiaro che le resistenze di economie ancora molto basate sul carbone saranno forti, e il passaggio doloroso in termini di posti di lavoro e costi sociali, per arrivare – questo l’obiettivo – a tagliare le emissioni inquinanti del 55% entro il 2030. Nel secondo, la sfida è ancora maggiore poiché non ci sono strade tracciate, se si vuole evitare il modello americano di una crescita digitale tutta centrata su pochi grandi colossi dal potere enorme e incontrollato, ma ovviamente anche la strada cinese di una «internet di Stato». Insomma, si tratta di inventare un modello che ancora non c’è.

i soldi ci sono ma come spenderli?
Quanto all’Italia, il nostro paese avrà una fetta enorme delle nuove risorse, molto maggiore del suo peso specifico nell’economia dell’Unione: 208 miliardi, tra trasferimenti e debiti «europei», cioè garantiti a livello comunitario. Sul come saranno spesi, finora si sa poco. Non ha aiutato la richiesta fatta a tutti i ministeri e le regioni di presentare i propri progetti; ne sono arrivati circa 600, i più vari e spesso raffazzonati, tirati fuori dai cassetti delle precedenti programmazioni. Il rischio è quello di rivestire di verde o digitale programmi pensati per tutt’altro, oppure di accontentare semplicemente le lobby più forti e influenti. Le linee guida per il Piano nazionale di ripresa e resilienza, preparate dal governo italiano, sono giuste nella diagnosi dei problemi, riconoscendo il fatto che molti dei ritardi e dei problemi dell’Italia preesistono al Covid 19 e semmai sono stati aggravati da questa emergenza, non da essa creati. Non solo. Per la prima volta in un documento del genere si mettono al primo posto gli investimenti in istruzione, ricerca e sviluppo, riduzione delle disuguaglianze (territoriali, di genere, retributive). Si pone l’obiettivo di aumentare di 10 punti il tasso di occupazione, che è tra i più bassi d’Europa, menzionando il fatto che questo gap è dovuto soprattutto al fatto che troppe poche donne lavorano, in particolare al Sud. E si aggiunge l’obiettivo di aumentare gli investimenti pubblici di un punto di Pil, dal 2 al 3%.

la politica del «fare»
Ma questa è solo la cornice, che deve essere riempita di politiche e progetti scritti sulla realtà dell’economia e della società, non confezionati solo per essere conformi alla grammatica della Commissione e ottenere i soldi. Come dice spesso l’economista Fabrizio Barca, bisogna uscire dalla logica dei «progettifici», individuare i bisogni e passare alle cose che si possono fare, chiedendosi in che misura e forma l’aiuto pubblico può aiutare quel «fare». Ci sono cose facili da fare, ma non per questo le più utili e produttive: per esempio, una politica molto battuta negli ultimi anni è quella dei bonus e delle decontribuzioni, che però sono spesso a pioggia, possono aiutare il corso della corrente (se tutto va bene) ma non aprire vie nuove, né tantomeno andare controcorrente quando serve. Un’altra via facile e popolare è quella di promettere generiche riduzioni delle tasse, laddove è chiaro che quei fondi europei non sono da destinare a ridurre le tasse, ma agli investimenti; e che le stesse raccomandazioni della Commissione sulla riforma del sistema fiscale sono indirizzate a rimediare ai suoi squilibri – primo tra tutti, il fatto che ci sono troppe tasse sul lavoro – non ad alimentare promesse elettorali.
Nelle prossime settimane le scelte decisive su questi temi dovranno essere impostate, nei prossimi mesi compiute. E quel che fa l’Italia non è importante solo per noi, ma anche per tutta l’Europa. Un uso clientelare, confuso, o solo emergenziale dei fondi europei si tradurrebbe in una ennesima occasione sprecata per l’Italia; e avrebbe un contraccolpo letale per chi vuole riformare l’Unione, e ridurre il gap di fiducia tra i Paesi del nord e quelli del Sud, evitando che i primi tornino ai vecchi tempi e alla vecchia impostazione che finora ha bloccato il progresso europeo.

Roberta Carlini

- NEXT GENERATION EU: i due pilastri del finanziamento europeo.
ROCCA 1 OTTOBRE 2020

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RECOVERY FUND (O MEGLIO NEXT GENERATION EU): Spiega il perché dell’altra dizione Francesco Giavazzi sul Corriere: “Riforme di lungo periodo per costruire il futuro”. Denso ma utile da leggere l’articolo del ministro Enzo Amendola sui piani del governo: “L’Europa ci sostiene. Adesso le riforme non sono un’utopia” (Il Riformista). Un bell’articolo del prof. Amedeo Lepore sul Mattino: “Infrastrutture, la via sociale che porta allo sviluppo”

Che fare dopo il referendum? Il dibattito cresce e ci coinvolge. Priorità alla nuova legge elettorale. Bene, avanti così!

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Che succede?
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QUALE RIFORMA ELETTORALE?
25 Settembre 2020 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Federica Fantozzi, “Il Pd vuole rivedere il bicameralismo perfetto” (Huffpost). Enzo Cheli, “Basta coi partiti che si aggrappano ai listini bloccati” (intervista a Il Fatto); e Appello di dieci costituzionalisti (tra cui E. Cheli, U. De Siervo, L. Carlassare), “Basta con le liste bloccate, gli eletti scelti dai cittadini” (Il Fatto). Enrico Letta, “Torniamo al Mattarellum e voto ai sedicenni” (intervista a La Stampa). Giancarlo Giorgetti, “Attenti, il proporzionale sarà un disastro per l’Italia” (intervista a Repubblica). Emanuele Lauria, “Pd diviso sul proporzionale. Il No di Prodi e Veltroni” (Repubblica). Infine un articolo di qualche tempo fa: Stefano Passigli, “E’ tempo di ripensare al proporzionale” (Corriere della sera).
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Il dibattito in ambito CoStat e dintorni
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AL PARLAMENTO e AI PARTITI diciamo: Basta con le liste bloccate
Dopo l’esito referendario, con la vittoria del Sì, Il Fatto quotidiano ha lanciato una nuova campagna, aderendo all’appello di 10 autorevoli costituzionalisti del Sì e del No. Lo facciamo con convinzione anche noi di Aladinpensiero.
Chiediamo alle forze politiche una nuova legge elettorale che cancelli la vergogna delle liste bloccate che dura da 15 anni. Ora serve restituire ai cittadini il diritto-potere di scegliersi i propri rappresentanti.
ECCO L’APPELLO DEI 10 COSTITUZIONALISTI CHE FACCIAMO NOSTRO
Lorenza Carlassare, Enzo Cheli, Ugo De Siervo, Roberto Zaccaria, Paolo Caretti, Roberto Romboli, Stefano Merlini, Emanuele Rossi, Giovanni Tarli, Andrea Pertici
Visto il risultato del referendum sulla riduzione del numero dei parlamentari, come professori di Diritto costituzionale, riteniamo che sia indispensabile procedere rapidamente verso la definizione di una nuova legge elettorale.
Tra di noi, alcuni hanno votato Sì e altri No, ma ora riteniamo che debba essere comune il nostro impegno per sollecitare una legge che favorisca la rappresentanza e il pluralismo politico e territoriale, da anni sacrificati.
Essenziale è un sistema elettorale che consenta alle persone di individuare e scegliere chi mandare in Parlamento, instaurandovi un effettivo rapporto rappresentativo e potendo far valere la loro responsabilità politica. In questo modo si potrà dare una migliore qualità alla rappresentanza e favorire anche una maggiore efficienza delle Camere.
Da troppo tempo le nostre leggi elettorali (“Porcellum”, “Italicum” e “Rosatellum”) hanno imposto sistemi di liste bloccate e la proposta oggi in discussione in Commissione Affari costituzionali della Camera non può rischiare di cadere nello stesso errore, né in quello di privare molti elettori di rappresentanza con soglie troppo elevate. La Corte costituzionale (sentenze n.1 del 2014 e n.35 del 2017) è stata chiara: niente lunghe liste bloccate. Partendo da questo punto, riteniamo essenziale favorire un’effettiva scelta da parte degli elettori, valorizzando i principi costituzionali, superando liste bloccate e candidature multiple.
Con questo appello intendiamo rivolgerci a tutte le forze politiche presenti in Parlamento perché si impegnino nell’approvazione di una legge elettorale che restituisca una maggiore rappresentanza, invitando coloro che condividono queste posizioni a unirsi alle nostre richieste.
FIRMA ANCHE TU
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Newsletter n. 204 del 26 settembre 2020
Ricordando Rossana Rossanda
logo76di Raniero La Valle

Care Amiche ed Amici,

ci sembra giusto anche da questa sponda associarci alla commozione per la morte di Rossana Rossanda, sia per la sua alta lezione morale sulla dignità della politica, sia per la sua sensibilità ai valori evangelici alimentata dalla sua amicizia con autentici cristiani, da padre Benedetto Calati a Giuseppe Barbaglio. Nella commemorazione romana in piazza Santi Apostoli è stato ricordato il suo percorso politico, e ne è stato tratto motivo per parlare non solo del nostro passato, ma del futuro, di quanto ci rimane da fare tra il meglio da attuare e il peggio da scongiurare e sconfiggere. Ma soprattutto quella comunione di popolo stabilita nel suo nome, è apparsa a noi come un attestato del mistero della vita umana che, dalla più povera alla più ricca, non viene “tolta”, ma lavorata e trasformata dalla morte, perché ogni persona è un infinito che per l’appunto non conosce fine.

In ciò la stessa Rossana era contraddetta su quanto aveva affermato in morte del grande amico suo, il padre Benedetto Calati, sul “Manifesto” del 26 novembre 2000, quando aveva scritto che si era spento con lui “un monaco raro che amavamo e che ci amava e per noi, che non speriamo nell’eternità, per sempre perduto”. Anche Rossana Rossanda era una comunista “rara”, ma non è affatto perduta per sempre, e sarebbe un guaio che proprio le persone più rare fossero quelle più perdute, quando invece sono proprio quelle che ci aiutano a non perderci anche noi.

E la differenza non sta nel credere o non credere all’eternità, perché le categorie di credenti e non credenti sono due categorie polemiche, cattivo retaggio della modernità, che non furono in principio e che sarebbe gran tempo di superare; la Rossanda, con l’etichetta “non credente”, insieme a Pietro Ingrao e a Mario Tronti saliva ogni anno al monastero camaldolese di Montegiove per discutere con padre Benedetto ed altri monaci e laici di ogni confessione di “temi e dilemmi sapienziali”, come lei stessa scriveva, “che in ultima istanza non sono così distinguibili tra religione e religione, religione e laicità”: e infatti sono gli stessi; e sono tra quelli evocati, pur se in altre categorie e con altre parole, anche nell’ardore dell’agone politico.

E a proposito dei “non credenti” la Rossanda, citando padre Calati, scriveva che questa definizione non poteva a lui “importare di meno giacché Dio, era scritto, aveva amato il mondo, non solo i fedeli”. E se del cristiano è “in più la fede”, essa è “meno essenziale dell’amore” che invece è di tutti: e questo non lo ha scritto solo la Rossanda sul “Manifesto”, sta scritto in ambedue i Testamenti e in tutte le Scritture.

Dunque la differenza, per la quale nessuno è “per sempre perduto” non sta nel credere o non credere nell’eternità , ma nel credere o non credere, nel praticare o non praticare l’amore; per questo Rossana Rossanda non è perduta, e nemmeno i comunisti come lei: perché si può essere rivoluzionari una settimana, si può essere rivoluzionari dieci anni, e anche si può essere rivoluzionari per venti anni “per professione”, ma non si può essere rivoluzionari tutta la vita se non per amore.

Perciò lei non è perduta per sempre, e “per favore”, direbbe papa Francesco, non ci perdiamo neanche noi.

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- Anche su Democraziaoggi e su Giornalia.

Che fare dopo il referendum? Il dibattito in ambito CoStat

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Riproponiamo alcuni interventi nel dibattito sul “Che fare? dopo il referendum”, avviato nell’ambito del Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria (CoStat), riprendendoli dai giornali online Democraziaoggi, Aladinpensiero, Giornalia.
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Logo_Aladin_PensieroMa il popolo non ha sempre ragione.
Franco Meloni – Commento apparso il 24 settembre 2020 su Democraziaoggi.
Sono stato garbatamente criticato per l’accostamento irriverente dell’episodio evangelico della pronuncia popolare in favore di Barabba contro Gesù, al comportamento dell’elettorato in occasione del referendum. Lo avevo riconosciuto io stesso in premessa del mio intervento, ma non me ne pento, perché il Vangelo è esemplare nel delineare le situazioni, a volte senza bisogno di alcuna ulteriore parola. Come appunto nel caso del brano citato. La volontà del popolo, che in tale circostanza certamente non si espresse democraticamente, non può essere accettata da nessuna persona giusta e ragionevole, come invece fece Pilato. La vicenda ci serve per affermare che le decisioni popolari possono essere giudicate sbagliate e che anche quando espresse democraticamente, come nel caso del nostro referendum, possono essere criticate. Si, devono essere applicate, ma è possibile e legittimo che ci si batta perché nel tempo vengano cambiate. In questa fase non ci si può illudere. Possiamo e dobbiamo limitare le conseguenze nefaste dovute alla riduzione delle rappresentanze e degli spazi della partecipazione democratica. Come? Una nuova legge elettorale, proporzionale e senza eccessivi (o comunque ragionevoli) sbarramenti costituisce un terreno prioritario di impegno politico, che può unificare quanti condividono i valori fondanti della Carta. Concordo pertanto con Andrea Pubusa e con altri autorevoli interlocutori sulla ricerca di questa unità anche con persone e gruppi che hanno appoggiato il Sì. Questa battaglia, con disincanto e senza illusioni, dobbiamo sicuramente fare, avendo ben chiare le argomentazioni e le avvertenze di Tonino Dessì, ma sorretti nonostante tutto dal gramsciano ottimismo della volontà. Tornando alle “critiche al popolo”, su cui occorre dibattere senza infingimenti, mi piace condividere un articolo di Giacomo Paci, datato 29 giugno 2016, ricco di riflessioni, in gran parte a mio parere condivisibili e che comunque ci inducono ad approfondimenti (https://www.ilpost.it/giacomopapi/2016/06/29/volete-gesu-o-barabba/). Ancora – questa volta per spontanea e suggestiva associazione di idee legata ai vissuti giovanili – mi è caro richiamare e proporre la canzone di Dario Fo “Popolo che da sempre stai sulla breccia incazzato da diecimila anni e più…”, della quale riporto il link del video su youtube: https://www.youtube.com/watch?v=7Kmf3wVn9oc .
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Risultati del Referendum. Commento (irriverente) per (forse) impertinenti associazioni di idee.
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[tratto dalla] Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo
In quel tempo Gesù comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla.
Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?».
Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: «Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.
Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua». Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!».
Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso
.
(…)
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democraziaoggi-loghettoDIBATTITO
Caro Andrea, dopo il referendum, un “che fare?” assai problematico.
di Tonino Dessì su Democraziaoggi.
Caro Andrea,
nell’articolo scritto il 21 Settembre a spoglio referendario concluso e a risultato definitivamente assestato, hai sinteticamente tracciato un indirizzo di lavoro (prima una nuova legge elettorale proporzionale, indi l’attuazione dei punti programmatici più urgenti della Costituzione) per i vari comitati locali che fanno riferimento a quello nazionale per la democrazia costituzionale, come prospettiva per ricomporre l’area democratico-progressista che si è divisa in occasione di questa consultazione.
Sinceramente apprezzando la consueta positività dell’indirizzo e sul piano dell’emozione reattiva sentendomi portato come sempre a condividerla, devo dire tuttavia che la ragione mi induce a prospettarmene tutte le difficoltà, oggettive e soggettive.
All’indomani del referendum del 2016 avevo auspicato il consolidamento del movimento costituzionale e addirittura pensato che l’immersione culturale nell’intenso dibattito sviluppatosi in quella campagna per respingere la revisione renziana potesse indurre uno fra i protagonisti decisivi, il M5S, a evolvere in “Partito della Costituzione”.
Così non è stato.
Nei quattro anni che sono poi trascorsi, proprio il M5S ha regredito su quel terreno e se da un lato il suo successo elettorale del 2018 e le circostanze che portarono alla formazione del primo Governo di questa legislatura con la Lega di Salvini hanno segnato una delle fratture più significative con l’area democratica, quella conseguente alla condivisione delle leggi xenofobe, dall’altro le circostanze che hanno portato alla formazione del secondo Governo, quello con PD, hanno condizionato lo stesso Governo nel frenare la pur annunziata (dagli accordi di maggioranza) revisione di quella legislazione, mentre ha finito per concludere il suo iter la revisione costituzionale sulla riduzione della rappresentanza, che aveva preso avvio con l’unificazione di due disegni di legge della maggioranza precedente, uno a firma Calderoli (Lega per Salvini), l’altro a firma Patuanelli (M5S).
Conclusione che in nome della ragion di governo ha visto il PD e le sinistre parlamentari satelliti confluire nell’approvazione nell’ultima e conclusiva lettura alla Camera dei Deputati, dopo che avevano votato contro in tutte le altre letture in entrambi i rami del Parlamento.
La secca formulazione della revisione è penetrata come una lama acuminata dentro lo stesso movimento costituzionale del 2016, dividendolo e inducendo una parte dei costituzionalisti, come la professoressa Carlassare e il professor Zagrebelsky, a schierarsi per il SI per palesemente prevalenti motivazioni politiche, di difesa del quadro di Governo, fino al punto di ritrattare opposte posizioni sul merito espresse nel 2016.
Il ferro aguzzo ha sfondato le maglie della difesa della Costituzione penetrandone il ventre molle, quello della rappresentanza.
È verosimile che anche nel voto diffuso la parte democratica del NO del 2016 si sia divisa, benchè più di un indizio porti a ritenere che il SI del 2020 sia un voto molto più caratterizzato a destra di quello del 2016.
Le indagini degli analisti sono propense a ritenere che un po’ più della metà degli elettori PD abbia votato, nonostante le indicazioni di partito, contro la revisione, mentre il modestissimo risultato conseguito dal M5S nelle contestuali elezioni regionali lascia intendere che anche l’apporto dei suoi elettori alla causa della revisione sia stato corrispondentemente assai modesto.
Conclusivamente, nella sua convulsione quasi premonitrice di un’agonia difficilmente reversibile, questo partito ha contribuito a dare un colpo durissimo alla Costituzione.
La quale, parliamoci chiaro, dal voto referendario non esce più uguale a prima, non solo come Costituzione formale, ma neppure come Costituzione materiale.
Una Camera e un Senato rispettivamente ridotti a 400 e a 200 componenti non saranno affatto più efficienti.
Basti pensare alla riduzione della capacità di analisi dello spettro di problemi di un Paese complesso inevitabilmente derivante dalla riduzione del numero complessivo e della provenienza territoriale dei componenti delle due Assemblee e delle Commissioni parlamentari e nella prospettiva dall’accorpamento e dalla riduzione delle medesime Commissioni.
Saranno sicuramente, il Parlamento e le Commissioni parlamentari, organi meno rappresentativi: il taglio del trenta per cento solleva oggettivamente la soglia di accesso delle formazioni politiche al Parlamento e prevedere, anche in una legge elettorale proporzionale, un ulteriore sbarramento, incrementerebbe la conseguenza fino a far prevedere che la rappresentanza parlamentare del Paese sarà in mano a forze politiche espressioni di una minoranza di elettori.
Per quanto sia vero che in una precedente fase della storia repubblicana (quella della rigogliosa crescita delle forme istituzionali, anche regionali e locali, delle forme organizzate della politica come i partiti di massa e delle forme organizzate dei movimenti sociali, anche sindacali e civili, che innervarono la partecipazione di massa alla politica) una parte della sinistra prospettò fiduciosamente tanto una riduzione del numero dei parlamentari, quanto addirittura il superamento del bicameralismo a favore di un’unica Assemblea Nazionale eletta col sistema elettorale integralmente proporzionale, è pur vero che nella regressione istituzionale, sociale, culturale e soprattutto politica in corso da almeno trent’anni quelle proposte hanno perso di attualità.
Ma è anche opportuno ricordare che quelle proposte erano accompagnate da un bilanciamento intrinseco, ossia dalla proposta di un irrigidimento ulteriore delle procedure di revisione, mediante l’eliminazione dall’articolo 138 della Carta della possibilità di un’approvazione a maggioranza, ancorchè assoluta.
Questo non è stato previsto nella riforma approvata e se pure sarebbe certamente il primo obiettivo da indicare, nulla induce a prevedere che alcuna forza politica intenda assumerne l’iniziativa, men che meno che una maggioranza parlamentare qualificata ai sensi dell’articolo 138 vigente si coaguli per approvare una tale proposta.
Anzi, suonano abbastanza inquietanti gli annunci di apertura di una “nuova stagione di riforme”.
La Costituzione perciò è diventata assai più fragile proprio per il fatto che già oggi si è sperimentata una modalità politica per modificarla agevolmente e che sarà possibile nel prossimo Parlamento modificarla da parte di maggioranze le quali, ancorchè qualificate, saranno pur sempre formate nell’ambito di forze politiche espressioni nel loro complesso di una minoranza del corpo elettorale.
Già domani, peraltro, cosa potremmo fare, se venisse approvata la proposta di legge costituzionale firmata dai parlamentari di LeU e il cui esame è stato già incardinato nella competente Commissione Affari costituzionali del Senato, volta al superamento della elezione dei senatori su base regionale?
Certo, si tratta di un’ulteriore revisione dall’approvazione non scontata, benchè rientri negli accordi di maggioranza.
Dipenderà dall’evoluzione della vicenda residuale dell’ex sinistra radicale italiana, la quale da qui alla fine della legislatura potrebbe invece conclusivamente confluire nel PD, complice la possibile concomitante non ottemperanza agli accordi del M5S, che alla luce dell’esito delle elezioni regionali preferirebbe magari non trovarsi altre forze “minori” concorrenti.
Se invece passasse ci avvieremmo alla definitiva cancellazione dai rami “alti” dell’ordinamento di un riferimento alla rappresentanza su base circoscrizionale regionale, preludio alla creazione di collegi pluriregionali, analoghi a quelli per l’elezione del Parlamento Europeo, non solo per la Camera, ma anche per il Senato.
L’effetto su una Regione come quella sarda, che già vedrà ridotta la sua rappresentanza nel Parlamento italiano di oltre il 36 per cento, è intuitivo, visto che l’esperienza della collocazione in un collegio europeo “Isole” con la Sicilia, la facciamo da tempo.
In questa prospettiva direi che anche una possibile evoluzione del bicameralismo paritario in un bicameralismo specializzato di tipo federale (che, detto per inciso, è stata la linea ufficiale, in Sardegna, dell’ultimo PCI nel 1989, del PDS sardo e financo dei DS-Sinistra federalista sarda, fino al suo scioglimento nel PD) è destinata a sfumare definitivamente.
Va peraltro notato che intanto i processi di disaffezione e di astensione per sfiducia e per difetto dell’offerta politica proprio in Sardegna hanno finito per connotare sia le elezioni senatoriali di Sassari sia il referendum.
Se a livello nazionale il risultato referendario è infatti più che legittimato da un’affluenza largamente superiore al cinquanta per cento degli aventi diritto, in Sardegna l’affluenza si è rivelata considerevolmente più bassa, l’elezione a Sassari, pur in un contesto di “sciopero del voto” non troppo differente da quello che caratterizzò le suppletive cagliaritane per la Camera del 2019, ha segnato un successo della destra e nel contempo confermato la presumibile connotazione a destra anche del voto referendario locale e poco consola che la percentuale regionale dei NO sia stata lievemente superiore a quella di molte altre Regioni.
Insomma, non ho motivo per essere particolarmente ottimista, per la prospettiva e la riflessione sul “che fare?” mi pare urgente, ma problematica e non agevolmente risolvibile con la ripresa di un attivismo volontaristico.
Saluti cordiali.
Tonino Dessì
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democraziaoggiCaro Tonino, hai ragione, il voto referendario evidenzia guasti ben più gravi del semplice taglio dei parlamentari
24 Settembre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Caro Tonino,
la tua lettera aperta di ieri mi costringe a fare un’ammissione. Nel mio commento a caldo dopo il risultato referendario mi sono rifugiato nel tradizionale “abbiamo perso una battaglia, continuiamo la lotta per vincere la guerra“. E’ questo un modo per invitare l’area democratica di matrice “Resistenziale” a continuare nell’impegno. Fa così anche la Nespolo a nome dell’ANPI, col suo comunicato che esprime una posizione perfino più prudente, invitando a battersi per limitare i guasti di questa revisione.
Il fatto è – hai ragione tu – che bisogna fare i conti con le forze in campo sia per battersi per l’attuazione della Costituzione sia per scongiurare gli effetti negativi della riduzione dei parlamentari. E le forze diventano più esili. Vorrei sbagliare, ma il voto referendario rivela che un ampio schieramento di forze ha ormai abbandonato il campo dei valori resistenziali. Ritiene che essi siano un fardello, un peso nello sviluppo e nella modernizzazione del Paese. A pensarci bene, ciò che viene mandata al macero è la rigidità della Costituzione, che non è solo un fatto formale, di procedure aggravate, ma è anzitutto patrottismo costituzionale, fedeltà attiva ad un insieme di valori e di principi, che la Carta enuncia e che sono riassumibili in quel “fondata sul lavoro” che compare all’inizio della Costituzione a connotarne l’ispirazione, “lavoro” che viene posto a pietra fondante dell’ordinamento insieme al principio di uguaglianza.
Al PD, che già aveva fatto il salto con Renzi, ma già prima votando il pareggio di bilancio e le leggi contro i diritti dei lavoratori a partire dal l’abrogazione del paradigmatico art. 18, ora si aggiunge il M5S, che, con la sua difesa strenua della Carta contro l’attacco renziano, ci aveva illuso di costituire un nuovo argine allo stravolgimento delle fondamenta della nostra repubblica.
Una sinistra disfatta e un nuovo Movimento pentastellato legato alla piccineria del risparmio dei costi della democrazia non lasciano ben sperare in una fase attuativa dei principi della Carta. Anzi giustificano la paura che lo stravolgimento continui.
Caro Tonino, hai perfettamente ragione lo spirito volontaristico e volenteroso, senza un’analisi impietosa delle forze in campo è puramente consolatorio, ma improduttivo. Eppure dalla volontà di non mollare di quel 30% che ha detto NO, bisogna partire, sapendo che per una lunga fase più che in attacco dovremo giocare in difesa. Come nelle tenzoni sportive, quando gli avversari sono più forti, bisogna cercare di limitare i danni, riorganizzando le forze e i programmi per una ripresa.
Caro Tonino, so che sto tornando alla impostazione di cui tu realisticamente hai evidenziato l’ingenuità e la debolezza, ma questo volontarismo ci salva dallo sconforto e dalla passività e se è riempito di contenuti e di azione politica può ottenere risultati. Comunque per noi non vedo altra strada.

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giornalia-logoReferendum (e Elezioni): in Italia e in Sardegna rivelano un deficit di democrazia
di Franco Meloni su Giornalia.
Abbiamo sott’occhio i risultati del Referendum:
[segue]

Risultati del Referendum. Commento (irriverente) per (forse) impertinenti associazioni di idee.

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[tratto dalla] Passione di nostro Signore Gesù Cristo secondo Matteo

In quel tempo Gesù comparve davanti al governatore, e il governatore lo interrogò dicendo: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Tu lo dici». E mentre i capi dei sacerdoti e gli anziani lo accusavano, non rispose nulla.

Allora Pilato gli disse: «Non senti quante testimonianze portano contro di te?».

Ma non gli rispose neanche una parola, tanto che il governatore rimase assai stupito. A ogni festa, il governatore era solito rimettere in libertà per la folla un carcerato, a loro scelta. In quel momento avevano un carcerato famoso, di nome Barabba. Perciò, alla gente che si era radunata, Pilato disse: «Chi volete che io rimetta in libertà per voi: Barabba o Gesù, chiamato Cristo?». Sapeva bene infatti che glielo avevano consegnato per invidia.

Mentre egli sedeva in tribunale, sua moglie gli mandò a dire: «Non avere a che fare con quel giusto, perché oggi, in sogno, sono stata molto turbata per causa sua». Ma i capi dei sacerdoti e gli anziani persuasero la folla a chiedere Barabba e a far morire Gesù. Allora il governatore domandò loro: «Di questi due, chi volete che io rimetta in libertà per voi?». Quelli risposero: «Barabba!». Chiese loro Pilato: «Ma allora, che farò di Gesù, chiamato Cristo?». Tutti risposero: «Sia crocifisso!». Ed egli disse: «Ma che male ha fatto?». Essi allora gridavano più forte: «Sia crocifisso!».

Pilato, visto che non otteneva nulla, anzi che il tumulto aumentava, prese dell’acqua e si lavò le mani davanti alla folla, dicendo: «Non sono responsabile di questo sangue. Pensateci voi!». E tutto il popolo rispose: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli». Allora rimise in libertà per loro Barabba e, dopo aver fatto flagellare Gesù, lo consegnò perché fosse crocifisso.
(…)
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DIBATTITO
Caro Andrea, dopo il referendum, un “che fare?” assai problematico.

di Tonino Dessì su Democraziaoggi.

Caro Andrea,
nell’articolo scritto il 21 Settembre a spoglio referendario concluso e a risultato definitivamente assestato, hai sinteticamente tracciato un indirizzo di lavoro (prima una nuova legge elettorale proporzionale, indi l’attuazione dei punti programmatici più urgenti della Costituzione) per i vari comitati locali che fanno riferimento a quello nazionale per la democrazia costituzionale, come prospettiva per ricomporre l’area democratico-progressista che si è divisa in occasione di questa consultazione.
Sinceramente apprezzando la consueta positività dell’indirizzo e sul piano dell’emozione reattiva sentendomi portato come sempre a condividerla, devo dire tuttavia che la ragione mi induce a prospettarmene tutte le difficoltà, oggettive e soggettive.
All’indomani del referendum del 2016 avevo auspicato il consolidamento del movimento costituzionale e addirittura pensato che l’immersione culturale nell’intenso dibattito sviluppatosi in quella campagna per respingere la revisione renziana potesse indurre uno fra i protagonisti decisivi, il M5S, a evolvere in “Partito della Costituzione”.
Così non è stato.
Nei quattro anni che sono poi trascorsi, proprio il M5S ha regredito su quel terreno e se da un lato il suo successo elettorale del 2018 e le circostanze che portarono alla formazione del primo Governo di questa legislatura con la Lega di Salvini hanno segnato una delle fratture più significative con l’area democratica, quella conseguente alla condivisione delle leggi xenofobe, dall’altro le circostanze che hanno portato alla formazione del secondo Governo, quello con PD, hanno condizionato lo stesso Governo nel frenare la pur annunziata (dagli accordi di maggioranza) revisione di quella legislazione, mentre ha finito per concludere il suo iter la revisione costituzionale sulla riduzione della rappresentanza, che aveva preso avvio con l’unificazione di due disegni di legge della maggioranza precedente, uno a firma Calderoli (Lega per Salvini), l’altro a firma Patuanelli (M5S).
Conclusione che in nome della ragion di governo ha visto il PD e le sinistre parlamentari satelliti confluire nell’approvazione nell’ultima e conclusiva lettura alla Camera dei Deputati, dopo che avevano votato contro in tutte le altre letture in entrambi i rami del Parlamento.
La secca formulazione della revisione è penetrata come una lama acuminata dentro lo stesso movimento costituzionale del 2016, dividendolo e inducendo una parte dei costituzionalisti, come la professoressa Carlassare e il professor Zagrebelsky, a schierarsi per il SI per palesemente prevalenti motivazioni politiche, di difesa del quadro di Governo, fino al punto di ritrattare opposte posizioni sul merito espresse nel 2016.
Il ferro aguzzo ha sfondato le maglie della difesa della Costituzione penetrandone il ventre molle, quello della rappresentanza.
È verosimile che anche nel voto diffuso la parte democratica del NO del 2016 si sia divisa, benchè più di un indizio porti a ritenere che il SI del 2020 sia un voto molto più caratterizzato a destra di quello del 2016.
Le indagini degli analisti sono propense a ritenere che un po’ più della metà degli elettori PD abbia votato, nonostante le indicazioni di partito, contro la revisione, mentre il modestissimo risultato conseguito dal M5S nelle contestuali elezioni regionali lascia intendere che anche l’apporto dei suoi elettori alla causa della revisione sia stato corrispondentemente assai modesto.
Conclusivamente, nella sua convulsione quasi premonitrice di un’agonia difficilmente reversibile, questo partito ha contribuito a dare un colpo durissimo alla Costituzione.
La quale, parliamoci chiaro, dal voto referendario non esce più uguale a prima, non solo come Costituzione formale, ma neppure come Costituzione materiale.
Una Camera e un Senato rispettivamente ridotti a 400 e a 200 componenti non saranno affatto più efficienti.
Basti pensare alla riduzione della capacità di analisi dello spettro di problemi di un Paese complesso inevitabilmente derivante dalla riduzione del numero complessivo e della provenienza territoriale dei componenti delle due Assemblee e delle Commissioni parlamentari e nella prospettiva dall’accorpamento e dalla riduzione delle medesime Commissioni.
Saranno sicuramente, il Parlamento e le Commissioni parlamentari, organi meno rappresentativi: il taglio del trenta per cento solleva oggettivamente la soglia di accesso delle formazioni politiche al Parlamento e prevedere, anche in una legge elettorale proporzionale, un ulteriore sbarramento, incrementerebbe la conseguenza fino a far prevedere che la rappresentanza parlamentare del Paese sarà in mano a forze politiche espressioni di una minoranza di elettori.
Per quanto sia vero che in una precedente fase della storia repubblicana (quella della rigogliosa crescita delle forme istituzionali, anche regionali e locali, delle forme organizzate della politica come i partiti di massa e delle forme organizzate dei movimenti sociali, anche sindacali e civili, che innervarono la partecipazione di massa alla politica) una parte della sinistra prospettò fiduciosamente tanto una riduzione del numero dei parlamentari, quanto addirittura il superamento del bicameralismo a favore di un’unica Assemblea Nazionale eletta col sistema elettorale integralmente proporzionale, è pur vero che nella regressione istituzionale, sociale, culturale e soprattutto politica in corso da almeno trent’anni quelle proposte hanno perso di attualità.
Ma è anche opportuno ricordare che quelle proposte erano accompagnate da un bilanciamento intrinseco, ossia dalla proposta di un irrigidimento ulteriore delle procedure di revisione, mediante l’eliminazione dall’articolo 138 della Carta della possibilità di un’approvazione a maggioranza, ancorchè assoluta.
Questo non è stato previsto nella riforma approvata e se pure sarebbe certamente il primo obiettivo da indicare, nulla induce a prevedere che alcuna forza politica intenda assumerne l’iniziativa, men che meno che una maggioranza parlamentare qualificata ai sensi dell’articolo 138 vigente si coaguli per approvare una tale proposta.
Anzi, suonano abbastanza inquietanti gli annunci di apertura di una “nuova stagione di riforme”.
La Costituzione perciò è diventata assai più fragile proprio per il fatto che già oggi si è sperimentata una modalità politica per modificarla agevolmente e che sarà possibile nel prossimo Parlamento modificarla da parte di maggioranze le quali, ancorchè qualificate, saranno pur sempre formate nell’ambito di forze politiche espressioni nel loro complesso di una minoranza del corpo elettorale.
Già domani, peraltro, cosa potremmo fare, se venisse approvata la proposta di legge costituzionale firmata dai parlamentari di LeU e il cui esame è stato già incardinato nella competente Commissione Affari costituzionali del Senato, volta al superamento della elezione dei senatori su base regionale?
Certo, si tratta di un’ulteriore revisione dall’approvazione non scontata, benchè rientri negli accordi di maggioranza.
Dipenderà dall’evoluzione della vicenda residuale dell’ex sinistra radicale italiana, la quale da qui alla fine della legislatura potrebbe invece conclusivamente confluire nel PD, complice la possibile concomitante non ottemperanza agli accordi del M5S, che alla luce dell’esito delle elezioni regionali preferirebbe magari non trovarsi altre forze “minori” concorrenti.
Se invece passasse ci avvieremmo alla definitiva cancellazione dai rami “alti” dell’ordinamento di un riferimento alla rappresentanza su base circoscrizionale regionale, preludio alla creazione di collegi pluriregionali, analoghi a quelli per l’elezione del Parlamento Europeo, non solo per la Camera, ma anche per il Senato.
L’effetto su una Regione come quella sarda, che già vedrà ridotta la sua rappresentanza nel Parlamento italiano di oltre il 36 per cento, è intuitivo, visto che l’esperienza della collocazione in un collegio europeo “Isole” con la Sicilia, la facciamo da tempo.
In questa prospettiva direi che anche una possibile evoluzione del bicameralismo paritario in un bicameralismo specializzato di tipo federale (che, detto per inciso, è stata la linea ufficiale, in Sardegna, dell’ultimo PCI nel 1989, del PDS sardo e financo dei DS-Sinistra federalista sarda, fino al suo scioglimento nel PD) è destinata a sfumare definitivamente.
Va peraltro notato che intanto i processi di disaffezione e di astensione per sfiducia e per difetto dell’offerta politica proprio in Sardegna hanno finito per connotare sia le elezioni senatoriali di Sassari sia il referendum.
Se a livello nazionale il risultato referendario è infatti più che legittimato da un’affluenza largamente superiore al cinquanta per cento degli aventi diritto, in Sardegna l’affluenza si è rivelata considerevolmente più bassa, l’elezione a Sassari, pur in un contesto di “sciopero del voto” non troppo differente da quello che caratterizzò le suppletive cagliaritane per la Camera del 2019, ha segnato un successo della destra e nel contempo confermato la presumibile connotazione a destra anche del voto referendario locale e poco consola che la percentuale regionale dei NO sia stata lievemente superiore a quella di molte altre Regioni.
Insomma, non ho motivo per essere particolarmente ottimista, per la prospettiva e la riflessione sul “che fare?” mi pare urgente, ma problematica e non agevolmente risolvibile con la ripresa di un attivismo volontaristico.
Saluti cordiali.
Tonino Dessì
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Caro Tonino, hai ragione, il voto referendario evidenzia guasti ben più gravi del semplice taglio dei parlamentari
24 Settembre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Caro Tonino,
la tua lettera aperta di ieri mi costringe a fare un’ammissione. Nel mio commento a caldo dopo il risultato referendario mi sono rifugiato nel tradizionale “abbiamo perso una battaglia, continuiamo la lotta per vincere la guerra“. E’ questo un modo per invitare l’area democratica di matrice “Resistenziale” a continuare nell’impegno. Fa così anche la Nespolo a nome dell’ANPI, col suo comunicato che esprime una posizione perfino più prudente, invitando a battersi per limitare i guasti di questa revisione.
Il fatto è – hai ragione tu – che bisogna fare i conti con le forze in campo sia per battersi per l’attuazione della Costituzione sia per scongiurare gli effetti negativi della riduzione dei parlamentari. E le forze diventano più esili. Vorrei sbagliare, ma il voto referendario rivela che un ampio schieramento di forze ha ormai abbandonato il campo dei valori resistenziali. Ritiene che essi siano un fardello, un peso nello sviluppo e nella modernizzazione del Paese. A pensarci bene, ciò che viene mandata al macero è la rigidità della Costituzione, che non è solo un fatto formale, di procedure aggravate, ma è anzitutto patrottismo costituzionale, fedeltà attiva ad un insieme di valori e di principi, che la Carta enuncia e che sono riassumibili in quel “fondata sul lavoro” che compare all’inizio della Costituzione a connotarne l’ispirazione, “lavoro” che viene posto a pietra fondante dell’ordinamento insieme al principio di uguaglianza.
Al PD, che già aveva fatto il salto con Renzi, ma già prima votando il pareggio di bilancio e le leggi contro i diritti dei lavoratori a partire dal l’abrogazione del paradigmatico art. 18, ora si aggiunge il M5S, che, con la sua difesa strenua della Carta contro l’attacco renziano, ci aveva illuso di costituire un nuovo argine allo stravolgimento delle fondamenta della nostra repubblica.
Una sinistra disfatta e un nuovo Movimento pentastellato legato alla piccineria del risparmio dei costi della democrazia non lasciano ben sperare in una fase attuativa dei principi della Carta. Anzi giustificano la paura che lo stravolgimento continui.
Caro Tonino, hai perfettamente ragione lo spirito volontaristico e volenteroso, senza un’analisi impietosa delle forze in campo è puramente consolatorio, ma improduttivo. Eppure dalla volontà di non mollare di quel 30% che ha detto NO, bisogna partire, sapendo che per una lunga fase più che in attacco dovremo giocare in difesa. Come nelle tenzoni sportive, quando gli avversari sono più forti, bisogna cercare di limitare i danni, riorganizzando le forze e i programmi per una ripresa.
Caro Tonino, so che sto tornando alla impostazione di cui tu realisticamente hai evidenziato l’ingenuità e la debolezza, ma questo volontarismo ci salva dallo sconforto e dalla passività e se è riempito di contenuti e di azione politica può ottenere risultati. Comunque per noi non vedo altra strada.

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Nell’illustrazione in testa: Ecce Homo, particolare del quadro di Antonio Ciseri. Di seguito il quadro intero.
Ecce Homo by Antonio Ciseri c. 1880

Referendum (e Elezioni): in Italia e in Sardegna rivelano un deficit di democrazia

di Franco Meloni
Abbiamo sott’occhio i risultati del Referendum:
schermata-2020-09-22-alle-09-19-49 in Italia il SI ha stravinto con quasi il 70% dei consensi, lasciando al NO il resto. Meglio per il NO – che abbiamo sostenuto – in Sardegna, schermata-2020-09-22-alle-09-18-35 dove il Si totalizza il 67%, lasciando al No il 33%. Un positivo differenziale di circa 3 punti tra il dato italiano e quello sardo che in certa misura ci annettiamo (forse presuntuosamente) per il nostro impegno militante a sostegno del NO. Per come si era partiti, il risultato sembrava scontato: con tutte le forze politiche schierate per il SI, nonostante qualche dissenso, e, soprattutto, stante il quesito referendario che incitava gli elettori a dare una bastonata ai politici, a prescindere, anzi, contro ogni ragionamento sul fatto che la classe politica non avrebbe mai e poi mai consentito un suo ridimensionamento in termini di potere. Ciò che avrebbe perduto in numerosità avrebbe ricuperato in potere effettivo con il rafforzamento delle oligarchie di partito. Non ripeto le argomentazioni per il NO che sopravanzavano, come sopravanzano, quelle per il SI, quand’anche sostenute da eminenti giuristi come Zagrebelsky, Onida, Carlassare, ed altri. I risultati danno conto che non ci poteva aspettare alcun miracolo e dunque da questi occorre ripartire, anche riconoscendo che il 30%, pari a oltre 7 milioni e 400mila voti è comunque un numero enorme anche quando confrontato con i 17 milioni dei SI. Uguali considerazioni facciamo per i numeri sardi. Vedremo ora cosa succederà: riforma elettorale in senso proporzionale e dintorni. Non staremo certo a guardare.
Sempre molto preoccupante il dato di affluenza: in Italia pari al 53,84% e, in Sardegna, più basso ancora, pari infatti al 35,71%. Certo occorre considerare che in Italia la contemporaneità di importanti elezioni amministrative in sette regioni Regioni e molti Comuni (Election day) hanno fatto da traino per incrementare il dato di affluenza, comunque basso.

In Italia
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In Sardegna
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Se la DEMOCRAZIA è PARTECIPAZIONE non possiamo che constatare come in Sardegna e nel resto d’Italia si verifichi un pericoloso DEFICIT di DEMOCRAZIA. Non possiamo solo prenderne atto: dobbiamo impegnarci in direzione ostinata e contraria, come e di più rispetto a quanto già facciamo individualmente e organizzati.

Ribadisco solo alcune semplici conclusioni: 1) resto convinto che tagliare il numero dei parlamentari sia sbagliato e fondamentalmente antidemocratico, per tutte le argomentazioni più volte avanzate; 2) non possiamo accettare lo status quo; urge una reimpostazione delle forme della rappresentanza politica a partire dalla democratizzazione dei partiti e, come detto, dalla riforma dei sistemi elettorali in chiave proporzionale. È un discorso complesso ma va continuato. E nel nostro piccolo, anche attraverso le News che animiamo, continueremo a farlo, impegnati, secondo le nostre inossidabili convinzioni, per la democrazia, che si esprime con la partecipazione popolare nelle istituzioni e nel territorio.

Ad altri lasciamo considerazioni più vaste anche rispetto ai risultati delle elezioni regionali, comunali e politiche suppletive.

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* I dati (definitivi) sono tratti dal sito web del Ministero dell’Interno.

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Referendum: vince il SI. Apriamo una stagione per l’attuazione della Costituzione
21 Settembre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.

In cuor mio ho sperato fino all’ultimo nella vittoria del NO. Ma tanti erano i segnali di segno contrario. Lasciamo da parte i cosiddetti partiti, che contano poco o niente, c’erano altri fattori ben più rivelatori degli orientamenti generali. Anzitutto una parte del costituzionalismo alto si è espresso per il SI. Zagrebelsky, Carlassare, l’ex presidente della Corte costituzionale Onida ed altri hanno benedetto il taglio, mentre in passato sono stati la punta di diamante del NO. Questo mutato orientamento ha convinto l’elettorato democratico che la riduzione del numero dei parlamentari non è fonte di pericoli sul piano democratico. La revisione poi si configurava come un emendamento specifico non come una modifica pervasiva della Carta. Ancora sia il PCI sia due eminenti giuristi democratici come Stefano Rodotà e Gianno Ferrara avevano begli anni ‘80, quali esponenti della “Sinistra indipendente”, presentato una proposta di legge simile a questa con l’aggiunta dell’introduione del monocameralismo. Un ruolo lo ha giocato anche Conte, tenendosi in disparte, mentre Berlusconi e Renzi si erano proposti come i presentatori del progetti del 2006 e del 2016. Anche questo ha eliminato la paura di una riforma dall’alto in chiave autocratica.
Questa analisi nulla toglie alla giustezza delle ragioni del NO, ma occorre guardare avanti. C’è un parlamento più efficiente? Bene apriamo allora la stagione dell’attuazione della Carta: in essa e nei suoi principi c’è un programma di governo per più legislature: lavoro, diritti individuali e sociali (sanità e scuola anzitutto), e uguaglianza, uguaglianza e ancora uguaglianza. Subito una legge elettorale proporzionale.
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Questo è il fronte che il Coordinamento per la democrazia costituzionale aprirà su scala nazionale e su cui anche noi come Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria (CoStat) di Cagliari ci impegneremo con decisione. Su questo programma può anche ricomporsi il fronte progressista diviso fra NO e SI.
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Che brutto risvegliarsi in un’Italia con meno democrazia
Tomaso Montanari analizza i risultati elettorali. Dalla tristezza di un risveglio in un’Italia meno plurale e con il conflitto sociale istradato nelle istituzioni, alla consapevolezza dell’inesistenza di una sinistra capace di portare al voto gli esclusi, i marginali, i poveri. “Occorre battere strade più lontane, più impervie”.

di Tomaso Montanari su MicroMega.

Il giorno dopo queste strane elezioni pandemiche ci siamo svegliati con meno democrazia. Mi pare questa la cifra dominante: almeno se con ‘democrazia’ intendiamo pluralità, rappresentanza, istradamento del conflitto sociale nelle istituzioni. Decenni di plebiscitarismo, maggioritarismo, riduzione quantitativa e qualitativa della rappresentanza danno i loro frutti: in Veneto e in Campania siamo al dominio personale, al di là di ogni partito; in Liguria perde l’unico progetto in qualche modo progressivo; in Toscana trionfa una paura creata ad arte.

Sulla mia Toscana vorrei scrivere qualche parola in più. Mentre per fortuna muore nella sua stessa culla Italia Viva (4,48% mentre mancano ancora poche sezioni da scrutinare), Renzi trionfa nella sadica imposizione al Pd di Eugenio Giani, un candidato di apparato, anzi di corridoio. Del tutto incapace di parlare di futuro, del tutto alieno da ogni idea di sinistra. Come ho continuato (inutilmente) a scrivere fino a ieri, quel candidato inguardabile era un candidato naturalmente vincente: perché capace di attrarre moltissimi voti dalla destra del potere, e insieme di ricattare (proprio per la sua apparente debolezza) gli elettori di sinistra attraverso la paura della destra popolare.

È andata puntualmente così: a urne aperte i toscani (specie quelli di sinistra-sinistra) hanno ricevuto decine di sms con sondaggi che davano la Ceccardi in vantaggio di dieci e passa punti (varie denunce sono state presentate), secondo una tecnica ampiamente sperimentata in Brasile, dove le campagne elettorali si decidono attraverso campagne mistificatorie via Whatsapp.

Conosco amici carissimi, e membri della mia stessa famiglia che, presi dal panico dei fascisti che arrivano in Piazza della Signoria, hanno votato per Giani, spesso senza riuscire a fare il voto disgiunto (risultano oltre quarantamila schede nulle), e trattenendo a stento i conati di vomito: salvo accorgersi, ieri pomeriggio, della truffa subìta. Il risultato è che la bella lista di Tommaso Fattori, Toscana a Sinistra, che nel 2015 aveva preso il 6,9 entrando in Consiglio regionale con due seggi, oggi con il 2,86 rimane fuori. E del resto dal Consiglio regionale toscano rimane fuori (secondo i dati attuali) ogni possibile sinistra: perché nella coalizione vincente eleggono consiglieri solo il Pd, la lista di Giani e Italia Viva, mentre i (peraltro risibili) cartelli ‘di sinistra’ creati ad hoc non superano lo sbarramento. Vincono dunque la paura, la credulità popolare e il cinismo di un sistema mediatico che, obbedendo a proprietà e poteri, all’unisono ha suonato l’allarme per l’inesistente pericolo fascista e invitato al salvifico voto per Giani, eliminando dalla narrazione qualunque altra lista.

Naturalmente, però, i problemi della sinistra sono più antichi e più profondi. Giani vince con i voti dei salvati, di coloro a cui conviene che tutto rimanga com’è: mentre il voto dei sommersi, dei poveri, degli esclusi (la base sociale naturale di ogni sinistra) rimane nell’astensione (il 37,3 per cento dei toscani non ha votato), o va (per disperazione e rabbia) alla Ceccardi, la candidata della Lega. Ma anche il 6,9 per cento di Toscana a Sinistra del 2015 veniva dai salvati: dai più generosi e illuminati dei salvati, che si impegnano nelle lotte per l’ambiente e per gli ultimi.

Stavolta sono stati terrorizzati, e si sono compattati per Giani, suicidando le loro idee. Ma è chiaro che, anche se avessero votato come nel 2015, il problema sarebbe stato lì, enorme: non esiste (in Toscana, in Italia, in Europa e forse nel mondo) una sinistra capace di portare al voto gli esclusi, i marginali, i poveri. E il sistema mediatico e quello elettorale, la forma stessa assunta dalle istituzioni, rende difficile o forse impossibile anche solo provare a costruirla.

E la vittoria del Sì (votata dal 69,64 per cento del 54,9 per cento che ha votato) prosciugando ancora l’acqua della rappresentanza popolare, aumentando l’oligarchia, restringendo lo spazio del dissenso, chiude un po’ di più quella porta già quasi serrata.

È sempre più evidente che la “Sinistra che non c’è” non nascerà in prossimità di elezioni e istituzioni. Occorre battere strade più lontane, più impervie.

(22 settembre 2020)

Rossana Rossanda

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Rossana Rossanda
L’OMAGGIO DI MAURO BIANI PER IL MANIFESTO
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L’intervista di Rossana Rossanda a Propaganda Live
di Diego Bianchi
Roma – Propaganda Live

il manifesto EDIZIONE DEL 28.10.2018 PUBBLICATO 27.10.2018, 16:01
AGGIORNATO 20.9.2020, 15:15

Venerdì 26 ottobre 2018 Diego Bianchi ha trasmesso su Propaganda Live, il programma su La7, un’intervista a Rossana Rossanda realizzata qualche giorno prima. La puntata integrale è qui. Rossana compare dopo 1 ora e 55′ circa.

[il manifesto] Pubblichiamo lo sbobinato della trasmissione per gentile concessione dell’autore.
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Sei appena tornata dalla Francia, mi hai detto che non pensavi di trovare così l’Italia. Che pensavi?

Mancavo dall’Italia da 15 anni, pensavo di trovare un paese in difficoltà economica, politicamente basso, ma non scivolata dov’è adesso, con questa lite continua. Nessuno sente il problema di dire com’è che siamo arrivati a questo punto, com’è che oggi si possono risentire accenti che dopo la guerra non erano più pensabili. La sinistra, che ha perso milioni di voti, non si interroga o, se si interroga, non ce lo dice.

Una volta invece ci si interrogava sempre.

Certo. Adesso non so più se il partito democratico, o come si chiami, farà il congresso.

Quei bei congressi di una volta…

Belli non erano. Erano anche un po’ noiosini. Però c’era il problema di dire dove siamo, cosa succede su scala mondiale, su scala italiana e che cosa proponiamo noi. Sono cose elementari, perché una forza politica deve chiedersi in che mondo mi trovo, in che paese siamo, e che cosa farei io se fossi il governo.

Facciamo un congressino veloce. Ti sei data una risposta, una motivazione? Su scala internazionale per esempio in Brasile sta vincendo l’estrema destra.

Accade dappertutto. Una ipotesi è la delusione fornita dalla sinistra, sia nei luoghi dove ha potuto governare, sia in quelli dove non lo ha fatto. C’è delusione. Gli operai non votano più.

Non votano più a sinistra?

Non votano più. La sinistra ha perduto il suo elettorato.

Sei ottimista sul breve termine?

No. La sinistra del Pd di fatto non ha proposto niente di profondamente diverso da quello che fa la destra e allora perché dovrebbe conservare il suo elettorato?

Ti riferisci a qualcosa in particolare?

L’immigrazione è a parte perché è un fenomeno nuovo. Ma certo che si potesse approvare l’ultimo decreto di Salvini, anche con la firma della Presidenza della Repubblica, era inimmaginabile. Gli stessi diritti che noi vorremmo per noi, non li possiamo dare ai migranti. E’ qualcosa di insopportabile, non pensi?

Anche per questo il Pd è stato molto criticato dalla sinistra…

Ma quale sinistra? La sinistra non è rappresentata. In verità il più grande partito è quello degli astensionisti. Molta sinistra si è astenuta, non trovando nessuna offerta che la persuadesse. Penso che è un errore astenersi. Quando non si ha una rappresentanza bisogna ricostruirsela.

E tu che cosa pensi?

Io sono una persona di sinistra. Sono stata cacciata dal Pci perché ero troppo a sinistra. Una persona mite come me è stata considerata una estremista. Oggi Bergoglio non credo che mi scomunicherebbe facilmente.

Bergoglio ha fatto il papa sull’aborto, proprio oggi…

E’ un punto delicato. E’ meglio lui della piddina di Verona che ha votato contro l’aborto. Vorrei un politico italiano che parlasse come il papa, per esempio sui migranti. Se Minniti fosse un vescovo verrebbe bacchettato da Bergoglio.

Si parla molto di questo governo di destra, di ritorno del fascismo, del razzismo. Chiedo a te che il fascismo l’hai vissuto.

Non sono per dire che siamo agli anni ’30. Sono preoccupata, anche se non credo che il paese accetterebbe un ritorno esplicito al fascismo. C’è la semina di mezzo secolo di democrazia. Ma la battuta di Salvini “prima gli italiani” è qualcosa di intollerabile. Perché “prima gli italiani”? Che cosa hanno fatto di meglio degli altri? Cosa c’entra con le idee che hanno fatto l’Italia? Il fatto che la sinistra italiana non ha avuto il coraggio di votare lo jus soli è veramente insopportabile. Bisogna essere italiani non solo per essere nati qui ma per che cosa allora? Non vorrei andare a frugare e trovare qualcuno che dice che ci sono le facce ariane e quelle non ariane. Sento l’odore di qualcosa di molto vecchio.

Sei stata responsabile della politica culturale del Pci. Chi ti aveva dato questo ruolo?

Togliatti.

E che ne pensi, esistono oggi politiche culturali?

Non mi pare. La cultura significa i valori, per che cosa ti batti. Adesso il partito democratico non si batte più neanche per l’uguaglianza dei migranti. Non lo vedo alla testa e neppure parteggia per la politica delle donne. La 194 è una legge degli anni Settanta. Oggi forse non la rifarebbero più.

Quindi essere del secolo scorso può diventare quasi un vanto?

Assolutamente sì. Io sono del ‘900 e lo difendo. E’ stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra.

La domanda che in tanti si fanno, anche a sinistra, è come comunicare. Tu frequenti i social network?

No. Zero. Io sono sempre stata povera ma non vorrei dare neanche mezzo euro a Zuckerberg. In gran parte dipende da lui se siamo messi così.

Ci sono però questi strumenti di comunicazione, anche e soprattutto in politica.

Non so se sia una vera comunicazione. Comunicare significa parlare a qualcuno di cui consideri che ha la tua stessa dignità.

Come si fa a parlare anche alla testa e non solo alla pancia? La sinistra sembra afona in entrambi i casi. Non è capace o non sa cosa dire?

Perché non ci crede più. Non è capace. Se la sinistra parla il linguaggio se non proprio della destra comunque dell’esistente, non può essere votata dall’operaio. La sinistra deve parlare a quella che è la parte sociale dell’Italia più debole e meno ascoltata. Quando uno vota il jobs act indebolisce le difese degli operai. Si può continuare a chiamarlo contratto a tutele crescenti, ma la verità è che ha diminuito la forza operaia.

Che idea hai sul Movimento 5 Stelle?

Il Movimento 5 Stelle non è niente. Gli italiani vogliono questa roba informe, generica, si fanno raccontare delle storie. Nella Lega invece cercano un’identità cattiva. Questo è Salvini. Di Maio non è cattivo, non è nulla.

Grazie compagna Rossanda.

Caro compagno… certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. E’ una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. E’ qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare.
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Rossana Rossanda
21 Settembre 2020
di Andrea Pubusa, su Democraziaoggi.
Per noi giovani della sinistra di fine anni ‘60 Rossana fu una scoperta incancellabile. Insieme a Lucio Magri, Luigi Pintor (nella foto), Valentino Parlato e Luciana Castellina diede vita prima al Manifesto Rivista poi al Movimento e al giornale del Manifesto. Scoprimmo così che il comunismo non aveva solo quella veste ingessata e spuria del c.d. socialismo reale, ma che esisteva una versione, legata a Marx e Gramsci, libertaria e liberatoria. Il socialismo riprendeva così ai nostri occhi quel significato e quel valore che ebbe per i lavoratori e gli intellettuali della sinistra agli albori del Movimento operaio. Un movimento di sfruttati che trova la via per liberarsi, una società di uguali che si sostituisce alle gerarchie sociali ed economiche del capitalismo. In apparenza questo mondo libertario della sinistra e quello tradizionle si muovevno in parallelo, in realtà si trattava di visioni alternative del futuro.
A noi giovani affascinava il rigore intellettauale e morale. Con Rossana e gli altri del gruppo la politica, la discussione, il movimento riacquistavano il carattere di un’impresa collettiva senza secondi fini, volta soltanto alla conquista di una società libera e giusta.
La storia ha mostrato l’inattualità del pensiero di Rossana e degli altri del Manifesto, ma è una inattualità “per anticipazione”; non di idee superate si tratta, ma di una riflessione che per divenire egemonia e forza trasformazione richiede una evoluzione della società e dell’umanità ancora di là da venire. Del resto le criticità del mondo attuale, l’accrescersi delle ingiustizie, gli squilibri sempre più diffusi, la distruzione dell’ambiente, i conflitti mostrano che questo mondo ha bisogno d’altro per progredire in pace, necessità di radicalità, non di moderazione. Qui le idee di Rossana tornano attuali, diventano l’elemento e l’alimento essenziale. Noi che abbiamo avuto la fortuna di conoscerla e di seguirla da vicino negli anni della nostra formazione non possiamo dimenticarla. Vivrà ancora con noi, nelle nostre azioni e, per fortuna anche dopo. Dove c’è una lotta intellettuale, morale e sociale per l’uguaglianza, lì c’è Rossana.

NOI per il NO!

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CONTROCANTO
Referendum: la cecità del SÌ
15-09-2020 – di Tomaso Montanari su Volerelaluna.

«Lasciateli! Sono ciechi e guide di ciechi. E quando un cieco guida un altro cieco, tutti e due cadranno in un fosso!» (Matteo 15, 14).

È davvero difficile trovare parole più adatte a commentare le argomentazioni che in queste settimane provengono dal vastissimo fronte del SÌ, che comprende (ricordiamolo) pressoché tutti i poteri e tutti i partiti, e però pretende di agire per redimere il Parlamento dagli abusi dei poteri e dei partiti.

Non mi riferisco alle “argomentazioni” più triviali, che sono peraltro anche quelle più diffuse e trainanti: il taglio delle poltrone, la guerra alla casta, il risparmio sulla democrazia, il disprezzo decisionista per la perdita di tempo del “parlare” in Parlamento. No, mi riferisco alle (per me sconcertanti) argomentazioni di personalità colte e autorevoli, ad alcune delle quali sono peraltro legato da vincoli di affetto, stima, riconoscenza. La caratteristica più sorprendente di queste argomentazioni è proprio la cecità, innanzitutto verso se stesse. Nel senso che si tratta di ottime argomentazioni per il NO: cui segue, con sorprendente ribaltamento, la comunicazione (non di rado imbarazzata, e quasi reticente) del voto al SÌ.

La prima e più diffusa argomentazione è l’accusa al fronte del NO di short-termism, cioè di ragionamento a brevissimo raggio, pensiero di piccolo cabotaggio: la miopia che porta gruppi editoriali e drappelli di politici a sostenere (più o meno palesemente) il NO per colpire il Movimento 5Stelle e affossare il Governo. Ora, non c’è alcun dubbio che questo short-termism esista, e che la compagnia del NO sia in gran parte impresentabile (come del resto quella del SÌ, guidata tra gli altri da Matteo Salvini), ma sfugge come questo possa diventare un argomento per il SÌ senza peccare di uno short-termism uguale e contrario. Si vota SÌ per non fare cadere il Governo, si vota SÌ per non favorire Meloni e Salvini (che votano SÌ…): cioè si usa la Costituzione come una clava per colpire il nemico dei prossimi cinque minuti. Si decide su una questione che cambierà per decenni il volto della nostra democrazia pensando alla sorte di questo Governo: è davvero una miopia che raggiunge quasi la cecità. Tanto da impedire di vedere due cospicui argomenti in contrario. Il primo è che se passa il SÌ, allora davvero questo Parlamento sarà drasticamente delegittimato, perché condannato (nelle sue stesse proporzioni numeriche) dallo sdegno popolare: non per caso nel 1963 la riduzione dei parlamentari avvenne proprio a fine legislatura, e non prima di arrivare alla metà. Il secondo – terribile – è che se vincerà il SÌ, e se la legge elettorale non sarà proporzionale, avremo messo una terribile arma nelle mani di un possibile Governo Salvini-Meloni, che si prenderà così assai facilmente gli organi di garanzia costituzionale. Questa miopia, anzi questa cecità, è gravissima (e quando succederà i fautori del SÌ dovranno una risposta a noi tutti), perché usando la Costituzione come strumento nella lotta politica quotidiana, finisce col disinnescare proprio quelle tutele per cui serve una Costituzione. Secondo alcuni costituzionalisti, con il combinato disposto di questo taglio e dell’attuale legge elettorale, la destra di Salvini potrebbe arrivare ai due terzi del Parlamento: e allora tanti saluti alla Costituzione del 1948, senza nemmeno possibilità di un referendum. Chi vota SÌ per la (giusta) paura di Salvini è consapevole dell’entità di questo rischio? Chi vota SÌ per difendere questo Governo (il migliore oggi possibile anche secondo me) e il Movimento 5Stelle si rende conto di quale cavallo di Troia sta costruendo?

La seconda argomentazione ondeggia tra la disperazione e la magia: «occorre uno choc alla casta politica», si dice. «È l’ultima speranza di avere una legge elettorale proporzionale», si rincara. E ancora: «proviamo a fare questo gesto, questo scongiuro: non ci resta altro, ormai». Non è per caso se a votare NO sono soprattutto i giovani (anche quelli inquadrati in partiti che votano SÌ) e a votare SÌ sono gli anziani: laddove evidentemente la vecchiaia non porta alla saggezza della presbiopia, ma alla disperazione del cambiamento, conducendo così al miope azzardo del gesto alla cieca. Anche qua, sconcerta che per “provarci” si usi la Costituzione: arrivando fino a teorizzare che sia una legge ordinaria (la legge elettorale) a dover mettere in sicurezza una Costituzione altrimenti pericolosa, in una micidiale inversione delle fonti e in una clamorosa confusione culturale che cancella secoli di costituzionalismo. E per che cosa? Per la speranza che coloro che sono riusciti a cambiare la Carta ma non la legge elettorale ci riescano ora, e nel superiore interesse di tutti: così passando, in un balzo, dal più cupo disprezzo per la casta da tagliare alla cieca speranza che questa stessa casta salvi la Costituzione e il Paese. E invece rischiando, come ho detto, che lo choc possa essere nientemeno che la fine senza appello della Carta del 1948.

Accanto a queste cecità ce ne sono altre. Se ne possono citare tre: una legata al passato, una al presente e una al futuro.

La prima è quella che non vuole vedere la forza e la lucidità con cui i Costituenti del 1948 erano determinati a garantire la rappresentanza, immaginando che il numero dei parlamentari salisse o scendesse insieme a quello della popolazione. Si cita sempre la riforma “democristiana” del 1963 come un tradimento della Costituzione del 1948 perpetrato in nome di una clientela che allargasse a dismisura il numero delle poltrone: niente di più falso. Allora quel rapporto fu congelato in una cifra (630+315) che è quella che oggi si vuole tagliare, ma che è molto inferiore agli oltre mille che avremmo se fosse rimasto in vigore il testo dei Padri del 1948.

La seconda è quella che riguarda la vita di questo Parlamento dopo la sua mutilazione: sarà meno democratico, ancora più oligarchico. Funzionerà peggio, perché i piccoli gruppi non potranno partecipare a tutti i lavori. Non si diminuiranno i privilegi: che saranno invece riservati a un numero inferiore di privilegiati, dunque ancora più potenti. Si creeranno collegi così ampi da dover “vendere” la politica ancor di più agli interessi privati. Ci saranno Regioni troppo rappresentante, e altre troppo poco. E appunto gli organi di garanzia saranno in mano alle maggioranze politiche.

La terza è quella più dolorosa, perché denuncia una difficoltà profonda nell’intraprendere una lettura prospettica (cioè storica) del presente. Quando, tra molto tempo, si scriverà una storia della democrazia italiana, questa riforma sarà letta in opposizione a quella Renzi, a quelle dei Saggi di Napolitano, alla Bicamerale Berlusconi-D’Alema e addirittura a quella del famoso Piano di Rinascita nazionale della P2 (che voleva, guarda un po’, tagliare i parlamentari…), o sarà letta in continuità? (Intendo in continuità culturale profonda, non secondo una complottistica continuità di disegno occulto). Ebbene, io sono certo che sarà letta in perfetta continuità con tutti quei progetti di “cambiamento”: che sono sorretti da una stessa visione, da una stessa cultura. Quella che vede nel Parlamento un problema e non una risorsa, che vede nella libertà dei singoli parlamentari una minaccia (l’altra metà di questa riforma è il vincolo di mandato, per ora congelato ma sempre presente nel programma dei 5Stelle), che vuole ridurre la rappresentanza e aumentare il peso e il potere degli esecutivi. La diagnosi di tutti questi progetti, compreso quello su cui siamo chiamati a votare, è sempre stata una sola: il problema dell’Italia sarebbe un eccesso di democrazia e di rappresentanza. Penso che questa sarà la lettura storica del futuro, e temo che gli intellettuali che non lo capiscono assomiglino molto ai ciechi che pretendono di guidare altri ciechi.

Per parte mia, voterò NO: perché di una cosa sono convinto, il nostro problema è un difetto, e non già un eccesso, di democrazia e di rappresentanza. E, si sa, le cure sbagliate possono uccidere.

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REFERENDUM
Questo referendum è davvero meno dirompente dei precedenti?
14-09-2020 – Mario Dogliani su Volerelaluna.
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Anpi logo naz
safe_imageLa registrazione del video-incontro, organizzato da CoStat e Anpi, per sostenere il NO nel referendum costituzionale, tenutasi lunedì 14 settembre, è disponibile in rete: https://youtu.be/wLCd5U1Az7E
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REFERENDUM
Referendum. Ci siamo: se nessuna ragione milita a favore del Sì
Sbilanciamoci! 18-09-2020 – di Francesco Pallante
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