Editoriali

La filosofia come cura

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Perché serve la filosofia per curare il presente e costruire il futuro post-Covid
di Matteo Ficara su Italia che cambia.
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La filosofia può essere uno strumento per aiutarci a vivere con più consapevolezza il momento di pandemia che stiamo vivendo ma anche a restituire bellezza a ciò che ormai ci sembra di aver perso, costruendo nuove alternative per il futuro. Per questo motivo è essenziale guardare alla filosofia come una “cura”: delle relazioni sociali, del nostro tempo e di ciò che ci circonda.

Dal 2002 l’UNESCO ha definito che il 19 novembre sarebbe stata la Giornata Mondiale della Filosofia. Guardare alla filosofia oggi, ai tempi del Covid 19, fa pensare che essa possa svolgere ancora di più il suo ruolo di “cura”. Una filosofia come cura e anche una filosofia della cura, insomma, che ci aiuti a riportare l’attenzione laddove è urgente e necessario, per ritrovare il “senso”. Una filosofia che può anche essere un aiuto a fare chiarezza, a gestire il passaggio verso un “new normal” e a costruire i primi passi di un nuovo futuro.

Perché guardare alla filosofia come cura?
In primis perché essa è sempre stata la via dell’eudaimonia, ovvero della ricerca della felicità attraverso la vita virtuosa. In secondo luogo perché l’emergenza che viviamo oggi è sanitaria, per cui il tema della cura ha sicuramente un volto che possiamo cogliere in modo diretto e immediato: è il volto di chi sta affrontando la malattia, la fatigue, la sofferenza ed il morire. Il volto chi sta dando una mano, senza sosta da mesi.

Ma cura significa anche “attenzione”. Una filosofia della cura è anche uno sguardo che torna a portare attenzione al reale e a tutto ciò, che nel vivere accelerato di ogni giorno, avevamo scordato o iniziato a dare per scontato. Tanto per cominciare, le relazioni. Troppo spesso la normalità del vivere stende un velo di trasparenza sull’importanza di persone care vicine o lontane. E per assurdo, questo “distanziamento”, che è fisico e non sociale, ha allontanato ciò che era vicino e avvicinato ciò che era lontano.

La cura è anche andare al di là del singolo e pensare al “comune”, a quel “noi condiviso” che siamo, sotto sotto, e che possiamo essere ancora. La distanza fisica può essere il luogo per ripensare la relazione sociale, lo spazio della partecipazione, il luogo ove una voce non è né un sussurro disperso e né un grido – come quello di ormai troppi social.

Quello della cura è anche il volto di chi si prende cura di ricercare le fonti di notizie da condividere (o meno) in un social network. La cura è nelle parole che usiamo e nell’azione sociale. La chiamata all’agire sociale è importante, un richiamo che, come popolo umano, non avevamo da tempo. Eppure è contornato dalla sfiducia che quella “politica” non sia più la voce della poleis, ma un’imitazione a distanza di un’eco.

La cura è l’azione consapevole delle sue conseguenze. Un’azione non solo politica, ma filosofica. Meditata, ragionata, soppesata. Un’azione che ha una testa ed un cuore, due gambe per andare lontano e gli occhi per vedere che il suo cammino non calpesti nessuno.

La filosofia come costruzione del futuro

L’esperienza inattesa del Covid-19, di un nemico invisibile, ha messo in scacco la società della rete. Il web – come dice Baricco nel suo “The Game” – è come una “copia del mondo”, che ci ha permesso di fare un salto: bypassare gli intermediari, essere in prima linea a scoprire le cose e a mettere voce in capitolo. E con il Covid19, quella rete che prima ci aveva avvicinati (nelle idee e nelle culture), ora ci fa stare troppo vicini.

La pandemia ha generato un caos enorme e rapidissimo: informazioni “impazzite”, allarmismo, eventi complessi da affrontare in poco tempo. E soprattutto: scelte. Scelte da prendere con informazioni incerte, in tempi brevi e sulle quali costruire il presente ed il futuro per sé e per altri, su tutti i livelli. Non ci eravamo abituati ancora alle coordinate digitali della nuova modalità “social” del nostro modo di fare, che le troviamo minate e siamo smarriti: “E adesso… Che si fa?”.

È qui che, secondo me, entrano in gioco la filosofia ed il suo modo di fare (poiché questo è una filosofia: un modo di vivere), che mette a disposizione tutto quello che serve in questo momento, per la ricerca di senso e la costruzione di un futuro nuovo:

l’attitudine al pensiero critico, per discernere le informazioni e fare chiarezza;
l’apertura necessaria per sapere che non è necessario “schierarsi”, perché non dobbiamo rendere la lotta delle informazioni una guerra;
le capacità di visione per guardare lontano e iniziare a valutare opzioni nuove, scoprire orizzonti, costruire scenari;
la sensibilità per ricordarci di chi abbiamo vicino e di cosa ha valore.

La filosofia nello sguardo, oltre lo schermo e oltre la mascherina

Forse per troppo tempo abbiamo abituato lo sguardo ad un orizzonte troppo piccolo, digitale e vicino, che mentiva riguardo al fatto che potevamo arrivare in ogni dove ed adesso ci troviamo costretti in quella sua dimensione, un po’ per intero: lontani nel corpo, vicini attraverso uno schermo. Forse abbiamo bisogno di alzare lo sguardo, oltre lo schermo, per ritrovare un pianeta, una realtà che ogni giorno alza la mano per chiedere aiuto. Dovremmo alzare lo sguardo al di là del confine della mascherina, per ritrovare l’altro.

Siamo chiamati a guardare vicino e lontano. A recuperare e restituire valore e bellezza al dimenticato e costruirne alternative per cambiare sistema. Questo la filosofia può fare: può prendersi cura del presente e del futuro. Dell’essere e dell’agire, con la sua “vita attiva e contemplativa”. Può aiutarci a scendere i gradini della ricerca del senso del vivere e a salire in cima alla montagna di tutti i futuri, per scorgere i migliori da realizzare.

Mi piace pensare alla filosofia come il modo di vivere di chi si prende cura del tempo, di quello passato, rammemorandolo, di quello presente, vivendolo e del futuro, costruendolo in pace.

Cambiare si può, cambiare si deve

schermata-2020-11-11-alle-19-22-21
lampadadialadmicromicro1Impegnati nella divulgazione (e nel dibattito relativo) delle due encicliche di Papa Francesco, facciamo seguito ai numerosi interventi già ospitati dalla nostra News e, in particolare, all’ultimo editoriale del direttore, per dare spazio all’importante contributo di Mario Agostinelli, che sotto riportiamo integralmente dalla rivista online Sbilanciamoci!.
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Da Laudato Si’ a Fratelli Tutti: lavoro e conflitto sociale oltre lo sviluppo
di Mario Agostinelli
sbilanciamoci-20 Sbilanciamoci! 11 Novembre 2020 | Sezione: Alter, Lavoro, primo piano.
Papa Francesco a cinque anni di distanza dalla Laudato Si’ ci propone con Fratelli Tutti un nuovo cambio di paradigma che dall’emergenza climatica mette al centro questa in rapporto al lavoro. Una riflessione sul cambiamento antropologico che serve all’umanità.

Dopo cinque anni di esperienza a contatto di una Associazione che ha preso ispirazione dall’Enciclica Laudato Si’, traggo la convinzione che le resistenze politico-culturali, oltre che ad un irresponsabile rigetto del monito di Francesco, siano dovute principalmente al rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Un rifiuto che continua ad alimentare un’illusione rivelatasi al fondo un disastro: che cioè l’aumento della torta da spartire in base alla crescita non avrebbe trovato limiti nelle risorse della biosfera e non avrebbe fatto i conti con la rapacità del sistema capitalista nell’appropriarsi delle ricchezze provenienti dal lavoro e dalla natura. Occorre riconoscere che anche tra le maglie del progressismo lo sviluppo è stato insignito di un favore largo, nella convinzione che le nazioni “avanzate” potessero indicare ai paesi ritardatari la strada da intraprendere per allinearsi e misurare il miglioramento della loro prestazione economica misurata dal PIL. Dopo aver preso in custodia la loro economia, la sbalorditiva varietà dei popoli si sarebbe ridotta ad una classifica basata sul debito contratto e preteso e sulla ricchezza prodotta e immancabilmente depredata. Almeno dal secondo dopoguerra fino al suo declino con l’inizio del nuovo secolo, questa riduzione delle differenze culturali, sociali, naturali, che fanno dell’umanità un punto di osservazione plurale e cosciente della biosfera entro cui convive, ha tenuto banco, contaminando la gran parte delle culture politiche. Le merci e il loro consumo si son eretti a mezzo di comunicazione quando non a scopo dell’esistenza e si è creato uno spazio sociale transnazionale nel quale il tempo veniva ad essere in continua accelerazione. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità incontrata da un autentico capovolgimento di valori.

Le élite mondiali ed i media transnazionali si sforzano di dare credibilità ad una loro rappresentazione della civiltà industriale che garantisca in prospettiva il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali, assicurando comunque per l’impresa la massimizzazione dei profitti. Ma non esiste misura per trovare un equilibrio tra i tre contendenti, se non la pratica di un conflitto in cui lavoro e natura stanno dalla stessa parte. Un conflitto giunto ad un punto di rottura che riguarda la messa in discussione radicale del sistema. Sono i fatti a dimostrare che il ricorso senza limiti al consumo di natura ed i danni provocati dallo sfruttamento del lavoro tramutano quello che viene spacciato per sviluppo – un termine ormai privo di significati positivi – nel lento declino della vita vegetale e animale. Di fatto, si tratta di un pezzo di archeologia ormai in decomposizione quanto l’antropocentrismo e tanto meno attrattivo per le nuove generazioni, quanto più logorato dall’ingiustizia sociale e dal danno alla salute che ne hanno accompagnato la parabola. Non solo nelle parole del papa, ma nelle stesse preoccupazioni della scienza, esso, da consunta utopia, cede ormai il passo ad un bisogno di sopravvivenza, che può sussistere solo in armonia con la natura e come tensione cosciente verso una storia in comune, fatta di innumerevoli relazioni ed interconnessioni, visibili o invisibili, di cui “niente ci risulta indifferente”. Siamo, insomma, ad una svolta storica, ad una scoperta e, dall’altro lato, ad un “necrologio” – come afferma Wolfgang Sachs – che non a caso non ci è dato di elaborare quanto prima possibile. Possiamo però chiederci perché e cercare di scorgere quale sia il passo in avanti compiuto dalla seconda enciclica, che, al di là di ogni dubbio, tratta esplicitamente di politica e di un soggetto politico da definire nelle stesse settimane in cui Trump non risulta un semplice incidente, dal momento che non solo negli USA, ma anche vicino a noi si manifestano compulsioni che si riflettono in lui come in uno specchio.

Nonostante non ci fosse angoscia nelle pagine di una Enciclica premonitrice che invita a “camminare cantando”, ma una carica avvincente al rinnovamento, non è bastata la sintonia con l’affermarsi del movimento degli studenti di Greta né il crescente protagonismo delle donne in ogni regione del mondo, per incrociare un linguaggio o una pratica che imprimessero correzioni all’agenda dei governanti. Probabilmente lo stesso Francesco, così ostinatamente coerente ad ogni sua esternazione pubblica, riconosce che la Laudato Si’ peccò di ottimismo e non ci sono stati gli effetti sperati. Oltretutto, sulla scena globale, se si fa eccezione per qualche movimento degli “ignudi” nelle campagne o nelle foreste, il mondo del lavoro nel complesso si è mostrato incerto o poco attivo, mentre nel disagio sociale la democrazia ha fatto passi indietro, lasciando il campo ad una politica ostile all’austerità, insensibile ai limiti della natura e orientata all’economia dello scarto. Così, la nuova leva di leader autoritari e le corporation globali non hanno affatto desistito nel loro percorso involutivo: anzi, hanno concordemente intuito che, con la fine dell’era fossile e la limitazione dell’estrazione delle risorse naturali, la sconfitta inferta negli ultimi decenni a danno del bene comune e delle classi meno abbienti si sarebbe potuta arrestare se non addirittura ribaltare. Per il capitalismo globalizzato è parso giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi, sia nei confronti del lavoro sia verso la natura. Nelle strette di un cambio di passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada – non solo ai piani alti, ma in molte fasce di popolazione temporaneamente protette – un’interpretazione del futuro prossimo del tutto incompatibile con il pensiero del pontefice argentino: non ci sarebbe stato più spazio per tutti gli scartati sul pianeta; il simulacro del PIL e il ruolo della finanza avrebbero assicurata la competizione più ostile e avida nei mercati; perfino l’idea di sviluppo si sarebbe potuta mettere in dubbio, ma avrebbe resistito all’erosione purché la si colorasse “un poco di verde”. A ruota, i media si sono distinti, da un versante, nel negare che fosse necessaria una rottura per riprogrammare modi e finalità di una produzione che aggredisce salute, ambiente e vite, da un altro, nel far sparire nel silenzio le domande più coinvolgenti sulla portata dell’Antropocene e sul ruolo non settario delle religioni in un mondo dilaniato ed in decomposizione ed in un tempo che sta tragicamente venendo a mancare (interrogativi consegnati ad una reazione niente affatto scontata, così ben rimarcati e rappresentati da un riflesso bianco che avanza nel buio di un Venerdì di pioggia in una piazza San Pietro deserta…).

La posta oggi è alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro, perché la pandemia ha accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci debba essere un nesso tra due versanti – i contratti e la predicazione – ovviamente autonomi e indipendenti. Ma come non riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima e della giustizia sociale? Basta leggere – e rileggere, se occorre – il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilica di Assisi. Il papa riprende sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica – cosa che quest’ultima non ha fatto – l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico, finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete, ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti, movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire, anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.

Parlo di alleanza da costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose: la fraternità e l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento , “produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.

Dopo le sconfitte, rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia. E non ci si stupisce nemmeno quando viene ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il ricorso ad una “consapevole coltivazione della fraternità”, come antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.

Affermazioni non proprio ordinarie e difficili da elaborare sui due piedi dai commentatori di routine, che ne sono usciti spaesati, preferendo parlare di sé, anziché di un contenuto davvero complesso. Ci hanno provato infatti subito da destra, dando al papa del comunista, (Marcello Veneziani), dal centro, citando la triade della Rivoluzione Francese come “ponte” tra Illuminismo e Cattolicesimo e lamentando una tardiva rivalutazione della tecnica (Massimo Cacciari) ed anche da sinistra, richiamando la sproporzione tra ricchezza delle denunce e scarsezza dei rimedi (Pietro Stefani).
[segue]

Cambiare si può, cambiare si deve

800px-giotto_di_bondone_-_legend_of_st_francis_-_2-_st_francis_giving_his_mantle_to_a_poor_man_-_wga09119 Riflessioni su alcune importanti questioni trattate dall’enciclica “Fratelli tutti” di Papa Francesco, e correlazioni con analoghi concetti sviluppati nel mondo laico*.
di Franco Meloni

BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA
Il Papa dedica una parte dell’ultima sua enciclica “Fratelli tutti” ad alcuni concetti che, se pur antichi, oggi si ripropongono in maniera dirompente. Si tratta del diritto alla proprietà privata che deve comunque sottostare al primato del bene comune: parole sul tema che hanno destato scalpore, peraltro del tutto strumentale e superficiale.
Ricordiamo solo alcuni tra i molti titoli dei media al riguardo: “La svolta a sinistra di Bergoglio: «La proprietà non è intoccabile»”. “Bergoglio all’attacco della proprietà privata”. E così via (1).
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Il Papa aveva probabilmente previsto tali reazioni, scontate da oppositori con posizioni preconcette, meno da altri opinionisti, anche considerato che non propone altro di diverso dalla consolidata dottrina sociale della Chiesa, certo – ed è questa la novità – ridandole nuovo vigore per rispondere alle esigenze attuali dell’umanità, degli ultimi e dei diseredati in primo luogo.
Sostiene il Papa [FT 120]: ”Di nuovo faccio mie e propongo a tutti alcune parole di San Giovanni Paolo II, la cui forza non è stata forse compresa: «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». In questa linea ricordo che «la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata». Il principio dell’uso comune dei beni creati per tutti è il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale», è un diritto naturale, originario e prioritario. Tutti gli altri diritti sui beni necessari alla realizzazione integrale delle persone, inclusi quello della proprietà privata e qualunque altro, «non devono quindi intralciare, bensì, al contrario, facilitarne la realizzazione», come affermava San Paolo VI. Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica”.
Se ci pensiamo bene il Papa non va oltre i principi ribaditi da alcune avanzate Costituzioni europee, tra cui esemplarmente quella italiana, che all’art. 41 recita: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. Nonché all’interno dell’art. 42: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».
Ma la parte più avanzata e oggi di estrema attualità è quella che riguarda i ben comuni. La FT riprende concetti molto chiari formulati al riguardo nella LS [93]: ”Oggi, credenti e non credenti sono d’accordo sul fatto che la terra è essenzialmente una eredità comune, i cui frutti devono andare a beneficio di tutti. Per i credenti questo diventa una questione di fedeltà al Creatore, perché Dio ha creato il mondo per tutti. Di conseguenza, ogni approccio ecologico deve integrare una prospettiva sociale che tenga conto dei diritti fondamentali dei più svantaggiati. Il principio della subordinazione della proprietà privata alla destinazione universale dei beni e, perciò, il diritto universale al loro uso, è una “regola d’oro” del comportamento sociale, e il «primo principio di tutto l’ordinamento etico-sociale». La tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata. San Giovanni Paolo II ha ricordato con molta enfasi questa dottrina, dicendo che «Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno». Sono parole pregnanti e forti. Ha rimarcato che «non sarebbe veramente degno dell’uomo un tipo di sviluppo che non rispettasse e non promuovesse i diritti umani, personali e sociali, economici e politici, inclusi i diritti delle Nazioni e dei popoli». Con grande chiarezza ha spiegato che «la Chiesa difende sì il legittimo diritto alla proprietà privata, ma insegna anche con non minor chiarezza che su ogni proprietà privata grava sempre un’ipoteca sociale, perché i beni servano alla destinazione generale che Dio ha loro dato». Pertanto afferma che «non è secondo il disegno di Dio gestire questo dono in modo tale che i suoi benefici siano a vantaggio soltanto di alcuni pochi». Questo mette seriamente in discussione le abitudini ingiuste di una parte dell’umanità”. Ecco in queste affermazioni sta, a mio parere, la carica dirompente dell’enciclica, anzi delle due encicliche: l’Umanità vive la sua Terra, di cui ha diritto di beneficiare, amministrandola come bene comune da preservare e trasmettere alle generazioni future.
generazioni-futureSulla questione dei beni comuni – concetto sviluppato negli ambiti della filosofia, dell’etica, della scienza politica, della giurisprudenza e della religione, da tempo immemorabile – per gli aspetti che interessano l’odierna realtà, il Papa s’inserisce in un grande attuale dibattito, che a livello internazionale aveva trovato un momento di sintesi e riproposizione nelle elaborazioni di Elinor Ostrom, premio Premio Nobel per l’economia 2009. In Italia il dibattito si è assopito dopo la scomparsa dell’illustre politico e giurista Stefano Rodotà, che della questione era il massimo esperto, soprattutto per gli aspetti giuridici, anche se occorre segnalare una buona ripresa di attenzione, più culturale che politica, con l’iniziativa di un apposito Comitato denominato Generazioni future (2).
costituente-terra-logoTroviamo in questi concetti una bellissima assonanza con il movimento «Costituente Terra», promosso da intellettuali credenti e non credenti, tra i quali Raniero La Valle, Luigi Ferrajoli, Paola Paesano, Adolfo Pérez Esquivel, Anna Falcone, il vescovo Raffaele Nogaro, Mariarosaria Guglielmi, Domenico Gallo e molti altri, che persegue “l’obiettivo di un costituzionalismo mondiale e di una Costituzione della Terra, da raggiungersi attraverso gli opportuni strumenti politici e di pensiero (…) per suscitare il pensiero politico dell’unità del popolo della Terra, disimparare l’arte della guerra e promuovere un costituzionalismo mondiale”. Presupposto di tale iniziativa è la persuasione che comincia una nuova fase della storia umana e occorrono politiche e istituzioni adeguate alle dimensioni globali e fino a ieri del tutto imprevedibili della vita sulla terra. Si tratta infatti di rispondere alle sfide, cresciute esponenzialmente, alla vita pacifica e alla stessa sopravvivenza dell’umanità, e di avviare la costruzione di una nuova soggettività politica e giuridica mondiale, quale espressione dell’intero popolo della Terra. Ciò è favorito oggi da una condizione mai verificatasi prima, ovvero l’imporsi del fenomeno detto «globalizzazione» o «mondializzazione» e il solenne riconoscersi delle grandi religioni nella comune fraternità umana” (3).

lampadadialadmicromicroPer correlazione con le riflessioni sull’enciclica “Fratelli tutti”, particolarmente sulla questione della proprietà privata e dei beni comuni, constatiamo l’assonanza delle considerazioni di Papa Francesco con quelle di molti intellettuali del mondo laico. Tra questi citiamo Thomas Piketty e Mariana Mazzucato, cogliendo l’occasione di un interessante articolo di Valentina Pazé sul sito Volerelaluna (4). L’intervento riguarda sopratutto Piketty, del quale Pazé recensisce il poderoso ultimo libro Capitale e ideologia (La nave di Teseo, 2020). Solo una citazione è dedicata al libro di Mariana Mazzucato, dal significativo titolo
“Non sprechiamo questa crisi” (Laterza, 2020), che riecheggia il monito di Papa Francesco nella messa celebrata il 31 maggio scorso nella basilica di San Pietro, per la solennità di Pentecoste, dopo le misure restrittive imposte dalla pandemia: “Peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.
NOTE
(1) Da “Il giornale” del 4 ottobre 2020
La svolta a sinistra di Bergoglio: “La proprietà non è intoccabile”
di Francesco Boezi su Il giornale del 4/10/2020.
[Il Papa nella "Fratelli Tutti"] “rilegge l’accezione giuridica di “proprietà”, sottolineandone la “funzione sociale”. E questo potrebbe essere un passaggio criticato nella misura in cui la proprietà viene associata dalla prassi, dalla giurisprudenza e dalla tradizione occidentale ad un diritto assoluto [?]. Bergoglio scrive che “la tradizione cristiana non ha mai riconosciuto come assoluto o intoccabile il diritto alla proprietà privata, e ha messo in risalto la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”. (…) sembra lecito immaginare che l’enclica del Papa possa essere attaccata dalla destra ecclesiastica. Il punto più discusso – lo ripetiamo – dovrebbe essere la concettualizzazione attorno al valore della “proprietà”. Se il fronte tradizionale criticasse il pontefice argentino, allora verrebbe messo in campo l’ennesimo accostamento di Bergoglio al marxismo o alla teologia della liberazione”.
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L’ideologia della fratellanza in Bergoglio
Sul blog di Marcello Veneziani, accreditato intellettuale della destra, 6 ottobre 2020
“«Fratelli tutti» è il manifesto ideologico del bergoglismo. (…) La parola comunismo è dimenticata da Bergoglio, anche se alcune sue eredità appaiono in lui, a cominciare dall’attacco alla proprietà privata”.

(2) Tra i testi fondamentali c’è, ovviamente, “Governare i beni collettivi” di Elinor Ostrom (Marsilio Editore), premio Premio Nobel 2009 per l’economia, insieme a Oliver Williamson, per l’analisi della governance e, in particolare, delle risorse comuni (vedasi: https://it.wikipedia.org/wiki/Elinor_Ostrom). In Italia principali riferimenti sono gli studi di Stefano Rodotà. Meritoriamente un Comitato denominato Generazioni future, guidato dal prof. Ugo Mattei, ha di recente ripreso l’iniziativa, tra l’altro proponendo una legge di iniziativa popolare. Informazioni sul sito web https://generazionifuture.org. Alcuni riferimenti: Il concetto di “beni comuni” è da individuare concretamente nelle “cose che esprimono utilità funzionali all’esercizio dei diritti fondamentali nonché al libero sviluppo della persona (…) che devono essere tutelati e salvaguardati dall’ordinamento giuridico, anche a beneficio delle generazioni future” e dei quali favorire la fruibilità e la gestione da parte dei cittadini attivi e organizzati in accordo con le Pubbliche amministrazioni. La categoria dei “beni comuni” è immensa. Il primo bene comune universale è la terra, nella sua generalità (superficie e sottosuolo), da utilizzare a beneficio di tutti, nel rispetto dei limiti imposti dall’ordinamento giuridico. E possiamo continuare in un’elencazione di dettaglio, non certo esauriente, traendola dalle elaborazioni della Commissione Rodotà (2007/2008): “i fiumi, i torrenti e le loro sorgenti; i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi come definiti dalla legge, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i lidi e i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; i beni archeologici, culturali, ambientali e le altre zone paesaggistiche tutelate”.

(3) Le informazioni sul movimento “Costituente Terra” sono presenti sul sito web dedicato http://www.costituenteterra.it

(4) Sostiene Piketty (ovvero, cambiare si può)
09-11-2020 – di Valentina Pazé su Volerelaluna.

* Sigle utilizzate nel corpo dell’articolo: LS per la Laudato si’; FT per la Fratelli tutti.

L’America e noi. Il cambiamento possibile

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IN PRIMO PIANO
Il mondo in bilico
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di
Domenico Gallo su Volerelaluna [6/11/2020]*

L’esito ancora in bilico delle elezioni americane getta un fascio di luce sulla drammatica ambiguità del tempo che stiamo vivendo. Un tempo di incertezze in cui la vita stessa dell’umanità è soggetta al rischio della rovina. Un tempo in cui la potenza tecnologica, dopo aver raggiunto vette inimmaginabili, deve confrontarsi con la fragilità del fattore umano, messa in evidenza dalla pandemia, e con le minacce agli ecosistemi che consentono la vita sulla Terra, provocate dal mutamento planetario del clima in corso.

Questi due fattori di crisi globale a loro volta si combinano fra di loro e chiamano in causa un terzo fattore, quello della responsabilità della politica che dovrebbe guidare le comunità umane. Per questo si sono rivelate profetiche le predizioni di intellettuali americani come Noam Chomsky che, nel novembre del 2016, aveva avvertito che l’elezione di Trump sarebbe stato un disastro per il genere umano.

L’avvento di Trump alla guida degli Stati Uniti non è stato un disastro solo per il Paese che lo ha scelto, ma ha realmente gettato un’ombra nera sulla vita della Terra. A cominciare dall’uscita degli Stati Uniti, cioè la potenza più inquinante del mondo, dall’accordo di Parigi sul clima, che ha fortemente danneggiato i timidi passi intrapresi dalla comunità internazionale per fronteggiare i mutamenti climatici. Il disprezzo per il diritto internazionale e per le conquiste di civiltà faticosamente consolidate attraverso una trama di trattati multilaterali messi a punto nel quadro dell’ONU è diventato, nel corso del suo mandato, moneta corrente ed è stato esibito con la massima sfrontatezza, com’è avvenuto con la licenza concessa a Israele di annettersi una parte dei territori occupati e con l’adozione di sanzioni ad personam nei confronti degli organi della Corte penale internazionale.

Il disprezzo per il bene pubblico della salute, che ha portato alla contestazione della riforma sanitaria Obama, ha raggiunto il suo massimo apice nel modo con cui è stata affrontata la pandemia da Covid-19, che ha portato gli Stati Uniti a essere il Paese al mondo dove si è sviluppata la massima diffusione dell’epidemia con nove milioni e mezzo di contagiati e oltre 234.000 vittime. Il negazionismo dettato dall’esigenza di non rallentare la macchina produttiva e l’insensibilità verso i soggetti più fragili, hanno portato ai massimi livelli la cultura dello scarto incarnata dall’amministrazione Trump.

Sul piano interno Trump ha fatto venire a galla il fondo nero dell’anima americana, quello incarnato dai riti nazisti del Ku Klux Klan; ha incoraggiato i gruppi paramilitari e i suprematisti bianchi, col risultato che ormai ci sono milizie armate dovunque che si coagulano su messaggi d’odio nei confronti delle minoranze, di immigrati e stranieri. Il populismo arrogante di Trump e la sua insofferenza nei confronti di ogni controllo (a cominciare dalla stampa) hanno creato una profonda frattura nella società americana e nell’ordinamento politico. In passato le elezioni americane per la scelta del Presidente (che negli USA impersona le funzioni di Capo dello Stato e di Capo del Governo), apparivano come una competizione fra due diverse correnti dello stesso partito, poiché entrambi i candidati concorrenti e i loro partiti si muovevano all’interno dello stesso mainstream politico. Di conseguenza anche l’interesse dei cittadini e la partecipazione popolare era limitata. Questa volta invece la scelta del Presidente marcava uno spartiacque insuperabile e metteva in gioco valori profondi, attinenti non soltanto allo scivolamento dell’ordinamento politico verso un sistema autoritario, ma alla stessa convivenza pacifica fra gruppi sociali all’interno di un Paese sempre più ostaggio della violenza pubblica e privata, come evidenziato dal movimento Black lives matter. Questo spiega la grande partecipazione popolare alle elezioni con un’affluenza al 66% che non si era mai vista in un Paese dove il voto non costituisce dovere civico e dove per poterlo esercitare bisogna fare una trafila per iscriversi nelle liste elettorali.

Lo scenario che si presenta quando il risultato sembra definito a favore di Biden, sebbene il conteggio dei voti sia ancora in corso, è quello di uno straordinario radicamento della politica populista di Trump. Come ha osservato Nadia Urbinati, anche se Biden dovesse vincere: «la sua vittoria sarebbe così risicata da non avere da sola la forza di liberare la scena politica dal populista Trump». Ma il passaggio dei poteri si profila come molto complicato, dopo che Trump, alla Casa Bianca, si è proclamato vincitore e ha dichiarato a priori di non accettare il verdetto delle urne se a lui sfavorevole. In una situazione di scontro politico incandescente, con le milizie armate dei suprematisti bianchi che inneggiano a Trump, basta una scintilla per appiccare un incendio.

Permane l’incertezza in cui siamo immersi tutti e che ormai è diventata una condizione esistenziale, sospesi come siamo fra passato e presente, fra la vita e la morte, fra una politica da incubo e la speranza incomprimibile di una vita migliore.
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* Magistrato, è presidente di sezione della Corte di cassazione. Da sempre impegnato nel mondo dell’associazionismo e del movimento per la pace, è stato senatore della Repubblica per una legislatura ed è componente del comitato esecutivo del Coordinamento per la democrazia costituzionale.
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1280px-liberty-statue-from-belowIL GRANDE RITORNO DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
di Marino de Medici su Aladinpensiero online.
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lampadadialadmicromicro132Siamo d’accordo
costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Newsletter n.23 del 7 novembre 2020

AIUTIAMO L’AMERICA
Care Amiche ed Amici, Socie e Soci,
la lotta politica in America ha raggiunto livelli di massima crisi, nel momento in cui lo stesso meccanismo fondante della democrazia formale, il suffragio elettorale, viene delegittimato e messo sotto attacco. È il sintomo che questa volta è in atto non solo uno scontro tra divergenti interessi economici e di potere, ma tra valori altissimi di umanità e di vita comune: uno scontro che verosimilmente, non sappiamo con quanta asprezza, continuerà anche dopo la proclamazione dell’eletto.
Siamo consapevoli che il corso di questo conflitto può compromettere un lungo futuro nel mondo e condizionerà anche fortemente l’avanzamento del progetto di una Costituzione della Terra fondata sull’unità umana e su una conversione del pensiero. Perciò dobbiamo chiederci che cosa possiamo fare noi per favorire sviluppi positivi della società americana verso il rispetto dei diritti umani, la pace, il ripudio delle armi e il disarmo atomico, la ripresa dell’internazionalismo democratico, il sostegno alle cause del diritto e della liberazione dei popoli. La cosa migliore è di metterci noi stessi su questa strada, anticipando per quanto possibile le acquisizioni verso tali traguardi, appellandoci alle nostre tradizioni e nel contempo criticandole e superandole, così come a quelle dell’Europa, aderendo al Trattato per l’interdizione delle armi nucleari e inducendo gli altri Paesi NATO a farlo, abolendo le discriminazioni di cittadinanza, accogliendo gli “stranieri”, disarmando gli odi religiosi, intessendo reti di cooperazione e di amicizia con tutti i popoli, facendo avanzare le culture del costituzionalismo e della giustizia.
In questa cornice pubblichiamo sul nostro sito l’audizione alla Camera di Luigi Ferrajoli con una puntuale critica alla “falsa riforma dei decreti Salvini”, e una severa analisi di Barbara Spinelli sull’islamofobia francese e il conseguente spegnersi dei Lumi.
Con i più cordiali saluti

America, America

1280px-liberty-statue-from-belowIL GRANDE RITORNO DELLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA
di Marino de Medici

Alla fine, ha prevalso la democrazia rappresentativa. Joseph Biden è stato dichiarato presidente eletto degli Stati Uniti al termine di un interminabile stressante conteggio svoltosi tra contestazioni, ricorsi legali ed ignobili proclami di vittoria emessi dal perdente, il presidente Donald Trump, che passerà alla storia per la sua politica velleitaria ma soprattutto come “one term president” sfuggito per poco allo ”impeachment”. Di fatto, Trump è il primo presidente non rieletto dopo la sconfitta di George W.H. Bush nel 1992. La vittoria di Joe Biden rappresenta una svolta epocale in America anche per l’elezione alla vice presidenza della prima donna, Kamala Harris, che impersona la diversità dell’America che cambia. Il 77enne Joe Biden era al suo terzo tentativo per la Casa Bianca. Il suo successo ha dello straordinario perché nella battaglia delle elezioni primarie aveva rischiato l’eliminazione. Se è lecito fare dell’ironia, l’America ha detto a Trump “you are fired” (sei licenziato) sulla falsariga del verdetto che Trump emetteva ai concorrenti nel suo programma televisivo “the apprentice” (l’apprendista). Ora tocca a Donald Trump apprendere come comportarsi all’indomani della sua sconfitta, dapprima nei 75 giorni di governo che gli rimangono e poi negli anni susseguenti. Sarà un periodo di fuoco perché il presidente uscente continuerà ad inveire contro il “complotto” che ha consegnato la presidenza a Biden. Mentre è possibile che Trump venga accompagnato alla porta, non scompare un macigno che condiziona il progresso della democrazia rappresentativa, un base trumpista di notevole pervicace consistenza che intralcerà l’opera della nuova amministrazione.

Un’altra riflessione ironica si impone all’immediato indomani della vittoria di Biden. “Chi di spada ferisce, di spada perisce”. Nel 2016, Trump aveva strappato la presidenza alla modesta Hillary Clinton raccogliendo 107.000 voti in più in tre stati del Nord (Pennsylvania, Michigan e Wisconsin), un’inezia rispetto ai 120 milioni di voti espressi in quella tornata elettorale. Questa volta Biden ha prevalso su Trump per 34.000 voti in Pennsylvania, lo stato che lo ha proiettato oltre la soglia dei 270 voti del Collegio Elettorale necessari per l’elezione. Gli scarti nel Michigan e nel Wisconsin sono risultati analogamente minimi, ma sufficienti all’affermazione di Biden nel cosiddetto “Blue wall” (il muro blu), che aveva determinato l’elezione a sorpresa di Trump quattro anni fa. In questo raffronto emerge un dato decisivo: gli elettori democratici che nel 2016 avevano subito l’attrazione della campagna di Trump contro lo “swamp” ossia la palude di Washigton, quest’anno sono tornati nella loro casa democratica.

La vittoria di Joe Biden ha altre rilevanti matrici. Innanzi tutto, segna un record nel numero di votanti a suo favore, 75 milioni, uno scarto di 4.200.000 sul presidente repubblicano. Ed ancora, Biden ha conquistato la Georgia che non aveva votato a favore di un candidato democratico dal lontano 1992.
In aggiunta, l’Arizona aveva votato per il candidato repubblicano dal 1952, con una sola eccezione. Il fatto centrale comunque è questo: Biden è prevalso su una formidabile cultura politica trumpista che poggiava su fatti alternativi, su una virulenta propaganda conservativa ed estremista dei social media e sul penoso servilismo degli organi del partito repubblicano. L’imperiosa politica di Donald Trump aveva stravolto i principi fondamentali della democrazia rappresentativa, a cominciare dal rispetto della costituzione e del dialogo politico improntato ad un confronto civile di idee ed ove possibile al compromesso. I padri fondatori volevano rompere con
l’autoritarismo della monarchia inglese e intendevano promuovere una dialettica, anche intensa fino ad essere conflittuale, ma ispirata ai dettami della democrazia rappresentativa. Donald Trump aveva dichiarato guerra a tutti coloro che sostenevano idee e tendenze politiche contrastanti, con un linguaggio politico portato all’offesa e spesso all’insulto gratuito.
L’ostilità dichiarata agli elementi critici, visti come nemici anziché come avversari, resterà purtroppo l’asse portante del trumpismo che continuerà ad imperare su una vasto settore della popolazione americana, in particolare quello sudista e rurale. Se e come la democrazia rappresentativa potrà far breccia sull’intransigente blocco trumpista non è dato prevedere, ma il successo di Biden in stati del Sud come la Georgia e l’Arizona alimenta una qualche speranza.

La vittoria di Biden autorizza quanto meno la prosecuzione di un processo politico che assimila i portatori di diversità e li responsabilizza come partecipanti all’evoluzione della giustizia sociale. Biden ha additato il dovere degli americani con una frase illuminata: “L’unità sopra le divisioni. La Speranza sui timori. La Scienza sulla finzione”. Joe Biden eredita il potere in una nazione prostrata dall’epidemia del covid-19 e dal regresso economico. Ma i suoi istinti, soprattutto quelli attinenti alla creazione di unità, appaiono fondati e tali da incoraggiare fiducia in una grave congiuntura politica e morale. In questo quadro si collocano gli impulsi della parte sana della popolazione americana volti a superare le divisioni razziali, classiste e quelle insite nella diseguaglianza dei redditi. Joe Biden è tutt’altro che un apprendista promosso alla guida della nazione. Ha una lunga esperienza di moderato, portato al dialogo e al compromesso. Ora dovrà vedersela con un senato che molto probabilmente resterà nelle mani dei repubblicani (anche se restano da attribuire due seggi nella Georgia). Cercherà di venire a patti con il cerbero republicano del senato, il leader McConnell, un tecnico dell’ostruzionismo.
Contrariamente a quanto molti avvertono, Biden e McConnell si conoscono bene e si stimano reciprocamente. Particolare interessante, McConnell fu l’unico senatore republicano presente alle esequie del figlio di Biden, Beau.
L’opposizione di McConnell potrebbe essere ben diversa e certamente non implacabile come lo era quella di Trump. Un primo elemento di giudizio verrà con l’approvazione di un legge di soccorso finanziario agli americani in generale ed alla struttura economica colpita dalla pandemia.

La volontà di Biden di promuovere unità nella nazione ha un altro destinatario, la sinistra americana. Le divergenze di indirizzi sociali ed economici non mancheranno di farsi sentire e potranno complicare la ricerca di compromessi legislativi. Anche su questo versante, dunque, il compito del presidente eletto è quanto mai impegnativo.
Il fatto stesso che Biden finirà probabilmente con l’accumulare 306 voti elettorali, quanti ne riportò Trump nel 2106, testimonia la spaccatura che continua a tormentare la nazione americana. Tra le tante analisi del voto e dell’elettorato, una dovrebbe sovrastare: Biden ha vinto non solo perché questa volta si è riprodotta la coalizione democratica che elesse Obama – che abbracciò afro-americani, la suburbia ed un numero sufficiente di lavoratori “blue-collar” – ma perché una maggioranza di americani lo ha percepito come un uomo dotato di equilibrio, moralmente e politicamente qualificato a fare fronte alla doppia sconvolgente crisi della pandemia e dell’economia.
In fondo, questa resta la maggiore differenza con Trump, artefice di un caos morale e politico. Coerenza alla ricerca ’di unita’ e fiducia nel futuro sono il viatico alla presidenza Biden.
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RAPPORTO CARITAS 2020

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covid e crisi economica una povertà sempre più “normale”

di Sabrina Magnani su Rocca

Il dibattito accesissimo di queste settimane circa la gestione dell’emergenza Covid si è imperniato sul nodo salute pubblica/economia cercando di procedere salvaguardando il più possibile entrambi, cosa che si sta profilando difficilissima. D’atra parte tale procedere ha la sua motivazione nel cercare di evitare una situazione di crisi economica così accentuata da porsi come problema più grave dell’epidemia stessa. Si tratta di un nodo drammatico, che tutti i paesi del mondo stanno affrontando, e che nel nostro paese ha già mostrato il suo volto in occasione del lockdown della scorsa primavera. A quali scenari di povertà e difficoltà economica si sia giunti in quei mesi e a quali potremmo indirizzarci nuovamente lo mostra chiaramente il Rapporto sulla povertà ed esclusione sociale in Italia 2020 presentato in occasione della Giornata mondiale di contrasto alla povertà, il 17 ottobre scorso, che restituisce una fotografia dei gravi effetti economici e sociali dell’attuale crisi sanitaria legata alla pandemia da Covid-19, e offre una tendenza che potrebbe ripetersi nei prossimi mesi.

pre-Covid, tra povertà e ripresa
Una «bilancia» fragilissima.
Nell’Italia pre-Covid i poveri assoluti risultavano 4,6 milioni, pari al 7,7% della popolazione (nel 2018 l’incidenza si attestava
all’8,4%), complessivamente 1,7 milioni di famiglie che corrispondono al 6,4% dei nuclei familiari (7,0% nel 2018). Rispetto al 2018, dunque, la povertà assoluta era calata – anche se con livelli ancora molto alti rispetto agli anni antecedenti – grazie alle misure di contrasto alla povertà messe in campo a livello governativo e alla cosidetta «ripresina» economica dopo la crisi economica del 2008. Più vulnerabili erano sempre le famiglie del Mezzogiorno, le famiglie numerose con 5 o più componenti, le famiglie con figli minori, i nuclei di stranieri (tra loro l’incidenza è pari al 24,4% a fronte del 4,9% tra le famiglie di soli italiani) e le persone meno istruite. Continua inoltre la correlazione negativa tra incidenza della povertà e età della persona di riferimento, decretando i nuclei degli under 34 come i più svantaggiati, che presentavano un’incidenza della povertà pari all’8,9%, mentre tra gli over 65 era pari al 5,1%, mentre molto alto era il peso della povertà tra i minori, che coinvolgeva l’11,4%, per un totale in valore assoluto di oltre 1,1 milioni bambini e ragazzi in stato di povertà.
Si tratta, evidentemente, di una situazione di grande fragilità, con una ampia fascia di popolazione che già prima della pandemia mostrava difficoltà evidenti, in un contesto, tipicamente italiano, connotato da uno de- gli indici di disuguaglianza tra i più alti e di mobilità sociale tra i più bassi d’Europa, una bilancia costantemente in bilico verso il basso, che il lockdown ha ulteriormente inclinato sfavorevolmente facendo scivolare nella povertà una parte della popolazione che a fatica riusciva a stare sui margini. Analizzando il periodo maggio-settembre del 2019 e confrontandolo con lo stesso periodo del 2020 emerge che da un anno all’altro l’incidenza dei «nuovi poveri» passa dal 31% al 45%: quasi una persona su due che si rivolge alla Caritas lo fa per la prima volta. Aumenta in particolare il peso delle famiglie con minori, delle donne, dei giovani, dei nuclei di italiani che risultano in maggioranza (52% rispetto al 47,9% del- lo scorso anno) e delle persone in età lavorativa; cala di contro la grave marginalità. A fare la differenza, tuttavia, rispetto allo shock economico del 2008 è il punto dal quale si parte, giacchè nell’Italia del pre-pandemia il numero di poveri assoluti era più che doppio rispetto al 2007. Secondo i dati pubblicati da Banca d’Italia, nei mesi di aprile e maggio, vi è stata una riduzione di reddito per la metà delle famiglie italiane, anche tenendo conto degli eventuali strumenti di sostegno ricevuti; e per il 15% del campione il calo è stato di oltre la metà del reddito complessivo.
L’impatto è più negativo tra i lavoratori indipendenti: quasi l’80% ha subito un calo nel reddito e per il 36% la caduta è di oltre la metà del reddito familiare. Oltre a un diffuso calo nei redditi, più di un terzo degli individui ha dichiarato di disporre di risorse finanziarie liquide sufficienti per meno di 3 mesi a coprire le spese per con- sumi essenziali. Questa quota supera il 50 per cento per i disoccupati e per i lavoratori dipendenti con contratto a termine.
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i tre mesi di lockdown nuovi disagi e nuove criticità
In tre mesi (marzo-maggio) la rete Caritas ha registrato un forte incremento del numero di persone sostenute a livello diocesano e parrocchiale, con un aumento complessivo del 12,7% di chi ha chiesto un aiuto: complessivamente si parla di circa 450mila persone. Tra i beneficiari circa il 30% è rappresentato dai cosiddetti «nuovi poveri», che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di deprivazione economica tali da dover chiedere aiuto. Tra gli assistiti nel periodo marzo-maggio prevalgono i disoccupati, le persone con impiego irregolare fermo a causa delle restrizioni imposte dal lockdown, i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o in deroga e i lavoratori precari o intermittenti che, al momento della presa in carico, non godevano di ammortizzatori sociali.
Il disagio ha mostrato anche fenomeni nuovi, come ad esempio le difficoltà di alcune famiglie rispetto alla didattica a distanza, manifestate nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni wi-fi). Colpiscono, poi, i numerosi alert delle Caritas inerenti la dimensione psicologica: si rileva un evidente aumento durante il lockdown del «disagio psicologico-relazionale», di problemi connessi alla «solitudine» e di forme depressive. I territori sottolineano anche un accentuarsi delle problematiche familiari, in termini di conflittualità di coppia, violenza, difficoltà di accudimento di bambini piccoli o di familiari colpiti dalla disabilità, conflittualità genitori-figli. Preoccupa, infine, anche il fenomeno della «rinuncia o il rinvio di cure e assistenza sanitaria», determinato dal blocco dell’assistenza specialistica ordinaria e di prevenzione che potrebbe deter- minare in futuro un effetto di onda lunga sul piano del carico assistenziale e del profilo epidemiologico del nostro paese.
A fronte di uno spettro di fenomeni così vasto e inedito, le Caritas hanno evidenziato una grande capacità di adattamento, mettendo in atto risposte innovative e diversificate, mai sperimentate in precedenza. Una vivacità di iniziative e opere realizzate anche grazie all’azione di circa 62mila volontari, a partire dai giovani impegnati nel Servizio Civile Universale. Sono 19.087 gli over 65 che si sono dovuti fermare per ragioni di sicurezza sanitaria e 5.339 le nuove leve (under 34), attivate in questo tempo di emergenza. Sono stati mantenuti i «centri di ascolto» con forme anche telefoniche nel periodo di chiusura e poi di nuovo in presenza non appena è stato possibile. Preziosa è stata l’attività sul fronte dell’accompagnamento e orientamento rispetto alle misure previste dal Decreto «Cura Italia» e «Decreto Rilancio»; che ha permesso a numerose persone e famiglie in difficoltà di poter accedere a tali sostegni pubblici (l’83% delle diocesi ha svolto questa specifica attività). Circa l’ambito del lavoro, in particolare quello della sofferenza sperimentata da tanti piccoli commercianti e lavoratori autonomi, le Caritas diocesane hanno erogato sostegni economici specifici, in ben 136 diocesi sono stati attivati fondi dedicati, utili a sostenere le spese più urgenti (affitto degli immobili, rate del mutuo, utenze, acquisti utili alla ripartenza dell’attività, ecc.). Complessivamente sono stati 2.073 i piccoli commercianti/lavoratori autonomi accompagnati in questo tempo.
Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori, anche per individuare i difetti e le criticità da evitare in futuro. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Rem (Reddito di emergenza) è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e monogenitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. Si tratta di un profilo del tutto sovrapponibile a quello di coloro che percepiscono il Reddito di cittadinanza (32,5%) all’interno dello stesso campione intervistato: questo dice che tra le due misure, rispetto alle caratteristiche dei beneficiari, vi sia sovrapposizione piuttosto che compensazione.

una povertà strutturale, mutevole e multiforme
Quello che il Covid-19 ha messo in evidenza è il carattere mutevole della povertà e stiamo ora entrando in una nuova fase nel nostro Paese. Si tratta di una povertà sempre più cronica, multidimensionale, legata a vissuti complessi che richiedevano percorsi di accompagnamento anche molto lunghi.
Se si collega tale constatazione, che emerge da un’azione costante e articolata territorialmente come quello delle Caritas, ai dati sui processi di disagio registrati anche da altri fonti (Istat, Banca d’Italia) e che evidenziano il maggiore peso degli italiani sulla popolazione in difficoltà, con un aumento dell’incidenza dei giovani tra i 18 e i 34 anni, un innalzamento della quota di coniugati, delle famiglie con figli e delle famiglie con minori, si intravede dunque l’ipotesi di una nuova fase di «normalizzazione» della povertà che si innesta tuttavia su un fenomeno già di per sé normalizzato. Occorre, dunque, suggerisce il Rapporto, istituire strumenti di analisi e di intervento adeguati al mutato contesto, realizzare analisi di lungo periodo per monitorare come cambiano le condizioni di vita delle persone in povertà e come su di esse incidano le misure pubbliche, concepire le misure nazionali di contrasto alla povertà come un «work in progress», che, a partire da un attento e sistematico lavoro di monitoraggio, vengano periodicamente «aggiustate» per poter adeguarsi e meglio rispondere alle trasformazioni in corso. In definitiva, come dice papa Francesco, occorre «lottare contro le cause strutturali della povertà, la disuguaglianza, la mancanza di lavoro, della casa, la negazione dei diritti sociali e lavorativi» (3 ottobre 2020). Solo in questo modo si potranno fornire elementi a partire dai quali proiettarsi in un futuro di concreto cambiamento.
Sabrina Magnani
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GLI ANTICORPI DELLA SOLIDARIETÀ
RAPPORTO 2020 SU POVERTÀ
ED ESCLUSIONE SOCIALE IN ITALIA

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Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?

lezione alla scuola popolare 1971
Formazione permanente e l’eredità delle 150 ore
di Fiorella Farinelli
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Sbilanciamoci! 3 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Lavoro.
La povertà educativa non è solo minorile. L’Italia occupa la coda delle classifiche Ocse. In più adesso abbiamo bisogno di competenze nuove, digitali e non. 500 mila lavoratori utilizzarono i corsi delle 150 ore poi quel patrimonio sindacale andò disperso. L’occasione del contratto dei metalmeccanici.

Sarebbe una buona cosa se col rinnovo del contratto dei metalmeccanici si facessero progressi sulla formazione continua, definita già nel testo del 2016 come “diritto soggettivo” (la stessa definizione è in una normativa nazionale del 2012, largamente inapplicata, sull’apprendimento permanente) [nota 1]. Diritto soggettivo significa che la formazione sul lavoro è esigibile da tutti i lavoratori, anche i non coinvolti nelle azioni formative delle aziende. Viene perciò previsto un pacchetto di 24 ore di congedo retribuito utilizzabile anche individualmente. Assicurarne l’attuazione, e anche qualche sviluppo, sarebbe importante.

Sebbene ingabbiato in varie condizionalità (i lavoratori interessati, per esempio, sono solo quelli a tempo indeterminato ), quel modesto pacchetto di ore fruibile anche a richiesta individuale potrebbe fare da contrappeso all’avarizia sociale di gran parte delle politiche formative aziendali. Nella definizione vivono infatti due finalità, entrambe strategiche, e nessuna granché apprezzata dalle imprese. La prima, di profilo universalistico, è che alla formazione devono poter accedere tutti i lavoratori, anche quelli che, in tutta la loro vita lavorativa conoscono, se va bene, solo quella obbligatoria sulla sicurezza: i tanti esclusi dai progetti aziendali (anche concordati col sindacato) che privilegiano solitamente le figure di livello professionale più alto, dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, e poi più i maschi che le femmine, più le fasce di età centrali che le altre, più i nativi che gli immigrati. La seconda finalità è che la formazione non dovrebbe tradursi solo in adattamento alle trasformazioni organizzative e tecnologiche dell’azienda ma andare oltre, contribuendo a sviluppare nei lavoratori le competenze, specifiche o trasversali, e spesso anche di base, necessarie a rafforzarne “l’occupabilità”, cioè ad essere più forti e preparati a misurarsi con la mobilità, necessitata o scelta, e con la riconversione professionale. Con le “transizioni”, le incertezze e gli agguati di un lavoro sempre meno stabile, oltre che con le prospettive, quando ci sono, di carriere interne.

Nell’accordo del 2016 si annunciava infatti anche una campagna per lo sviluppo delle competenze digitali, divenute ormai di base, almeno nel senso che chi non le ha è di sicuro svantaggiato nel mondo del lavoro di oggi. Possono certo apparire secondari, a fronte di tanti altri problemi, i piccoli passi avanti della contrattazione in materia di formazione (e, viceversa, lo scarso utilizzo dei congedi di “diritto allo studio”, che nei contratti ci sono ma vengono per lo più regalati alle aziende), ma non lo è. Le politiche attive del lavoro di cui si tanto si parla non hanno a che fare solo con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dovrebbero essere fatte anche di formazione. Non solo per chi è stato messo fuori dal lavoro o per chi un lavoro, come si deve non l’ha mai incontrato, ma anche per chi nel lavoro c’è già ma ha buone ragioni per prevedere che sarà prima o poi costretto a cercarne un altro. A sollecitare l’attenzione per i contenuti dell’accordo del 2016, è però anche che è stato ancora una volta il contratto dei metalmeccanici a introdurre per primo qualcosa di innovativo in campo formativo.

Ancora una volta. E a quasi cinquant’anni dallo storico rinnovo contrattuale in cui i metalmeccanici, e poi di seguito tutte le altre categorie, comprese quelle del terziario e del lavoro pubblico, conquistarono le “150 ore”. Cosa sono state e cosa hanno prodotto, perché furono appassionatamente volute, direttamente gestite e infine abbandonate dal sindacato, non lo sa quasi più nessuno. Non lo sanno, e forse neppure interessa, i delegati e gli operai, e neppure i sindacalisti che sembrano non sapere cosa farsene di quel congedo formativo retribuito – una riduzione del tempo di lavoro, una irruzione nel tempo di lavoro del tempo di vita – ha depositato nei contratti. Nate dalle lotte di fabbrica, oggi le “150 ore”, variamente ritoccate in tanti rinnovi contrattuali, vengono infatti utilizzate soprattutto nel pubblico, di solito per via individuale o, per meglio dire, solitaria. E invece in quella lontana esperienza di utilizzo del congedo – collettivo perché ispirato alla volontà di una emancipazione collettiva – non c’è solo un pezzo importante della storia sindacale, sociale, scolastica degli anni Settanta. Vi sono diritti, idee, pratiche sociali, contenuti utili anche oggi, in un mondo del lavoro pur irriconoscibile rispetto ad allora. Sarebbe utilissimo, per esempio, tener fermo che la “domanda” dei lavoratori, fosse anche solo di tipo individuale deve, per poter emergere e contare, essere ascoltata, capita, rappresentata, negoziata. Circolarono ai tempi un bel po’ di storie su chi nella Flm, a ridosso dell’Autunno caldo del 1969, ebbe per primo l’idea, forse anche sulla scorta di esperienze francesi (e allora è Bruno Trentin il primo indiziato), di buttare sul tavolo della trattativa anche un congedo retribuito per “studiare”. Sulle reazioni di una controparte ostile e arrogante, e su come gli si seppe rispondere. “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?”. “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo“.
clavicembalo e 150 ore
Fu così che lo sconosciuto strumento musicale divenne per anni il logo, fin nei volantini, di una rivendicazione felicemente trasgressiva – una specie di versione operaia dell’immaginazione al potere – che era stata prima di tutto di libertà, uguaglianza, autonomia. Anche se c’è chi ancora ricorda un corso sul rock di grande successo per giovani delegati, la musica che poi si suonò fu tutta un’altra. Anch’essa indigesta a gran parte del padronato , e ovviamente anche al ministero dell’Istruzione, che cercò di ridurne la portata innovativa tentando di assimilarla a vecchi corsetti di tipo assistenziale per analfabeti. Le richieste su come utilizzare il congedo (150 ore non bastavano per i percorsi lunghi e gli operai dovettero aggiungerci un bel pò del proprio tempo di vita) erano di più tipi. C’era la formazione di livello alto, ma senza riferimento a titoli di studio, come i seminari universitari (ce ne furono tanti, affollati di delegati, che trattarono di economia, diritto, storia, medicina del lavoro…). E c’era quella di livello intermedio collocabile nel primo biennio della secondaria superiore. Ma il fuoco fu da subito sulla scuola media e sul diritto a concluderla in un anno. Già nel 1973, a trattative ancora aperte, Cgil Cisl e Uil avviarono il negoziato per ottenere in tutto il Paese corsi statali per lavoratori di durata annuale per la licenza media (e, quando necessario, e in molti casi lo era, anche per la licenza elementare). I corsi, a centinaia, gradualmente si ottennero e, anche grazie a una singolare alleanza con tanti insegnanti affascinati dall’idea di far vivere nella scuola degli operai la scoperta sessantottina del Don Milani della “Lettera a una professoressa”, l’esperimento si sviluppò un po’ ovunque e tenne alla grande per più di una quindicina d’anni.
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Solo nei primi dieci, dal 1973 al 1983, i lavoratori coinvolti furono più di 500 mila. Ma perché proprio la scuola media, perché la Flm non puntò anche , o solo, sulla qualificazione professionale? Si è a lungo sostenuto che l’identificazione della formazione professionale con “lo strumento del padrone” fosse effetto di un eccesso di ideologia. Di risvolti ideologici, certo, ce n’erano, in questo e in altri aspetti della vicenda, ma in quella scelta che suscitò discussioni anche dentro le stanze della Flm, c’era soprattutto altro. Da un lato l’imprescindibile riflesso della distruzione delle professionalità operaie imposta dall’organizzazione fordista della grande fabbrica, dove bastavano due giorni di affiancamento perché gli addetti alla “catena” imparassero i contenuti della prestazione. Dall’altro il bisogno di una proposta adeguata a una classe operaia affamata di uguaglianza, quella che aveva ottenuto l’inquadramento unico e gli aumenti salariali eguali per tutti, quella che rivendicava una sua cultura con cui trasformare “l’organizzazione capitalista del lavoro”. L’obiettivo, allora, non poteva essere che il “diritto allo studio”, allora incarnato nella scuola che, cancellato con la riforma del 1962 il doppio binario tra “il ginnasio” dei figli dei ricchi e “l’avviamento professionale” (o anche niente) degli altri, era diventata l’emblema dell’istruzione per tutti. L’attuazione, finalmente, degli “almeno otto anni“ di obbligo scolastico scritti in Costituzione, il sapere come via per l’emancipazione sociale, nel lavoro e fuori. Tutti ne avevano diritto, dunque anche gli operai che non avevano potuto avere che pochi anni di scuola elementare, anche loro, proprio come i loro figli. Ma la scuola media degli operai doveva essere un’altra rispetto ai programmi e ai metodi della scuola ordinaria che continuava a bocciare i figli dei più poveri. Bisognava partire dall’esperienza e dai bisogni dei lavoratori, valorizzare il tanto che già sapevano e avevano imparato insieme, costruire una didattica nuova, conoscere quello che serve per poter trasformare la realtà. Della fabbrica, e anche oltre. Una sfida alta anche per gli insegnanti, che portò spesso a pratiche educative e strumentazioni didattiche, concordate con il sindacato, davvero innovative per l’italia e la scuola del tempo.

Ma la sfida era evidentemente anche politica, e non poteva restare la stessa quando il vento cominciò a cambiare. Quando, negli anni Ottanta, e dopo la traumatica sconfitta alla Fiat, il sindacalismo industriale dovette misurarsi con le ristrutturazioni e le crisi aziendali. Non resse, in verità, anche al fatto che i corsi 150 ore venivano sempre più frequentati da figure diverse dagli operai-massa della grande fabbrica (anche perché la riforma della scuola media stava poco a poco avendo i suoi benefici effetti, almeno per i più giovani). Tanti operai delle piccole fabbriche dove il sindacato non c’era o non riusciva a far riconoscere il diritto al congedo, tanti artigiani, disoccupati, casalinghe, cassaintegrati, bidelli e commessi del lavoro pubblico, giovani drop out della scuola dell’obbligo. E poi anche i primi immigrati a imparare l’italiano.

Sarebbe potuto essere motivo di orgoglio che una conquista operaia si stesse trasformando in una conquista civile, ma furono in molti a non vederla affatto in questo modo. Le Confederazioni avrebbero potuto, di fronte alle trasformazioni, rilanciare la palla per fare della scuola per i lavoratori il primo nucleo attorno a cui far crescere quel sistema di apprendimento permanente per adulti, lavoratori e non, che in Italia non c’era, e che ancora ci manca. Ma per tanti motivi non andò così. E la gestione dei corsi, passata di fatto ai sindacati Scuola, diventò sempre più questione di organici, concorsi, stabilità e orari del personale. Tra gli effetti indiretti della dismissione, ci fu anche l’appannarsi del ruolo protagonista sul diritto allo studio e sulla scuola che le Confederazioni si erano conquistate negli anni Settanta. Le dismissioni senza alternativa – i sindacati dell’industria sono i primi a saperlo – lasciano sempre dei brutti segni.

Fu persa, insomma, un’occasione importante. Non è di sicuro per questo, visti i tanti anni trascorsi, che sulla formazione continua, sulla formazione professionale tra lavoro e non lavoro e da un lavoro all’altro, e più in generale sull’apprendimento permanente, si debbano registrare risultati molto modesti e vistosi ritardi rispetto ad altri grandi Paesi dell’area europea. Ma è certo che da allora il movimento sindacale e quello che a lungo gli si è mosso attorno non ha più saputo sviluppare con continuità iniziative coerenti e lungimiranti su questi temi. E che – in verità paradossalmente, in una fase in cui la formazione per il lavoro e per la cittadinanza attiva ha acquisito un’urgenza che allora non c’era – ha lasciato troppo spazio a culture sociali miopi e a politiche mediocri, delle imprese come delle istituzioni. Tutt’altro che attente a innalzare il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione adulta, a offrire una seconda chance ai tanti giovani inguaiati dagli abbandoni scolastici precoci, a rendere attraente e praticabile la partecipazione all’apprendimento “lungo tutto il corso della vita”. Ad attivare , come prevede la legge del 2012 e come sollecitato dalle politiche europee, i dispositivi di validazione delle competenze acquisite nel lavoro, nel volontariato, nella vita sociale, come strumento di accorciamento dei percorsi e come incoraggiamento a rientrare in formazione.

Eppure i numeri, confermati anno dopo anno da studi, indagini, comparazioni in area UE e OCSE dicono con chiarezza la gravità della situazione italiana. La “povertà educativa” di cui si parla non è solo “minorile”, non riguarda solo le aree più svantaggiate del Paese, i tanti ragazzi con background migratorio, il 22% dei Neet. E non è fatta solo di quel 15% di early school leavers che non concludono i percorsi formali. Nasce anche dal non lavoro, dal lavoro poco qualificato e senza seri processi di qualificazione, dagli apprendistati senza veri investimenti formativi, dai tirocini in cui non si impara niente, da una formazione professionale inadeguata per numeri e qualità, da interventi per gli occupati che trascurano, più che in altri Paesi, i più deboli. Dall’incapacità o non volontà di giocare la carta della formazione, si tratti del programma europeo “Garanzia Giovani”, del reddito di cittadinanza, della cassa integrazione, e di tanti altri contesti.

Pesa del resto l’ostinata assenza di un sistema effettivo di apprendimento permanente. Ciò di cui disponiamo, in un’Italia che occupa l’ultimo posto nelle classifiche OCSE per possesso delle competenze di base in italiano e matematica degli adulti tra 25 e 64 anni (con gravi carenze anche tra i giovani fino ai 35 anni), è fatto di spezzoni scoordinati che non fanno sistema, di un insieme che non sa mettersi in sintonia con l’intera gamma dei bisogni di istruzione, formazione professionale, educazione in età adulta. E che lascia sistematicamente fuori quelli che, per motivi soggettivi o oggettivi, alla formazione non possono arrivarci da soli.
[segue]

Costituente Terra

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una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

Newsletter n. 22 del 04 novembre 2020

L’ASSEMBLEA DEL 28 OTTOBRE 2020

Care Amiche, cari Amici e Soci,

l’Assemblea di “Costituente Terra” convocata alla Biblioteca Vallicelliana, si è svolta felicemente il 28 ottobre in videoconferenza, con una buona partecipazione di soci collegati “da remoto” e altri per delega.
In sede straordinaria l’Assemblea ha approvato a maggioranza (ma non abbiamo rilevato voti contrari) nome, ragione sociale e Statuto dell’Associazione e della relativa Scuola (intendendo “scuola” non in senso determinato e fisico, ma piuttosto al modo dei Greci antichi).
In sede ordinaria l’Assemblea ha approvato il bilancio del 2019, le cui entrate sono state costituite dalle quote associativeversate entro il 2019, primo anno dell’esercizio sociale, ma considerate valide anche per il 2020, primo anno dell’attività effettiva. L’Assemblea ha poi eletto il Comitato Esecutivo di otto membri (numero così fissato dallo Statuto per ragioni funzionali), con le relative cariche sociali, Comitato che è risultato così composto: Raniero La Valle (presidente), Luigi Ferrajoli (vicepresidente), Marco Romani (segretario-tesoriere), Paola Paesano, Grazia Tuzi, Francesco Carchedi, Raul Mordenti e Domenico Gallo. Infine, sulla base di un’introduzione programmatica del prof. Luigi Ferrajoli, l’Assemblea ha intensamente discusso orientamenti e proposte per l’attività futura.
Di tutto ciò si può ora trovare la registrazione sul sito, a questo link, nella sezione tematica “Attività della Scuola”.
L’esperienza del collegamento on line è stata positiva e incoraggiante per future iniziative. Siamo lieti che anche grazie agli adempimenti fatti dall’Assemblea e all’impegno mostrato dai soci, pur nelle difficoltà frapposte dalla pandemia possa ora essere rilanciato il nostro lavoro, che proprio la tragedia che stiamo vivendo rende più necessario ed esigente. Infatti aprire la strada a un costituzionalismo mondiale appare come la cosa più razionale, quando proprio la ragione oggi sembra perduta, nelle stanze dei Potenti non meno che nelle piazze, nella politica e nell’informazione, nel dibattito culturale e nel confronto religioso, le diverse sedi dove ormai, nonostante gli appelli all’unità, siamo ai coltelli, non solo metaforici: si sbaglia nemico e si perdono i Lumi, e anche le grandi democrazie diventano irriconoscibili. Al contrario il passaggio in ogni nazione e nell’ordinamento mondiale ai valori e agli istituti fatti già propri delle grandi tradizioni costituzionali, è oggi la scelta più realistica, a fronte dei profeti della fine.
C’è anche però una buona notizia, che può essere il sintomo di un’altra direzione verso cui si va: grazie al raggiungimento del numero necessario di ratifiche entra in vigore il Trattato che proibisce le armi nucleari (se ne può leggere il testo a questo link
o anche in calce al presente articolo) che quanto meno, in attesa della sua effettiva attuazione, ha la forza di additare come soggetti criminali le nazioni che si gloriano di tale armi. L’Italia non ha firmato il Trattato, e l’urgente battaglia politica da fare è perché essa si dissoci da questo crimine, restituendo a chi di dovere le testate nucleari di cui è stato riempito il suo territorio, come chiedono gli articoli di Mario Agostinelli, Maurizio Acerbo e Gregorio Piccin pubblicati sul sito.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
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trattato-armi-nucleari
Conferenza delle Nazioni Unite per negoziare uno strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti alla loro totale eliminazione New York, 27-31 marzo e 15 June-7 luglio 2017
Punto 9 dell’ordine del giorno
Negoziati, ai sensi del paragrafo 8 della risoluzione 71/258 dell’Assemblea Generale del 23 dicembre 2016, su uno
strumento giuridicamente vincolante per vietare le armi nucleari, che porti alla loro totale eliminazione
Trattato sul divieto delle armi nucleari Presentato dalla Presidente della Conferenza

Gli Stati Parte del presente trattato,
Determinati a contribuire alla realizzazione degli scopi e dei principi della Carta
delle Nazioni Unite,
Profondamente preoccupati delle catastrofiche conseguenze umanitarie che deriverebbero da qualsiasi uso di armi nucleari, e riconoscendo la conseguente necessità di eliminare completamente tali armi, come l’unico modo per garantire che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate in nessun caso,
Tenendo conto dei rischi derivanti dalla continua esistenza di armi nucleari, inclusa qualsiasi detonazione accidentale di armi nucleari, per errore di calcolo o di progetto, e sottolineando che questi rischi riguardano la sicurezza di tutta l’umanità e che tutti gli Stati condividono la responsabilità di impedire qualsiasi uso delle armi nucleari,
Consapevoli che le conseguenze catastrofiche delle armi nucleari non possono essere adeguatamente affrontate, trascendono le frontiere nazionali, comportano gravi implicazioni per la sopravvivenza umana, l’ambiente, lo sviluppo socioeconomico, l’economia globale, la sicurezza alimentare e la salute delle generazioni attuali e future e hanno un impatto sproporzionato sulle donne e sulle bambine, anche come conseguenza delle radiazioni ionizzanti,
Riconoscendo gli imperativi etici per il disarmo nucleare e l’urgenza di raggiungere e mantenere un mondo libero da armi nucleari, un bene pubblico globale del più alto ordine, che serve sia gli interessi di sicurezza nazionali che collettivi,
Consapevoli delle inaccettabili sofferenze e danni alle vittime dell’uso di armi nucleari (hibakusha), nonché di coloro che sono colpiti dai test delle armi nucleari,
Riconoscendo l’impatto sproporzionato delle attività delle armi nucleari sulle popolazioni indigene,
Ribadendo la necessità che tutti gli Stati rispettino sempre il diritto internazionale applicabile, compresi il diritto umanitario internazionale e il diritto internazionale dei diritti umani,

Basandosi sui princìpi e sulle norme del diritto umanitario internazionale, in particolare: il principio che il diritto delle parti di un conflitto armato di scegliere metodi o mezzi di guerra non è illimitato; la regola di distinzione; il divieto di attacchi indiscriminati; le regole sulla proporzionalità e sulle precauzioni in attacco; il divieto di utilizzare armi che causino lesioni superflue o sofferenze inutili e le norme per la protezione dell’ambiente naturale,
Considerando che qualsiasi uso di armi nucleari sarebbe contrario alle norme del diritto internazionale applicabili nei conflitti armati, in particolare i principi e le norme del diritto umanitario internazionale,
Riaffermando che qualsiasi uso di armi nucleari sarebbe anche ripugnante rispetto ai princìpi dell’umanità e ai dettami della coscienza pubblica,
Ricordando che, conformemente alla Carta delle Nazioni Unite, gli Stati devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, o in qualsiasi altro modo incoerente con le Finalità delle Nazioni Unite, e che la creazione e il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali devono essere promossi spostando nella misura minima possibile sugli armamenti le risorse umane ed economiche mondiali,
Ricordando anche la prima risoluzione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottata il 24 gennaio 1946, e le successive risoluzioni che richiedono l’eliminazione delle armi nucleari,
Preoccupati per la lentezza del disarmo nucleare, per il continuo fare affidamento alle armi nucleari nei concetti, nelle dottrine e nelle politiche militari di sicurezza e per lo spreco di risorse economiche e umane in programmi per la produzione, la manutenzione e la modernizzazione delle armi nucleari,
Riconoscendo che un divieto giuridicamente vincolante delle armi nucleari costituisce un importante contributo al raggiungimento e al mantenimento di un mondo privo di armi nucleari, compresa l’eliminazione irreversibile, verificabile e trasparente delle armi nucleari e determinato ad agire in tal senso,
Determinati ad agire al fine di raggiungere effettivi progressi verso il disarmo generale e completo sotto un controllo internazionale rigoroso ed efficace,
Riaffermando che esiste l’obbligo di perseguire in buona fede e concludere negoziati che conducano al disarmo nucleare in tutti i suoi aspetti sotto un controllo internazionale rigoroso ed efficace,
Ribadendo inoltre che l’attuazione completa ed efficace del Trattato di Non- Proliferazione delle armi nucleari, che costituisce la pietra angolare del disarmo nucleare e del regime di non proliferazione, ha un ruolo fondamentale per promuovere la pace e la sicurezza internazionali,
Riconoscendo l’importanza fondamentale del CTBT – Trattato di bando complessivo dei test nucleari – e del suo regime di verifica come elemento essenziale del regime di disarmo nucleare e non proliferazione,
Ribadendo la convinzione che l’istituzione di zone riconosciute a livello internazionale libere da armi nucleari (NWFZ) sulla base di accordi liberamente raggiunti tra gli Stati della regione interessata esalta la pace e la sicurezza globali e regionali, rafforza il regime di non proliferazione nucleare e contribuisce alla realizzazione dell’obiettivo del disarmo nucleare,
Sottolineando che nulla nel presente Trattato dovrà essere interpretato in un senso che incida sul diritto inalienabile dei suoi Stati Parte a sviluppare la ricerca, la produzione e l’uso dell’energia nucleare per scopi pacifici senza discriminazione,
Riconoscendo che la pari, piena ed efficace partecipazione delle donne e degli uomini costituisce un fattore essenziale per la promozione e il conseguimento di pace e sicurezza sostenibili e impegnata a sostenere e rafforzare l’effettiva partecipazione delle donne al disarmo nucleare,
Riconoscendo altresì l’importanza dell’educazione alla pace e al disarmo in tutti i suoi aspetti e l’importanza di creare consapevolezza sui rischi e sulle conseguenze delle armi nucleari per le generazioni presenti e future e impegnarsi nella diffusione dei princìpi e delle norme del presente Trattato,
Sottolineando il ruolo della coscienza pubblica nell’avanzamento dei princìpi dell’umanità come dimostrato dalla richiesta di eliminazione totale delle armi nucleari e riconoscendo gli sforzi a tal fine intrapresi dalle Nazioni Unite, dal Movimento internazionale della Croce Rossa e dal Mezzaluna Rossa, da altre organizzazioni internazionali e regionali, organizzazioni non governative, leader religiosi, parlamentari, accademici e dagli hibakusha,
Hanno convenuto quanto segue: Articolo 1
Divieti
Ciascuno Stato Parte si impegna, in qualsiasi circostanza, a non:
(a) Sviluppare, testare, produrre, produrre, oppure acquisire, possedere o possedere riserve di armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari;
(b) Trasferire a qualsiasi destinatario qualunque arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari o il controllo su tali armi o dispositivi esplosivi, direttamente o indirettamente;
(c) Ricevere il trasferimento o il controllo delle armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari, direttamente o indirettamente;
(d) Utilizzare o minacciare l’uso di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari;
(e) Assistere, incoraggiare o indurre, in qualsiasi modo, qualcuno ad impegnarsi in una qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato;
(f) Ricercare o ricevere assistenza, in qualsiasi modo, da chiunque per commettere qualsiasi attività che sia vietata a uno Stato Parte del presente Trattato;
(g) Consentire qualsiasi dislocazione, installazione o diffusione di armi nucleari o di altri dispositivi esplosivi nucleari sul proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo.
Articolo 2 Dichiarazioni
1. Ciascuno Stato Parte sottopone al Segretario Generale delle Nazioni Unite, entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore del presente Trattato per tale Stato Parte, una dichiarazione nella quale:
(a) Dichiara se ha detenuto, posseduto o controllato qualsiasi arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari e eliminato il programma relativo alle armi nucleari, compresa l’eliminazione o la conversione irreversibile di tutte le strutture collegate alle armi nucleari, prima dell’entrata in vigore del presente Trattato in tale Stato Parte;
(b) In deroga all’Articolo 1, lettera (a), dichiara se detiene, possiede o controlla qualsiasi arma nucleare o altri dispositivi esplosivi nucleari;
(c) In deroga all’Articolo 1, lettera (g), dichiara se nel proprio territorio o in qualsiasi luogo sotto la propria giurisdizione o controllo esistono armi nucleari o altri dispositivi esplosivi nucleari che sono detenuti, posseduti o controllati da un altro Stato.

2. Il Segretario Generale delle Nazioni Unite trasmette tutte le dichiarazioni ricevute agli Stati Parte.
[segue]

UNITÀ ED EGUAGLIANZA UMANA

564882df-16fe-4f9b-b2b6-56f50b43f7e8 15 FEBBRAIO 2020 / COSTITUENTETERRA / L’UNITÀ UMANA /
Non c’è più né Giudeo né Greco
(Gal. 3, 28)

Relazione tenuta da Raniero La Valle a Portici il 6 ottobre 2018 alla Festa Multiculturale “Pane nostro”del Coordinamento Campano contro le camorre e le mafie.

di Raniero La Valle

Vi potrà stupire che ci sia una citazione biblica come titolo di questo mio intervento , quando né le citazioni bibliche né il cristianesimo sembrano oggi molto di moda, e anzi si sta cercando di dare una spallata per abbatterli.

Però a ben vedere anche il titolo di questa vostra Festa multiculturale è una citazione biblica, “Pane nostro”, anzi è addirittura una citazione del “Padre nostro”. E in sostanza le due citazioni vogliono dire la stessa cosa: e cioè che non c’è nulla di nostro, nemmeno il pane, che non sia anche degli altri, che non sia un nostro di tutti. E se non c’è né Giudeo né Greco è perché non c’è un mondo di soli cittadini e non anche di stranieri, non c’è da una parte un’Europa comunitaria e dall’altra un mondo barbarico di extracomunitari, non c’è un’Italia di residenti che non sia anche un’Italia di immigrati, di fuggiaschi e di nomadi.

Questa è la tesi del nostro discorso. Ma perché cominciare proprio dal mettere insieme Giudei e Greci? Per la buona ragione che nella nostra società non c’è più posto per l’antisemitismo. È vero che per arrivarci ci sono voluti milioni di morti, ma ormai su questo, a parte i negazionisti e gli acciecati, sono tutti d’accordo. Allora è bene partire da una posizione da tutti condivisa, per affermarne un’altra altrettanto sacrosanta, e cioè che come non c’è Giudeo e Greco, così non c’è Italiano e Straniero; e questa affermazione è invece oggi fieramente contestata, quando si dice “prima gli Italiani” o addirittura “solo gli Italiani”, come si dice “prima l’America” o “la Francia per prima”. L’altra sera in TV la signora Santanchè diceva che i migranti devono essere respinti in quanto delinquenti, e anche sotto questo profilo doveva valere il motto “prima gli Italiani”, anzi in questo caso il messaggio era “solo gli Italiani, vogliamo solo i delinquenti italiani”; e questi ce li dobbiamo tenere almeno fino a quando non si riuscirà a togliere la cittadinanza anche a loro, come prevede il decreto sicurezza del ministro Salvini.

Allora qui bisogna sapere che è in gioco una grande questione, che ha attraversato tutta la storia, e su cui si decide tutto il nostro futuro: è la questione della diseguaglianza.

La storia della diseguaglianza

Dire non c’è più Giudeo né Greco, come dissero Paolo e il cristianesimo nascente, era una rivoluzione epocale anzitutto perché gli stessi Ebrei sostenevano una differenza invalicabile tra sé e gli stranieri, che non potevano neanche entrare nel recinto del Tempio, gli uni essendo eletti gli altri dannati; ma era una novità straordinaria anche perché il pensiero della diseguaglianza dominava non solo l’immaginario religioso, ma tutta la cultura dell’umanità, e non solo nel sentire comune e nell’opinione del volgo, ma ai livelli più alti della filosofia e del pensiero. Quella che dominava era infatti l’antropologia di Aristotile che divideva la società in signori e servi, e i servi erano tali per natura, “naturaliter servi”, come traducevano i latini. Questa diseguaglianza non dipendeva da contingenti condizioni economiche e sociali, ma era una diseguaglianza originaria; in termini colti si potrebbe dire una diseguaglianza ontologica, per essenza, e quindi umanamente irrimediabile. È la stessa cosa che valeva e vale ancora oggi per le caste in India, per cui mai lì si potrà passare dalla casta dei mercanti o dei servi alla casta dei guerrieri o dei brahamani: l’unica possibilità di cambiare casta è di morire e ricominciare un’altra vita. E non parliamo poi dei dalit, o intoccabili e “fuori casta”, con cui le caste superiori non devono nemmeno venire in contatto; anzi per la strada essi devono camminare al centro per non offuscare con la loro ombra le mura delle case delle caste alte.

In Occidente Aristotele spiegava che come per natura si uniscono maschio e femmina per la riproduzione, così deve esserci “chi per natura comanda e chi è comandato al fine della conservazione” (“Politica”, libro I), e questo rapporto di dominio si fondava su una diseguaglianza originaria, per cui si nasce liberi o schiavi, maschio e femmina, “l’uno per natura superiore, l’altra inferiore, l’uno comanda, l’altra è comandata”, e da qui scendevano a cascata le altre diseguaglianze, sociali, di classe ed etniche, per cui erano contrapposti padroni e servi, liberi dal lavoro e costretti ai lavori necessari, cittadini e non cittadini, greci e barbari, nativi e meteci (che erano poi i meticci, gli immigrati).

Fu perciò una grande rivoluzione religiosa e antropologica che Gesù, in nome di Dio Padre nostro, padre di tutti, rompesse il muro di separazione tra Giudei e Greci, tra Ebrei e Gentili e affermasse la radicale eguaglianza di tutti gli esseri umani, fino a dire con Paolo non solo che non c’è più né Giudeo né Greco, ma non c’è più maschio e femmina, non c’è Barbaro o Scita, schiavo e libero, e non c’è più circoncisione e incirconcisione (Col. 3, 11): e questo voleva dire abrogare quella divisione tra eletti e scartati che, secondo le Scritture ebraiche era addirittura di diritto divino, tanto da essere poi per sempre impressa nella carne dei membri del popolo eletto mediante la circoncisione.

Ora questa radicale unità ed eguaglianza di tutti gli uomini e le donne che Gesù ha affermato e realizzato attraverso la croce veniva ad adempiere quelle promesse messianiche, che già nell’Antico Testamento avevano prefigurato l’unità di tutte le famiglie della terra; basta pensare alla profezia di Isaia che annunciava che dalle loro spade fabbricheranno vomeri, dalle loro lance falci, nessuna nazione alzerà più la spada contro l’altra e non impareranno più l’arte della guerra (Is. 2, 4), o la profezia di Michea che annunciava che potranno sedersi ciascuno tranquillo sotto la sua vite e sotto il suo fico senza nessuno che li spaventi, e addirittura che tutti i popoli avrebbero camminato insieme ognuno nel nome del suo Dio (Mich. 4, 4-5): cioè tutte le discriminazioni sarebbero cadute, mentre tutte le identità sarebbero state salvate. La novità del Cristo, che poi significa Messia, portava cioè quel cambiamento radicale che doveva segnare il passaggio dall’età della profezia, dell’annuncio, a quella della realizzazione delle promesse messianiche.

Purtroppo però questa antropologia nuova non è entrata di fatto nella storia successiva, e nemmeno, se non con molta fatica, nello stesso cristianesimo. È vero che, come dice la seconda lettera di Pietro un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno al cospetto di Dio (2Pt 3,8), ma fatto sta che il pensiero della diseguaglianza ha continuato a dominare la storia. Ed è stata questa cultura della diseguaglianza che ha fondato e legittimato le società signorili e feudali, e innumerevoli forme storiche concrete di società inegualitarie, castali, razziste, sessiste e classiste.

La conquista dell’America

Per venire a tempi più recenti, possiamo dire che questa cultura della diseguaglianza è all’opera e produce il massimo della sua capacità discriminatoria agli albori della modernità, quando, con la conquista dell’America, gli europei si imbattono negli Indios, e parte la grande vicenda della colonizzazione. Nel 1500 si ricorre infatti all’antropologia di Aristotile, per dire che vi sono uomini e collettività che non essendo per limiti innati dotati di ragione sufficiente, sono incapaci di essere liberi e padroni di se stessi e quindi giustamente assoggettati dagli Spagnoli. È la tesi che Francisco De Vitoria confuterà nella sua famosa Relectio de Indis: ma intanto gli Indios vengono assoggettati e questo pensiero della diseguaglianza arriverà fino ad Hegel, a Croce, a De Gobineau e ai razzismi del Novecento europeo.

È proprio a partire dalla conquista dell’America che si sviluppa infatti nella filosofia dell’Occidente la concezione che teorizza una diseguaglianza per natura tra gli esseri umani, come dirà apoditticamente il grande dizionario Larousse alla fine del XIX secolo: “Nul ne contestera que la race blanche ne soit superieure à toutes les autres”. L’idea antica che tra gli esseri umani ci fossero i superiori e gli inferiori, i perfetti e i malriusciti, trova nella percezione europea degli Indios “scoperti” o incontrati in America la conferma irrefutabile. Se ci sono uomini e meno uomini, gli Indios ne forniscono la prova. Comincia Colombo, che non riconosce “l’altro” (come ha mostrato Cvetan Todorov in «La conquista dell’America: il problema dell’”altro”») non riconosce colui che a suo parere non “sa parlare” (in verità non sa parlare lo spagnolo), e poi c’è il conquistatore Francisco Pizarro che ha ben ragione di sentirsi superiore dal momento che con soli 168 soldati riesce a prevalere su un esercito di 80.000 uomini, e prende prigioniero Atahualpa, il re degli Inca, nella città andina di Cajamarca, uccidendo settemila Indios (ma la verità è che aveva i cavalli, non ancora domesticati nel continente americano, e perciò aveva la cavalleria, e i fucili e l’acciaio delle corazze e delle spade e delle lance, ancora ignoti agli indiani che combattevano potendo ferire, ma non uccidere); e poi c’è Hernan Cortés, che impone con la violenza il meticciato facendo sposare agli spagnoli le più belle indiane e sposando lui stesso una principessa indiana, la Malinche, che poi naturalmente ripudia, per popolare le terre conquistate con una razza nuova, non più di indigeni, ma di mestizos, cioè di indiani spagnolizzati. Ci penserà poi la teologia di Juàn de Sepùlveda a suggellare l’inferiorità degli Indios, ma purtroppo questa teorizzazione della diseguaglianza non resta isolata, si pianta nella cultura europea fino ad essere espressa nel punto più alto della filosofia occidentale, cioè nell’opera di Hegel. Il grande filosofo tedesco ha delle pagine terribili sulla presunta inferiorità degli Indios. “Dal tempo in cui gli Europei sono approdati in America, gli indigeni sono scomparsi a poco a poco, al soffio dell’attività europea”, dice nelle “Lezioni sulla filosofia della storia”, e lo spiega così: “Della civiltà americana quale si era venuta evolvendo specialmente nel Messico e nel Perù… sappiamo solo che essa era del tutto naturale, e che doveva quindi scomparire al primo contatto con lo spirito”. Ma lo scarto tra lo spirito e la natura è anche uno scarto nella stessa natura; la scomparsa degli indigeni dipende dunque per Hegel “dall’inferiorità di questi individui sotto ogni aspetto, perfino quanto a statura”.

Nel rievocare queste pagine, il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli sottolinea come esse abbiano fatto scuola, fino a Croce. Anche il patriarca della cultura italiana adotta infatti il criterio storiografico di un’opposizione tra popoli della natura e popoli dello spirito, e scrive: “Gli uomini si distinguono tra uomini che appartengono alla storia e uomini della natura, uomini capaci di svolgimento e uomini di ciò incapaci; e verso la seconda classe di esseri, che zoologicamente e non storicamente sono uomini, si esercita, come verso gli animali, il dominio, e si cerca di addomesticarli e di addestrarli, e in certi casi, quando altro non si può, si lascia che vivano ai margini… lasciando che di essa si estingua la stirpe, come accadde di quelle razze americane che si ritiravano e morivano (secondo l’immagine che piacque) dinanzi alla civiltà da loro insopportabile”[1].

E che la soluzione migliore per gli Indiani fosse lo sterminio, è stato teorizzato da eminenti studiosi. Nel 1782 a Pittsburgh il giurista e letterato H. Henry Brackenridge così si esprime a proposito degli Indiani: “Essi hanno l’aspetto umano e forse fanno parte della specie umana”; ma “la natura dell’indiano è feroce e crudele… Il loro sterminio sarebbe utile al mondo e onorevole per coloro che vi provvederanno”.

Ma purtroppo l’Indio è solo un prototipo; infatti la diseguaglianza teorizzata per loro riguarderà poi i neri, gli ebrei ed ogni altra categoria di diversi. Locke, all’inizio della rivoluzione industriale, assimilerà agli Indios i proletari: “un manovale non è in grado di ragionare meglio di un indigeno”. E Spencer, il promotore ottocentesco della società dell’utile, applicando alla sociologia e alla società la teoria darwiniana dell’evoluzione, scriverà nel suo “Sistema di filosofia sintetica”: Tutti gli uomini sono come sottoposti a un giudizio di Dio, “se sono realmente in grado di vivere, essi vivono, ed è giusto che vivano. Se non sono realmente in grado di vivere, essi muoiono, ed è giusto che muoiano”.

Il punto d’arrivo di questa linea di pensiero è Nietzsche, il vero teorico della società della selezione. Per Nietzsche non si può parlare di uomini “eguali”: questa è l’illusione dei deboli. In diversi punti delle sue opere Nietzsche mette sotto accusa l’eguaglianza, intesa come una grande follia. “Così parla a me la giustizia: gli uomini non sono tutti eguali. E neppure devono diventarlo!” (Zarathustra); l’eguaglianza “è volontà di negazione della vita, principio di dissoluzione e di decadenza” (Al di là del bene e del male). Di qui gli effetti, le conseguenze e gli scopi dell’eguaglianza: trasformare l’umanità in sabbia: tutti molto eguali, molto piccoli, molto tollerabili, molto noiosi”); essa porta a un “guazzabuglio sociale”, a una degenerazione della razza a .. sopprimere “la selezione” e rovinare la specie (Frammenti postumi). Il razzismo ha pertanto la sua copertura filosofica. Da tutto questo veniamo, altro che Salvini!

La svolta

Ma a un certo punto c’è una svolta epocale. La svolta arriva dopo i genocidi del Novecento, quello degli Armeni prima, e quello degli Ebrei poi, e arriva dopo quella tragedia della volontà di potenza che era stata la seconda guerra mondiale. L’umanità capisce il suo lungo errore, decide di cambiare pagina: sull’eguaglianza di tutti gli uomini e le donne e di tutte le Nazioni grandi e piccole è fondata l’ONU, viene messa fuori legge la guerra, il principio di eguaglianza è assunto come irrevocabile nella Costituzione italiana e nel costituzionalismo postbellico. Sembrava davvero l’inizio della realizzazione delle promesse messianiche. Invece è arrivata la guerra fredda, il terrore atomico, il riarmo nucleare; e quando i blocchi sono caduti e il comunismo è finito, il capitalismo, che era stato messo sotto scacco dalle politiche comuniste, socialdemocratiche, keynesiane e dalle stesse Costituzioni, ha preso la sua rivincita e ha potuto prendere il dominio del mondo nelle forme della globalizzazione. A questo punto la diseguaglianza è tornata a dominare la politica, l’economia e la finanza, e si è aperto il baratro di quella che papa Francesco chiama oggi la società dello scarto.

La società dello scarto

La nuova società dello scarto, che mette fuori gioco i non scelti, i non salvati, gli esuberi, i senza casa e i senza lavoro, è peggiore della vecchia società dello sfruttamento; lo ha spiegato il papa nella “Evangelli Gaudium” e lo ha ribadito nella recentissima intervista al Sole 24 ore (7 settembre 2018): “non si tratta semplicemente del fenomeno conosciuto come azione di sfruttamento e oppressione, ma di un vero e proprio fenomeno nuovo. Con l’azione dell’esclusione colpiamo nella sua stessa radice i legami di appartenenza alla società a cui apparteniamo dal momento che in essa non si viene semplicemente relegati negli scantinati dell’esistenza, nelle periferie, non veniamo privati di ogni potere, bensì veniamo sbattuti fuori. Chi viene escluso non è sfruttato, ma completamente rifiutato, cioè considerato spazzatura, avanzo, quindi spinto fuori della società. Non possiamo ignorare che un’economia così strutturata uccide perché mette al centro e obbedisce solo al denaro: quando la persona non è più al centro, quando fare soldi diventa l’obiettivo primario e unico, siamo al di fuori dell’etica e si costruiscono strutture di povertà schiavitù e di scarti”.

E noi possiamo aggiungere che mentre gli sfruttati almeno potevano lottare per riscattarsi, gli scartati non possono nemmeno lottare perché di fatto “non ci sono”. Non ci sono.

Il popolo dei migranti

Allo stesso modo non ci sono, non ci devono essere i migranti.
[segue]

Meditando. Siamo sulla terra una sola famiglia, un solo mondo umano orientato verso il futuro.

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FESTA DI TUTTI I SANTI – Ap 7,2-4.9-14; Sal 23; 1 Gv 3,1-3; Mt 5,1-12 -
di Ernesto Balducci
La grande tribolazione è anche il morire e tutti coloro che son segnati da questa condanna e la vivono con amore, con speranza, sono nella santità. Allora il nostro codice di santità è vasto come il mondo, senza nulla derogare a quelle che sono le indicazioni profetiche di Gesù.
È sufficiente superare l’inciampo delle mediazioni perché sentiamo che veramente siamo sulla terra una sola famiglia, un solo mondo umano orientato verso il futuro. In questa tensione scopriamo le contraddizioni vere, serie del nostro esistere in questo tempo. Fino ad ora siamo vissuti prigionieri nell’isola culturale che ci ha modellato. Anche i santi sugli altari spesso rispondono più ai modelli della cultura che è nostra che non ai modelli della coscienza prima. Ci sono dei santi sugli altari che hanno bruciato le streghe, ci sono dei santi che hanno incitato i crociati ad ammazzare gli infedeli. Sono figli della nostra cultura; anche se qualcosa della coscienza prima si riflette in loro.
Noi non abbiamo più dei modelli da additare nel passato, salvo qualche eccezione come quella di Francesco di Assisi, perché siamo alle frontiere della cultura che ci ha partoriti. Per questo i santi, quelli ufficiali, ci dicono sempre meno. Non è per mancanza di devozione, ma perché siamo dislocati in un altro spazio storico, quello in cui batte ormai l’appello al trascendimento della diversità delle religioni, nessuna delle quali ha la pietra filosofale per salvarci.
Non sappiamo quel che saremo! Noi andiamo verso un futuro in cui la nostra identità recondita si farà palese. In questo momento non possiamo che rifarci alle indicazioni profetiche del Vangelo. Dove troverò io, adesso, i rappresentanti di ciò che saremo? Li troverò nei miti, nei pacifici, negli uomini inermi, in coloro che hanno ripugnanza a far forza sull’uomo, in coloro che sono gli sconfitti di oggi, che non giocano di furbizia per prevalere, non si appoggiano sui forti per far carriera.
Dove li trovate? Ci sono, ma sono anonimi, perché su di loro non si posa mai l’occhio artificiale che è il mezzo di informazione. Essi non sono degni di entrare nello spazio informativo. Hanno il futuro dalla loro parte perché vivono respirando in quella coscienza prima di cui ho parlato.
In questa innumerevole schiera forse ci siamo anche noi, con una parte di noi stessi, perché per quanto viviamo nelle due società, in quella futura che è già dentro di noi e in quella attuale, prevale in noi il desiderio di una società diversa in cui sia possibile dare a Dio un solo nome. Ora Dio non è Uno, è Molti, perché siamo molti noi, siamo divisi.
Dio non lo conosciamo in quanto ognuno lo conosce a modo suo, ma come Egli è non lo conosciamo. Il segreto per conoscerlo è che noi superiamo la nostra divisione. Solo allora potremo dare un nome a Dio; per ora Dio è sempre un idolo della nostra tribù.
Ecco come il discorso sulla santità si spoglia delle sovrastrutture accumulatesi nel corso dei tempi e diventa il grande discorso della pace. Questa liturgia di pace celebrata nei cieli, secondo la visione arcaica dell’Apocalisse, ci dice che dobbiamo muoverci verso quel mondo perché il tempo è arrivato. In questo giorno, come sempre mi accade, provo venerazione per i santi anonimi innumerevoli, che non hanno monumenti, che non hanno neppure lapidi, che sono scomparsi dalla memoria, se non ci fosse una memoria diversa, quella che si chiama simbolicamente «il libro della vita», in cui il loro nome è segnato. In quel libro, sfogliandolo, non trovate in evidenza Napoleone o Alessandro, perché i nomi grandi non ci sono. Forse avranno anch’essi un posto perché nessuno di noi deve avere tanta durezza di cuore da escludere qualcuno dal Libro della vita.
La santità anonima la vedo splendere in tanti volti semplici, in tante persone miti. So che questo elenco ha già i suoi nomi: nelle carceri, nelle zone dove la civiltà non ha portato il suo beneficio e il suo maleficio, nei malati, in coloro che sono nell’ ombra dell’agonia, in coloro che sono «nella grande tribolazione» come dice con parola misteriosa e potente la Scrittura. La grande tribolazione è anche il morire e tutti coloro che son segnati da questa condanna e la vivono con amore, con speranza, sono nella santità. Allora il nostro codice di santità è vasto come il mondo, senza nulla derogare a quelle che sono le indicazioni profetiche di Gesù.
La storia ufficiale è una enorme struttura che ha sotto una cariatide che la regge: è la santità, degli anonimi. Se si spostassero, cadrebbe tutto. È la loro santità che sorregge ancora il mondo e ci dà diritto a sperare.
Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 1

Appello

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COVID-19: CONTRO LA POVERTÀ, INDENNIZZI E REDDITO D’EMERGENZA
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Fabrizio Barca, Enrico Giovannini e Cristiano Gori: “Per il REM è necessario estendere i termini per le domande e semplificare le procedure. Per i lavoratori autonomi, un sostegno commisurato alle condizioni economiche dei beneficiari”.
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Roma, 26 ottobre 2020_ Apprezziamo che al varo dell’inasprimento delle misure di contenimento del contagio con il DPCM 24 ottobre, abbia corrisposto l’annuncio da parte del Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, che tale provvedimento sarà accompagnato dall’introduzione di misure di indennizzo per tutte le categorie colpite. Apprezziamo inoltre che, come ribadito dal Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali Nunzia Catalfo, esse includeranno l’estensione per un mese del Reddito di Emergenza (Rem). Anche se sarebbe stato opportuno che tutte queste misure fossero contestuali allo stesso DPCM, al fine di dare immediate certezze all’intera popolazione.

L’intervento di estensione del Rem è peraltro particolarmente urgente in quanto, dal 15 ottobre non è più possibile fare domanda per ricevere questo sostegno destinato a chi non può accedere ad altri ammortizzatori sociali, cioè la parte più debole della società italiana.

Il Rem – proposto a marzo dai firmatari di questo testo – era stato introdotto a maggio per assicurare un contributo monetario alle famiglie in grave difficoltà economica e prive di altri sostegni pubblici durante la prima ondata del Covid-19. Era una misura temporanea – tre mensilità al massimo – e di importo variabile tra 400 euro mensili per un singolo e 800 per i nuclei più numerosi. Purtroppo, lo hanno ricevuto molte meno persone di quelle previste: 700mila rispetto ai due milioni di individui aventi diritto. Questo esito non sorprende: il Rem era stato pensato come una misura da ottenere nel modo più semplice e rapido possibile, ma è mancata un’adeguata informazione alla popolazione destinataria della misura e sono state previste procedure molto complesse, che hanno probabilmente scoraggiato molte persone dal presentare la domanda.

La seconda ondata della pandemia sta investendo ora l’Italia e i più deboli rischiano nuovamente di doverla affrontare privi di un sostegno pubblico. Per questo, non basta erogare una nuova mensilità a chi ha già iniziato a percepire il Rem, ma è necessario e urgente riaprire i termini per la presentazione delle domande almeno fino a fine anno, pronti a nuove estensioni automatiche in relazione alle misure di contenimento che verranno assunte. E’ inoltre necessario prevedere una semplificazione delle procedure che ne regolano il funzionamento, facendo tesoro dell’esperienza finora maturata e dei suggerimenti da noi formulati inizialmente per il disegno della misura. Siamo pronti a confrontarci con le autorità su questi profili.

Anche con riguardo al complesso del lavoro autonomo, è possibile migliorare la qualità dell’intervento, facendo riferimento alla proposta di un Sostegno di emergenza per il lavoro autonomo (Sea) da noi avanzata il 30 marzo scorso insieme al Rem , il quale prevede un importo variabile in funzione delle diverse situazioni. In particolare, poiché l’obiettivo è quello di sostenere soprattutto chi è in grave difficoltà, l’ammontare del contributo viene determinato in modo progressivo a seconda delle condizioni economiche del nucleo familiare del lavoratore autonomo. Il SEA punta, inoltre, a mantenere la capacità produttiva del lavoro, per cui il suo valore è anche parametrato alla perdita di guadagno (in proporzione al proprio volume abituale di attività), così da supportare in misura maggiore chi subisce un danno maggiore.

Fabrizio Barca, Coordinatore del Forum Disuguaglianze e Diversità (FDD)
Enrico Giovannini, Portavoce dell’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS)
Cristiano Gori, Docente di Politica sociale all’Università di Trento
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Povertà ed emergenza alimentare: la crisi si abbatte su donne e giovani

In Italia è boom di nuovi poveri, anche tra le persone in età lavorativa, e a pagare sono in particolare donne e minori: Caritas e Actionaid lanciano l’allarme e chiedono un cambio di rotta al governo. 21/10/20, su AsVis.
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Esplode in Italia il numero di persone colpite da povertà per gli effetti della crisi scatenata dal Covid-19. L’impatto economico e sociale della pandemia ha infatti innescato nel Paese nuove forme di povertà e un’emergenza alimentare mai così grave, come confermano due rilevazioni uscite nelle ultime settimane. Il rapporto 2020 di Caritas Italiana dal titolo “Gli anticorpi della solidarietà”, pubblicato il 17 ottobre, ha evidenziato che l’incidenza dei “nuovi poveri” in Italia è passata al 45% rispetto al 31% dello scorso anno; aumenta, in particolare, il peso della crisi su donne, giovani, famiglie con minori, nuclei di italiani (che ora risultano in maggioranza, 52% rispetto al 47,9 % dello scorso anno) e persone in età lavorativa. Di contro, diminuisce l’impatto della grave marginalità, la percentuale di persone senza dimora, di stranieri (magari di passaggio) e delle persone sole. “Quello che il Covid-19 ha messo in evidenza è il carattere mutevole della povertà e stiamo ora entrando in una nuova fase nel nostro Paese”, spiegano i ricercatori del Centro studi Caritas. L’organismo della Cei ha effettuato tre monitoraggi nazionali: uno ad aprile in pieno lockdown, il secondo a giugno, dopo la riapertura dei confini regionali, e il terzo a settembre dopo il periodo estivo. Secondo l’indagine, nel periodo maggio – settembre 2020 quasi una persona su due che si è rivolta alla Caritas lo ha fatto per la prima volta.

Tra marzo e maggio 2020, in piena emergenza, la rete Caritas ha registrato un forte incremento del numero di persone sostenute a livello diocesano e parrocchiale: circa 450mila persone, di cui il 30% costituito da “nuovi poveri”, cioè soggetti che per la prima volta hanno sperimentato condizioni di disagio e di deprivazione economica tali da dover chiedere aiuto. Tra questi prevalgono i disoccupati, i lavoratori precari o irregolari, i lavoratori dipendenti in attesa della cassa integrazione ordinaria o in deroga. Relativamente alla tipologia di problematica emersa, Caritas segnala in primo luogo un forte incremento dei problemi di povertà economica (legati alla perdita del lavoro e alle fonti di reddito) e le difficoltà connesse al mantenimento dell’abitazione (affitto o mutuo). Tuttavia compaiono anche fenomeni nuovi, come ad esempio le difficoltà di alcune famiglie rispetto alla didattica a distanza, manifestate nell’impossibilità di poter accedere alla strumentazione adeguata (tablet, pc, connessioni Wi-Fi).

Nel periodo giugno – agosto 2020, si intravedono segnali di miglioramento rispetto al periodo del lockdown: cala il numero degli assistiti, la media per diocesi scende da 2.990 persone (del periodo marzo-maggio) a circa 1.200. In linea con il dato generale cala anche il numero medio dei nuovi ascolti, che scendono da 868 a 305 per diocesi. Tra coloro che hanno riconosciuto dei segnali di miglioramento, il 43% delle Caritas attribuisce una risonanza anche al Reddito di emergenza (Rem), la misura del governo introdotta al fine di supportare le persone e le famiglie in condizione di necessità economica e prive di ulteriori ammortizzatori sociali. Infine, rispetto alle forme di intervento e prestazioni erogate dalle Caritas, i dati di settembre iniziano a registrare una graduale e lenta ripresa.

Caritas Italiana ha anche esaminato il funzionamento delle misure emergenziali disposte dal governo, in particolare di quelle volte a sostenere i redditi di famiglie e lavoratori. Da una rilevazione ad hoc condotta su un campione di 756 nuclei beneficiari dei servizi Caritas nei mesi di giugno-luglio 2020, il Rem è risultata la misura più richiesta (26,3%) ma con un tasso di accettazione delle domande più basso (30,2%) rispetto alla indennità per lavoratori domestici (61,9%), al bonus per i lavoratori stagionali (58,3%) e al bonus per i lavoratori flessibili (53,8%). Troppo difficile, secondo l’indagine, presentare le domande di Rem e infatti il numero di quelle accettate aumenta per chi si è fatto aiutare a compilarle dai volontari dei centri di ascolto. Il Rem è stato fruito prevalentemente da nuclei composti da adulti over 50, soprattutto single e mono-genitori con figli maggiorenni, con un reddito fino a 800 euro e bassi tassi di attività lavorativa. In generale, Rem e Reddito di cittadinanza sono considerate dalle Caritas come misure frammentarie e che necessitano di orientamento.

Secondo Caritas, per affrontare la nuova fase pandemica il Paese ha bisogno di strumenti di analisi e di intervento adeguati, in particolare: mettere in relazione i dati sulla povertà (assoluta e relativa) con quelli sui percettori delle misure di contrasto; realizzare analisi di lungo periodo per monitorare come cambiano le condizioni di vita delle persone in povertà e se e come su di esse incidano le misure pubbliche; concepire le misure nazionali di contrasto alla povertà come in continuo aggiornamento per rispondere meglio alle trasformazioni in corso; intercettare le cause strutturali della povertà.

L’altro rapporto uscito recentemente, “La pandemia che affama l’Italia: Covid-19, povertà alimentare e diritto al cibo”, realizzato da ActionAid, ha evidenziato che il lockdown ha aumentato in modo esponenziale l’insicurezza alimentare per le famiglie. “L’Italia attraversa la più grave crisi alimentare di sempre”, si legge nel Rapporto, “un ‘emergenza che colpisce in particolare donne, bambini e coloro che già vivevano in condizioni di precarietà”. E a fronte dell’aumento delle richieste di aiuto, ActionAid rileva che “solo una piccola parte delle famiglie in stato di bisogno ha ricevuto assistenza tramite i buoni alimentari, la misura di emergenza varata dal governo e erogata dai comuni”.

Da un’indagine condotta dall’organizzazione su un gruppo di oltre 300 famiglie nel Comune di Corsico, centro dell’hinterland milanese che già prima della pandemia registrava la più alta percentuale di poveri di tutti i comuni dell’area, è emerso che l’80% di chi richiede aiuto è donna tra i 22 e gli 85 anni, ben il 91% delle donne in età da lavoro è disoccupata. Nei nuclei famigliari sono presenti oltre 186 minori under 16. Il 76,85% degli intervistati ha dovuto saltare ripetutamente interi pasti per la mancanza di cibo sufficiente. Per la stragrande maggioranza delle famiglie (135) questo è accaduto più di dieci volte al mese, con punte di 20/30 episodi durante il lockdown.

Poco efficaci, secondo l’indagine, le misure del governo sotto forma di buoni spesa e distribuzione di generi alimentari e di prima necessità: “Criteri di accesso discriminatori (ad esempio la residenza), risorse insufficienti, modalità di accesso alla domanda non facilmente fruibili per tutti, tempi di erogazione in certi casi troppo lunghi emergono dall’analisi di otto comuni in tutto il territorio nazionale (Torino, Milano, Corsico, L’Aquila, Napoli, Reggio Calabria, Messina e Catania)”, si legge nel documento.

Oltre due milioni di famiglie in Italia scivoleranno nella povertà assoluta, secondo una proiezione di ActionAid, ma occorrono efficaci strategie di contrasto che siano supportate da risorse adeguate. Ad esempio, ha spiegato Roberto Sensi, Policy advisor global inequality di ActionAid Italia, “garantendo l’accesso universale a bambine e bambini alle mense scolastiche e inserendo nella prossima Legge di Bilancio un fondo di solidarietà alimentare che disponga di nuove risorse addizionali e che tenga presente della crisi attuale. Il cibo deve tornare a rappresentare un’opportunità non solo di sostenibilità e salute, ma anche di equità per tutte le comunità del nostro Paese”.

Scarica i documenti

- “Gli anticorpi della solidarietà” – Caritas Italiana

- “La pandemia che affama l’Italia: Covid-19, povertà alimentare e diritto al cibo” – ActionAid

di Andrea De Tommasi su AsVis

Mercoledì 21 Ottobre 2020, su AsVis.
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Sul sito web del Forum Disuguaglianze Diversità.
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DALLA PARTE DEGLI INVISIBILI
Editoriale di Avvenire
La tragedia dei più poveri tra noi
MARCO IASEVOLI, su Avvenire 29 ottobre 2020
[segue]

ECONOMIA E NON SOLO NEL TEMPO DELLA PANDEMIA: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.

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ECONOMIA chock da risparmio
di Roberta Carlini, su Rocca.

C’è stato un tempo nel quale si diceva che noi italiani eravamo un popolo di formiche. Che accanto al retorico elenco dell’epoca fascista – un popolo di eroi, di santi, di navigatori eccetera – bisognava aggiungere la parola «risparmiatori». Le famiglie italiane in passato mettevano da parte tanto risparmio, anche le più povere: forse un retaggio della cultura contadina, di certo un effetto del valore dato alla famiglia e all’eredità. In epoca più recente, il detto non è stato più vero. La nostra «propensione al risparmio» – ossia la parte del reddito che non viene spesa in consumi – è scesa molto. In particolare, durante la lunga crisi del 2008-2014, le famiglie hanno intaccato il loro tesoretto per far fronte ai bisogni dopo il calo del reddito causato da quella recessione. All’inizio del 2019, eravamo sotto il 10%, contro una media dell’area dell’euro di 12,7: vale a dire, meno di un euro su dieci guadagnati era messo da parte, nella media. Con il Covid 19, è cambiato tutto, siamo tornati a risparmiare molto. Il secondo trimestre del 2020 il tasso di risparmio delle famiglie italiane era più che doppio di quello osservato solo pochi mesi prima. Quasi un euro su 5. Lo stesso stava succedendo in tutt’Europa: in particolare, l’area dell’euro nel secondo trimestre di quest’anno, ossia nel periodo della prima ondata della pandemia, è stato del 24,6%. Vale a dire che un euro su 4 guadagnati veniva messo da parte, nei Paesi accomunati dall’euro. Mentre durante la scorsa crisi economica la riduzione del reddito è stata più forte di quella dei consumi, con la pandemia è successo il contrario: la riduzione dei consumi è stata molto più forte della riduzione del reddito.

le formichine prudenti
Ovvio, da un certo punto di vista. Chiusi in casa, con i negozi di beni non necessari chiusi, dove volevate che spendessimo il nostro reddito? Così, i consumi sono scesi sia perché c’erano meno soldi, che perché non si potevano materialmente spendere – nonostante gli aumenti degli acquisti online, la componente di costrizione fisica è stata determinante nel ridurre le spese. Viaggi, ristoranti, cinema, teatri, concerti: sono soprattutto i consumi «di svago» ad aver sofferto. Ma non c’è stata solo questa componente. Se fosse dipeso solo da questo, già alla fine del lockdown e nei mesi successivi avremmo visto una ripresa e anche un recupero dell’arretrato dei consumi non fatti. C’è stato e c’è anche, avverte l’Istat, un effetto lungo, dovuto a una doppia precauzione: la riduzione di comportamenti che, per quanto (nell’estate) consentiti, erano tuttavia considerati rischiosi per il contagio; e soprattutto la volontà di mettere da parte soldi in previsione di tempi bui, nell’incertezza sulla fine della pandemia e sulle sorti dell’economia. Anche chi aveva il proprio reddito ancora intatto, come i percettori di stipendio fisso, ha pensato che non ci fosse certezza del domani; e oggi, mentre ci troviamo nel mezzo di una seconda ondata del virus che in economia fa prevedere una seconda scivolata all’ingiù, è difficile dare torto alle formichine prudenti.

crisi dell’attuale modello economico
Il punto è che quel che è virtuoso per il singolo non è necessariamente buono per l’economia. Già la recessione da Covid è inedita e pesante, essendo dovuta a uno choc contemporaneo da domanda – i consumi – e offerta – la produzione. Se poi ci si aggiunge lo choc psicologico che porta all’aumento della propensione al risparmio, la prospettiva di una ripresa governata dalle leggi del mercato si allontana ancora di più. Allo stesso tempo però, anche questo choc «da risparmio», come gli altri, ci induce a ripensare al tipo di consumi, economia, società che vogliamo. Cosa che forse molte famiglie più benestanti hanno fatto. Mentre i più poveri, colpiti dalla perdita del lavoro e del reddi- to, non si trovano certo nella condizione di risparmiare di più, gli altri si stanno forse chiedendo: cosa vale la pena di comprare? Così come siamo stati tutti indotti a ragionare sulle definizioni dei lavori «essenziali», è possibile che la nuova ondata di austerità imposta dalle costrizioni fisiche ci abbia anche insinuato qualche dubbio su quali sono i consumi essenziali, di cosa abbiamo davvero bisogno, di cosa possiamo fare a meno. È un bene? Può esserlo, per chi ha contestato la società dei consumi di massa da un punto di vista etico; ma ancor di più nella prospettiva dei limiti ai consumi e alla loro tipologia che la crisi climatica dovrebbe imporci, della quale paiono essere più consapevoli i più giovani. Ma allo stesso tempo è un male, per un modello economico che senza la ripresa della domanda privata non si «riprende», o almeno non riprende a marciare come prima.

le opportunità
Qui vengono le opportunità che la nuova situazione presenta. C’è l’occasione per ripensare un modello che già non stava funzionando, soprattutto in Paesi come l’Italia. Detta così, è una proposizione teorica, molto vicina a un’utopia. Ma vista dai numeri dell’economia diventa una necessità: canalizzare l’enorme quantità di risparmio che gli italiani e gli europei stanno mettendo da parte verso investimenti utili, capaci di farci stare meglio in futuro. E adesso sappiamo che «stare meglio» – o anche solo: non ammalarsi, non morire – dipende da alcuni vecchi beni pubblici che sono stati sottofinanziati, ai quali non abbiamo più dedicato risorse; e da alcuni nuovi beni pubblici, ossia tutti quelli collegati alla salvaguardia dell’ambiente, ai quali non abbiamo mai dedicato abbastanza risorse. Dunque, non si tratta solo di usare il risparmio per fare investimenti: che già sarebbe tanto, in un Paese come l’Italia nel quale gli investimenti sono crollati durante la scorsa recessione, per poi recuperare troppo poco. Si tratta di fare gli investimenti giusti, sia direttamente attraverso la mano pubblica che indiret- tamente incentivando i privati a scegliere i beni capitali che possono portare lo sviluppo che vogliamo. L’Unione europea, nel suo piano per la ripresa, ha dato due capitoli: digitale e ambiente. Ma né l’uno né l’altro saranno investimenti «giusti» se non saranno inclusivi, cioè se non potranno essere accessibili a tutti e in grado di migliorare la vita di tutti.

una crescita felice e civile
Il primo rischio, per l’Italia, è che per massimizzare il consenso le nuove risorse pubbliche a disposizione siano dilapidate in manovre che danno soldi a pioggia, spese correnti che non portano investimenti e sviluppo; il secondo rischio, non meno grave, è che ci si concentri sul fascino delle parole nuove – come il digitale o il «green deal» – dimenticando quei beni pubblici di base dei quali proprio la pandemia ha dimostrato la necessità. I ritardi di queste settimane, tragici, hanno tutti a che vedere con beni pubblici: gli autobus e i tram; i treni; la scuola; l’università; la cultura; e naturalmente la sanità, soprattutto quella ramificata nel territorio, presente al livello della singola scuola, del singolo condominio della grande metropoli come della sperduta area interna. Allora, digitale e ambiente non sono beni a sé, alternativi, in cui investire; ma devono diventare aggettivi che caratterizzano ogni spesa e ogni investimento, soprattutto quelli appena citati, la cui geniale introduzione, nella seconda metà del Novecento, ha caratterizzato il modello europeo di società e che adesso possono essere rifinanziati e ripensati per il mondo dopo-Covid.
Una pandemia che ha mostrato la necessità di difenderci tutti insieme, pensando prima e soprattutto ai più vulnerabili per poter proteggere davvero tutti; e che dovrebbe portarci a spostare questa filosofia dalle precauzioni puramente sanitarie alle strutture portanti della nostra vita civile. In questo modo, avremmo investimenti – pubblici e privati – che usano il risparmio «in eccesso» per finanziare nuove opere pubbliche utili; e avviano una crescita felice, e civile.

Roberta Carlini
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chock da risparmio
ROCCA 1 NOVEMBRE 2020

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ECONOMIA E NON SOLO NEL TEMPO DELLA PANDEMIA: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla” (Papa Francesco).

“Fratelli tutti” UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA

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L’enciclica “Fratelli tutti” di papa Francesco in una lettura di “Noi siamo Chiesa”. Ogni azione deve tendere a riconoscere l’altro, a un incontro tra differenze, per una trasformazione degli stili di vita, per nuovi rapporti sociali

L’ enciclica “Fratelli tutti” per la complessità e la molteplicità dei temi che tratta meriterà molta attenzione di volta in volta sui vari blocchi di argomenti. Una prima lettura serve ad averne un’idea generale senza in alcun modo esaurire la riflessione.

La situazione difficile del mondo

Essa, nelle sue linee generali, riprende ampiamente il messaggio culturale e sociopolitico di papa Francesco, lo sistematizza e lo arricchisce. In particolare riprende ampiamente il documento di Abu Dhabi del febbraio del 2019 “sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” firmato dal papa con il Grande Imam Abu Al-Tayyeb dell’Università Al-Azhar del Cairo. La prima parte descrive la situazione del mondo constatandone il peggioramento per i nazionalismi emergenti, la crescita delle radicalizzazioni e delle disuguaglianze, i razzismi, le nuove povertà, la pandemia “che ci ha denudati” e ha gravemente penalizzato i più deboli, il rischio del “tutti contro tutti”, il rifiuto dei migranti, i muri, invece dei ponti, che si costruiscono un po’ dovunque, le forme ormai consolidate di schiavitù, la guerra mondiale a pezzi, i poteri economici che sovrastano i soggetti politici che dovrebbero proteggere la “casa comune” dell’umanità.

In questa descrizione si può leggere un contributo abbastanza nuovo (cap. 44 e 45) sulle tante aggressività che si esprimono mediante la comunicazione online e in tutto il mondo digitale che ha alle spalle interessi economici enormi e che è capace di forme invasive e sottili di controllo e di manipolazione. In questa descrizione non nuova delle tante cose negative dello scenario globale non vi è spazio (un solo cenno) per un approfondimento della specifica condizione della donna che è pesante e diffusa ovunque. I diversi aspetti della sua condizione di subordinazione fanno parte dei pesanti rapporti di dominio esistenti al mondo che tutti l’enciclica condanna duramente. Questa assenza ci sembra il limite principale dell’enciclica ed è coerente con la mancanza nel pontificato di papa Francesco di un impegno non formale od episodico perché la condizione femminile sia tutelata e promossa nella società e, a maggior ragione, nella Chiesa. La richiesta che l’enciclica si chiamasse “Sorelle e fratelli tutti” ci sembrava del tutto giustificata (la citazione esatta delle parole di S. Francesco poteva essere ripresa e spiegata nel testo). E’ stato anche rilevato che tra i grandi “maestri” citati tra quelli che hanno ispirato l’enciclica (S. Francesco, Martin Luther King, Desmond Tutu, Mahatma Gandhi, Charles de Foucauld) non c’è nessuna donna.

Il Samaritano, modello per la vita e per la società

L’enciclica passa poi ad un approfondimento del racconto evangelico del buon Samaritano, che viene assunto come modello generale per nuovi rapporti tra gli uomini. Il testo è particolarmente efficace nel descrivere i quattro soggetti presenti nella parabola, assunti a tipologie di comportamenti diffusi. Partendo da qui si sviluppano le linee portanti dei principali messaggi di Francesco. Essi riguardano: gli “ultimi”, i migranti, il potere economico che domina la politica, gli individualismi generalizzati che chiudono le comunità e le società in se stesse, la proprietà privata che dovrebbe essere diritto secondario rispetto ai beni comuni ed al bene comune, i nazionalismi fondati sulla xenofobia e via di questo passo. L’amore si deve praticare da una parte verso le fragilità individuali nei rapporti interpersonali che ognuno di noi incontra nella propria vita, dall’altra con quella che Francesco chiama “amicizia sociale” perché la carità si deve esprimere con l’intervenire sulle situazioni di sofferenza della casa comune (con azioni di tipo sociale, politico, culturale). Questa è la solidarietà. Poi l’enciclica fa un interessante discorso su Fraternità, Libertà e Uguaglianza. Le tre parole d’ordine della Rivoluzione francese vengono naturalmente accettate (già demonizzate dalla Chiesa a suo tempo) ma declinate in questo modo: la fraternità è la condizione indispensabile perché libertà e uguaglianza siano veramente tali. Tutta l’enciclica ruota attorno alla tutela e alla promozione dei diritti umani, a partire dagli ultimi, dagli esclusi, dai “non conosciuti”. Qualcuno ha osservato che la Chiesa mentre li promuove con convinzione dovrebbe essere più consapevole che al proprio interno essi meritano una ben maggiore tutela (per esempio quelli degli abusati dal clero pedofilo) e che, in generale, tante strutture della Chiesa dovrebbero finalmente cambiare nella direzione di quanto dice l’enciclica (per esempio nella gestione delle sue risorse economiche, argomento di assoluta attualità).

Cosa si debba intendere per popolo

L’enciclica continua su come siano da gestire correttamente i valori di ogni popolo, mantenendo le radici storiche, culturali, linguistiche ma dialogando con ogni altro Paese per capire, accettare e stabilire rapporti positivi a partire dal fatto che ogni popolo deve sentirsi parte della famiglia umana. L’accoglienza e l’integrazione dei migranti sono la base per una nuova politica che esiga però programmi globali internazionali. Il “locale” deve avere l’orizzonte del “globale” ed ogni Paese cerchi alleanze ed integrazioni coi Paesi vicini per trattare con le grandi potenze.

Il testo esamina poi in modo critico il populismo e le forme liberali di gestione del potere e vi descrive gli aspetti positivi del concetto di “popolo”. Ma qualsiasi impegno e soluzione – dice l’enciclica – “potrebbe avere ben poca consistenza, se perdiamo la capacità di riconoscere il bisogno di un cambiamento nei cuori umani, nelle abitudini e negli stili di vita. È quello che succede quando la propaganda politica, i media e i costruttori di opinione pubblica insistono nel fomentare una cultura individualistica e ingenua davanti agli interessi economici senza regole e all’organizzazione delle società al servizio di quelli che hanno già troppo potere.”

La carità è l’impegno per il bene comune

Il discorso continua su un versante più direttamente politico. La crisi del 2008 è stata un’occasione persa, gli Stati nazionali perdono potere e domina la finanza. Soprattutto – passo importante dell’enciclica – è necessaria la riforma dell’ONU, il rilancio dei rapporti internazionali e del multilateralismo che è in grave crisi dopo una fase in cui forme importanti di aggregazione si erano sviluppate, per esempio in Europa e in America Latina. In questa situazione papa Francesco richiama il ruolo dei movimenti popolari e sottolinea molto l’importanza delle organizzazioni della società civile che si impegnano per la tutela dei diritti umani e per il bene comune. Questa è carità, è amore, è l’impegno per il bene comune, per cambiare, per il dialogo, per ogni passo in avanti, anche con risultati modesti. Ogni azione deve tendere a riconoscere l’altro, deve tendere a un processo d’incontro tra differenze (senza fermare le rivendicazioni sociali), per una trasformazione degli stili di vita, per nuovi rapporti sociali. Francesco propone un “artigianato della pace” che parta dal basso e “lasci aperte sempre altre possibilità, altre considerazioni del reale, altre strade possibili, perfino dinanzi al peccato e all’errore; sempre è invocata la pluralità, mai il relativismo, sempre il gusto delle differenze, dell’inedito, del non ancora compreso; il poliedro, mai la torre di Babele, dalla pretesa unificante” (Raniero La Valle).

La memoria e il perdono

Per completare il quadro l’enciclica parla del perdono e del suo rapporto con la giustizia e poi della memoria. Non si costruisce per il futuro se non si ha sempre a mente la Shoah ed Hiroshima e Nagasaki. L’enciclica dice: “E nemmeno vanno dimenticati le persecuzioni, il traffico di schiavi e i massacri etnici che sono avvenuti e avvengono in diversi Paesi, e tanti altri fatti storici che ci fanno vergognare di essere umani. Vanno ricordati sempre, sempre nuovamente, senza stancarci e senza anestetizzarci. È facile oggi cadere nella tentazione di voltare pagina dicendo che ormai è passato molto tempo e che bisogna guardare avanti. No, per amor di Dio! Senza memoria non si va mai avanti, non si cresce senza una memoria integra e luminosa. Abbiamo bisogno di mantenere la fiamma della coscienza collettiva, testimoniando alle generazioni successive l’orrore di ciò che è accaduto», che «risveglia e conserva in questo modo la memoria delle vittime, affinché la coscienza umana diventi sempre più forte di fronte ad ogni volontà di dominio e di distruzione” (messaggio per la Giornata della pace 2020). Papa Francesco è anche esplicito sulla Chiesa e dice: “A volte mi rattrista il fatto che la Chiesa ha avuto bisogno di tanto tempo per condannare con forza la schiavitù e diverse forme di violenza.”

NO alla guerra giusta e alla pena di morte

Il papa riprende quanto già detto molte volte sulla ripresa della corsa al riarmo, in particolare per quanto riguarda le armi nucleari e constata che negli ultimi decenni si è optato “per la guerra avanzando ogni tipo di scuse apparentemente umanitarie, difensive o preventive, ricorrendo anche alla manipolazione dell’informazione. Di fatto, negli ultimi decenni tutte le guerre hanno preteso di avere una giustificazione”. Di conseguenza la Chiesa ritiene superata la dottrina della guerra giusta in certe circostanze e rilancia la proposta della Populorum Progressio per un Fondo mondiale finanziato dalla riduzione delle spese militari per eliminare la fame e per lo sviluppo dei Paesi poveri. Questa posizione netta sulla guerra è una indiretta denuncia di tutti i facili consensi del mondo cattolico nei confronti delle strutture militari ed addirittura di presenze al loro interno (nel nostro Paese i cappellani militari con l’Ordinario militare!). Ugualmente la Chiesa ha definitivamente preso posizione contro la pena di morte in qualsiasi circostanza facendo così una evidente autocritica rispetto alla sua posizione precedente. L’enciclica si conclude sul dialogo tra le religioni e sull’identità cristiana. La Chiesa, che auspica la convergenza del mondo cristiano e di tutte le religioni su queste grandi questioni, rivendica l’autonomia della politica ma «non può e non deve neanche restare ai margini» nella costruzione di un mondo migliore, né trascurare di «risvegliare le forze spirituali che possano fecondare tutta la vita sociale”. In questo modo si contribuisce a combattere a oltranza quel terrorismo che strumentalizza la religione e che combatte la libertà religiosa. Ci lascia però perplessi, al cap. 273 una citazione di papa Wojtyla che dice: “Se non esiste una verità trascendente, obbedendo alla quale l’uomo acquista la sua piena identità, allora non esiste nessun principio sicuro che garantisca giusti rapporti tra gli uomini”. Interpretato alla lettera questo passo può indicare una “esclusiva” delle religioni nell’indicare le strade per la retta convivenza sociale (e ciò è del tutto discutibile sia come affermazione di principio sia perché smentibile osservando la storia).

Fratelli tutti” completa il messaggio della Laudato Si’

Mi pare che “Fratelli tutti” esprima il filone migliore e più universale di un pontificato che viene ostacolato da tante strutture ecclesiastiche che sono retaggio dei due pontificati precedenti, di una comprensione mummificata dell’Evangelo da parte di molti, di una struttura piramidale autoreferenziale e di un accentramento eccessivo del potere nella figura del papa. L’enciclica è quindi “la voce di chi non ha voce” e sfugge anche a un certo dottrinarismo delle vecchie encicliche sociali perché “morde” nella storia. Infatti nel suo lungo ragionare si leggono sottotraccia tutte le situazioni di sofferenza esistenti e le potenzialità pure presenti nella Chiesa. Ognuno le può facilmente vedere. A noi, per esempio, appare evidente quanto i suoi contenuti siano direttamente in contrasto pesante con la linea della presidenza uscente degli USA (lo ha scritto il “Washington Post”!) e, nel nostro Paese, con l’arroganza della destra che si pretende cristiana perché “ci sono ancora coloro che ritengono di sentirsi incoraggiati o almeno autorizzati dalla loro fede a sostenere varie forme di nazionalismo chiuso e violento, atteggiamenti xenofobi, disprezzo e persino maltrattamenti verso coloro che sono diversi”. L’enciclica fa un appello universale al mondo intero perché il suo messaggio non sia ininfluente. Ma essa interessa soprattutto i cattolici perché si impegnino a cercare di fare seguire alle parole i fatti, dando testimonianza dell’Evangelo, maggiore credibilità alla loro Chiesa e così un forte contributo alla sua vera riforma ed alla sua conversione che consiste nel seguire l’esempio del Samaritano.

Roma, 11 ottobre 2020

NOI SIAMO CHIESA
“Fratelli tutti”
UN APPASSIONATO INVITO ALL’UNITÀ UMANA
22 OTTOBRE 2020 / su www.chiesadeipoverichiesaditutti.it
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Fratelli tutti: «La vita è l’arte dell’incontro». Facciamo crescere la cultura dell’incontro

di Franco Meloni

Nello scrivere dell’enciclica provo un certo ritegno perché sintetizzarne i concetti rischia di guastarne la chiarezza e diminuirne la forza comunicativa. Per evitare entrambi ricorro alla tecnica della “virgolettatura”, soffermandomi su pochi passaggi che mi piace mettere in evidenza. Formulo comunque l’invito a leggerla per intero, e poi a rileggerla per singoli argomenti, anche senza seguire l’ordine originario.
Intanto rammento gli intendimenti del Papa: “Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché [...] siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane [...] ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà”. Ecco: tre parole fondamentali, avvolte dal sogno che ne rafforza la suggestione: fraternità, amicizia sociale, dialogo. E ancora, i destinatari: «tutte le persone di buona volontà», come è consuetudine dei Papi, da Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963) in poi. Perfino nel porgere la parabola del buon Samaritano il Papa ci tiene a dire: “benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare”.
Riflettiamo sul racconto evangelico, condividendo le parole di Raniero La Valle: «la figura emblematica che fa l’identità di questa enciclica, […] è quella del Samaritano, che ci pone di fronte a una scelta stringente: davanti all’uomo ferito [...] ci sono solo tre possibilità: o noi siamo i briganti, e come tali armiamo la società dell’esclusione e dell’iniquità, o siamo quelli dell’indifferenza che passano oltre immersi nelle loro faccende e nelle loro religioni, o riconosciamo l’uomo caduto e ci facciamo carico del suo dolore: e dobbiamo farlo non solo con il nostro amore privato, ma col nostro amore politico, perché dobbiamo pure far sì che ci sia una locanda a cui affidare la vittima, e istituzioni che giungano là dove il denaro non compra e il mercato non arriva». [segue]

DIBATTITO sulla “QUESTIONE SARDA”. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno.

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lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda

gianfranco-sabattini-conv-5-ott18di Gianfranco Sabattini

Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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Paolo Fadda 10 Ottobre 2020, su L’Unione Sarda online.

La questione sarda
la-qs-giovanni-lei-spanoIn una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l’attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po’ velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l’avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l’avvilente arretratezza dell’Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.
Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell’autonomia regionale, come strumento d’autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.
Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull’utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.
Fatti già accaduti in passato – ricordiamolo – con la perdita della guida e del controllo dell’elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.
Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all’alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent’anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro). [...]

Fratelli tutti. LA MIGLIORE POLITICA.

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Avanti coraggiosamente su Politica, Economia, Lavoro… Sul reddito universale di base il Papa frena.
lampadadialadmicromicro13 Pubblichiamo il capitolo quinto dell’enciclica dedicato in massima parte all’attività politica. Il Papa la esalta mettendola su un binario virtuoso: “la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune”. Quanto non fanno i populismi e i liberalismi; mentre esalta il concetto di popolo, ridando senso e significato alla parola popolo e all’aggettivo popolare. La critica al liberalismo coincide con la critica all’economia neo liberista che mette al primo posto il mercato e le sue priorità a discapito dei bisogni del popolo, provocando ineguagliane e povertà. Occorre allora ricercare e praticare nuove forme di economia. Per questo la Politica deve riprendersi il giusto posto. Riportiamo integralmente questo periodo: “177. Mi permetto di ribadire che «la politica non deve sottomettersi all’economia e questa non deve sottomettersi ai dettami e al paradigma efficientista della tecnocrazia».[158] Benché si debba respingere il cattivo uso del potere, la corruzione, la mancanza di rispetto delle leggi e l’inefficienza, «non si può giustificare un’economia senza politica, che sarebbe incapace di propiziare un’altra logica in grado di governare i vari aspetti della crisi attuale».[159] Al contrario, «abbiamo bisogno di una politica che pensi con una visione ampia, e che porti avanti un nuovo approccio integrale, includendo in un dialogo interdisciplinare i diversi aspetti della crisi».[160] Penso a «una sana politica, capace di riformare le istituzioni, coordinarle e dotarle di buone pratiche, che permettano di superare pressioni e inerzie viziose».[161] Non si può chiedere ciò all’economia, né si può accettare che questa assuma il potere reale dello Stato”. Rimandiamo ovviamente alla lettura integrale del Capitolo, ricco di ulteriori concetti anche con proiezioni operative. Tra questi, ad esempio l’auspicata “riforma «sia dell’Organizzazione delle Nazioni Unite che dell’architettura economica e finanziaria internazionale, affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni».[151]“. Per nostra scelta ci soffermiamo solo su un punto che la nostra News ha da sempre curato e approfondito: la “questione del diritto al lavoro e del suo rapporto con il diritto al reddito minimo garantito, o reddito di cittadinanza, o dividendo sociale, o altro”. Il Papa la riprende, in parte ricalcando il solco tradizionale della dottrina sociale della Chiesa, rallentando su alcune impostazioni innovative che pur aveva cautamente avanzato. Dice il Papa: “162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo”. Poco prima aveva affermato che “il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]“. Risposte provvisorie. Ecco è proprio su questo passaggio che il Papa segna una fermata, anzi una frenata rispetto a quanto prospettato nella “Lettera ai movimenti e alle organizzazioni popolari”, laddove scriveva: “Forse è giunto il momento di pensare a una forma di retribuzione universale di base che riconosca e dia dignità ai nobili e insostituibili compiti che svolgete; un salario che sia in grado di garantire e realizzare quello slogan così umano e cristiano: nessun lavoratore senza diritti”. Bisogna approfondire l’argomento, perché probabilmente tra i due diritti fondamentali, del lavoro e del reddito, potremmo trovare una conciliazione, perfino un rapporto fecondo. Ma questo è questione troppo grande per essere trattata nello spazio di un articolo. E’ comunque importante che la approfondiamo, come ci impegnamo a fare, ulteriormente.

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CAPITOLO QUINTO
LA MIGLIORE POLITICA

154. Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso.

Populismi e liberalismi
155. Il disprezzo per i deboli può nascondersi in forme populistiche, che li usano demagogicamente per i loro fini, o in forme liberali al servizio degli interessi economici dei potenti. In entrambi i casi si riscontra la difficoltà a pensare un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture.

Popolare o populista
156. Negli ultimi anni l’espressione “populismo” o “populista” ha invaso i mezzi di comunicazione e il linguaggio in generale. Così essa perde il valore che potrebbe possedere e diventa una delle polarità della società divisa. Ciò è arrivato al punto di pretendere di classificare tutte le persone, i gruppi, le società e i governi a partire da una divisione binaria: “populista” o “non populista”. Ormai non è possibile che qualcuno si esprima su qualsiasi tema senza che tentino di classificarlo in uno di questi due poli, o per screditarlo ingiustamente o per esaltarlo in maniera esagerata.

157. La pretesa di porre il populismo come chiave di lettura della realtà sociale contiene un altro punto debole: il fatto che ignora la legittimità della nozione di popolo. Il tentativo di far sparire dal linguaggio tale categoria potrebbe portare a eliminare la parola stessa “democrazia” (“governo del popolo”). Ciò nonostante, per affermare che la società è più della mera somma degli individui, è necessario il termine “popolo”. La realtà è che ci sono fenomeni sociali che strutturano le maggioranze, ci sono mega-tendenze e aspirazioni comunitarie; inoltre, si può pensare a obiettivi comuni, al di là delle differenze, per attuare insieme un progetto condiviso; infine, è molto difficile progettare qualcosa di grande a lungo termine se non si ottiene che diventi un sogno collettivo. Tutto ciò trova espressione nel sostantivo “popolo” e nell’aggettivo “popolare”. Se non li si includesse – insieme ad una solida critica della demagogia – si rinuncerebbe a un aspetto fondamentale della realtà sociale.

158. Esiste infatti un malinteso. «Popolo non è una categoria logica, né è una categoria mistica, se la intendiamo nel senso che tutto quello che fa il popolo sia buono, o nel senso che il popolo sia una categoria angelicata. Ma no! È una categoria mitica […] Quando spieghi che cos’è un popolo usi categorie logiche perché lo devi spiegare: ci vogliono, certo. Ma non spieghi così il senso dell’appartenenza al popolo. La parola popolo ha qualcosa di più che non può essere spiegato in maniera logica. Essere parte del popolo è far parte di un’identità comune fatta di legami sociali e culturali. E questa non è una cosa automatica, anzi: è un processo lento, difficile… verso un progetto comune».[132]

159. Ci sono leader popolari capaci di interpretare il sentire di un popolo, la sua dinamica culturale e le grandi tendenze di una società. Il servizio che prestano, aggregando e guidando, può essere la base per un progetto duraturo di trasformazione e di crescita, che implica anche la capacità di cedere il posto ad altri nella ricerca del bene comune. Ma esso degenera in insano populismo quando si muta nell’abilità di qualcuno di attrarre consenso allo scopo di strumentalizzare politicamente la cultura del popolo, sotto qualunque segno ideologico, al servizio del proprio progetto personale e della propria permanenza al potere. Altre volte mira ad accumulare popolarità fomentando le inclinazioni più basse ed egoistiche di alcuni settori della popolazione. Ciò si aggrava quando diventa, in forme grossolane o sottili, un assoggettamento delle istituzioni e della legalità.

160. I gruppi populisti chiusi deformano la parola “popolo”, poiché in realtà ciò di cui parlano non è un vero popolo. Infatti, la categoria di “popolo” è aperta. Un popolo vivo, dinamico e con un futuro è quello che rimane costantemente aperto a nuove sintesi assumendo in sé ciò che è diverso. Non lo fa negando sé stesso, ma piuttosto con la disposizione ad essere messo in movimento e in discussione, ad essere allargato, arricchito da altri, e in tal modo può evolversi.

161. Un’altra espressione degenerata di un’autorità popolare è la ricerca dell’interesse immediato. Si risponde a esigenze popolari allo scopo di garantirsi voti o appoggio, ma senza progredire in un impegno arduo e costante che offra alle persone le risorse per il loro sviluppo, per poter sostenere la vita con i loro sforzi e la loro creatività. In questo senso ho affermato con chiarezza che è «lungi da me il proporre un populismo irresponsabile».[133] Da una parte, il superamento dell’inequità richiede di sviluppare l’economia, facendo fruttare le potenzialità di ogni regione e assicurando così un’equità sostenibile.[134] Dall’altra, «i piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero considerare solo come risposte provvisorie».[135]

162. Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro».[136] Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, «non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro».[137] In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo.

Valori e limiti delle visioni liberali
163. La categoria di popolo, a cui è intrinseca una valutazione positiva dei legami comunitari e culturali, è abitualmente rifiutata dalle visioni liberali individualistiche, in cui la società è considerata una mera somma di interessi che coesistono. Parlano di rispetto per le libertà, ma senza la radice di una narrativa comune. In certi contesti, è frequente l’accusa di populismo verso tutti coloro che difendono i diritti dei più deboli della società. Per queste visioni, la categoria di popolo è una mitizzazione di qualcosa che in realtà non esiste. Tuttavia, qui si crea una polarizzazione non necessaria, poiché né quella di popolo né quella di prossimo sono categorie puramente mitiche o romantiche, tali da escludere o disprezzare l’organizzazione sociale, la scienza e le istituzioni della società civile.[138]

164. La carità riunisce entrambe le dimensioni – quella mitica e quella istituzionale – dal momento che implica un cammino efficace di trasformazione della storia che esige di incorporare tutto: le istituzioni, il diritto, la tecnica, l’esperienza, gli apporti professionali, l’analisi scientifica, i procedimenti amministrativi, e così via. Perché «non c’è di fatto vita privata se non è protetta da un ordine pubblico; un caldo focolare domestico non ha intimità se non sta sotto la tutela della legalità, di uno stato di tranquillità fondato sulla legge e sulla forza e con la condizione di un minimo di benessere assicurato dalla divisione del lavoro, dagli scambi commerciali, dalla giustizia sociale e dalla cittadinanza politica».[139]

165. La vera carità è capace di includere tutto questo nella sua dedizione, e se deve esprimersi nell’incontro da persona a persona, è anche in grado di giungere a un fratello e a una sorella lontani e persino ignorati, attraverso le varie risorse che le istituzioni di una società organizzata, libera e creativa sono capaci di generare. Nel caso specifico, anche il buon samaritano ha avuto bisogno che ci fosse una locanda che gli permettesse di risolvere quello che lui da solo in quel momento non era in condizione di assicurare. L’amore al prossimo è realista e non disperde niente che sia necessario per una trasformazione della storia orientata a beneficio degli ultimi. Per altro verso, a volte si hanno ideologie di sinistra o dottrine sociali unite ad abitudini individualistiche e procedimenti inefficaci che arrivano solo a pochi. Nel frattempo, la moltitudine degli abbandonati resta in balia dell’eventuale buona volontà di alcuni. Ciò dimostra che è necessario far crescere non solo una spiritualità della fraternità ma nello stesso tempo un’organizzazione mondiale più efficiente, per aiutare a risolvere i problemi impellenti degli abbandonati che soffrono e muoiono nei Paesi poveri. Ciò a sua volta implica che non c’è una sola via d’uscita possibile, un’unica metodologia accettabile, una ricetta economica che possa essere applicata ugualmente per tutti, e presuppone che anche la scienza più rigorosa possa proporre percorsi differenti.
[segue]