Editoriali

27 gennaio “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”

——————————————————-
Il 1° novembre 2005 nella ricorrenza dei 60 anni dalla liberazione dei campi di concentramento l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha istituito la “Giornata internazionale di commemorazione in memoria delle vittime della Shoah”, ogni anno, il 27 gennaio.
——————————————–
giorno_della_memoria_2021-jpg-742x742_q85-1
Il Presidente nazionale ANPI, Gianfranco Pagliarulo, sul Giorno della Memoria: “Il 27 gennaio non sia solo una celebrazione, non si banalizzi una tragedia che ha segnato l’umanità”
“Il 27 gennaio il Paese si raccoglierà intorno a volti e vicende che hanno segnato tragicamente la storia del ‘900. L’ANPI auspica fortemente che questo giorno non si esaurisca in una pur necessaria celebrazione, in una banalizzazione di un evento mostruoso per l’umanità, bensì sia un momento di riflessione coinvolgente, la base di un messaggio di civiltà, antifascismo, e democrazia che proviene dal sangue dei campi di concentramento. La chiamiamo memoria attiva, perché il ricordo non ha senso se non si esercita la sua portata educativa nel presente. Ogni giorno, ogni incontro, ogni impegno, ogni battaglia. È un dovere, oltreché l’unico omaggio possibile, perché tangibile e duraturo, alle vittime della deportazione e ai combattenti per la libertà”.
Gianfranco Pagliarulo – Presidente nazionale ANPI
25 gennaio 2021
—————————————————
MEMORIA ATTIVA
27 gennaio, Giorno della Memoria: il manifesto dell’ANPI.
Iniziative in tutta Italia promosse e co-promosse dai Comitati provinciali e dalle Sezioni dell’ANPI
.
——————————————-
—-Oggi succede anche questo—-
I negazionisti compiono un nuovo olocausto
di Carla Maria Casula

Il 15,6% degli Italiani nega l’esistenza dell’olocausto. È quanto emerge dal rapporto Eurispes 2020. Una percentuale che desta allarme e nella giornata dedicata alla Memoria risuona come blasfema.
Oltre alle motivazioni che attingono linfa dall’humus politico, oltre all’ignoranza (intesa come “non conoscenza” della tematica, della storia e del contesto politico), amplificata dalle notizie false o manipolate che circolano nella Rete, ci si domanda che cosa possa indurre un numero allarmante di individui a negare una delle pagine più vergognose e strazianti della storia dell’umanità.
Rispetto a coloro, per lo più appartenenti a frange di estrema destra, che a rischio di provvedimenti penali celebrano gli orrori della Shoah, inneggiando alla follia nazista che ha progettato la “soluzione finale”, i negazionisti (che scelgono questa condizione per convenienza, giacché, molti di essi, in realtà, aderiscono alle ideologie filonaziste) sono più subdoli, perché di fatto negano l’argomento della disputa, quindi non si espongono. E, restando in quel limbo artefatto, non si assumono la responsabilità del proprio pensiero, dunque quella posizione, scelta con oculatezza, li rende esenti da critiche, rimproveri e meritata indignazione.
Ma non si creda che negare l’olocausto sia meno grave che condividerlo. Oltre all’esecranda condivisione e glorificazione dello sterminio di milioni di Ebrei, anche il negazionismo concorre a rinnovare quell’orrore. Perché negare equivale a disconoscere l’inferno dei lager, a calpestare la disperazione dei martiri uccisi per un cognome ebreo, a infangare l’atrocità delle torture, della fame, della sete, del sonno abortito in quei pancacci dei dormitori, simili a loculi sporchi e sovraffollati. Perché negare significa oltraggiare il pianto dei bambini e delle gestanti, vittime degli esperimenti medici senza anestesia, significa dileggiare le urla disperate di coloro che non superavano la selezione, in quanto ritenuti inabili, e venivano condotti nelle camere a gas.
Ed è naturale chiedersi come sia possibile negare quegli eventi storici di cui abbiamo testimonianze fotografiche, diaristiche, architettoniche. Il campo di concentramento di Auschwitz I, rimasto intatto (compresi i forni crematori, le camere a gas, il blocco 10 degli esperimenti, il muro della morte), oggi adibito a museo della Shoah, racconta la catalogazione meticolosa, effettuata dai Nazisti, di fotografie, in particolare di bambini, sottoposti a esperimenti medici, la raccolta di montagne di capelli dei deportati, la catasta di scarpe e di altri oggetti personali appartenuti agli internati. Abbiamo gli scritti di Primo Levi e di altri sopravvissuti, i resoconti lucidi, dettagliati, convergenti dei superstiti, tra cui Samuel Modiano e Liliana Segre.
Date le succitate prove concrete e inoppugnabili, sembra impossibile che individui, dotati di funzioni cognitive integre, possano negare ciò che risulta palesemente innegabile. Eppure accade, nei contesti pubblici e nel privato. Ed è evidente che ciò che per gli altri è logico, per i negazionisti non lo sia: gli accadimenti storici, definiti appunto “storici” in quanto suffragati da prove e testimonianze, non possono essere sposati o meno, a seconda della fede politica e religiosa, della formazione culturale, della mentalità, del tornaconto personale. Non è ammissibile poter scegliere se credere e accettare, oppure disconoscere. La verità storica non consente questa seconda opzione.
E se le lodevoli iniziative organizzate nell’ambito della Giornata della Memoria, volte a sensibilizzare nei confronti di questa immane tragedia storica, possono sortire effetti positivi tra i più giovani, si rivelano pressoché inutili verso i negazionisti incalliti, ciechi e sordi persino di fronte all’orrore tatuato con cifre di morte sull’avambraccio dei deportati.
Uno dei cavalli di battaglia dei negazionisti è rappresentato dalla dimostrazione di falsità del diario di Anna Frank. L’obiettivo è quello di negare, muovendo dalla non autenticità di alcune parti dell’opera, l’esistenza storica della ragazzina, la deportazione, il suo inferno, prima nel lager di Auschwitz–Birkenau, poi di Bergen-Belsen e, infine, sconfessare l’olocausto. In pratica, non potendo smentire in nessun altro modo la granitica verità storica, ci si appiglia ad alcuni dettagli, strumentalizzandoli, e utilizzando il subdolo argomento “Falsus in uno, falsus in omnibus”, per negare la Shoah.
Otto Frank, dopo la morte della figlia, revisionò l’opera, omettendo alcuni aneddoti personali della giovane, modificò alcune parti e ne aggiunse delle altre. Ma questo intervento, atto a preservare l’intimità di Anna e a rendere gli scritti della ragazzina più fruibili in vista della pubblicazione, nulla toglie all’autenticità generale del diario, al suo valore come testimonianza diretta prima della cattura e non inficia in alcun modo l’esistenza storica della giovane, né la sua deportazione nei campi di concentramento, né la veridicità dell’olocausto. Eppure c’è chi getta discredito nei confronti della figura dell’adolescente ebrea, negando la sua esistenza, o definendola mistificatrice. Sottraendola, di nuovo, ai suoi anni migliori e uccidendola per la seconda volta.
Nell’immaginario collettivo i numeri sono effimeri, ma ci sono cifre che pesano come macigni.
Quel 15,6% di Italiani che nega l’olocausto ha rimesso in moto i vagoni-bestiame, sigillati e dotati esclusivamente di prese d’aria, che trasportavano i deportati verso l’inferno, con temperature rigidissime o al caldo asfissiante, senza cibo, né acqua e senza la possibilità di usufruire di servizi igienici, utilizzando un secchio nel quale espletare i bisogni fisiologici. Quel 15,6% che nega l’olocausto ha riacceso l’agonia per la selezione e ha fatto riecheggiare le urla di chi è stato dichiarato inabile e condotto nelle camere a gas. Quel 15,6% ha compiuto un nuovo olocausto.

Carla Maria Casula
——————————————————————
1513ff03-d55e-4194-9dc8-ff743ee21969
27 Gennaio 2021 –
La Giornata della Memoria dei Rom e Sinti
Scritto da Santino Spinelli

La Giornata della Memoria dei Rom e Sinti
In vista della Giornata della Memoria il signor Emanuele Filiberto di Savoia, che preferisce restare cittadino svizzero pur dicendo che si sente italiano, ha inviato una lettera alla comunità ebraica italiana per chiedere perdono a nome di tutta la sua famiglia, che lui definisce “la Real Casa di Savoia”, per le leggi razziali emanate nel 1938 dall’allora re d’Italia Vittorio Emanuele III, suo bisnonno. Nella lettera cita la persecuzione nazifascista contro gli ebrei, definiti giustamente “sacre vittime”, ma non c’è neppure un cenno a quella contro i rom e sinti. Nessun cenno alle loro sacre vittime. Eppure almeno 500 mila rom e sinti furono trucidati dai nazi-fascisti. In Italia i Savoia hanno appoggiato la politica di discriminazione, di deportazione e di internamento dei fascisti non solo verso gli ebrei ma anche contro rom e sinti italiani, all’epoca sudditi del Regno d’Italia dei Savoia.
Il 27 gennaio, giorno della liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche, è stato eletto come Giornata della Memoria per ricordare le vittime dell’aberrazione nazi-fascista. Il problema è che nella Legge del Luglio del 2000 che istituisce in Italia questo importante avvenimento, il Samudaripen, il genocidio dei Rom e Sinti, non compare. È stato ed è tuttora escluso. Il Samudaripen non è riconosciuto ufficialmente. È una vergogna nazionale. Nei servizi giornalistici le vittime rom e sinte sono appena citate quando va bene e in ogni caso rappresentano una semplice appendice:” C’erano anche gli zingari”. Il Samudaripen fu un genocidio specifico perpetuato contro un popolo inoffensivo per motivi razziali e non una semplice appendice.
Il pratica il Samudaripen è stato ignorato e rimosso dalla storia. Nessun Capo di Stato o di Governo in Italia ha mai chiesto perdono ai concittadini italiani di etnia rom e sinta per ciò che la propria patria gli ha inflitto in epoca fascista. L’Italia con la legge n. 21 del 20 luglio 2000, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 177 del 31 luglio, ha deciso l’ istituzione del “Giorno della Memoria” in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”. I rom e sinti italiani non sono neppure nominati. Anzi, dal confronto tra l’articolo 1 e l’articolo 2 della legge, composta solo da tali due articoli, si direbbe che vengono proprio deliberatamente esclusi. L’articolo 1 parla infatti anche degli “italiani che hanno subìto la deportazione, la prigionia, la morte”, espressione che dovrebbe comprendere anche i cittadini italiani rom e sinti, ovunque in Italia rastrellati e deportati assieme agli ebrei. Ma l’articolo 2 parla di dar vita nel Giorno della Memoria a iniziative di vario tipo per ricordare “quanto è accaduto al popolo ebraico e ai deportati militari e politici italiani nei campi nazisti”: espressione quest’ultima che chiaramente esclude i cittadini italiani rom e sinti.
Alcune comunità ebraiche hanno ricevuto risarcimenti dalla Germania e da altri Paesi per gli orrori consumati contro di loro durante la seconda guerra mondiale. I rom e sinti, esclusi dal Processo di Norimberga per accusare i propri carnefici, non hanno ricevuto alcun tipo di risarcimento. Eppure sono stati depredati dei loro beni prima di essere mandati ai campi di sterminio quando non trucidati sul posto. Oro, gioielli, denaro contante, conti in banca, case, proprietà e tanto altro mai restituiti ai legittimi proprietari. Rom e sinti usati come cavie umane per esperimenti pseudo-scientifici, usati come schiavi nella macchina bellica, passati per le camere a gas e per i forni crematori nazisti. Eppure il Samudaripen (sterminio in lingua romanì e letteralmente “tutti uccisi”), termine noto solo agli specialisti, non compare nei documenti ufficiali che riconoscono la Giornata della Memoria che è e rimane mutilata, discriminante e offensiva verso le vittime rom e sinte massacrate per motivi razziali. Le vittime della ferocia nazi-fascista devono avere pari dignità e pari memoria. Peccato non sia ancora così a distanza di oltre 75 anni. Una Giornata della Memoria, visto dal punto di vista dei rom e sinti, che è ingiusta e monca poiché non li ricorda. Le vittime rom e sinte continuano ad essere discriminate nel giorno in cui dovrebbero essere commemorate. Questo è alquanto assurdo e disumano, non degno di un Paese civile e democratico e dovrebbe far profondamente riflettere…

Santino Spinelli

RECOVERY PLAN e ISTRUZIONE

studenti-a-lezioneneu-2021-01-18-alle-16-40-23-e1610993784814
Passi avanti da migliorare
di Fiorella Farinelli su Rocca.

Forse è chiedere troppo all’attuale classe politica. Ma è certo che nel Recovery Plan varato il 12 gennaio, non c’è un disegno convincente delle strategie e delle misure con cui innescare cambiamenti decisivi – un’autentica ricostruzione nazionale – in un Paese slabbrato ed esausto già prima della pandemia. È lungo, del resto, il cammino per la versione definitiva dei programmi e delle riforme (da attivare «contestualmente», indica saggiamente la Commissione europea, «perché le risorse non cadano come pioggia sul deserto»), con cui ottenere i 209 mld tra prestiti e trasferimenti destinati all’Italia nell’ambito di Next Generation Ue 2021-26. Ci si arriverà solo dopo confronti con le istituzioni regionali e locali, le forze economiche e sociali, il Terzo Settore e le reti di cittadinanza attiva, e ovviamente il Parlamento. C’è dunque da augurarsi che da qui alla scadenza di aprile ci siano significativi miglioramenti. Come è già successo con i passi avanti, parziali ma nella giusta direzione, dalle prime bozze a quest’ultima versione, grazie soprattutto al pressing di Italia Viva: ricalibrato il peso dei bonus a favore degli investimenti, cresciute le risorse per la sanità e l’istruzione, ottenuti più coordinamento e minore frammentazione. Ma con un testo così complesso e un piatto così ricco (310 mld il totale, per l’inclusione nel pacchetto di altri fondi Ue e di spese programmate nel bilancio ordinario), la cosa non è scontata. Non solo per possibili ostinazioni dell’uno o dell’altro padrone del vapore a tener fermi programmi-bandiera che ingoiano troppe risorse (è il caso, non unico, del superecobonus 110/100 per la proprietà edilizia) o per un taglio più modernizzatore che sociale che sembra ormai difficile modificare, ma perché il clima generale è sempre più pesante. Tra tensioni politiche che delegittimano le istituzioni, contrasti e distonie tra Stato, Regioni, Città, reazioni agli effetti immediati e futuri della pandemia (mentre la parte dedicata alle politiche attive e al lavoro, soprattutto dei più giovani, è del tutto inadeguata agli sconquassi che verranno). Tutto ciò accompagnato dall’incapacità di definire la cosiddetta «governance». Cioè il modello di gestione dell’operazione, rinviato a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti a livello nazionale e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Difficoltà della politica politicante, certo, ma anche un approccio centralista che non aiuta e in più la solita mancanza di cultura attuativa, quella che permette di aprire i cantieri. Un limite, quest’ultimo, che preoccupa e squalifica, essendo noto in ambito europeo che nell’ultimo settennio non siamo stati capaci di spendere più del 40 per cento dei Fondi assegnati. C’entrano, si sa, leggi e regolamenti che trasformano in estenuanti tormentoni ogni gara d’appalto, ogni concorso, ogni convenzione. Ma come si fa a spendere entro il 2026 quella montagna di soldi se non si trovano i soggetti, le procedure, i modi per rimediare alla crisi dell’asse decisionale tra Stato, Regioni, Città e per superare la «diserzione amministrativa»? Basterà la «digitalizzazione» per garantire semplificazione ed efficienza? E basterà quanto previsto dal Piano – al momento poco più di un titolo – per portare a casa la più difficile delle sfide, una riforma decente della Pubblica Amministrazione? Appare dunque ancora impervia la strada per trasformare il Piano in un investimento capace di scaldare i cuori e di attivare le intelligenze dell’insieme della società italiana. E anche questo non è un problema da poco.

un finanziamento notevole ma insufficiente
Istruzione e ricerca è la quarta delle sei Missioni (1) contenute nel Piano, articolate in 16 componenti e 47 progetti. Il finanziamento è 28,5 miliardi, di cui 16,7 per il «potenziamento delle competenze e il diritto allo studio» (scuola e università) e 11,7 per la linea «dalla ricerca all’impresa» (università). Pur essendo il più grande finanziamento pubblico in educazione dopo il piano di ricostruzione postbellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media (1962-63), i 16,7 mld sono insufficienti non solo rispetto alla gravità della situazione educativa del Paese, ma anche alla piena realizzazione di tutte le azioni previste. Anche i 6,8 mld aggiuntivi per l’edilizia scolastica (che vengono dall’«efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» di un’altra Missione) costituiscono un investimento modesto, neppure 1/5 di quello che occorre per mettere in sicurezza, riqualificare, riadattare a modelli di apprendimento e di apertura allo sviluppo culturale e civile delle comunità, le circa 30.000 sedi scolastiche. Un patrimonio pubblico per lo più piuttosto vecchio, in parte costruito prima delle normative antisismiche, spesso in stato di cattiva manutenzione, quasi sempre strutturato secondo finalità educative e didattiche obsolete. Più in generale l’investimento complessivo è inadeguato a misurarsi con la quantità e qualità dei problemi che stanno dietro alle criticità più acute, non derivate solo da una lunga stagione di «tagli» ma anche dall’incapacità politica di affrontare temi scomodi, che scatenano contrarietà nella più numerosa ed irritabile categoria professionale, quella dei docenti. La minore efficacia del nostro sistema rispetto ad altri in ambito sia europeo che Ocse (i più alti tassi di dispersione esplicita e implicita, il minor numero di diplomati e laureati, i divari territoriali nella quantità e qualità dell’offerta e anche nei risultati, le diseguaglianze e i fenomeni di segregazione formativa, la distanza tra formazione scolastica e sfide del mondo del lavoro, l’esistenza nella popolazione adulta anche delle età più giovani di un’ampia area di senza-diplomi e senza-qualifiche, e perfino di 13 milioni di analfabeti funzionali e digitali privi delle competenze minime per il lavoro e per la cittadinanza attiva) non nasce da niente. E non dipende solo dalle tante e diverse «povertà» sociali e individuali che condizionano negativamente l’apprendimento. A pesare sulle difficoltà che la scuola non supera, tradendo quindi il suo stesso ruolo che non è solo di inclusione ma anche di promozione, ci sono troppe povertà culturali, organizzative, professionali intrinseche al sistema. Che riguardano la troppo variabile qualità professionale dei docenti, la rigidità dell’organizzazione del lavoro, degli orari, delle cattedre, le carriere basate sull’anzianità e non sui meriti. Un’autonomia scolastica non ancorata alle comunità di riferimento e non dotata delle figure necessarie al suo funzionamento. Un ordinamento, nel primo e nel secondo ciclo, che non risponde al diritto allo studio nella «scuola di tutti» (che dire, per esempio, di quel dispositivo tutt’altro che innocente rispetto agli abbandoni precoci che è l’esame di stato alla fine della scuola media nonostante la durata decennale dell’obbligo di istruzione? e di un’istruzione e formazione professionale, decisiva per il completamento dell’obbligo per centinaia di migliaia di ragazzi, che però funziona solo in metà del Paese, e non dove dispersione e abbandoni mordono di più?). Un insegnamento, nella secondaria, caratterizzato da separazione e gerarchizzazione delle discipline, che non valorizza il naturale altalenare dell’apprendimento tra teoria e pratica, tra formale e non formale, e non permette percorsi vocazionali e orientativi. E poi il buco enorme dell’assenza di un sistema per l’apprendimento permanente, pur strategico a fronte della crescente importanza per tutta la popolazione di buoni livelli di conoscenza e di capacità di apprendere lungo tutto il corso della vita, non solo in vista del lavoro che cambia ma della crescente complessità del vivere sociale. Di molto di tutto ciò – e quindi anche di una povertà educativa non solo «minorile» – non c’è traccia nel Recovery Plan, dove manca anche una contestualizzazione rispetto ai processi in corso. Cosa sarà la scuola italiana tra dieci anni, con 1 milione e 300.000 iscritti in meno per calo demografico, l’uscita per pensionamento del 40% del suo personale, un peso specifico crescente degli studenti con back ground migratorio, con problemi di integrazione, ma col vantaggio potenziale di un bilinguismo naturale e di un affaccio culturale su mondi diversi? Qual è il nuovo modello a cui guardiamo? Non sarà, speriamo, solo una scuola tornata «in presenza» il nostro nuovo paradiso.

il paradiso non sarà solo una scuola tornata in presenza
Ma bisognava scegliere. Il «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre aree di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali», con uno stanziamento di 9,45 miliardi. La seconda è «Competenze Stem-Scienza*, Tecnologia, Ingegneria, Matematica e Multilinguismo» (ma comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, scuola 4.0), con 5,02 miliardi. La terza è «Istituti Professionali e Istruzione Tecnica Superiore» (ma comprende anche l’orientamento al post diploma) con 2,25 miliardi. A questo si aggiungono 9 riforme, che interessano anche l’Università, solo in parte collegate con le azioni e i progetti, e con contenuti per lo più da definire. Sono l’istituzione della Scuola di Alta formazione per il personale scolastico (Università-Indire) a frequenza obbligatoria; la riforma del reclutamento docenti (coincidenza dell’esame di laurea con l’esame di stato per l’accesso alla professione e tirocinio annuale); l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem e per le competenze digitali; la riforma degli Istituti Tecnici Superiori; degli istituti tecnici e professionali; dell’orientamento al livello terziario; l’introduzione delle lauree abilitanti; la riforma delle classi di laurea; la riforma dei dottorati. Qual è, in sintesi, il perimetro degli interventi? Se da un lato si conferma un approccio che, per quanto attiene alla qualità del lavoro nella scuola si limita a mettere a fuoco la formazione iniziale e continua del personale e il reclutamento dei docenti, dall’altro si interviene sul pianeta istruzione circoscrivendo due principali ambiti. Il primo, riguardante soprattutto il primo ciclo e il comparto 0-6, consiste nella prevenzione precoce delle diseguaglianze, nel contrasto della povertà educativa minorile, nel rafforzamento delle competenze di base incluse quelle digitali e multilingue. Il secondo, che guarda al superamento del gap tra preparazione scolastica e competenze richieste dal mondo del lavoro, consiste nel rafforzamento del comparto tecnico professionalizzante di livello secondario e terziario, nella declinazione dei curricoli e della didattica in direzione dell’innovazione tecnologica, nonché nell’orientamento agli studi post-diploma. Non è tutto quel che servirebbe, ma sono comunque criticità vere su cui intervenire.
Ma come lo si fa?

c’è ancora da limare e riequilibrare
Non è un dettaglio, ovviamente, l’articolazione degli investimenti. Balza all’occhio, per esempio, l’incongruenza tra la generosità dei 5,2 mld della seconda linea d’azione («Competenze Stem* e multilingue») che ne stanzia ben 3 in laboratori e attrezzature per la «scuola 4.0», e i risicati 9,45 mld per l’articolatissimo programma della prima («Accesso all’istruzione e divari territoriali»). Tolti infatti i 2,35 mld per borse di studio e alloggi per gli studenti universitari, ne restano solo 7,10 per obiettivi tutti molto importanti e impegnativi. Che infatti, chi più chi meno, vengono dotati di investimenti insufficienti a una realizzazione compiuta. A partire dall’azione più importante per il contrasto precoce delle diseguaglianze educative e per il superamento dei divari territoriali, ovvero lo sviluppo omogeneo dei servizi educativi 0-3 cioè gli asili nido, in tutte le aree del Paese (copertura al 33% della domanda in ogni Regione, media nazionale al 55%). Lo sanno ormai anche le pietre, infatti, che il programma, finalizzato anche al contrasto della denatalità, alla conciliazione tra lavoro e genitorialità, all’occupazione femminile, costa almeno 4,8 mld, mentre nel Piano, dove varie oscillazioni, ci si assesta ora su 3,6. Assai peggio va all’altro ingrediente essenziale per il raggiungimento dell’obiettivo, cioè lo sviluppo del tempo pieno, dove si prevede 1 mld mentre la sua generalizzazione nella primaria costerebbe, solo di spesa per il personale (senza considerare quella degli Enti Locali), 2,8 mld annui. Completano il quadro 1 mld per il potenziamento della scuola per l’infanzia, che potrebbe essere un costo perfino sovrastimato considerato il forte impatto del calo demografico su questo comparto educativo (e l’assenza, viceversa, dell’obiettivo di una sua «generalizzazione»), e 1,5 mld per il contrasto degli abbandoni che potrebbe invece essere sensibilmente sottostimato rispetto alle complessità delle azioni e alla numerosità del target. Quanto alla terza linea d’azione («Istruzione Professionale e Its»), la parte del leone dei 2,25 mld la fa il potenziamento dell’istruzione tecnica superiore (1,50 mld), mentre all’orientamento scuola-università e alla collaborazione Università-Formazione professionale vanno 0,75 mld. C’è dunque ancora da limare, e soprattutto da riequilibrare. Zero assoluto, invece, per l’Istruzione e Formazione professionale per l’obbligo di istruzione e la qualifica professionale, che non compare né qui né dove ci si occupa di politiche formative per il lavoro, pur essendo un’alternativa preziosa, dove c’è, agli abbandoni precoci. E pur intercettando ogni anno migliaia di ragazzi in difficoltà, tra cui molti stranieri di prima e seconda generazione. C’è da chiedersi, con qualche amarezza, se gli estensori del testo sappiano sempre di che cosa stanno scrivendo. E anche questo, ovviamente, non è un problema da poco. Ma ci si dovrà tornare.
Fiorella Farinelli
———–
Nota
(1) Le altre sono digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura (46,1 mld); rivoluzione verde e transizione ecologica (68,9 mld); infrastrutture per la mobilità sostenibile (31,98 mld); inclusione sociale e coesione (27,62 mld); salute (19,72 mld).
* L’acronimo STEM, dall’inglese Science, Technology, Engineering and Mathematics è un termine utilizzato per indicare le discipline scientifico-tecnologiche (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica) e i relativi corsi di studio.
ROCCA 1 FEBBRAIO 2021
rocca-1-febb-2021
—–
schermata-2021-01-25-alle-16-45-59
—–
[segue]

L’America che vorremo, che vogliamo.

065647ac-2a69-43d2-aed4-ed826fd96ba2
La collina su cui saliamo
di Amanda Gorman

Viene il giorno in cui ci domandiamo: dove troveremo la luce in questa tenebra infinita?
Il lutto dentro di noi. Un mare da attraversare.
Abbiamo sfidato il ventre della bestia.
Abbiamo imparato che la tranquillità non sempre è pace, e che le norme e le nozioni di ciò che è “giusto” non sempre sono giustizia.
E tuttavia l’alba è sorta prima che ce ne accorgessimo.
In un modo o nell’altro, eccoci qui.
In un modo o nell’altro sosteniamo e testimoniamo una nazione che non è spezzata, ma soltanto incompleta.
Noi, gli eredi di un paese e di un tempo in cui una minuta ragazzina nera, discendenti di schiavi e cresciuta dalla sola madre, può sognare di diventare presidente e intanto ritrovarsi a recitare davanti a un altro presidente.
E sì, siamo tutt’altro che rifiniti, tutt’altro che intatti, ma questo non significa che stiamo stiamo anelando a un’unione che sia perfetta.
Aneliamo forgiare la nostra unione dandole uno scopo.
Per dare vita a un paese che abbia a cuore ogni cultura, ogni colore, ogni carattere e condizione umani.
Ed è così che alziamo lo sguardo, per guardare non ciò che si frappone tra noi, ma ciò che sta di fronte a noi.
Superiamo le divisioni perché sappiamo che, per mettere il futuro al primo posto, dobbiamo anzitutto mettere da parte le nostre differenze.
Deponiamo le armi per poterci abbracciare.
Non vogliamo agonia per nessuno, ma armonia per tutti.
Facciamo in modo che il mondo, se non altro, dica che è vero.
Che abbiamo pianto, ma siamo cresciuti.
Che abbiamo sofferto, ma abbiamo sperato.
Che siamo stati stanchi, ma ci abbiamo provato.
Che saremo sempre uniti tra noi, vittoriosi.
Non perché non conosceremo più la sconfitta, ma perché non semineremo più discordia.
Le Scritture ci dicono di sognare un mondo in cui ciascuno possa sedere all’ombra della vigna e del fico, senza più avere paura.
Se vogliamo essere all’altezza del nostro tempo, allora dobbiamo fare in modo che la vittoria non venga dalla spada, ma dai ponti che costruiamo.
Questa è la promessa da celebrare, è la collina su cui saliamo, se solo ne abbiamo il coraggio.
Perché essere americani è molto più dell’orgoglio che abbiamo ereditati.
È il passato che attraversiamo, è il modo in cui ce ne prendiamo cura.
Abbiamo visto una forza capace di mandare in pezzi la nostra nazione, anziché permetterci di condividerla.
Capace di distruggere il nostro paese se adoperata per ostacolare la democrazia.
E poco è mancato che questo tentativo riuscisse.
La democrazia può essere ostacolata, di tanto in tanto, ma non può essere sconfitta per sempre.
In questa verità, in questa fede che ci sostiene, adesso volgiamo gli occhi verso il futuro, mentre la storia tiene gli occhi fissi su di noi.
Questa è l’era del giusto riscatto.
Ne abbiamo temuto l’avvento.
Non ci sentiamo pronti a essere gli eredi di un’ora così terribile.
Ma è qui che troviamo il potere per scrivere un nuovo capitolo, per offrire speranza e risate a noi stessi.
Dunque, se una volta ci domandavano come saremmo sopravvissuti alla catastrofe, ora dichiariamo che in nessun modo la catastrofe avrebbe potuto prevalere su di noi.
Non retrocederemo a quel che è stato, ma procederemo verso quel che sarà: un paese ammaccato ma intero, benevolente ma prode, fiero e libero.
Non ci lasceremo distogliere o intralciare dalle intimidazioni.
Ci faremo carico dei nostri errori.
Ma una cosa è certa.
Se uniremo la misericordia alla forza, e la forza alla giustizia, allora l’amore sarà il nostro lascito e darà ai nostri figli un nuovo diritto di nascita.
Su, lasciamo dietro di noi un paese migliore di quello che ci è stato lasciato.
Con ogni respiro del mio petto scolpito nel bronzo, trasformeremo questo mondo ferito in un mondo felice.
Sorgeremo dalle colline dorate dell’Ovest.
Sorgeremo dal Nordest sferzato dal vento, dove i nostri antenati per primi misero a segno la rivoluzione.
Sorgeremo dalle città del Midwest, affacciate sui laghi.
Sorgeremo dal Sud inondato di sole.
Ricostruiremo, ci riconcilieremo, guariremo insieme.
E da ogni angolo della nazione, da ogni parte del paese, il nostro popolo così magnifico e vario riemergerà, malconcio e magnifico.
Viene il giorno in cui usciamo dall’ombra e dal fuoco, ne usciamo senza paura.
L’alba nuova è come un pallone che sale mentre lo lasciamo libero.
Perché c’è sempre luce, se solo abbiamo il coraggio di vederla.
Se solo abbiamo il coraggio di essere luce.
————————-
3796508f-69a8-4dbf-9810-ee2941ec981c
I consigli del Papa: leggere ogni giorno un brano del Vangelo. E noi ci permettiamo aggiungere: e anche qualche articolo della nostra Costituzione (seguendo l’insegnamento di don Andrea Gallo).
————————-
Dall’omelia di domenica mattina, 24 gennaio 2021 (in conclusione).
(…) Mettiamo il Vangelo in un luogo dove ci ricordiamo di aprirlo quotidianamente, magari all’inizio e alla fine della giornata, così che tra tante parole che arrivano alle nostre orecchie giunga al cuore qualche versetto della Parola di Dio.
La proposta di “spegnere la televisione e di aprire la Bibbia; di chiudere il cellulare e di aprire il Vangelo” contiene una promessa:
Ci farà sentire il Signore vicino e ci infonderà coraggio nel cammino della vita.
———————————

Lettere di speranza. Invito a sostenere Costituente Terra

schermata-2021-01-20-alle-21-23-48
costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

————–
Newsletter n.29 del 20 gennaio 2021

INVITO AL FUTURO

Care amiche ed amici,

mentre i più lungimiranti sperano che l’uscita dal Covid sia l’occasione di un grande cambiamento delle vigenti politiche e culture che sono causa di gravi danni e pericoli per i singoli e l’umanità, un segnale positivo giunge dagli Stati Uniti dopo lo scempio della presidenza Trump e dei modi della sua conclusione. La prima decisione del presidente Biden è stata infatti quella di giungere a vaccinare 100 milioni di persone nei prossimi cento giorni, il che vuol dire una mobilitazione di energie e di risorse quale finora si è verificata solo in ragione di una guerra. Infatti il presidente americano intende fare ricorso al Defence Production Act che è una legge emanata nel settembre 1950 all’inizio della guerra di Corea e richiamata in servizio nelle guerre successive ed è volta a stabilire una tavola di priorità subordinando tutto il privatissimo sistema dei servizi e delle industrie americane alla produzione delle forniture e all’erogazione delle risorse necessarie per lo sforzo bellico. A questa priorità della guerra si sostituisce ora la priorità della cura. Naturalmente è una cosa di tutta ragione, se si pensa che la pandemia ha già causato 400.000 morti americani come solo la II guerra mondiale era stata capace di fare; ma è una cosa straordinaria che la guerra esca dalla ragione (“alienum a ratione!) e vi entri la cura.

Questo passaggio, che potrebbe essere banalizzato e ridotto a un caso di emergenza, contiene invece in se stesso un grande potenziale di cambiamento per l’identità stessa degli Stati Uniti. Basta pensare che in un Paese che fin qui aveva rifiutato la sanità pubblica non solo alla generalità dei cittadini ma anche ai poveri più poveri, diviene ora una priorità conservare in vita ogni singola persona senza distinzioni. Per quanto infatti possano sopravvivere le nefaste pulsioni al razzismo, alle discriminazioni e agli scarti, saranno infatti vaccinati neri, bianchi, portoricani, ispano-americani, cittadini e stranieri. Insieme a questa misura è stato annunciato che sarà arrestata la costruzione del muro ai confini col Messico, saranno ricongiunte le famiglie, integrati gli immigrati, abolito il divieto di ingresso in America dai Paesi a maggioranza musulmana.

Naturalmente è solo un segnale, una promessa. Vedremo come si attuerà e come sarà l’America dopo questa conversione. Ma certo è anche un auspicio e una indicazione di ciò che deve avvenire in tutto il mondo; se un indizio di cambiamento viene dall’America, vuol dire che il cambiamento è possibile ovunque, e non deve trattarsi di un piccolo aggiustamento ma di un grande rovesciamento; i 100 milioni di vaccini americani devono essere tra le prime pietre (si stanno mettendo anche in Italia e in Europa) di un sistema sanitario mondiale, e la lotta per realizzarlo è il primo passo nella lotta per un sistema di diritti umani universali e di garanzie planetarie per renderli effettivi. Insomma, una Costituzione della Terra.
———————————————–
Noi siamo a questo, a questo siamo interessati e chiamati, e questo invito rivolgiamo a tutti quelli che vorranno associarsi all’impresa, un invito al futuro. Costituente Terra inaugura il proprio secondo anno di vita e apre la campagna di iscrizioni per chi voglia partecipare alle attività dell’Associazione, sostenerne gli sforzi, usufruire del materiale pubblicato nei siti, ivi compresa la “Biblioteca di Alessandria”, e soprattutto coinvolgersi in questa impresa collettiva volta a realizzare un costituzionalismo mondiale. L’invito è rivolto sia ai già iscritti del 2019 e 2020, sia a quanti altri, soprattutto tra i destinatari di questa newsletter, vorranno unirsi a noi. Per la quota di iscrizione dobbiamo ripetere quanto abbiamo scritto nell’appello-proposta per la creazione dell’Associazione e della Scuola, “Perché la storia continui”: “La quota annua di iscrizione, all’Associazione e alla Scuola, è libera, e sarà comunque gradita. Per i meno poveri, per quanti vogliano e possano contribuire a finanziare la Scuola, eventuali borse di studio e il processo costituente, la quota è stata fissata nella misura significativa di 100 euro, con l’intenzione di sottolineare che la politica, sia a pensarla che a farla, è cosa tanto degna da meritare da chi vi si impegna che ne sostenga i costi, contro ogni tornaconto e corruzione, ciò che per molti del resto è giunto fino all’offerta della vita. Naturalmente però è inteso che ognuno, a cominciare dai giovani, sia libero di pagare la quota che crede, minore o maggiore che sia, con modalità diverse, secondo le possibilità e le decisioni di ciascuno”. Le domande di iscrizione possono essere inviate rispondendo a questo indirizzo; per i versamenti occorre fare attenzione che rispetto all’anno scorso abbiamo cambiato nome e ragione sociale, per cui mentre l’IBAN è rimasto lo stesso: IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR), il nome a cui corrisponde non è più “Comitato promotore partito della Terra”, ma semplicemente “Costituente Terra”, a cui pertanto va intestato il bonifico, ciò di cui vi ringraziamo fin d’ora.
———————————————-
Confermiamo il Seminario del 27 gennaio alle ore 16 su “Geopolitica della conoscenza digitale” in video-conferenza. Quanti vogliano parteciparvi e non ne abbiano ancora dato notizia, devono chiedere il relativo link rispondendo a questa newsletter o scrivendo a paolosordi@pm.me. In preparazione pubblichiamo una nota di Luigi Narducci su un premonitore monito di Stefano Rodotà.

Nel sito pubblichiamo anche l’ultima parte delle storie di ordinario sfruttamento dei lavoratori agricoli immigrati vittime del caporalato e delle mafie, e un prezioso appello lanciato dall’ANPI insieme a molti partiti associazioni e sindacati per un’alleanza democratica e antifascista per la salvezza dell’Italia.
Unendoci a questo augurio, per l’Italia appena uscita da una difficile crisi di governo, e per il mondo, vi inviamo i più cordiali saluti

www.costituenteterra.it
—————————————–
logo76
TRUMP E FRANCESCO
di Raniero La Valle.

Care Amiche ed Amici,
ora che Trump se n’è andato e Francesco invece è rimasto, si può valutare la portata della simultanea presenza di questi due grandi leader sulla scena mondiale. Sotto il velo di un rapporto politicamente corretto (non tanto però se Bannon è venuto a insidiare la Chiesa fin sotto il soglio di Pietro) si è trattato di un grande conflitto tra un potere temporale e un potere spirituale, come ai bei tempi delle Investiture. La differenza rispetto a quel precedente era che l’uno non era capo dell’Impero e l’altro non aveva una “Cristianità” di cui pretendesse di essere il capo.
Ci sono stati dei momenti e delle partite in cui il conflitto si è manifestato con particolare potenza. Uno è stato il conflitto sul Medio Oriente e sulla Siria, che il papa ha difeso con particolare calore (fin dal momento, nel settembre 2013, in cui impedì con la forza della grande veglia in piazza san Pietro la guerra alla Siria) e che Trump voleva invece assoggettare e insanguinare fino a ordinare, come lui stesso ha rivelato nel settembre scorso, di uccidere Assad.
Un’altra contrapposizione frontale c’è stata sulla cura della Terra e del clima, quando Trump ha scelto il business e l’abuso di risorse ed ha ritirato la firma dagli accordi di Parigi, e Francesco con la Laudato Sì ha fatto appello a tutti gli abitanti del pianeta perché si facessero responsabili della Terra e non la facessero depredare.
L’altra epocale rappresentazione del contrasto si è avuta con la reazione alla pandemia, quando Trump ha preso la guida dei negazionisti, causando 400.000 morti solo in America, tanti quanti sono stati gli americani morti nella II guerra mondiale, mentre papa Francesco ha preso su di sé tutto il dolore del mondo nella solitudine di piazza san Pietro, e ha legittimato le restrizioni anche più severe e i comandi delle autorità civili, obbedendo ad essi per primo, e con lui tutta la Chiesa.
Ancora il conflitto si è manifestato sull’immigrazione, quando papa Francesco è salito a predicare fin sul muro che separa gli Stati Uniti dal Sud dell’America e del mondo, prima che Trump lo alzasse fino al cielo.
Su tutti i fronti le cause di Trump sono state sconfitte. Il Medio Oriente martoriato è ancora in cerca d’autore, e ora il papa va in Iraq fino a Ninive, la proverbiale città che Dio salvò dalla distruzione annunciata, per consegnare al mondo un messaggio antiapocalittico. Gli Stati Uniti rientrano nell’accordo sul clima. La costruzione del muro al confine col Messico è bloccata, è avviato il ricongiungimento delle famiglie, promessa l’integrazione degli immigrati, abolito il divieto di ingresso in America dai Paesi a maggioranza musulmana.
Ma soprattutto ha vinto la grande parola d’ordine della cura, la cura del creato, la cura del prossimo come fratello, che papa Francesco ha messo nel cuore delle sue due encicliche e del suo ministero, e che ha rilanciato al sorgere di questo nuovo anno: “tutto comincia da qui, dal prendersi cura degli altri, del mondo, del creato. Oltre al vaccino del corpo serve il vaccino per il cuore: e questo vaccino è la cura. Sarà un buon anno se ci prenderemo cura degli altri…” Ed ecco che negli Stati Uniti, il Paese in cui la sanità pubblica era osteggiata dai ricchi e scartava i poveri, vengono ora pianificati entro i prossimi 100 giorni 100 milioni di vaccini, il che vuol dire che conservare in vita ogni singola persona diventa una priorità della politica; ci vorrà una mobilitazione e una pianificazione della produzione pari a quelle richieste da una guerra, tanto che si farà ricorso al Defence Production Act, la legge varata per la guerra di Corea; si scambia la guerra con la cura. E per quanto possano sopravvivere le nefaste pulsioni al razzismo, alle discriminazioni e agli scarti è chiaro che saranno vaccinati i neri come i bianchi, nonché portoricani, ispano-americani, immigrati, stranieri e cittadini, senza distinzioni.
Sarebbe sciocco attribuire a papa Francesco ogni merito di tutto ciò, e di ciò che di positivo si va affacciando nel mondo. Ma quanti, anche tra i cattolici scontenti e desiderosi di riforme, hanno raggiunto Ernesto Galli della Loggia nel giudizio sulla irrilevanza cui sarebbe pervenuta la Chiesa e sul diversivo che sarebbe rappresentato dall’impegno universalistico del papa per il mondo, dovrebbero guardare a quello che sta succedendo, interrogare i segni dei tempi e vedere come invece proprio questa parola inerme che giudica il mondo, sta vincendo il mondo. Anzi proprio qui sta la vera riforma della Chiesa. E dovremmo prepararci a resistere; perché di sicuro è in agguato la controriforma, c’è chi non sopporta la Chiesa che annunzia il Vangelo ed esorcizza l’apocalisse, la Chiesa ripartita da Bangui, invisa ai signori del centro del mondo. La vera partita per impedire che la Chiesa cada nell’irrilevanza sarà giocata su questa capacità di resistenza, sulla forza di questo “katékon” opposto ai dottori della legge che ne vogliono la restaurazione. E perché non ci faccia difetto la memoria, pubblichiamo un documento delle organizzazioni cattoliche americane di base in cui si deplora l’appoggio che una parte della Chiesa cattolica americana, “controriformista”, appunto, ha dato alle politiche di Trump.
Nel nostro sito www.chiesaditittichiesadeipoveri.it pubblichiamo anche la seconda parte delle storie di ordinario sfruttamento dei lavoratori agricoli immigrati vittime del caporalato e delle mafie, registrate questa volta in Toscana e in Campania e una nota sul calvario dei profughi sulla rotta balcanica.

Con i più cordiali saluti.

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
————————-

America, America

logo76
TRUMP E FRANCESCO
di Raniero La Valle.

Care Amiche ed Amici,
ora che Trump se n’è andato e Francesco invece è rimasto, si può valutare la portata della simultanea presenza di questi due grandi leader sulla scena mondiale. Sotto il velo di un rapporto politicamente corretto (non tanto però se Bannon è venuto a insidiare la Chiesa fin sotto il soglio di Pietro) si è trattato di un grande conflitto tra un potere temporale e un potere spirituale, come ai bei tempi delle Investiture. La differenza rispetto a quel precedente era che l’uno non era capo dell’Impero e l’altro non aveva una “Cristianità” di cui pretendesse di essere il capo.
Ci sono stati dei momenti e delle partite in cui il conflitto si è manifestato con particolare potenza. Uno è stato il conflitto sul Medio Oriente e sulla Siria, che il papa ha difeso con particolare calore (fin dal momento, nel settembre 2013, in cui impedì con la forza della grande veglia in piazza san Pietro la guerra alla Siria) e che Trump voleva invece assoggettare e insanguinare fino a ordinare, come lui stesso ha rivelato nel settembre scorso, di uccidere Assad.
Un’altra contrapposizione frontale c’è stata sulla cura della Terra e del clima, quando Trump ha scelto il business e l’abuso di risorse ed ha ritirato la firma dagli accordi di Parigi, e Francesco con la Laudato Sì ha fatto appello a tutti gli abitanti del pianeta perché si facessero responsabili della Terra e non la facessero depredare.
L’altra epocale rappresentazione del contrasto si è avuta con la reazione alla pandemia, quando Trump ha preso la guida dei negazionisti, causando 400.000 morti solo in America, tanti quanti sono stati gli americani morti nella II guerra mondiale, mentre papa Francesco ha preso su di sé tutto il dolore del mondo nella solitudine di piazza san Pietro, e ha legittimato le restrizioni anche più severe e i comandi delle autorità civili, obbedendo ad essi per primo, e con lui tutta la Chiesa.
Ancora il conflitto si è manifestato sull’immigrazione, quando papa Francesco è salito a predicare fin sul muro che separa gli Stati Uniti dal Sud dell’America e del mondo, prima che Trump lo alzasse fino al cielo.
Su tutti i fronti le cause di Trump sono state sconfitte. Il Medio Oriente martoriato è ancora in cerca d’autore, e ora il papa va in Iraq fino a Ninive, la proverbiale città che Dio salvò dalla distruzione annunciata, per consegnare al mondo un messaggio antiapocalittico. Gli Stati Uniti rientrano nell’accordo sul clima. La costruzione del muro al confine col Messico è bloccata, è avviato il ricongiungimento delle famiglie, promessa l’integrazione degli immigrati, abolito il divieto di ingresso in America dai Paesi a maggioranza musulmana.
Ma soprattutto ha vinto la grande parola d’ordine della cura, la cura del creato, la cura del prossimo come fratello, che papa Francesco ha messo nel cuore delle sue due encicliche e del suo ministero, e che ha rilanciato al sorgere di questo nuovo anno: “tutto comincia da qui, dal prendersi cura degli altri, del mondo, del creato. Oltre al vaccino del corpo serve il vaccino per il cuore: e questo vaccino è la cura. Sarà un buon anno se ci prenderemo cura degli altri…” Ed ecco che negli Stati Uniti, il Paese in cui la sanità pubblica era osteggiata dai ricchi e scartava i poveri, vengono ora pianificati entro i prossimi 100 giorni 100 milioni di vaccini, il che vuol dire che conservare in vita ogni singola persona diventa una priorità della politica; ci vorrà una mobilitazione e una pianificazione della produzione pari a quelle richieste da una guerra, tanto che si farà ricorso al Defence Production Act, la legge varata per la guerra di Corea; si scambia la guerra con la cura. E per quanto possano sopravvivere le nefaste pulsioni al razzismo, alle discriminazioni e agli scarti è chiaro che saranno vaccinati i neri come i bianchi, nonché portoricani, ispano-americani, immigrati, stranieri e cittadini, senza distinzioni.
Sarebbe sciocco attribuire a papa Francesco ogni merito di tutto ciò, e di ciò che di positivo si va affacciando nel mondo. Ma quanti, anche tra i cattolici scontenti e desiderosi di riforme, hanno raggiunto Ernesto Galli della Loggia nel giudizio sulla irrilevanza cui sarebbe pervenuta la Chiesa e sul diversivo che sarebbe rappresentato dall’impegno universalistico del papa per il mondo, dovrebbero guardare a quello che sta succedendo, interrogare i segni dei tempi e vedere come invece proprio questa parola inerme che giudica il mondo, sta vincendo il mondo. Anzi proprio qui sta la vera riforma della Chiesa. E dovremmo prepararci a resistere; perché di sicuro è in agguato la controriforma, c’è chi non sopporta la Chiesa che annunzia il Vangelo ed esorcizza l’apocalisse, la Chiesa ripartita da Bangui, invisa ai signori del centro del mondo. La vera partita per impedire che la Chiesa cada nell’irrilevanza sarà giocata su questa capacità di resistenza, sulla forza di questo “katékon” opposto ai dottori della legge che ne vogliono la restaurazione. E perché non ci faccia difetto la memoria, pubblichiamo un documento delle organizzazioni cattoliche americane di base in cui si deplora l’appoggio che una parte della Chiesa cattolica americana, “controriformista”, appunto, ha dato alle politiche di Trump.
Nel nostro sito www.chiesaditittichiesadeipoveri.it pubblichiamo anche la seconda parte delle storie di ordinario sfruttamento dei lavoratori agricoli immigrati vittime del caporalato e delle mafie, registrate questa volta in Toscana e in Campania e una nota sul calvario dei profughi sulla rotta balcanica.

Con i più cordiali saluti.

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
————————-
Papa e organismi americani di base
LA CHIESA, L’AMERICA E L’ASSEDIO AL CONGRESSO
19 GENNAIO 2021 / EDMINXTRATOR / DICONO I DISCEPOLI / 0 COMMENT
Trump ormai se n’è andato, ma è bene ricordare che nell’Angelus del 10 gennaio 2021 il papa Francesco ha condannato la violenza che si è manifestata nell’ “assedio” al Congresso degli Stati Uniti il 6 gennaio ed ha esortato i responsabili e il popolo a promuovere la riconciliazione e a tutelare i valori democratici. Da notare il riferimento alla “cura” per tutti quelli “che abitano” negli Stati Uniti, implicita critica alla mancanza dell’assistenza sanitaria per milioni di poveri di immigrati e di stranieri.

A loro volta le organizzazioni cattoliche di base degli Stati Uniti riunite in un coordinamento nazionale, hanno denunciato e criticato le responsabilità che molta parte della Chiesa americana ha avuto nel sostegno all’azione e alle ideologie di Donald Trump. Pubblichiamo ambedue i documenti.

Il Papa all’Angelus del 10 gennaio:

Rivolgo un affettuoso saluto al popolo degli Stati Uniti d’America, scosso dal recente assedio al Congresso. Prego per coloro che hanno perso la vita – cinque –, l’hanno persa in quei drammatici momenti. Ribadisco che la violenza è autodistruttiva sempre. Nulla si guadagna con la violenza e tanto si perde. Esorto le Autorità dello Stato e l’intera popolazione a mantenere un alto senso di responsabilità, al fine di rasserenare gli animi, promuovere la riconciliazione nazionale e tutelare i valori democratici radicati nella società americana. La Vergine Immacolata, Patrona degli Stati Uniti d’America, aiuti a tenere viva la cultura dell’incontro, la cultura della cura, come via maestra per costruire insieme il bene comune; e lo faccia con tutti coloro che abitano in quella terra.

Le organizzazioni cattoliche americane facenti parte del COR (Catholics Organisations for Renewal):

Noi, Organizzazioni Cattoliche per il Rinnovamento della Chiesa siamo indignati e condanniamo inequivocabilmente il violento assalto al Campidoglio degli Stati Uniti d’America a cui abbiamo assistito il 6 gennaio 2021. Nello stesso tempo, come cattolici dall’interno della nostra Chiesa, deploriamo la complicità e la partecipazione della comunità cattolica statunitense nel promuovere il clima che ha incoraggiato e reso possibile tale violenza.

Per essere chiari, il caos e la violenza che hanno terrorizzato la nostra nazione mercoledì 6 gennaio è stato il risultato diretto e prevedibile di oltre quattro anni di retorica violenta, razzista, xenofoba e misogina del presidente Trump – retorica che molti vescovi statunitensi hanno ripetutamente omesso di nominare e di condannare sia individualmente che collettivamente. Ancora oggi, il presidente della Conferenza dei Vescovi Cattolici degli Stati Uniti (USCCB) ha rilasciato una tiepida dichiarazione che condanna la violenza, ma non riconosce il ruolo del presidente Trump nell’incoraggiarla o la loro specifica complicità in essa.

Constatiamo anche che molti nostri confratelli cattolici hanno sostenuto con fermezza Donald J. Trump durante i suoi quattro anni di presidenza. Alcuni hanno anche partecipato alla sua amministrazione. E quasi la metà degli elettori cattolici ha sostenuto la sua rielezione nel 2020.

Non possiamo ignorare che molti cattolici hanno votato perché influenzati – in parte – da dichiarazioni, lettere e omelie del clero che sono state presentate come insegnamento cattolico. In contrasto con Papa Francesco, la dichiarazione ufficiale dell’USCCB, “Forming Consciences for Faithful Citizenship”, ha posto il contrasto all’accesso all’aborto e ai diritti LGBTQ ben prima della difesa della vita e della dignità dei più poveri e dei più vulnerabili, inoltre non contrastando gli effetti disastrosi del generale cambiamento climatico e le ideologie oppressive fondate sulla supremazia dei bianchi e sul nazionalismo.

Come popolo di Dio, riaffermiamo il nostro impegno per i valori evangelici della nonviolenza e dell’amore per il prossimo e preghiamo perché la violenza che abbiamo visto davanti a noi nella Festa dell’Epifania produca una nuova epifania: noi, come membri della comunità cattolica, lavoreremo con sempre maggiore impegno per essere parte di una comunità che costruisce quella pace a cui ci chiama il nostro battesimo. Preghiamo anche per il presidente eletto Joseph R. Biden (un fedele cattolico), per la vicepresidente eletta Kamala Harris e per tutti i senatori e deputati, che abbiamo eletto perché inizino il loro impegno per guidare la nostra nazione verso la pacificazione e la giustizia.

Firmatari: Call To Action – Catholics for Choice – CORPUS – DignityUSA – FutureChurch – New Ways Ministry – Quixote Center – RAPPORT – Roman Catholic Womenpriests USA – Southeastern Pennsylvania Women’s Ordination Conference – Women’s Ordination Conference

Washington, 8 gennaio 2021
[segue]

Sosteniamo Costituente Terra

schermata-2021-01-17-alle-18-57-10
“COSTITUENTE TERRA” FA SCUOLA
9 GENNAIO 2021 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
La crisi della democrazia americana, che si è sprigionata sotto gli occhi di tutti svelando il volto nascosto (e neanche troppo nascosto) di un fascismo americano in agguato, che ha trovato in Donald Trump un interprete fin troppo improbabile, ha posto con nuova drammaticità e urgenza il problema della democrazia nel mondo e della salvaguardia dei diritti fondamentali, a cui l’iniziativa di “Costituente Terra” ha inteso indicare una via di soluzione. È del tutto evidente che se non è proponibile un modello di democrazia valido per tutte le Nazioni (il tentativo di imporlo è finito nelle peggiori tragedie), è invece possibile concepire ed attuare un costituzionalismo globale che metta in sicurezza le libertà fondamentali, i diritti irrinunciabili, i beni comuni essenziali e la stessa sopravvivenza fisica della Terra. Questo progetto lanciato un anno fa da “Costituente Terra”, e che è in cantiere a partire dalla elaborazione teorica e dal magistero filosofico–giuridico del prof. Luigi Ferrajoli, sta facendo scuola e gettando semi in diverse parti del mondo.
È annunciato, dal Paraguay, un saggio, che pubblicheremo tra breve, della prof. María Inés Ramírez dal titolo: “Post pandemia: ¿Hacia donde se dirige elderechoconstitucional? Característicasesenciales del poderconstituyente con miras a una Constitución Planetaria “.
Nello stesso tempo l’Instituto Educativo Punta Mogotes di Mar del Plata (Provincia di Buenos Aires, Argentina) ha deciso di creare un Laboratorio di Diritto Costituzionale che porta il nome di “Laboratorio Luigi Ferrajoli”, in cui si lavorerà sulla proposta di una Costituzione della Terra. Tale iniziativa è stata riconosciuta dal Comune di Mar del Plata come un progetto di grande interesse culturale, per l’intera comunità, e in particolare per la promozione dell’educazione in materia di diritti costituzionali dei bambini e dei giovani.
All’Istituto, in occasione dell’inaugurazione dei corsi, il prof. Ferrajoli ha fatto pervenire questo messaggio che riepiloga, come una prolusione, il senso del lavoro da svolgere:

La vostra istituzione di una scuola e di un laboratorio sul tema della Costituzione della Terra è esattamente quanto auspicammo fin dall’appello e poi dalla nostra Assemblea di “Costituente Terra” dello scorso 21 febbraio.
Questa prospettiva del costituzionalismo globale equivale all’ipotesi di un vero salto di civiltà, tanto necessario ed urgente per il salvataggio della pace, della democrazia e della stessa abitabilità del nostro pianeta, quanto imposto, logicamente e giuridicamente, dalle tante Carte dei diritti, costituzionali e internazionali di cui sono dotati i nostri ordinamenti. Purtroppo queste Carte sono rimaste ineffettive perché non sono state istituite le loro garanzie e le relative funzioni e istituzioni globali di garanzia. Il nostro progetto di una Costituzione della Terra altro non è che il progetto dell’attuazione di quelle Carte, attraverso la rielaborazione dei principi comuni da esse espressi e la loro sistemazione in un unico testo, rigidamente sopra-ordinato – in accordo con il paradigma del costituzionalismo rigido sperimentato nei nostri ordinamenti dalle Costituzioni più avanzate – a tutte le altre fonti del diritto, sia statali che internazionali.
La necessità e l’urgenza di questo allargamento oltre gli Stati nazionali, del paradigma costituzionale, sono oggi imposte dalla banale, elementare consapevolezza dei pericoli senza precedenti che altrimenti incombono sull’umanità. E’ infatti inverosimile che 8 miliardi di persone, 196 Stati sovrani dieci dei quali dotati di armamenti nucleari, un capitalismo vorace e predatorio e un sistema industriale ecologicamente insostenibile possano a lungo sopravvivere senza andare incontro a catastrofi umanitarie, nucleari, economiche ed ecologiche. Di qui la necessità di uno sviluppo multi-livello del paradigma costituzionale, cioè della costruzione di un costituzionalismo sovranazionale, in grado di limitare i poteri globali oggi sregolati e selvaggi e perciò di colmare il vuoto di diritto pubblico prodotto dall’asimmetria tra il carattere globale degli odierni poteri extra-statali e il carattere ancora prevalentemente locale del costituzionalismo, della politica, del diritto e delle connesse funzioni di governo e di garanzia.
Non si tratta di un’ipotesi utopistica o avveniristica. Si tratta del dover essere giuridico della politica e del diritto medesimo, già formulato in quell’embrione di Costituzione del mondo che è formato dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte, dichiarazioni, convenzioni e patti internazionali sui diritti umani. A causa della miopia e dell’irresponsabilità della politica questa embrionale Costituzione del mondo è rimasta finora inattuata. Ma la sua attuazione è resa possibile dal carattere formale del paradigma costituzionale, consistente in un sistema di limiti e vincoli applicabile, grazie alla sua struttura a gradi, a qualunque apparato di poteri. E’ resa inoltre realisticamente necessaria ed urgente dalla gravità delle sfide globali. E’ infine resa giuridicamente obbligatoria dalla normatività dei diritti e dei principi di pace e di giustizia positivamente stabiliti nelle tante Carte internazionali e dai nessi di implicazione tra le aspettative nelle quali tali diritti e principi consistono e l’obbligo di introdurre le loro garanzie.
All’indomani della seconda guerra mondiale, infatti, non furono solo rifondati, nei Paesi liberati dai fascismi, i sistemi politici nazionali nelle forme della democrazia costituzionale. Fu anche rifondato il diritto internazionale, trasformato, dalla Carta dell’Onu e dalle tante Carte sui diritti umani, da sistema pattizio di relazioni tra Stati sovrani, basato su trattati bi- o multi-laterali, in un ordinamento giuridico entro il quale tutti gli Stati membri sono soggetti a un medesimo diritto, cioè al divieto della guerra e al rispetto dei diritti umani. Di questo nuovo ordinamento internazionale, basato sulla pace e sui diritti, si sta tuttavia verificando un processo decostituente, tanto vistoso quanto paradossale perché simultaneo alla globalizzazione che più che mai ne richiederebbe, al contrario, la costituzionalizzazione. Quelle Carte avrebbero richiesto – e tuttora impongono – norme di attuazione, dirette a introdurre le funzioni e le istituzioni di garanzia dei principi e dei diritti in esse stabiliti: garanzie della pace, tramite l’attuazione del capo VII della Carta dell’Onu e perciò l’istituzione del monopolio sovranazionale della forza, lo scioglimento degli eserciti nazionali e la messa al bando delle armi; garanzie dei diritti sociali, tramite adeguati finanziamenti di istituzioni globali di garanzia come l’Organizzazione mondiale della sanità e la Fao; garanzie dei beni comuni dell’ambiente naturale contro le loro terribili e crescenti devastazioni, tramite la creazione di demani sovranazionali e di rigidi limiti alle emissioni di gas inquinanti; garanzie giurisdizionali secondarie, a cominciare dal controllo di costituzionalità e di convenzionalità su tutte le fonti di diritto, statali e sovrastatali, in contrasto con i principi costituzionalmente stabiliti. Fatta eccezione per la Corte penale internazionale per i crimini contro l’umanità, il cui statuto fu approvato a Roma nel 1998 ma al quale non hanno aderito le maggiori potenze, poco o nulla è stato fatto. Si è anzi appannata la memoria dei “mai più” opposti nel quinquennio 1945-1949 agli orrori dei totalitarismi e delle guerre ed è tramontato il progetto, allora formulato, di una rifondazione costituzionale dell’ordine internazionale, proprio oggi che l’anomia dei poteri globali e la crescente interdipendenza mondiale hanno reso quel progetto più che mai necessario e vitale.
La nostra proposta di una Costituzione della Terra e l’organizzazione a tal fine di un movimento d’opinione e del maggior numero di scuole finalizzate alla sua elaborazione intendono contribuire a far crescere la consapevolezza della necessità di por fine a questa crescente divaricazione tra il “dover essere” disegnato dalle tante Carte dei diritti e l’“essere” effettivo del diritto internazionale. Questa distanza tra normatività ed effettività è il riflesso della divaricazione tra problemi globali e politiche locali, tra la crescente interdipendenza planetaria e il carattere ancora prevalentemente statale del diritto e delle istituzioni pubbliche, sia di governo che di garanzia. Oggi i problemi politici e sociali più gravi sono sicuramente globali: l’inquinamento atmosferico e il riscaldamento climatico; la dissipazione delle risorse energetiche disponibili; la produzione e la diffusione di armi sempre più micidiali che alimentano guerre e criminalità; la crescita esponenziale delle disuguaglianze in un mondo sempre più integrato che vede convivere enormi ricchezze e terribili povertà e il conseguente sviluppo di violenze, terrorismi e fondamentalismi; la mancanza, per centinaia di milioni di esseri umani, dell’alimentazione di base, dei farmaci salva-vita e dell’acqua potabile; lo sfruttamento illimitato del lavoro per la concorrenza al ribasso tra lavoratori dei Paesi ricchi e lavoratori in condizioni para-schiavistiche nei Paesi poveri; le diverse forme di criminalità organizzata, anch’essa sempre più globali; infine il dilagare a livello planetario delle pandemie, come quella ancora in atto del coronavirus. Ma questi problemi sono ignorati dalla politica degli Stati nazionali, ancorata al consenso popolare entro gli spazi ristretti delle circoscrizioni elettorali e nei tempi brevi delle elezioni o peggio brevissimi dei sondaggi. La democrazia odierna è affetta da localismo e da presentismo. Entra così in conflitto con la razionalità che oggi impone, nell’interesse di tutti, limiti e vincoli ai poteri selvaggi degli Stati sovrani e del mercati globali quali possono provenire soltanto da una Costituzione globale alla loro altezza.
Siamo peraltro convinti che la prospettiva di un costituzionalismo globale, logicamente conseguente ai diritti fondamentali stabiliti da tante Carte costituzionali e internazionali, apra un nuovo orizzonte alla cultura giuridica. Il costituzionalismo ha infatti mutato lo statuto epistemologico della scienza del diritto: non più la semplice descrizione del diritto esistente quale che sia, promossa dal vecchio metodo tecnico-giuridico, bensì la sua critica e la sua progettazione sulla base del carattere normativo dei principi di giustizia – l’uguaglianza, i diritti fondamentali, la dignità delle persone – in quelle tante Carte stipulati. La nostra ipotesi di un’estensione a livello globale del paradigma costituzionale allarga enormemente questi spazi della critica e della progettazione istituzionale e conferisce un fascino nuovo ai nostri studi. Il mio augurio agli studenti e ai docenti che frequenteranno la scuola e il laboratorio da voi istituiti è che essi avvertano questo fascino nuovo e vogliano perciò partecipare alla nostra impresa, impegnandosi nell’immaginazione e nell’elaborazione non solo del testo della Costituzione della Terra da noi ipotizzata ma anche, e soprattutto, delle funzioni e delle istituzioni di garanzia capaci di attuarla.

—————
costituente-terra-logo

Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi

lampadadialadmicromicro133Riceviamo e volentieri pubblichiamo. La lettera è indirizzata ai firmatari dell’Appello del “Patto di sardi”, pubblicato nella nostra news, come invito al dibattito per proseguire nel percorso intrapreso. Crediamo che abbia una valenza che interessa e coinvolge tutti i sardi e non solo, per questa ragione riteniamo meriti la più ampia diffusione.
———–
filippo-figari-sardegna-industre-2Rinasci Sardegna! Un Nuovo Inizio. Patto per Tutti i Sardi

Alcuni di noi, tra i promotori dell’Appello del “Patto di Sardi”, hanno preso l’iniziativa di scrivere la lettera-messaggio che sotto si riporta, nella quale sono presentate alcune proposte per proseguire, non più solo come cattolici, ma come donne e uomini sardi di buona volontà, nel percorso di assunzione di responsabilità e partecipazione attiva alla costruzione di un nuovo futuro per la Sardegna. La nostra funzione di piccolo gruppo di servizio è terminata: ora andiamo in mare aperto con il coinvolgimento attivo di tutti, i 207 firmatari attuali e altri che si aggiungeranno. Avanti con convinzione e impegno!
———
Lettera indirizzata ai firmatari del Manifesto-Appello alle istituzioni sarde

Care amiche e cari amici,
L’appello, firmato al momento da 207 sardi, cattolici e laici, ha raggiunto tutte le istituzioni sarde – comprese le forze sociali, sindacali, imprenditoriali – e la Conferenza Episcopale della Sardegna, che ha pubblicamente apprezzato l’iniziativa.
Numerose voci di vari orientamenti politico-culturali chiedono insistentemente di proseguire in un impegno finalizzato a ricercare – attraverso la mobilitazione di laici “responsabili e sensibili” – percorsi di speranza e di giustizia per le popolazioni sarde.
L’adesione suscitata dall’appello ci ha spinto a cercare di non disperdere questo patrimonio umano che incarna valori importanti capaci di incidere significativamente sul futuro della nostra società. Siamo convinti che in questo momento storico la Sardegna ha bisogno di tutti e che il bene dell’isola è interesse non solo dei partiti, delle forze economiche e delle lobby di ogni tipo e natura, ma dell’intero popolo sardo.
Da questo momento perciò, ci siamo proposti di aprire una riflessione tra quanti ritengono che si debba proseguire nel cammino iniziato con l’appello, chiarendo a noi stessi chi siamo, chi vogliamo rappresentare e cosa vogliamo fare nell’interesse della nostra gente sarda e in particolare di quella più colpita dalla crisi.

Chi siamo?
E’ stato scritto che inizialmente l’Appello era opera di un gruppo di cattolici sardi. Ma la nostra non vuole essere un’iniziativa confessionale. Siamo stati solamente i “propulsori” di un’iniziativa sottoscritta da 207 persone, e condivisa da tantissimi. Ma come proseguire e il da farsi è “consegnato” a tutte le donne e uomini di buona volontà. Noi cattolici ne siamo parte attiva, senza pretese di primogenitura, insieme con tutti.
La decisa e convinta adesione di numerose persone di vario orientamento ideale e culturale impone – per il bene dei sardi – la collaborazione tra quanti, come noi, credono nei fondamentali valori della centralità della dignità della persona umana, della solidarietà, della ricerca del dialogo sociale e della pace, della vicinanza alle “pietre scartate”.
Non abbiamo idea, al momento, se si sarà capaci di costruire questa prospettiva né si è riflettuto in maniera sufficiente su cosa potrà diventare questa aggregazione. Ciò che ci pare importante è che non possiamo rimanere silenti e non impegnarci perché le cose cambino. Siamo persone di provenienze le più diverse che si sono ritrovati in un documento che chiede un cambiamento radicale incisivo, considerando che fino a questo momento le condizioni delle popolazioni sono decisamente peggiorate e non solo a causa della pandemia.
Ciò che stiamo cercando di fare è svegliare le coscienze, rompere questo torpore che sembra avvolgere tutto, stimolare in maniera forte istituzioni, politica, forze sociali a non pensare esclusivamente agli interessi di parte ma alla ricerca del bene comune.

Ricostruire la Sardegna
Il programma di ricostruzione generale della Sardegna sul fronte socio economico è vastissimo perché richiama numerose problematiche di comparto, di settore e metodologie e strumenti d’attuazione sicuramente plurali. Ma due sono secondo noi i principi ispiratori di ogni scelta politica: 1) assicurare ai cittadini qualità della vita; 2) dignità della persona. Da questi principi ispiratori derivano alcune priorità, che elenchiamo senza pretesa di essere esaurienti:
- Diritto all’istruzione e alla formazione in tutte le forme e le articolazioni che il progresso scientifico e tecnologico oggi richiede per evitare qualsiasi forma di emarginazione.
- Cultura e rispetto dell’ambiente come bene da tutelare e risorsa da utilizzare
- Diritto al lavoro, strumento fondamentale perché la vita sia dignitosa
- Sussidiarietà tra diversi livelli istituzionali nel governo dei territori e nel rapporto tra istituzioni e le entità di partecipazione dei cittadini
- Diritto all’assistenza e alla cura per proteggere e promuovere, in tutte le età della vita, la dignità della persona

Impegno socio-politico dei cattolici
La ritirata della cultura sociale cattolica dalla scena politica non ha fatto bene alla nostra democrazia. Il suo ritorno, in una rinnovata prospettiva di apertura e inclusione, può contribuire a portare nuove idee, a ricostruire una politica che sembra orientata a raggiungere obiettivi di gruppi e/o di singoli piuttosto che avere l’idea che è necessario lavorare per tutti. San Paolo VI affermava che lo sviluppo o è per tutti o non è sviluppo. Anche i non cattolici sono in tutta evidenza fortemente interessati a un rinnovato impegno politico dei cattolici, con cui intraprendere comuni percorsi.

L’identità sarda
Il tema della sardità non può essere ignorato anche se le articolazioni di questo argomento sono tante e spesso divisive, e non da oggi. Il nostro obbiettivo è costruire un’autonomia vera, capace di autodeterminare bisogni, interessi, obiettivi sia di carattere sociale che di carattere economico. Da questo punto di vista l’interesse principale riguarda la rottura della dipendenza e assistenza che giova soltanto alle aree più ricche del paese, dalle quali provengono le merci che importiamo e che paghiamo grazie al contributo del cosi detto residuo fiscale. Non vogliamo essere un popolo di assistiti e dipendenti.

Nuovo Inizio per la Sardegna – Rinasci Sardegna! – Un Patto che unisca tutti i sardi. Forza Paris nei due significati di Insieme e Uguali.
Vogliamo essere soltanto un movimento popolare di opinione e di animazione – forte e incisivo – perché siamo a un cambiamento d’epoca che in Sardegna, se noi resteremo in silenzio e alla finestra, altri sicuramente hanno cominciato a scrivere.
Riflettiamo insieme anche sul nome, breve come uno slogan, ma emblematico e programmatico, per indicare il nuovo corso che economia, scienza, tecnologia, ambiente, anche pandemia hanno imposto, dentro il quale dobbiamo immettere valori ed etica. E decidiamo insieme.
Il vecchio approccio riformista non funziona più, l’economia liberista non sa più dove portare il mondo, l’ecologia integrale è la nuova salvezza. Certo anche la scienza giocherà un grande ruolo, lo dimostra la vicenda dei vaccini anti Covid-19. Ma non sarà sufficiente da sola, perché ci sarà bisogno di ridare senso a quasi tutti gli aspetti della nostra vita al punto che gli studiosi hanno coniato un termine che indica nuovo approccio a tutte le scienze sociali, quello “trasformazionale”.
La Sardegna ha urgente bisogno di un nuovo inizio per riprogettare la propria autonomia, riagganciarsi all’Europa (l’Europa dei popoli, solidale, unita e integrata nella valorizzazione delle diversità), uscire dall’arretratezza e dall’isolamento, per risalire le classifiche che ci vedono primi, tra i Paesi del Mediterraneo simili al nostro, per denatalità e abbandono scolastico, ultimi per occupazione giovanile, imprenditorialità, trasporti, speranza di futuro. Lo ribadiamo: dobbiamo dar vita ad una nuova cultura incentrata sull’ecologia integrale e un nuovo umanesimo. Lo dobbiamo ai giovani, alle donne e a tutti gli uomini di buona volontà, alla nostra gente sarda. Chi crede si ricordi delle parole “Io faccio nuove tutte le cose” e rimetta la speranza al centro dei nostri sogni e delle nostre sfide.

Gli strumenti per continuare a dialogare
Tutti sappiamo delle difficoltà di incontrarci personalmente e poiché siamo molto attenti al rispetto delle regole in tempo di pandemia , pensiamo che l’utilizzo dei nuovi media sia al momento l’opzione prevalente. Per questa ragione, ma anche perché questi strumenti sono efficaci, poco costosi e molto coinvolgenti pensiamo di attivare i social media più diffusi dal rafforzamento della esistente chat su whatsapp, alla realizzazione di una pagina fb e di un sito web dedicato. Dovremo anche prendere in considerazione l’opportunità di aprire un conto corrente bancario per fornirci di un agile strumento di autofinanziamento
Ciò ci potrebbe consentire di ampliare la partecipazione, di comunicare con efficacia, di raccogliere suggerimenti, idee da sviluppare insieme. Si tratta insomma di creare una rete la più ampia possibile sia rispetto alle organizzazioni sociali, professionali, ma anche di coinvolgere i territori della Sardegna.
——————
I promotori dell’Appello
——
accoci-filippo-figari-sardegna-industre-300x148-e1610702902292
—————————–
schermata-2020-11-26-alle-13-33-31

“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.

Appello di cattolici sardi

Premessa.
Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione.

1. Il momento della Sardegna.
La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.

La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.

2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.

– Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.

– Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.

– Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà

– Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.

Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.

Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.

La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.
[segue]

Appello: Uniamoci per salvare l’Italia

partecipazione-anpi-appello
Un’iniziativa dell’ANPI, a cui aderiamo convintamente.
anpi-logo
Uniamoci per salvare l’Italia. Per sconfiggere la pandemia, ricostruire il Paese, promuovere una democrazia più ampia e più forte, urge l’impegno delle forze migliori della società. Occorre una nuova visione per il nostro Paese. Cambiare per rinascere, ricomporre ciò che è disperso, unire ciò che è diviso, donare vicinanza dove c’è solitudine, vincere la paura costruendo fiducia.
Lanciamo un appello per una grande alleanza democratica e antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, mettendo a valore ogni energia disponibile dell’associazionismo, del volontariato, del Terzo settore, del movimento sindacale, della cooperazione, delle giovani generazioni, del mondo della cultura, dell’informazione, delle arti e della scienza, della società civile, della buona economia, col sostegno delle istituzioni e dei partiti democratici.
Un’alleanza che guardi al dramma presente attraverso i valori della solidarietà e della prossimità promuovendo una nuova cultura politica dell’ascolto e dell’incontro, ma guardi anche al futuro, affinché l’Italia del dopo Covid non sia la restaurazione dei vecchi e fallimentari modelli economici e valoriali, ma si avvii verso il cambiamento sulla strada tracciata dalla Costituzione.
Un’alleanza che contrasti l’insopportabile crescere delle diseguaglianze, combatta l’avanzare incessante delle mafie e della corruzione, sostenga il valore della vita e la dignità della persona umana e il lavoro come fondamento della Repubblica, assuma il valore e la cultura della differenza di genere, rivendichi la tutela della salute come diritto fondamentale, la centralità della scuola e della formazione, la piena e reale libertà di informazione oggi insidiata da vere e proprie intimidazioni.
Un’alleanza che unisca giovani e anziani, donne e uomini, laici e religiosi, persone di diverse opinioni, ma unite sui principi dell’antifascismo, per un Paese che torni a progredire pienamente, su basi nuove, sulla strada della democrazia e della partecipazione e dove l’economia sia finalmente al servizio della società e della persona, come più volte ricordato anche da Papa Francesco.
Un’alleanza che abbia a base i valori non negoziabili della pace e dei diritti umani, che si opponga all’insensata corsa alla produzione di armamenti, che abbia nell’agenda e nel cuore l’impegno per la difesa dell’ambiente e contro il riscaldamento globale, che guardi all’Europa davvero dei popoli, un’Europa come una risorsa e non come un nemico, che si opponga ad ogni violazione della legalità democratica, che consegni al nostro popolo e alle giovani generazioni l’insegnamento del passato e la speranza del futuro.
Un’alleanza che dia nuova vitalità alla partecipazione democratica in un parlamento del quale sia assicurata la centralità nei processi politici e decisionali.
Questo è il messaggio che intendiamo portare ovunque sul territorio, affinché si trasformi in una inedita, pacifica e potente mobilitazione nazionale.
Abbiamo alle spalle una straordinaria esperienza di valori chiamata Resistenza, sulla cui base è nata la Repubblica e la Costituzione, cioè la nuova Italia. Sono i valori della giustizia sociale, della libertà, della democrazia, della solidarietà, della pace. È giunto il momento di promuovere con lo sguardo di oggi un impegno democratico e antifascista che viene da lontano: uniamoci per salvare l’Italia, uniamoci per cambiare l’Italia
——————————————–
coord-demo-costi
Ufficio stampa: Andreina Albano – andreinaalbano@gmail.com – 3483419402

Piena adesione del Coordinamento per la democrazia costituzionale all’appello dell’Anpi
Dichiarazione di Alfiero Grandi, vicepresidente vicario del CDC

Il Coordinamento per la democrazia costituzionale (CDC) esprime piena adesione e un impegnato sostegno all’iniziativa promossa dall’Anpi con l’appello che punta ad unire le forze sociali e politiche che si riconoscono nella Costituzione.
Unire le forze è indispensabile di fronte alle minacce che investono le stesse conquiste democratiche.
Per troppo tempo si è pensato che queste conquiste non potessero essere messe in discussione, mentre oggi assistiamo a tentativi eversivi negli stessi Stati Uniti, a derive autoritarie in diversi paesi, anche europei, senza sottovalutare le serie preoccupazioni per il futuro della democrazia anche nel nostro paese.
Attuazione piena dei principi costituzionali, restituire credibilità alle istituzioni democratiche, a partire dalla centralità del parlamento, sono condizioni indispensabili per realizzare gli obiettivi contenuti nell’ appello.
Il Coordinamento per la democrazia costituzionale condivide pienamente l’obiettivo di dare vita nei territori del nostro paese ad iniziative comuni che, confermando l’unità nazionale, contrastino vecchie e nuove ingiustizie, aggravate dalla pandemia e dalla crisi sociale ed economica che ne è seguita.
Il CDC darà fin d’ora notizia ai comitati territoriali dell’appello con l’indicazione di partecipare attivamente alla costruzione delle iniziative comuni.
Per la Presidenza del CDC
Alfiero Grandi

Roma, 8 gennaio 2021
—————————————————
Questo è il clima che vorremo si creasse in Italia per affrontare la crisi sanitaria, economica e sociale che imperversa e che non si risolverà in tempi brevi
Pillole di Storia. schermata-2021-01-12-alle-11-06-39
- Discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi (10 agosto 1946)Il video (IstitutoLuceCinecittà)
«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire.
[...] Signori Delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra hanno combattuto e sofferto per una mèta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla.
È in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.[Il discorso integrale]»
———————————
OPINIONI – PAOLO FADDA
Paolo Fadda su L’Unione Sarda.
12 Gennaio 2021. L’intervento
Verrà il tempo di ricostruire
————————————————–

Questo è il clima che vorremo si creasse in Italia per affrontare la crisi sanitaria, economica e sociale che imperversa e che non si risolverà in tempi brevi

Pillole di Storia. schermata-2021-01-12-alle-11-06-39
- Discorso di Alcide De Gasperi alla Conferenza di pace di Parigi (10 agosto 1946)Il video (IstitutoLuceCinecittà)
«Prendo la parola in questo consesso mondiale e sento che tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me: è soprattutto la mia qualifica di ex nemico, che mi fa ritenere un imputato, l’essere arrivato qui dopo che i più influenti di voi hanno già formulato le loro conclusioni in una lunga e faticosa elaborazione.
[...] Ho il dovere innanzi alla coscienza del mio paese e per difendere la vitalità del mio popolo di parlare come italiano, ma sento la responsabilità e il diritto di parlare anche come democratico antifascista, come rappresentante della nuova Repubblica che, armonizzando in sé le sue aspirazioni umanitarie di Giuseppe Mazzini, le concezioni universalistiche del cristianesimo e le speranze internazionalistiche dei lavoratori, è tutta rivolta verso quella pace duratura e ricostruttiva che voi cercate e verso quella cooperazione fra i popoli che avete il compito di stabilire.
[...] Signori Delegati, grava su voi la responsabilità di dare al mondo una pace che corrisponda ai conclamati fini della guerra, cioè all’indipendenza e alla fraterna collaborazione dei popoli liberi. Come italiano non vi chiedo nessuna concessione particolare, vi chiedo solo di inquadrare la nostra pace nella pace che ansiosamente attendono gli uomini e le donne di ogni Paese che nella guerra hanno combattuto e sofferto per una mèta ideale. Non sostate sui labili espedienti, non illudetevi con una tregua momentanea o con compromessi instabili: guardate a quella mèta ideale, fate uno sforzo tenace e generoso per raggiungerla.
È in questo quadro di una pace generale e stabile, Signori Delegati, che vi chiedo di dare respiro e credito alla Repubblica d’Italia: un popolo lavoratore di 47 milioni è pronto ad associare la sua opera alla vostra per creare un mondo più giusto e più umano.[Il discorso integrale]»

Francesco Casula e Vanni Tola sulla scuola in Sardegna: intervengono con differenti approcci e focalizzazioni. La crisi della scuola (poco sarda) in Sardegna. Ita faghere? Scuola e trasporti, non soltanto un problema di infrastrutture

afbd7083-4013-4d7b-a2d8-32c18d7291c2 I record della scuola sarda: prima nella dispersione scolastica.
di Francesco Casula
Nel campo dell’istruzione la Sardegna continua a detenere record poco invidiabili: è ancora al primo posto – come del resto negli anni scorsi – in Italia per dispersione scolastica, seguita dalla Sicilia e dalla Campania. La percentuale nell’isola è del 18% e Nuoro tocca il record con il 42,7% dei “dispersi”.
Gli studenti sardi sono più tonti di quelli italiani? O poco inclini allo studio e all’impegno? E i docenti sono più scarsi o più severi? Io non credo. Come non penso che svolgano più un ruolo determinante o comunque esclusivi, la mancanza o l’insufficienza delle strutture scolastiche (laboratori, trasporti, mense ecc.), anche se certamente influenzano negativamente i risultati scolastici.
E allora?
E allora i motivi veri sono altri: attengono alle demotivazioni, al senso di lontananza e di estraneità di questa scuola. Che non risulta né interessante, né gratificante, né attraente. La scuola italiana in Sardegna infatti è rivolta a un alunno che non c’è: tutt’al più a uno studente metropolitano, nordista e maschio. Dunque non a un sardo. E tanto meno a una sarda.
E’ una scuola che con i contesti sociali, ambientali, culturali e linguistici degli studenti non ha niente a che fare. Nella scuola la Sardegna non c’è: è assente nei programmi, nelle discipline, nei libri di testo, nell’organizzazione.
Provate a chiedere a uno studente sardo che esca da un liceo artistico, cosa conosce di una civiltà e di un’architettura grandiosa come quella nuragica, sicuramente fra la più significative dell’intero Mediterraneo; provate a chiedere a uno studente del liceo classico cosa sa della parentela fra la lingua sarda e il latino; provate a chiedere a uno studente di un Istituto tecnico per ragionieri e persino a un laureato in Giurisprudenza cosa conosce di quel monumentale codice giuridico che è la Carta de Logu di Eleonora d’Arborea. Vi rendereste conto che la storia, la lingua e la civiltà complessiva dei Sardi dalla scuola ufficiale è stata non solo negata ma cancellata. Permane una scuola monoculturale e monolinguistica, negatrice delle specificità, tutta tesa allo sradicamento degli antichi codici culturali e basata sulla sovrapposizione al “periferico” di astratti paradigmi e categorie che le grandi civiltà avrebbero voluto irradiare verso le civiltà considerate inferiori. Questa scuola ha prodotto in Sardegna, soprattutto negli ultimi decenni, giovani che ormai appartengono a una sorta di area grigia, a una terra di nessuno. Apprendono l’italiano a scuola ma soprattutto grazie ai media: ma si tratta di una lingua stereotipata, gergale, banale, una lingua di plastica, inodore, insapore e incolore. Ma una scuola monoculturale e monolinguistica produce effetti ancor più gravi e devastanti a livello psicologico e culturale. Da decenni infatti la pedagogia moderna più attenta e avveduta ritiene che la lingua materna e i valori alti di cui si alimenta siano i succhi vitali, la linfa, che nutrono e fanno crescere i bambini senza correre il gravissimo pericolo di essere collocati fuori dal tempo e dallo spazio contestuale alla loro vita. Solo essa consente di saldare le valenze e i prodotti propri della sua cultura ai valori di altre culture. Negando la lingua materna, non assecondandola e coltivandola si esercita grave e ingiustificata violenza sui bambini, nuocendo al loro sviluppo e al loro equilibrio psichico. Li si strappa al nucleo familiare di origine e si trasforma in un campo di rovine, la loro prima conoscenza del mondo. I bambini infatti – ma il discorso vale anche per i giovani studenti delle medie e delle superiori – se soggetti in ambito scolastico a un processo di sradicamento dalla lingua materna e dalla cultura del proprio ambiente e territorio, diventano e risultano insicuri, impacciati, “poveri” sia culturalmente che linguisticamente.
Di qui la mortalità e la dispersione scolastica.
Ite faghere? Cambiare radicalmente la didattica, i curricula, la stessa mentalità di docenti e dirigenti scolastici.
Per quanto attiene alla lingua sarda occorrerà finalmente partire dal dato – appurato scientificamente da tutti gli studiosi – che la presenza della lingua materna e della cultura locale nel curriculum scolastico non si configurano come un fatto increscioso da correggere e controllare ma come elementi indispensabili di arricchimento, di addizione e non di sottrazione, che non “disturbano” anzi favoriscono apprendimento e le capacità comunicative degli studenti, perché agiscono positivamente nelle psicodinamiche dello sviluppo.
Per decenni l’impegno politico-sindacale, nel migliore dei casi, è stato finalizzato esclusivamente alla risoluzione dei problemi strutturali (aule, laboratori, palestre) o a quello dei trasporti. O a quello del personale e degli organici. Si è invece trascurato del tutto una questione cruciale: la catastrofica situazione della didattica. E dunque dei contenuti e dei metodi di una scuola che risulta semplice e piatta succursale e dependence della scuola italiana.
Negli indirizzi operativi per gli interventi a favore delle scuole pubbliche di ogni ordine e grado della Sardegna per contrastare la dispersione scolastica e innalzare la qualità dell’istruzione e le competenze degli studenti, la lingua sarda non viene neppure citata. Come se non esistesse alcun rapporto fra il fallimento scolastico, la scarsa preparazione e la questione del Sardo. Rapporto invece dimostrato inequivocabilmente da studiosi e pedagogisti come Maria Teresa Catte e la compianta Elisa Spanu Nivola. O come se la didattica fosse ininfluente per l’apprendimento e la formazione. Scrive a questo proposito il compianto Nicola Tanda, già professore emerito di Letteratura e Filologia sarda nell’Università di Sassari: “Nelle classifiche della scuola superiore il Friuli occupa la prima posizione e la Sardegna quasi l’ultima. Mi domando: c’è qualche connessione tra questi risultati e l’uso proficuo che essi fanno della specialità del loro Statuto?”.
——————————————
arst
Scuola e trasporti, non è soltanto un problema di infrastrutture.
di Vanni Tola.
L’emergenza sanitaria di questo ultimo anno, l’esigenza di rincorrere ed arginare la pandemia per difendere la salute di tutti, ha limitato la nostra capacità di analizzare la realtà e di progettare un futuro migliore. Analizziamo la situazione scolastica in Sardegna. Il 24% dei giovani trai 18 e i 24 anni non ha un diploma. Il 28 % delle persone tra i 15 e i 29 anni non studia più, non lavora e non fa formazione professionale. Il 57,4 % dei residenti in Sardegna non va oltre la scuola dell’obbligo (50,1 la media nazionale). L’Unione Europea considera fisiologico il dato che un 10% della popolazione non abbia un diploma, questa percentuale, tra i residenti nel sud Sardegna raggiunge il 63,9%, il dato peggiore d’Italia. Nelle grandi città invece i valori relativi all’istruzione sono sostanzialmente più vicini alla media nazionale. Vogliamo cominciare a domandarci il perché? Vogliamo provare a individuare le cause e a pensare alle soluzioni del problema? Cominciamo dal problema del trasporto degli studenti verso gli istituti scolastici superiori. Non è soltanto un problema di scarsa disponibilità mezzi pubblici. Terminata la scuola media, la maggior parte dei giovani dei nostri paesi é “condannata” a vivere la poco invidiabile condizione del pendolarismo verso i centri più grandi, sedi degli istituti superiori. Significa, per un periodo di almeno cinque anni, doversi alzare molto presto, viaggiare su mezzi pubblici spesso indecenti e in condizioni non certo comode, frequentare le lezioni e tornare poi a casa quasi a metà pomeriggio con l’impegno, naturalmente, dei compiti e dello studio a casa. Pensate che per un giovane possa essere “attraente” questa offerta scolastica considerate anche le basse prospettive occupazionali che un diploma promette? Considerata la scarsa spendibilità nel mondo del lavoro di titoli di studio quasi mai direttamente collegati alle esigenze e alle richieste del mondo del lavoro? La tentazione alla rinuncia dello studio oltre la terza media é fortemente incentivata da questo stato di cose.
Proviamo invece a pensare al fatto che in tanti piccoli paesi, a causa dello spopolamento e di servizi sociali al limite della sopravvivenza, esistono centinaia di edifici di scuole della fascia dell’obbligo ormai abbandonate o sottoutilizzate che potrebbero ragionevolmente essere recuperate per realizzare sedi decentrate degli istituti superiori che attualmente esistono esclusivamente nelle grandi città. Ci vogliamo pensare seriamente alla possibilità di creare dei poli scolastici polivalenti nei paesi di medie dimensioni nei quali ospitare sezioni staccate dei diversi istituti cittadini? Non pensate che limitando il pendolarismo e garantendo migliori condizioni di vita per gli studenti oggi costretti al pendolarismo il loro interesse per lo studio potrebbe essere incrementato? Le potenzialità dei moderni mezzi di comunicazione e un intelligente insegnamento a distanza potrebbero aiutare in tal senso. Studi sociologici e demografici da tempo evidenziano e denunciano i limiti ormai noti dell’inurbamento quasi forzato verso le grandi città e le città costiere. Indagini e ricerche che suggeriscono scelte politiche orientate al decentramento dei servizi nei territori anche nella prospettiva di favorire la riantropizzazione di aree geografiche in via di spopolamento e la rinascita di paesi altrimenti destinati a scomparire dalle carte geografiche nel giro di pochi decenni. Un problema immenso, difficile, complesso ma non per questo irrealizzabile che richiederebbe lo sforzo congiunto di università e centri di ricerca, un ceto politico capace e ambizioso, una mobilitazione generale e una rivalutazione delle esperienze positive in atto in tal senso. Perché non pensarci? D’altronde sembra essere questa l’indicazione di massima dell’Unione Europea contenuta nei nuovi programma di spesa per lo sviluppo.
————

Scienza e Politica nella pandemia. Avanti sia pure con i dubbi e non con rassicuranti “verità”.

murgia
Libertà e metodo scientifico ai tempi della pandemia
di Antonello Murgia

L’altro giorno il mio amico Alessandro Negrini mi ha chiesto cosa ne pensavo di un recente esperimento [1] le cui conclusioni sono state che i risultati dei tamponi normalmente utilizzati per rilevare la positività al Covid-19 sono del tutto inattendibili e sovrastimati e che pertanto sono ingiustificati e illegittimi tutti i provvedimenti assunti per contenere la diffusione della pandemia. Anzi, questi si configurerebbero come una preoccupante limitazione della libertà dei cittadini che avrebbe spesso scopi differenti da quelli dichiarati. E così ne abbiamo discusso un po’. Alessandro intuiva la scarsa attendibilità dell’esperimento, ma non aveva sufficienti conoscenze per giudicare; e mi ha stimolato a mettere nero su bianco una riflessione per i non addetti ai lavori. Il problema nasce, a mio avviso, da un approccio spesso scorretto alla scienza; rimando a chi ha già dato una risposta sul caso specifico [2], [3] e mi soffermerò invece sul metodo che, in generale, dovrebbe guidare l’uso della ricerca in favore della collettività.
Col passare del tempo aumenta la documentazione scientifica su contagiosità e letalità del Covid-19 e su come prevenire e curare la SARS-CoV-2, ma certo abbiamo bisogno di chiarire ancora tante, troppe cose: l’importante è capire con quale metodo e con quali priorità senza esercitare limitazioni ingiustificate della libertà. Dico questo da un lato perché quello della libertà, diritto fondamentale garantito dalla Costituzione, è un tema sollevato da molti e dall’altro perché la società in cui viviamo ha regole che impongono delle limitazioni inevitabili. L’obbligo o meno della vaccinazione, ad esempio, è un tema che tocca da vicino il concetto di libertà. Personalmente sono contrario all’obbligo, penso che un intervento che riesca a convincere le persone dia risultati più corretti e più giusti perché derivanti da una maggiore responsabilità e perché più condivisi. Però penso anche che questo concetto andrebbe discusso approfonditamente: la dimensione molto individualista che non raramente vedo attribuirgli nelle nostre società occidentali, la sento in contrasto con la Costituzione e con un rapporto collettività/individuo nel quale sia chiaro che la mia libertà finisce dove inizia quella dell’altro e che l’interesse collettivo è preminente su quello del singolo. A parte ciò, in questi mesi ho visto ripetutamente un’opposizione alle misure di contenimento del contagio non giustificata dalle acquisizioni scientifiche che andavano accumulandosi. Il tutto con una veemenza che mi piacerebbe venisse manifestata sui temi più generali della salute: mi riferisco a quel modello di sanità ultraliberista che stiamo applicando da 20 anni e che ci sta facendo scivolare in basso nella graduatoria dei Servizi Sanitari Nazionali. E’ un modello nel quale il cittadino è stato trasformato in consumatore (ne ho parlato in precedenti articoli, rimando per brevità ad uno di essi [4]) al quale le imprese del settore offrono i loro prodotti in una logica tutta mercantile. E mi piacerebbe che ci si interrogasse di più e si interpellasse la scienza sul perché in Italia siamo al 3° posto al mondo sia come diffusione del Coronavirus, che come sua letalità. Come cittadini dovremmo avere padronanza delle politiche sanitarie generali (cittadino che esige diritti invece che consumatore, medicina partecipata invece che calata dall’alto, sanità territoriale più che ospedaliera, budget di salute invece che gestore di salute, etc.) e invece mi sembra che ci impegniamo molto su questioni per le quali dovremmo affidarci di più agli specialisti e trascuriamo aspetti che dovrebbero essere di nostra stretta competenza. Chiarisco subito che ritengo la collettività l’unico titolare dei diritti fondamentali e il tecnico, l’uomo di scienza, soltanto il suo collaboratore e che quest’ultimo non può sostituirsi ad essa in virtù delle proprie conoscenze: la tecnica è indispensabile per governare bene, ma la tecnocrazia è sempre stata usata per legittimare privilegi che la rappresentanza politica da sola non riusciva ad imporre. Ma sono convinto che sarebbe sbagliato anche il contrario, cioè che la collettività o la sua rappresentanza assumessero decisioni politiche sulla base di acquisizioni che si pretendono scientifiche, ma che non hanno superato il vaglio della scienza.
E’ un problema che si ripresenta in continuazione, anche perché la scienza non sempre riesce a dare risposte soddisfacenti ed in tempi rapidi. Ma in questo caso cosa facciamo? Interpelliamo il mondo scientifico oppure chiediamo lumi al nostro vicino di casa che è una persona per bene ed anche disponibile? Sulla base di cosa facciamo le dovute scelte politiche? Sulla base di valutazioni cui la comunità degli specialisti riconosce i crismi della scientificità o sulla base di esperimenti fatti nel lavello di cucina col “Piccolo chimico” ricevuto a Natale? E’ vero, la fretta fa i gattini ciechi, ma qual è la risposta da dare ad un’indagine affrettata, che non ha una significatività sufficientemente alta? Si accetta, per l’urgenza di intervenire, il risultato pur non attendibilissimo e si chiede al mondo scientifico di continuare la ricerca e di raggiungere maggiori certezze, oppure si interpella il compagno delle medie che era il primo della classe e per giunta ha un fratello medico? Mi scuso per le estremizzazioni che ho usato (qualcuna neppure lontana dalla realtà), ma sono convinto che la soluzione consista nell’adozione di un metodo che ha mostrato nel tempo la sua efficacia, pur non assoluta, e che potrà essere messo in discussione, ma non deve essere usato per proporne allegramente uno peggiore. Qualcuno dirà: ma sono gli stessi scienziati a non essere d’accordo fra di loro, io ho pubblicato solo le dichiarazioni del prof. Tizio e del dr. Caio. Ho ben presente che in questa urgenza pandemica anche riviste prestigiose come Nature sono state criticate per aver accettato la pubblicazione di lavori sulla pandemia per i quali in periodi normali avrebbero chiesto supplementi d’indagine o che avrebbero addirittura respinto. Ma è comprensibile che in fase d’emergenza i filtri e le procedure siano meno accurati: il medico che praticò la tracheotomia d’urgenza al proprio figlio con un trinciapolli, o quello che lo fece con una penna Bic, non pensavano di adottare il c.d. “gold standard”, la procedura migliore, ma solo ciò di cui in quel momento disponevano avendo solo qualche minuto per decidere. Va bene, dirà qualcun altro, ma quando i dati che poggiano su solide basi scientifiche sono molto pochi, un’idea vale un’altra. Non è così: esiste una precisa scala di attendibilità dei dati alla quale si deve fare riferimento se si vuole evitare il caos. E’ tutto scritto nero su bianco e lo si può trovare anche su siti e riviste non specialistici: dagli studi randomizzati, controllati e in doppio cieco, a quelli di coorte, a quelli descrittivi, fino al parere degli esperti, possibilmente emanati in “consensus conferences”, in incontri dai quali esce un documento condiviso cui chi opera nel campo possa fare riferimento, se non si dispone di meglio. Ma senza la pretesa che il parere di un gruppo di esperti valga quanto metaanalisi di studi randomizzati e controllati.
Un altro documento che circola in questi giorni è un’intervista a Stefano Montanari, farmacista e ricercatore in campo biomedico (v. link [5]). Non è la prima volta che lo vedo usare argomenti veri e condivisibili come quello dell’interesse privato che può inquinare e spesso inquina l’esigibilità di un diritto fondamentale come quello alla salute, poi giustificare affermazioni del tutto prive di fondamento scientifico. Come ad esempio: “Il vaccino anti covid è una truffa colossale… questo è un virus che non è vaccinabile perché non da immunità, esattamente come il raffreddore”. Che potesse non essere “vaccinabile” era una paura giustificata dal suo essere RNA e analogo al virus del raffreddore, ma la cosa è stata poi smentita dalla ricerca scientifica. Questa può, anzi deve, essere criticata, ma la critica va fatta sulle riviste scientifiche: il confronto su un argomento come questo va fatto con chi fa la ricerca e nei luoghi che alla ricerca sono deputati e cioè quelle riviste scientifiche che hanno mostrato nel tempo sufficiente attendibilità ed indipendenza per garantire l’affidabilità di quanto pubblicano. Sui canali di informazione generale e sui social potrà essere discussa la rispondenza al vero dei risultati pubblicati su Lancet o sul NEJM o su Nature, ma è un errore gravissimo opporre alle evidenze (sempre criticabili) esposte nei luoghi della ricerca, considerazioni non supportate da pubblicazioni di livello all’incirca pari. Lo dico per chi non ha mai fatto ricerca e quindi non ha modo di accorgersi di quanto le fesserie esposte da Mantovani siano strampalate: la pubblicazione nelle riviste scientifiche più autorevoli avviene dopo un percorso di verifica e controllo da parte di scienziati (il cui nome è tenuto segreto per evitare che siano influenzabili). E le conclusioni che eventualmente si intendono contestare, devono seguire analogo iter sperimentale e sottostare ad analoghi controlli da parte della comunità scientifica: requisiti che invece non vengono richiesti per pubblicare su You tube o su Facebook o sui grandi media (o sul sito del partito politico “Movimento 3V”, come nel caso di Montanari). L’errore è sempre possibile e quando c’è fretta per la gravità del problema da risolvere, come nel caso dell’alta contagiosità e letalità del Covid-19, il margine di errore aumenta, ma la risposta a questo sta nel continuare la ricerca e nell’acquisizione di dati più significativi e non può consistere nell’adozione di un metodo meno affidabile come quello dell’impressione priva di dati sperimentali probanti da parte di chicchessia, fosse anche uno stimato ricercatore.
Una volta chiarito cosa succede a causa del Covid-19 e cosa la scienza ci propone per farvi fronte, si può anche decidere che è preferibile correre un rischio maggiore piuttosto che limitare la libertà di movimento dei cittadini o impedire ai bambini di andare a scuola e agli anziani, ai sofferenti mentali, ai giovani di avere una soddisfacente vita di relazione. E’ l’atteggiamento legittimamente adottato dal Governo svedese e, sempre per via della carenza di studi scientifici che avessero confrontato in precedenza i due modelli, quella scelta è stata utile anche a noi per valutare le strategie da adottare nella seconda ondata. Epidemiologi e virologi sono giunti quasi all’unanimità alla conclusione che il modello svedese ha dato cattivi risultati per cui, anche tralasciando valutazioni sulla disciplina dei cittadini svedesi e italiani, hanno consigliato misure più restrittive. In tutti i casi, ciò che spero d’essere riuscito a comunicare è che le valutazioni scientifiche vanno lasciate a chi fa ricerca, applicando il metodo universalmente adottato dalla comunità scientifica che, altro aspetto da sottolineare, è in larga misura indipendente dal regime politico in cui i ricercatori operano (anche perché una ricerca strumentalmente eterodiretta viene scoperta abbastanza facilmente perché viene al pettine il nodo cardine della riproducibilità). La politica, sotto il controllo dell’opinione pubblica, ha il diritto/dovere di adottare i provvedimenti di carattere sanitario, economico, di ordine pubblico, etc. che la scienza consiglia, mentre non ha quello di contrapporre scelte basate su una metodologia non riconosciuta: e se ci sono dubbi di scientificità, a Cesare quel che è di Cesare, dovrà esserne reinvestito il mondo della ricerca, non ci sono scorciatoie. Almeno fintanto che qualcuno non ci dimostrerà che c’è un metodo migliore.

Bibliografia
[1]. https://www.byoblu.com/2020/12/28/lesperimento-che-dimostra-la-farsa-dei-tamponi-amici-scoglio-e-dangelo/
[2]. https://www.open.online/2020/12/29/coronavirus-kiwi-positivo-esperimento-tamponi-rapidi-disinforma/
[3]. https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/12/30/il-kiwi-positivo-al-covid-19-disinformazione-pericolosa-ecco-perche/6051169/?utm_term=Autofeed&utm_campaign=Echobox2021&utm_medium=social&utm_content=fattoquotidiano&utm_source=Facebook&fbclid=IwAR1_wC3RNTwAo9QYY5z5QgtWKCyXfZOjAo9glrPX1U_HP9To5Duauof65CY#Echobox=1609456360
[4]. http://www.democraziaoggi.it/?p=6605
[5]. https://www.movimento3v.it/2020/12/21/lintervista-di-montanari-rimossa-da-youtube-il-vaccino-anticovid-e-una-truffa-i-vaccini-aumentano-le-malattie/?fbclid=IwAR2Ud2T0Kq1NiVvpeaVQWNlts27FuQu_UhaThFMzCSGp19eC4ZdNceendAI

————-——
Il presente articolo è pubblicato in contemporanea dalle tre news online Democraziaoggi, il manifesto sardo e Aladinpensiero nell’ambito del rapporto di collaborazione che le impegna.

Bisogno di Umanesimo

decameron
logo76
Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
di Umberto Baldocchi.
———-
Su Chiesadituttichiesadeipoveri, 30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA /

Si parla sempre più spesso, in relazione al tanto atteso periodo post-Covid, dopo che l’esperienza pandemica ci ha fatto toccare con mano che la “mano invisibile” della globalizzazione non ci può salvare dai disastri, di un nuovo inizio, della impossibilità di un ritorno alla “normalità” che abbiamo conosciuto, della necessità di reinventare un mondo diverso nonché di costruire una società all’altezza delle sfide epocali, per la verità senza che si precisi meglio in cosa dovrebbe consistere questa diversità o questa novità. O meglio senza che si sciolga una ambiguità di fondo. Il presidente del Consiglio ha parlato di un “nuovo umanesimo” che metta al centro il valore dell’uomo e la promozione della dignità umana.
Ovviamente, se parliamo di finanziamenti che mirino ad un progresso “sostenibile, verde, digitale e inclusivo”, è possibile – non è garantito però – che questo sviluppo metta davvero al centro il valore dell’uomo e riesca a ricostruire una società fondata sulla promozione della dignità umana. E anche il riferimento alle tre P Persona Pianeta Prosperità, come nuovi obiettivi dell’era post Covid, fatto dal presidente del Consiglio, suggerisce l’idea di un nuovo umanesimo che sia un ritorno ai valori, certo in forme mutate, dell’Umanesimo classico, cui l’Italia aveva dato vita a suo tempo.
Ma su questo “nuovo inizio” e “nuovo umanesimo” ci sono in giro interpretazioni molto diverse, forse anche opposte, benché non tali in apparenza. Se il Covid-19 ha messo in luce la fragilità dell’essere umano e delle nostre società e se la persistenza del virus non ci permette ancora di uscire dalla fase del distanziamento sociale e non ce lo permetterà forse a lungo, si potrebbe configurare, sia pure in via emergenziale, un neo-umanesimo molto diverso da quanto sopra sostenuto. Un neo-umanesimo, plasmato dal lockdown, che si fondi non sulla ricostruzione della relazionalità umana, ma sul potenziamento tecnologico dell’individuo (scopertosi “piccolo” e ”fragile”) e del ”sistema” biotecnologico di cui il singolo è sempre più parte integrante, per costruire quella resilienza che permetta anche all’economia di funzionare. In fin dei conti sostenibilità, green economy, digitalizzazione e inclusività potrebbero essere anche più che compatibili con un potenziamento tecnologico dell’individuo singolo, connesso mediaticamente al contesto sociale, ma non con quella ricostruzione piena della relazionalità, senza mediazioni, che connota la persona nella dimensione umanistica. Si andrebbe invece nella direzione di un “umanesimo” post-umano, trans-umano o oltre-umano, compatibile con certe forme di lock-down, che potrebbe diventare una pratica da rinnovarsi di fronte ai rischi possibili. Di umano resterebbe solo il termine, però contraddetto dalla preposizione (post, trans o oltre).
Un neo-umanesimo non umano
Ed in effetti c’è un retroterra di riflessioni e iniziative che sembra suggerire proprio questa interpretazione del “nuovo” umanesimo. Il Grande Reset (o “grande riaggiustamento”) è un’iniziativa-parola d’ordine lanciata dal World Economic Forum – giugno 2020- così come l’annuncio di una quarta rivoluzione industriale fondata sulla fusione delle tecnologie e data come evento ormai in via di affermazione. Anzi come un evento non arrestabile. Che, per la verità non lascerebbe molto spazio all’umanesimo in senso proprio, fondata come questa “rivoluzione” è sul cosiddetto post-umanesimo cioè sul Digital, 5G, biotecnologia, nanotecnologia, Internet delle cose, robotica, intelligenza artificiale, biologia sintetica e simbiosi fra i vari organismi, ibridazione dell’uomo con le cose. Se agli strumenti si sostituiscono i sistemi di cui l’uomo è una semplice protesi – come osservava Ivan Illich – l’identità umana non potrà più essere quella dell’homo sapiens. L’uomo dovrà mutare. L’umanesimo nuovo avrà poco in comune con quello classico. Sarà un umanesimo inedito, si dice. Tanto inedito da essere un “non umanesimo” nei fatti.
Una riflessione su questo può essere agevolata dalla considerazione comparativa degli aspetti dell’altro GRANDE RESET storico, quello del 1348, quello dell’Europa dopo la grande pandemia della peste nera. Anche quell’evento fu vissuto all’epoca come evento insieme straordinario e provvidenziale, in quanto decisivo per mettere alla prova le strutture sociali su cui si reggeva la società dell’epoca. Ed anche allora quella “prova” aveva dato risultati inquietanti. La società, nonostante conoscesse da tempo immemorabile le pestilenze, non si trovò “preparata” a rispondere.
Lo sguardo lungo di Boccaccio
E nella letteratura italiana abbiamo un testo straordinario che documenta e illustra questo passaggio, il Decameron di Giovanni Boccaccio, che nella sua Introduzione descrive proprio la peste del 1348 a Firenze di cui l’autore era stato testimone oculare. Gli effetti della pandemia del 1348 erano stati anche per Boccaccio sconvolgenti ed “apocalittici”, in un certo senso. Basti dire che in quel contesto anche “la reverenda autorità delle leggi, così divine come umana era quasi caduta e dissoluta” (Decameron, Introduzione), la società si era destrutturata, la vita umana era regredita a caratteri mai visti di animalità.
Si trattava di rispondere, anche allora, alla destrutturazione sociale portata alla luce dalla pandemia, ma già carsicamente presente nel mondo medioevale, un mondo in cui le istituzioni di governo, l’Impero e la Chiesa erano in grave crisi da tempo, e forze nuove emergevano dal basso, alterando e modificando un ordine sociale che non riusciva a trovare un nuovo equilibrio. Dentro la società che si stava disgregando in effetti nasceva qualcosa di nuovo. Se l’Impero universale si disfaceva e la Chiesa non svolgeva più la sua funzione di guida morale – come Dante aveva già denunciato – nascevano però nuove compagini europee, si affermavano culture nuove, le armi pacifiche dei mercanti e banchieri dell’epoca, la lettera di cambio e il fiorino, unificavano o avvicinavano le diverse aree europee, scavalcando i poteri territoriali, e cominciavano a dare unità economica all’Europa e al Mediterraneo. Potremmo dire che la mercatura e il mondo bancario nascente, insieme allo spirito di impresa delle nascenti borghesie, erano le nuove “tecniche” che consentivano di riordinare e resettare la società. Ma, dopo la pandemia, le nuove tecniche potevano bastare a ri-umanizzare il mondo?
La “commedia umana” del Decameron ci dice una verità piuttosto diversa. Non si trattava solo di rivolgersi al nuovo spirito mercantile o di ricorrere alle nuove tecniche monetarie per accrescere la ricchezza e la sua circolazione, se si voleva davvero ri-umanizzare il mondo. Si trattava di “fare società” laddove c’era conflitto, contrapposizione, individualismo o isolamento, così come avevano fatto nel piccolo i dieci giovani fiorentini riunitisi nella villa campagnola per fuggire la peste. La moneta poteva servire certo a fare unità, ma poteva servire anche a dividere, a contrapporre, a negare valori di umanità, ad alterare la giustizia, il culto religioso e così via. Nella affollata galleria dei personaggi del Decameron accanto al mercante coraggioso che affronta i rischi del mare, il regno della “fortuna”, c’erano infatti, grazie al nuovo uso del denaro, anche l’usuraio o il notaio falsario, il predicatore ciarlatano, l’inquisitore falso e ipocrita, il prete astuto e opportunista.
Ci vuole qualcosa di più della tecnologia per “fare società”. Sono necessari ingegno e intelligenza, ma neppure essi bastano. L’ingegno e l’intelligenza possono servire ad avvicinare ed unire le persone, a superare le barriere di classe e quelle culturali, a far convivere le idee e le fedi diverse, a fronteggiare i rischi della vita sociale, iniziando da quelli sanitari. Come tante novelle del Decameron mostrano. Ma ingegno e intelligenza non bastano, per due motivi diversi. Prima di tutto non bastano perché l’uomo non è buono per natura, non può recuperare una sua presunta innocenza originaria. La persona umana può servirsi dell’ingegno e dell’intelligenza – che pure non è sapienza – in modi molto diversi, secondo una scala di valori che ha gradi molto diversi. L’ingegno può essere usato per migliorare la realtà, ma anche per ingannare gli altri, per prevaricare sugli altri, per affermare il proprio io contro gli altri, per usare strumentalmente gli altri nella beffa, può essere identificato con l’astuzia e la furbizia che danno vita ad una sorta di “epos” degli sciocchi che si credono astuti, i mille Calandrini che incontriamo sempre nelle vicende umane.
In secondo luogo ingegno e intelligenza non bastano perché ci vuole una forza addizionale che spinga all’azione. Non basta pensare ciò che è giusto, bisogna volerlo. E il pensare non include il volere, diversamente da quanto aveva pensato tutta la filosofia classica.
Ci vuole l’amore
Ci vuole quel trasporto umano, quella forza “…che sovrasta la tempesta e non vacilla mai, che è la stella guida di ogni barca perduta… che non è soggetta al tempo… che non muta in poche ore o settimane” ( William Shakespeare) e che si chiama comunemente “amore” in senso profondo.
Quel sentire cioè che sublima sentimenti e doti che sono naturali, che è presente a livelli diversi in ciascuno, ma si realizza pienamente solo nelle personalità più elevate spiritualmente. Se l’amore umano, specie nella sua versione fisica e sessuale, non è negato a nessuno, c’è però una amplissima gradazione della passione d’amore, che fa la differenza fra le persone. In Lisabetta da Messina, in Griselda, in Federigo degli Alberighi e in pochi altri casi l’amore si manifesta come forza che vince tutti gli ostacoli, qualcosa che è “forte come la morte”. Amor vincit omnia vale solo per questi casi. Ma questa forza, che pure è posseduta da pochi, pervade tutta la società e la umanizza. E’ allora forse un anacronistico ritorno alla società cortese e cavalleresca, che delinea una via d’uscita nostalgica e passatistica dalla crisi pandemica, come mi pare riconosca nella sua ipotesi interpretativa, sia pure circondata da cautela e da riserve autocritiche, Franco Cardini nella sua interessante “incursione” storico-letteraria entro il Decameron visto in relazione alla pandemia? (Franco Cardini, Le cento novelle contro la morte- Leggendo Boccaccio: epidemia, catarsi, amore, Roma, Salerno editrice, 2020). Forse no, forse è qualcosa di più o di diverso.
Forse Boccaccio è molto più consapevole della realtà storica e dei suoi condizionamenti, per poter pensare davvero ad un ritorno al passato. Semplicemente ha scoperto una sorta di regolarità sociologica, qualcosa che non tocca solo la sua epoca, e cioè ha scoperto che ingegno e razionalità, pur necessari, non bastano a umanizzare la società. Attraverso una dedizione, sostenuta da questo slancio misterioso, occorre ricostruire i legami profondi della fides che lega tra loro le persone e consente di “fare comunità” e quindi “fare società”, o di costruire gli essenziali “beni relazionali” per usare termini oggi più alla moda. In questo modo Boccaccio afferma le esigenze di un vero umanesimo, che può essere sì sostenuto, oltre che dall’ingegno, anche dalla tecnica (nel suo caso quella borghese e mercantile che aveva potuto conoscere e sperimentare personalmente nella sua giovinezza) ma non può essere surrogato da essa.
Come ci fa capire il DECAMERON, la vera e decisiva risposta alla crisi pandemica non fu e non poteva essere una risposta emergenziale. L’isolamento sociale rappresentato, nel racconto, dal rifugiarsi dei giovani in una villa della campagna toscana – in realtà quell’isolamento era concepito come un fenomeno temporaneo, e comunque non era un fenomeno di asocialità, ma uno strumento per ricostruire una nuova convivenza – non era la soluzione, che invece poteva trovarsi solo nel ricorso alle grandi risorse della cultura umanistica esplicitato dai contenuti delle cento novelle. Si trattava di contrastare la destrutturazione sociale, la degenerazione e il degrado che la “emergenza” pandemica aveva portato alla luce, ma non aveva creato; esse c’erano già, anche se nessuno o quasi le percepiva. La vera e decisiva risposta fu quindi, in un certo senso, il grande umanesimo italiano nella sua stagione rinascimentale, che elaborò un modello culturale che fu ed è ancora un essenziale referente unificante per l’ Europa di oggi.
Una lezione per oggi
Al disfacimento sociale e morale che si accompagna alla peste delineato all’inizio dell’opera, Boccaccio contrappone infatti il ricorso all’intelligenza umana impiegata su scala sociale ed ai legami affettivi profondi, con l’amore al suo punto più alto, i veri strumenti per contrastare la disumanizzazione emersa nella pandemia e per combattere il “rischio”, ovvero l’imprevedibilità delle vicende in cui l’uomo è inserito, da lui denominato “fortuna” e quindi anche il rischio pandemico. Sono elementi entrambi che consentono di abbracciare pienamente la complessità del reale (questo il senso profondo del “realismo” del Decameron, che riesce a rappresentare l’ideale continuità tra i cavalieri della spada, o dell’ingegno e dell’industria umana e gli altri uomini tutti calati e assorti nei loro istinti e nelle loro passioni, senza i quali la rappresentazione del reale sarebbe mutila) e quindi di evitare quella cecità della conoscenza che anche oggi ci rende tanto soggetti a errori ed illusioni. L’intuizione umanistica di Boccaccio è in modo sorprendente perfettamente adeguata anche e proprio alla realtà che ci troviamo oggi di fronte. Come ha osservato Edgar Morin “l’intelligenza parcellare, compartimentata, meccanicista, disgiuntiva, riduzionista, spezza il complesso del mondo in frammenti disgiunti, fraziona i problemi, separa ciò che è legato, unidimensionalizza il multidimensionale. E’ un’intelligenza miope che il più delle volte finisce per essere cieca…. Così, più i problemi diventano multidimensionali [il Covid-19 oggi ne è un esempio], più si è incapaci di pensare la loro multidimensionalità; più progredisce la crisi, più progredisce l’incapacità di pensare la crisi; più i problemi diventano planetari, più diventano impensati. Incapace di considerare il contesto e il complesso planetario, l’intelligenza cieca rende incoscienti e irresponsabili…. Di fatto la falsa razionalità ossia la razionalizzazione astratta e unidimensionale, trionfa su tutte le terre… Da tutto ciò derivano catastrofi umane, le cui vittime e conseguenze, non sono riconosciute né contabilizzate, come lo sono invece le vittime delle catastrofi naturali… Il XX secolo ha generato progressi giganteschi in tutti gli ambiti della conoscenza scientifica, così come in tutti i campi della tecnica. Nel contempo ha prodotto una nuova cecità verso i problemi globali, fondamentali e complessi, e questa cecità ha prodotto innumerevoli errori ed illusioni. ”. (Edgar Morin, I sette saperi necessari all’educazione del futuro, Milano, Cortina, 2001, p. 43, 44, 45,46).
[segue]

Auguri

aladin-lampada-di-aladinewsAuguri di un Buon Anno e di Buon Lavoro per il nuovo Anno. Pace nel mondo!
logo76
IL CENSIMENTO
di Raniero La Valle

Care amiche ed amici,
al sopraggiungere di quest’anno 2021, quando Biden, Dio sa come, è presidente degli Stati Uniti, Conte è fortunosamente presidente del Consiglio in Italia, Johnson è il disastroso premier del Regno Unito e Angela Merkel, la donna tra i potenti che piange sui morti, è cancelliera della Germania federale, si deve fare un censimento di tutta la Terra, per dare a tutti il vaccino che li salvi dalla pandemia. È come il censimento che, secondo il racconto di Luca, Cesare Augusto ordinò che si facesse in tutto l’Impero, quando Quirino era governatore della Siria e nacque Gesù. Ma c’è una differenza. Quello di Augusto fu fatto per discriminare i cittadini non romani rispetto ai romani, mentre questo deve includere tutti. In quel tempo si pagava caro non essere cittadini romani: per esempio a Gesù costò essere giustiziato mediante la croce, supplizio a cui erano sottratti i Romani perché considerato troppo infamante per loro; a Paolo invece essere civis romanus fruttò potersi appellare a Cesare ed essere tradotto a Roma per esservi giudicato, anche se poi quella non apparve una così grande garanzia, se a Roma egli fu tenuto prigioniero e ucciso alla prima persecuzione utile.
Il fatto è che c’è censimento e censimento; a David fu rimproverato il suo perché era fatto solo per sapere di quanti uomini armati egli disponesse per la guerra, la Schindler list servì a salvare quanti più Ebrei dai lager, le liste anagrafiche sono usate spesso per escludere i poveri e negare il permesso agli stranieri, le mailing list rubate sul web servono ad ammassare consumatori.
Il censimento da fare oggi è invece sacrosanto, per la prima volta si deve fare in tutta la Terra per raggiungere tutti gli uomini e le donne di cui è preziosa la vita minacciata dal virus. Poveri e ricchi, come ha detto il papa, che il mercato sia d’accordo o no. Questo è stato il messaggio di Natale: “Gesù, è ‘nato per noi’: un noi senza confini, senza privilegi né esclusioni”. Contro il virus dell’individualismo, ha detto il papa, vaccini per tutti. “Non posso mettere me stesso prima degli altri, mettendo le leggi del mercato e dei brevetti di invenzione sopra le leggi dell’amore e della salute dell’umanità. Chiedo a tutti: ai responsabili degli Stati, alle imprese, agli organismi internazionali, di promuovere la cooperazione e non la concorrenza, e di cercare una soluzione per tutti: vaccini per tutti, specialmente per i più vulnerabili e bisognosi di tutte le regioni del Pianeta. Al primo posto, i più vulnerabili e bisognosi!”
Mai c’è stato, in tutto il messaggio natalizio, una distinzione tra chi fosse cristiano e chi cristiano non è, mai un minimo indizio che il papa pensasse ai “suoi”, o almeno ai credenti, e non a tutti. Queste “luci di speranza”, come egli ha chiamato i vaccini, “devono stare a disposizione di tutti”. Ormai il papa, che è conosciuto come il capo di una “cristianità”, sa di non essere mandato a una parte, a una selezione, a una Chiesa, sa che la sua udienza è per tutti, anche quando in piazza san Pietro o nell’Aula delle Benedizioni non c’è nessuno, in odio al contagio; ma sa anche perché, sa perché l’udienza deserta diventa comunione universale. La ragione è antica, ma la sua presentazione è nuova, mai si è predicato così, questa è la riforma della Chiesa e anzi delle religioni: è che il Padre ha reso tutti fratelli, tutti figli nel Figlio: “grazie a questo Bambino, tutti possiamo chiamarci ed essere realmente fratelli: di ogni continente, di qualsiasi lingua e cultura, con le nostre identità e diversità, eppure tutti fratelli e sorelle”; ma, ha aggiunto il papa, deve essere “una fraternità basata sull’amore reale, capace di incontrare l’altro diverso da me, di con-patire le sue sofferenze, di avvicinarsi e prendersene cura anche se non è della mia famiglia, della mia etnia, della mia religione; è diverso da me ma è mio fratello, è mia sorella. E questo vale anche nei rapporti tra i popoli e le nazioni: fratelli tutti!”. Anche se non è della mia religione. E se la fraternità non arriva a tutti, perché si ferma sulla porta di Caino, occorre andare oltre e riconoscere l’altro come prossimo, e qui non ci sono più frontiere perché il prossimo, come lo identifica Isaia e poi il Samaritano fino all’enciclica “Fratelli tutti”, è colui che è “della mia stessa carne”: “una caro”, come tra l’uomo e la donna. L’unità umana, voluta dal Padre, scende dalle alture spiritualistiche, si fa nella carne.
Perciò il vaccino deve essere per tutti: ma può esserlo solo come un bene comune, come l’aria, l’acqua, il sole, non una merce che produrrebbe ricchezze sconfinate a pochi, e lascerebbe fuori milioni di censiti in tutta la Terra. Il papa ha osato dirlo, attentando al principio supremo del profitto, e subito il Corriere della Sera col suo Ernesto Galli della Loggia ha superato ogni remora, ha decretato che la Chiesa è finita, col suo Francesco non andrà lontano, non ha più ragione di esistere.
Per contro proprio a questo dovrebbe provvedere una Costituzione della Terra che riconosca il diritto universale alla salute e lo munisca di garanzie e di istituzioni operative efficaci. Se ci fosse voluta ancora una prova per dimostrare quanto questo nuovo passo della civiltà e del diritto sia necessario ed urgente, la pandemia l’ha fornita. Ma intanto, mancando ancora tali istituzioni, la fornitura dei vaccini a tutti deve avvenire per decisione unanime degli attuali poteri economici e politici. Lo faranno?
Anche se questo accadrà, quando l’ultimo vaccino sarà stato portato dall’esercito, resteranno da raggiungere le persone reali, non un corpo che scompare dal video, non un viso travisato da una maschera, non un distanziato sociale, ma un volto da riconoscere, da carezzare, da amare.
C’è una riflessione molto profonda di Umberto Baldocchi su come uscire dalla pandemia; dice che il distanziamento è come l’inferno, e che il virus è funzionale al nichilismo; non se ne esce con la tecnologia, ma con un più di umanesimo, secondo la lezione del Boccaccio e dell’umanesimo italiano dopo la peste del 1348. Ve la proponiamo (Le nuove tecniche bastano a riumanizzare il mondo?) come pure pubblichiamo un appello di “Camminare insieme” di Trieste (Non possiamo tacere) per fermare il genocidio del popolo dei migranti nel Mediterraneo:
Con i migliori auguri per il nuovo anno.

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it

(Non possiamo tacere) per fermare il genocidio del popolo dei migranti nel Mediterraneo: Con i migliori auguri per il nuovo anno.

Newsletter n. 211 del 30 dicembre 2020 www.chiesadituttichiesadeipoveri.it”>
———
Come uscire dalla pandemia
LE NUOVE TECNICHE BASTANO A RIUMANIZZARE IL MONDO?
30 DICEMBRE 2020 / EDITORE / DICE LA STORIA / su chiesadituttichiesadeipoveri.

Auguri!

591af05b-3588-402a-bd58-8dff9b422621
L’anno che verrà (stanotte)

Caro amico ti scrivo
Così mi distraggo un po’
E siccome sei molto lontano
Più forte ti scriverò
Da quando sei partito
C’è una grossa novità
L’anno vecchio è finito ormai
Ma qualcosa ancora qui non va
.
Si esce poco la sera
Compreso quando è festa
E c’è chi ha messo dei sacchi di sabbia vicino alla finestra
E si sta senza parlare per intere settimane
E a quelli che hanno niente da dire del tempo ne rimane
Ma la televisione ha detto che il nuovo anno
Porterà una trasformazione
E tutti quanti stiamo già aspettando
Sarà tre volte Natale e festa tutto il giorno
Ogni Cristo scenderà dalla croce
E anche gli uccelli faranno ritorno
Ci sarà da mangiare e luce tutto l’anno
Anche i muti potranno parlare
Mentre i sordi già lo fanno
E si farà l’amore ognuno come gli va
Anche i preti potranno sposarsi
Ma soltanto a un a certa età
E senza grandi disturbi qualcuno sparirà
Saranno forse i troppo furbi
E i cretini di ogni età
.
Vedi caro amico cosa ti scrivo e ti dico
E come sono contento di essere qui in questo momento
Vedi, vedi, vedi, vedi
Vedi caro amico cosa si deve inventare
Per poter riderci sopra
Per continuare a sperare
E se quest’anno poi passasse in un istante
Vedi amico mio come diventa importante
Che in questo istante ci sia anch’io
.
L’anno che sta arrivando tra un anno passerà
Io mi sto preparando
È questa la novità.

(Lucio Dalla)

0b2d4b98-df67-4cec-a026-d54d615b4269
———————————-
Auguri!
schermata-2020-11-26-alle-13-33-31
Cari amici (amiche e amici), parlando con un amico ho definito noi partecipanti a «l’appello» come “profeti disarmati”, quasi svalutandone, inconsciamente, l’importanza. Il mio amico ha osservato come la definizione è ambiziosa e comunque di grandissima importanza per il ruolo che i “profeti disarmati” possono avere nella società, contrariamente a quanto sosteneva Nicolò Machiavelli. Confessando la mia ignoranza, devo dire che questa interpretazione mi è piaciuta e mi ha inorgoglito. Punto. Grazie a tutti voi e a tutti noi. Buon anno nuovo con tutte le cose belle che avete/abbiamo pensato e scritto. Auguri a noi, alle nostre famiglie ai nostri amici, a totus (anche ai nemici, che speriamo non avere!). E buon lavoro!

Recovery Fund

ngeu
ECONOMIE
Recovery: i soldi ci sono, manca la “svolta”

volerelaluna-testata-2
Su Volerelaluna, 14-12-2020
di Luigi Pandolfi*

Dopo le incertezze e i veti delle settimane scorse, il pacchetto di risorse che l’Unione europea ha messo a disposizione dei Paesi membri per il rilancio dell’economia ha ricevuto, finalmente, il definitivo via libera. La Germania ha fatto valere nella trattativa tutto il suo peso politico, ma per le condizionalità sul rispetto dello Stato di diritto – questione sulla quale si erano messi di traverso Polonia e Ungheria – la partita è stata chiusa con classico bizantinismo: le clausole non decadono, ma saranno accompagnate da una “dichiarazione interpretativa” nella quale tutti potranno riconoscersi, buoni e cattivi.

Ora è il tempo dei soldi, non si può fare “filosofia” sui diritti.

I soldi, infatti, sono un bel po’, «mai così tanti» si è detto da più parti: 1800 miliardi tra Next Generation UE e bilancio dell’Unione 2021-2027. E la novità sta nel fatto che i 750 miliardi del cosiddetto Recovery fund saranno raccolti sul mercato con l’emissione di obbligazioni europee. Non è la “rivoluzione”, ma certamente un passo avanti nel processo di integrazione. Una situazione nuova rispetto alla gestione della crisi precedente, con la BCE che sta svolgendo con più coerenza il proprio lavoro per la stabilità delle finanze pubbliche, tenuto conto anche della loro sensibile quanto necessaria dilatazione in questa fase. Il prossimo passo? Dovrebbe essere quello della sterilizzazione da parte di Francoforte del debito contratto dai Paesi membri per la pandemia, trasformando i titoli acquistati sul mercato secondario in perpetuals bonds. Cosa bisognerebbe invece buttare nella spazzatura? Certamente il MES, perché nell’epoca del denaro creato “dal nulla” è inammissibile che gli Stati debbano accettare ipoteche sui diritti dei cittadini per il loro approvvigionamento finanziario. Ma questa storia meriterebbe una trattazione a parte.

Torniamo al cosiddetto Recovery fund.

Per l’Italia il plafond, nella sua dimensione massima ammissibile, dovrebbe essere di 193 miliardi di euro, di cui 65,4 miliardi di euro di sovvenzioni e 127,6 miliardi di euro di prestiti (con altre risorse specifiche di bilancio si arriva a un totale di 208,6 miliardi, in pratica i famosi «209 miliardi» di cui si parla dall’inizio di questa partita), che il Governo dice di voler «utilizzare appieno». Ma a che punto stiamo con la programmazione? C’è una bozza di piano (Piano nazionale per la ripresa e la resilienza), ma non è quella definitiva sulla quale Bruxelles dovrà fare il suo lavoro di “limatura” prima della pronuncia definitiva dell’Ecofin, il Consiglio dei ministri dell’economia e delle finanze di tutti gli Stati membri. I tempi? Se tutto andrà bene, ma proprio bene, i primi soldi potrebbero arrivare nella seconda metà del 2021. Non proprio «tempi europei», per usare una nota espressione riferita alla durata degli interventi nei consessi dell’Unione.

Ma cosa c’è dentro la bozza preparata dal Governo? Innanzitutto che il Paese deve correre di più, perché «la crescita economica dell’Italia negli ultimi vent’anni è stata nettamente inferiore alla media europea e, più in generale, a quella delle altre economie avanzate». Quindi, più investimenti e meno tasse (riforme di contesto). Ma meno tasse a chi? A chi guadagna da 40 a 60 mila euro lordi all’anno e, naturalmente, alle imprese. E per i disoccupati, i precari, i poveri assoluti, per la lotta alle disuguaglianze, per tutti quelli che non hanno il problema delle tasse perché non hanno reddito o non ne hanno a sufficienza?

Per rendere l’idea delle proporzioni, basta dire che la parola «disuguaglianza» è presente soltanto due volte in un testo di 125 pagine, e solo con riferimento alla «disuguaglianza di genere». La parola «povertà» sette volte, «assunzioni» una sola volta, ma a tempo determinato e solo nel capitolo sulla giustizia, «precari» e «precarietà» non pervenuti. Diversamente, la parola «competitività» è presente quaranta volte e l’aggettivo «fiscale» (riferito a Irpef, sgravi, tassazione sulle imprese) venti. Potremmo fermarci qui, per quanto riguarda la filosofia di fondo: il problema rimane la “resilienza” del sistema, senza cambiamenti significativi dei paradigmi socioeconomici dominanti. Crescita della ricchezza nazionale, ma guai a sindacare sulla sua distribuzione sociale, che richiederebbe interventi diretti dello Stato e specifiche “riforme di contesto” con finalità redistributive. Questione ben più importante del “chi gestirà” l’attuazione di questi programmi. Bello e romantico richiamare il “primato della politica”, del Parlamento, dei vertici politici dei ministeri. Ma questa politica, questo Parlamento, che idee hanno sul futuro del Paese, diverse, si intende, da quelle che anonimi poteri tecnocratici, lobby economiche ed “esperti” mainstream ci propinano da anni? La verità è che tra gli “esperti” non abbiamo un Paolo Sylos Labini o un Pasquale Saraceno (l’autore del famoso “Rapporto” che aprì la strada alla programmazione economica dei primi anni Sessanta) e tra i “politici” non c’è nessun Riccardo Lombardi o Antonio Giolitti, o anche un Ugo La Malfa. Ci vorrebbe una mobilitazione dal basso, ma dove sono le forze?

Qualche numero: su 193 miliardi di euro, alle politiche occupazionali sono riservati 3,2 miliardi (l’1,6%), dai quali vanno comunque tolte quelle per le politiche “giovanili” tout court. Non va meglio per l’inclusione sociale, 5,9 miliardi (il 3%), e nel plafond è calcolata anche la quota spettante al terzo settore. E per la sanità e il Sud? Rispettivamente, 9 e 3,8 miliardi. Mancano all’appello oltre 170 miliardi di euro, qual è il loro impiego? Oltre 120 miliardi sono destinati alla transizione verde e digitale, il resto alle infrastrutture, alla manutenzione stradale, alla ricerca e all’istruzione («Dall’istruzione all’impresa» è il titolo associato a questa missione).

Beninteso, gli interventi destinati alle transizioni verde e digitale, la cui ampiezza, in termini monetari, è espressamente stabilita dall’Europa, sono importanti per la modernizzazione del Paese e nell’ottica del contrasto ai cambiamenti climatici, ma «semplificazione» da un lato e riduzione degli impatti ambientali dall’altro non implicano di per sé la transizione verso una società più giusta e umana, a misura d’uomo anche per quanto riguarda l’accesso al benessere, ai servizi essenziali, a un lavoro dignitoso e adeguatamente retribuito, alle cure. Chiariamo meglio questo concetto. Il digitale può servire (soltanto) a migliorare la “competitività” delle imprese, ma può anche favorire la riduzione e la distribuzione dei tempi di lavoro. La profezia di J.M. Keynes: «Nel giro di pochissimi anni, intendo dire nell’arco della nostra vita, potremmo essere in grado di compiere tutte le opera­zioni dei settori agricolo, minerario, manifatturiero con un quarto dell’energia umana che eravamo abituati a impegnarvi». Stesso discorso per la gli interventi green. Perché sia un vero Green New Deal l’idea della sostenibilità ambientale deve essere coniugata con quella di sostenibilità sociale, elevando tutte le condizioni di benessere delle persone, nel campo della sicurezza sociale, della salute, dell’istruzione, della democrazia.

Solo in questo modo si uscirebbe da questa crisi in maniera diversa da come ci siamo entrati. Diversamente, avremo più computer, più banda larga, (forse) cieli più puliti, ma continueremo a dividerci tra chi ha tutto, chi ha poco e i troppi, ormai, che non hanno niente.

————————
* Luigi Pandolfi, laureato in scienze politiche, giornalista pubblicista, scrive di politica ed economia su vari giornali, riviste e web magazine, tra cui “Il Manifesto”, “Micromega”, “Economia e Politica”. Tra i suoi libri più recenti: “Metamorfosi del denaro” (manifestolibri, 2020).