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Editoriali

Recovery Plan – Che fare? Dibattito.

sard-2030schermata-2021-02-17-alle-14-48-00 di Franco Meloni, fisico.
La pandemia ci può dare una grande occasione per ripensare a come vogliamo il futuro della Terra, in generale, e della Sardegna in particolare.
Per quanto ci riguarda, si può ricordare che l’Irlanda all’inizio del ‘900 ha basato il proprio sostentamento prevalentemente sulla coltivazione delle patate. Quando i raccolti sono stati vanificati da una malattia delle piante, moltissimi sono morti per fame, e moltissimi hanno emigrato nell’allora accogliente USA.
Noi abbiamo un grandissimo problema di emigrazione e abbiamo basato prevalentemente la nostra ricchezza sul turismo.
Abbiamo bisogno delle migliori intelligenze e quindi l’istruzione deve avere la preminenza sui nostri futuri impegni.
Abbiamo necessità di avere lavoro, che da dignità.
Dobbiamo scegliere se essere un popolo di sottomessi camerieri o indicare, piuttosto, una via giusta per una convivenza accogliente, tollerante e in grado di far crescere nel confronto con altre culture.
Dobbiamo razionalizzare le scelte e, prima di tutto, dobbiamo renderci conto che non si può e non si deve demandare ad altri la scelta che riguarda i nostri figli.
La partecipazione politica deve essere ritenuta fondamentale per rigenerare una classe dirigenziale degna di questo nome.
La democrazia, unica forma di amministrazione sociale che ha il compito di equilibrare il vantaggio dei singoli con quelli della comunità, può funzionare solo se gli elettori hanno una consapevolezza critica delle scelte che stanno compiendo. Nessuna scusa per l’ignoranza.
Non bisogna essere degli esperti di macroeconomia per capire che bisogna iniziare dando corpo alle infrastrutture.
La Sardegna ha bisogno di potenziare un sistema ferroviario che, senza ambire alla grande velocità, ci permetta di non usare l’automobile per spostarci da un capo all’altro della nostra piccola isola in due ore.
L’edilizia deve privilegiare la messa a norma di ospedali – da riorganizzare data la possibile ricomparsa del virus, comunque si chiami – dislocati nel territorio con punte di eccellenza da valutare con grande senso critico.
Devono essere messe in grado di funzionare le scuole, che devono adottare tecniche di didattica obbligate dalla pandemia. Si deve fare uno sforzo colossale per passare dalla carenza di carta igienica alla condivisione telematica.
Nello sviluppo delle conoscenze, a livello universitario, si deve dare priorità allo studio del reperimento dei beni alimentari nel rispetto della natura. Nessun terreno deve restare incolto o non rimboschito.
Abbiamo una tradizione culturale millenaria e questa deve essere utilizzata perché le nostre pietre fitte, i nostri nuraghi, i nostri pozzi sacri siano oggetto di studio da parte di persone che vogliano essere viaggiatori e non turisti.
Se vogliamo essere degni figli dei costruttori delle mille torri dobbiamo sostenere la cultura in tutte le sue forme. Le nostre musiche, i colori dei vestiti, l’eleganza dei nostri gioielli, la melodia delle nostre poesie devono essere orgoglioso tratto che ci rende consapevoli della nostra parte nella storia.
Abbiamo un grande compito davanti a noi. Facendo rientrare i nostri emigranti, cerchiamo di ripopolare i paesi che, in una nuova prospettiva abitativa, possono essere modello per una vita più rispettosa della terra che ci accoglie.
Abbiamo bisogno di usare tutta la nostra intelligenza per uscire dalla caverna dove ci ha confinato il nostro egoismo.
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INIZIATIVE SEGNALATE
Next Generation Eu – Recovery Fund. I Sardi si fanno il Recovery Plan. “Quelli che non stanno a guardare. Un patto per la Sardegna”
patto-nge-2021-01-28-alle-12-21-48Venerdì 19 febbraio 2021 un webinar – organizzato dal “Patto per la Sardegna” in collaborazione con la “Fondazione Caritas San Saturnino” – con il contributo di autorevoli partecipanti. Per rivedere il webinar, registrato sulla pagina Youtube del Patto per la Sardegna: https://www.youtube.com/channel/UCSHDj27FD9rsSN7XgEYBR7g .
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PROSSIMI EVENTI
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Venerdì 5 marzo alle ore 18.00 Il manifesto sardo e AladinPensiero organizzano un seminario web sul Recovery Plan in diretta dalla pagina Facebook, YouTube e dal sito del manifesto sardo.
Intervengono: Lilli Pruna, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro – Università di Cagliari; Chiara Maria Murgia, laureanda in Cooperazione Internazionale e Sviluppo presso La Sapienza Università di Roma; Alessandro Spano, docente di economia aziendale – Università di Cagliari; Enrico Lobina della Fondazione Sardinia; Graziella Pisu, esperta fondi strutturali europei, già direttore Centro di Programmazione RAS; Umberto Allegretti, professore emerito di diritto pubblico – Università di Firenze; Andrea Soddu, sindaco di Nuoro. Coordinano Roberto Loddo de il manifesto sardo e Franco Meloni di AladinPensiero.

Sono 209,9 i miliardi di euro destinati dall’Unione Europea all’Italia sul Recovery Fund (denominazione ufficiale Next Generation EU), da spendere entro il 2026, a cui si aggiungono i fondi strutturali europei (e per ciascun anno quelli ordinari di bilancio) sia residui, sia i nuovi della programmazione 2021-2027 (questi ultimi da spendere entro il 2029). Gli interventi programmabili in precisi progetti devono rispondere ai criteri stabiliti dalla Commissione e dal Parlamento europeo, declinando su 6 “missioni” fondamentali i 17 macro obbiettivi di sviluppo sostenibile fissati nell’Agenda Onu 2030, pienamente recepiti dall’Unione Europea. Le sei missioni sono: 1. Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e Ricerca; 5. Inclusione e Coesione; 6. Salute.
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L’Italia non è in ritardo rispetto alla programmazione dei fondi (i piani devono essere presentati alla Commissione europea entro il 30 aprile 2021) stante il fatto che il precedente governo Conte aveva licenziato un’ipotesi di Piano (PNRR) il 12 gennaio u.s.: un documento ben strutturato, tuttavia incompleto e carente nell’individuazione dei percorsi attuativi; soprattutto privo del consenso delle Regioni, degli Enti locali e delle parti sociali, che sono indispensabili rispetto ai buoni esiti complessivi. Il governo Draghi apporterà i necessari correttivi nelle direzioni citate. Ne siamo certi, anche se non conosciamo ancora in quale misura lo farà.

A proposito della gestione e della spendita dei fondi, nutriamo fondate preoccupazioni sull’efficienza degli apparati ai quali compete l’operatività. De Gaulle, o forse ancor prima Napoleone, diceva “l’intendenza seguirà”, nel senso che alle decisioni politiche devono necessariamente seguire quelle attuative. Ecco, anche su questo versante, stante l’esperienza del passato, non possiamo essere tranquilli. C’è molto da correggere, in tutti gli ambiti interessati e a tutti i livelli. E in Sardegna? I problemi sono analoghi, con una dose di maggiore criticità.

Non sappiamo ancora di quanti fondi potrà disporre la Sardegna. Si parla di oltre 7 miliardi di euro, con le ulteriori aggiunte (fondi strutturali e di bilancio), sempre riferiti alla programmazione 2021-2027. Sui due versanti, quello della programmazione e quello della gestione, occorre impegnarsi, in misura molto più rilevante di quanto già si sta facendo. Occorre cambiare passo per tutti i diversi aspetti, ricercando e praticando la massima unità possibile tra le forze politiche tra di loro, le istituzioni e le parti sociali. Un po’ sul modello proposto (o imposto) da Mattarella-Draghi, che speriamo abbia successo. Dobbiamo mettere mano all’adeguamento della struttura gestionale, richiamando all’esercizio di forte corresponsabilità i pubblici impiegati, a tutti i livelli. E chiamando i cittadini, singoli e organizzati, a un forte coinvolgimento, nelle forme più avanzate della sussidiarietà.

Di tutto questo ci occuperemo in una serie di webinar, organizzati da il manifesto sardo e da Aladinpensiero (e altri media che si aggiungeranno), a cui parteciperanno politici, sindacalisti, esperti, funzionari pubblici, esponenti del mondo economico, della cultura, del terzo settore e volontariato, operatori della comunicazione. La NGEU è un’occasione che sarebbe drammatico perdere. Ma noi siamo gramscianamente ottimisti.
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No, non è la fine

costituente-terra-logouna Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola

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Newsletter 31 del 17 febbraio 2021
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UNA PAROLA GLORIOSA

Con la soluzione della crisi di governo, l’emergenza in Italia e nel contempo in Europa e nel mondo, ha raggiunto la massima portata. Non c’è dubbio che secondo le categorie tradizionali si tratta di una soluzione di destra o, se si vuole, di un’uscita da destra dalla crisi, tanto più se il suo movente è stato, come si si sta delineando, il “business as usual”, gli affari come sempre nonostante la pandemia. Ma appunto a giudicare secondo le categorie del passato, mentre quello che oggi preme è il presente e il futuro. Non è di destra la scelta del presidente della Repubblica, che ha anzi scongiurato il rotolamento elettorale verso il fascismo; non è di destra che Salvini sia stato personalmente costretto ad abbandonare il sovranismo orbanista o lepenista (la Lega e la borghesia produttiva e egotista del Nord non l’avevano sposato neanche prima); non è di destra che l’on. Giorgia Meloni si trovi collocata fuori dal gioco; non è di destra che il più autorevole o internazionalmente noto come Mario Draghi si sia esposto e prenda decisioni come autore finale. Ma sarebbe di destra il lamento senza vera politica.
Invece nella politica sta oggi tutta la strada. E la politica oggi, non solo per noi, ma per Draghi (Draghi contro Draghi!), per la cultura, per le fedi, per l’economia e per lo stesso capitale, vuol dire una parola che viene proprio dal passato e che abbiamo fatto male a dimenticare. Dal passato infatti non viene solo il male onde noi oggi giudichiamo il presente: economicismo, monetarismo, diseguaglianza, bellicismo, austerità, neoliberismo, indifferentismo, Maastricht (tutte ideologie!), ma vengono anche delle grandissime cose, la Costituzione, il diritto, l’Europa, la tradizione pacifista, per non parlare del cristianesimo. A questo passato va oggi non contrapposta né dialettizzata secondo la cattiva filosofia delle opposizioni, ma va integrata e immedesimata una parola gloriosa che viene fino a noi tra le maggiori eredità del comunismo ma ancora prima dall’umanesimo, e questa parola è l’internazionalismo.
La sovranità non basta e fallisce, l’Europa non basta e da sola fallisce, il Regno Unito esce dall’Unione e si perde, la cosiddetta “America first”, proprio l’America della Normandia, stava rischiando come tale di precipitare nel fascismo e la pandemia irrompente in tanti filoni indipendenti e mutanti e non affrontata insieme rischia di vincere la partita e di sconfiggere anche noi. Nonostante tutte le buone intenzioni e perfino le giuste scelte che potranno fare il governo Draghi, la Commissione Ursula e quanti altri, senza l’internazionalismo, cioè senza soluzioni che oltrepassino il quadro dato, ossia le regioni, le nazioni, l’Europa i singoli ordinamenti e le consuete aggregazioni politiche e geografiche, non potranno trovare risposta né la transizione ecologica, né la transizione sanitaria, né la transizione digitale. Senza la non brevettabilità universale e distribuzione incondizionata dei vaccini, bene comune, senza la messa al bando universale delle armi, senza la decisione unanime sul clima, tutto ciò che di negativo è temuto e previsto, nonostante ogni parziale beneficio in contrario, avverrà.
Come deve essere evidente l’internazionalismo comincia dal condominio. Ma guai al provincialismo o al moralismo o al fai da te di chi dice: “ci basti intanto partire da noi”. La raccolta differenziata non significa niente (è uno sberleffo, un fastidio!) se dietro l’angolo il camion è lo stesso. L’internazionalismo è una politica. È un fare. Atto dopo atto, decisione dopo decisione, fatti dopo scelte, “recuperi” confronti e processi avviati. Di tale internazionalismo noi conosciamo il nome. Si chiama costituzionalismo internazionale, si chiama, quale obiettivo storico e politico, Costituzione della Terra. Esso infatti non vuol dire un potere universale, ma una molteplicità di poteri armonizzati e reciprocamente garantiti sul piano mondiale. Dalle istituzioni sanitarie a quelle giurisdizionali, dall’Organizzazione del Lavoro all’Alta Autorità per il diritto, la libertà e il finanziamento solidaristico delle Migrazioni.
Però questo – costituzionalismo – è un nome colto, almeno per ora, non è ancora pronto a entrare come un vento impetuoso nel linguaggio politico, nel discorso popolare, nell’ottusità dei mass media e perfino nei gabinetti raffinati delle stanze dei bottoni. Non è ancora pronto a farsi partito, a essere adottato come programma di partiti. Perciò il suo nome di battaglia, la sua gestione in forma popolare deve avvenire nel nome e nei nomi dell’internazionalismo. È una parola già fondata sul sangue di infiniti martiri, di cui vogliamo ricordare qui un solo nome per tutti, Marianella García Villas,
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uccisa in quanto internazionalista dagli stessi assassini dell’eroico vescovo di san Salvadore Oscar Arnulfo Romero. Dunque davvero un nome che rinvia alla testimonianza, alla responsabilità, alla lucidità politica e all’impegno civile di donne e uomini, di laici e religiosi, atei e credenti, deboli e forti, poveri e ricchi.
E dunque internazionale dovrebbe essere l’ambito e l’orizzonte nel quale deve operare, fin da ora, la nostra ancora fragile iniziativa di Costituente Terra, alla quale ancora una volta rinnoviamo l’invito a dare sostegno e ad aderire, nelle possibilità proprie di ciascuno.
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In ogni caso No, non è la fine, come dice il libro di Raniero La Valle appena uscito in edizione Ebook (a giugno in cartaceo), presso le Edizioni Dehoniane di Bologna.
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Come salvare il Recovery Plan dagli errori della prima fase
Fabrizio Barca

Sbilanciamoci! 15 Febbraio 2021 | Sezione: Nella rete, Politica
Il nuovo governo guidato da Mario Draghi dovrà subito impegnarsi nella finalizzazione del Recovery Plan italiano: tutti gli errori da evitare (e ciò che bisognerebbe fare). Dal sito del quotidiano “Domani”.
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Draghi

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Non parlate al manovratore stava scritto. Al contrario, bisogna farsi sentire da Draghi
16 Febbraio 2021

di Alfiero Grandi

Il governo Draghi è conseguenza dell’assenza di soluzioni politiche. Renzi ha provocato la crisi del Conte 2 senza porsi il problema di un’alternativa possibile, ora cerca di mettere il cappello sul governo Draghi. Lui ha certamente destabilizzato, ma altri hanno dovuto risolvere la crisi che ha provocato per evitare il crollo di credibilità delle istituzioni e il rischio di una crisi senza precedenti della nostra democrazia. Questa è la critica più forte e feroce agli irresponsabili destabilizzatori che hanno provocato scientemente la crisi della maggioranza politica precedente, costringendo a scelte di emergenza democratica, senza alternative se non le elezioni anticipate, finendo per favorire l’entrata nel governo di Forza Italia e della Lega. Non a caso la richiesta di elezioni anticipate è scomparsa tranne la flebile richiesta di Fratelli d’Italia.
Certo il governo Conte 2 era in evidente affanno da tempo, prigioniero dei veti di Italia Viva e di suoi limiti politici.
Le difficoltà del governo Conte 2 si sono manifestate con il taglio del parlamento, che ha trovato purtroppo il consenso parlamentare di tutta la maggioranza, malgrado i 3 voti contrari dati in precedenza dal Pd e Leu a questa modifica della Costituzione, voluta dalla precedente maggioranza giallo-verde. Il taglio è stato un colpo pesante al ruolo e alla credibilità del parlamento, al suo ruolo di rappresentante dei cittadini, a cui avevano già pesantemente contribuito l’abuso dei decreti legge, dei voti di fiducia e dei maxi emendamenti, usati a raffica per costringere il parlamento ad approvare i provvedimenti del governo. Quando i governi comprimono il ruolo del parlamento in realtà prenotano una loro crisi politica e di credibilità, perché la loro forza e legittimazione viene proprio dalla fiducia di chi è stato chiamato a rappresentare il paese.
Per questo le sfide da affrontare sono paragonabili alla ricostruzione postbellica.
La risposta a questa fase richiede non solo un sussulto di responsabilità del parlamento ma un protagonismo dei soggetti sociali, delle associazioni, delle persone che debbono con proposte e con la critica contribuire in modo non subalterno a costruire la nuova fase. Non è il momento di deleghe, occorre rivendicare un protagonismo della società che le rappresentanze politiche oggi non sono in grado di raccogliere. Alla luce dell’emergenza democratica e degli effetti nefasti del taglio del parlamento, è urgente anzitutto approvare una nuova legge elettorale proporzionale, senza soglie di sbarramento, senza liste bloccate decise dall’alto, con un collegio unico nazionale per garantire la massima proporzionalità, garantendo alle elettrici e agli elettori di poter scegliere direttamente i loro rappresentanti, ricostruendo anche per questa via un rapporto di fiducia tra eletti ed elettori. In più per il Senato occorre garantire la massima proporzionalità, dopo il taglio del parlamento, superando il vincolo costituzionale delle circoscrizioni regionali. Il compito di approvare una nuova legge elettorale, urgente ed indispensabile, è compito del parlamento. Votare con quella attuale vorrebbe dire mantenere in vigore una legge non costituzionale. Il governo non può sostituirsi al parlamento, come fece Renzi con l’Italicum imponendolo con voti di fiducia, ma può aiutarne il lavoro favorendo un’intesa sulla rappresentanza proporzionale e sul diritto dei cittadini di scegliere gli eletti.
Il governo Conte 2 purtroppo non ha capito l’urgenza di una nuova legge elettorale.
Certo la legge elettorale non basta, per ridare credibilità alla politica occorre anche regolare la vita democratica dei partiti, interrompendo la sciagura dei capipartito che decidono chi verrà eletto, e i partiti debbono ritrovare una capacità di progetto, mentre oggi sono ridotti a comitati elettorali. Occorre bloccare l’avventura politica ed istituzionale dell’autonomia differenziata tra regioni, chiesta da alcune regioni forzando la Costituzione e gli stessi referendum regionali, che finirebbe con l’indebolire l’unità nazionale e minacciare la parità di diritti previsti all’articolo 3 della Costituzione per tutti i cittadini italiani, a partire da settori fondamentali come il sistema sanitario nazionale e il sistema scolastico nazionale.
Il governo può e deve fare una scelta, respingendo queste istanze al limite della secessione.
La nostra Costituzione ha già subito fin troppi stravolgimenti che hanno peggiorato la funzionalità delle istituzioni italiane, per questo non deve essere al riparo da ulteriori modifiche, intervenendo solo quando è indispensabile correggere gravi errori compiuti con modifiche costituzionali precedenti. Ad esempio introducendo una norma costituzionale che garantisca l’interesse nazionale e obblighi il governo ad intervenire per farla rispettare in tutti i campi ritenuti essenziali, anche con poteri sostitutivi. Per il resto sarebbe meglio blindare la Costituzione contro ulteriori modifiche stravolgenti, ad esempio alzando la soglia necessaria per modificarla.
La lotta alla pandemia in questa fase ha bisogno di vaccinazioni di massa, di riconoscimento delle variazioni del Covid 19, di sperimentazione di cure di avanguardia per salvare al massimo possibile le vite umane, prevedendo investimenti massicci nella medicina territoriale, per alleggerire il carico di malati degli ospedali e per evitare il taglio di altri interventi. La sanità è un campo che richiede una chiara, forte inversione di tendenza con investimenti massicci dopo anni di tagli nel settore pubblico. Il sistema sanitario è una risorsa pubblica al servizio della salute di tutti, il suo funzionamento deve tornare ai livelli più alti nel mondo, come in passato, organizzando il personale sanitario e para sanitario come una risorsa permanente del sistema, finendola con la precarietà del personale e con un piano per riportare in Italia e in Europa la produzione di tutti i presidi sanitari considerati indispensabili per garantire la disponibilità delle risorse necessarie.
Per quanto riguarda il PNRR finalizzato all’uso delle risorse messe a disposizione dall’Europa, è indispensabile che l’utilizzo delle risorse europee avvenga in tempi rapidi fino all’ultimo euro, in aggiunta alle risorse nazionali, affidando alla maggior crescita del Pil il risanamento delle finanze pubbliche, escludendo in radice futuri interventi socialmente inaccettabili e lavorando per superare definitivamente in Europa le regole dell’austerità. Le finalità di fondo del PNRR dovranno essere ben chiare, a partire da una scelta sull’ambiente e sulla tutela del territorio come cifra di tutto il progetto, prevedendo l’uscita dall’uso delle risorse fossili nel più breve tempo possibile, compiendo scelte radicali come la diffusione a tappeto di tutte le energie rinnovabili. Scelte radicali, insieme ad altri paesi europei, possono collocare l’Italia all’avanguardia nella ricerca, nell’innovazione tecnologica, nell’occupazione di qualità, offrendo ai giovani una prospettiva occupazionale di grande valore per il futuro. Gestire la transizione dalla dismissione di tecnologie nemiche dell’ambiente e della salute a quelle green, innovative, rispettose dell’ambiente e del recupero del degrado, in grado di finalizzare l’istruzione e la diffusione dell’innovazione digitale, è la scelta più impegnativa per il governo, per il parlamento, per i partiti, per le associazioni, per i cittadini che vogliono contribuire a costruire l’Italia del futuro.
Più partecipazione, più democrazia, più coraggio su ambiente e sviluppo green, sono le sfide davanti a tutti noi. Se il governo ascolterà le istanze più innovative darà un quadro di riferimento e di sviluppo alle energie migliori del nostro paese. Altrimenti verrà perduta un’occasione.
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Draghi? Il dibattito è aperto e va avanti senza preclusioni
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Beni comuni e amministrazione condivisa – Il punto di Labsus
Draghi, i cittadini e la fiducia
La fiducia nasce dall’esperienza. Una proposta al Presidente Draghi per far ripartire il Paese

di Gregorio Arena, su Labsus 16 Febbraio 2021.
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Draghi? Il dibattito è aperto e va avanti senza preclusioni

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disperazione AladinIl governo neo-democristiano di Mario Draghi
di Lucio Garofalo

Ricordo che i golpe, un tempo, venivano attuati dai militari, oggi li ispirano i grandi banchieri e i tecnocrati dell’alta finanza, emissari della Confindustria ed alti referenti del Vaticano. Tuttavia, in modo ipocrita li chiamano “governi tecnici”. Lungi da me l”intenzione di formulare un’analisi dietrologica: qui mi limito ad una presa d’atto, ad una mera constatazione di quanto è accaduto sotto i nostri occhi nell’ultimo mese. Ad insinuare dubbi non sono i “perfidi bolscevichi” ed i “sovversivi rossi”, bensì pennivendoli al servizio degli apparati di potere, alti funzionari organicamente inseriti nei Palazzi del potere da anni. Viceversa, stupisce (non più di tanto) che i soggetti di un fantomatico e vago “centro-sinistra”, in cui si riconoscono oggi il PD, il M5S e vari “cespuglietti”, non abbiano mai battuto ciglio, né proferito verbo, per denunciare, né per stigmatizzare una congiura di palazzo in piena regola, che è stata orchestrata da elementi politici che fanno capo al potere economico sovranazionale ed “anonimo”, vale a dire il capitalismo cosmopolita, che non è più tanto occulto ed agisce in modo eversivo. Una trama in cui il doppiogiochista Renzi ha fornito il ruolo dell’ariete di sfondamento, per rovesciare Conte e insediare un nuovo esecutivo, di tipo “tecnico”, che dai nominativi di alcuni ministri “riesumati” alla stregua del dottor Frankenstein (Brunetta e Gelmini, giusto per citare un paio di nomi che ci fanno rabbrividire), si preannuncia già tetro e sinistro. Mi viene in mente una vignetta disegnata da Vauro ai tempi del governo Monti, che apparve sul Manifesto, in cui un tizio chiedeva: “E la democrazia?”, e un altro rispondeva: “L’hanno pignorata le banche!”. È una sintesi geniale di quanto è accaduto ancora nella realtà odierna. Anzitutto, la squadra del neonato esecutivo Draghi, concentra una serie di figure legate a doppio filo con i poteri forti e tradizionali, che da anni condizionano il triste destino del nostro Paese: le banche d’affari, la Confindustria, il Vaticano, i vertici militari. Tali poteri sono rappresentati nel governo Draghi in modo completo, usando il vecchio “manuale Cencelli”. Infatti, figurano vari portavoce della Confindustria e dei poteri economici di regime, bocconiani, nonché docenti di università private, più alcuni fiduciari delle alte gerarchie ecclesiastiche, ed infine vecchi arnesi del berlusconismo, che credevamo, in modo ingenuo, che fossero ben riposti in una soffitta, e via discorrendo. Il loro compito sarà di ordine prettamente tecnico-esecutivo, più che politico, in quanto dovranno tradurre in atti ed in provvedimenti di legge immediati, le direttive dettate dai vertici del mondo confindustriale: si tratta di una linea politica sposata in pieno dalle più alte istituzioni globali, come il FMI e tutto l’establishment al completo, bancario e finanziario, di tipo sovranazionale. Si potrebbe azzardare l’ipotesi che Draghi sia solo l’esecutore di un “disegno” di commissariamento del governo del nostro Paese. Si è passati ad un tipo di esecutivo in cui figurano i referenti delle grandi banche d’affari, i “tecnici” confindustriali ed i referenti della curia pontificia, nonché lo “stato maggiore” berlusconiano. È arduo scegliere il “meno peggio” in un calderone pieno di personaggi a dir poco discutibili, di cui già abbiamo sperimentato le “capacità”: ricordo solo l’operato del già citato Brunetta. L’esecuzione dei principali punti programmatici prescritti dall’alto al governo del nostro Paese, da parte dei soggetti che in vari modi costituiscono l’emanazione più diretta delle più alte oligarchie del mondo finanziario, comporterà forse ulteriori violazioni dei diritti e principi di tipo democratico e sindacale, ovvero delle residue tutele sociali che ancora hanno garantito il mondo del lavoro nei comparti della Scuola e Pubblica Amministrazione in Italia. È assai lecito paventare il rischio che incasseremo ulteriori sacrifici in quanto lavoratori. Dalle enunciazioni ancora piuttosto vaghe e generiche, direi ambigue, a tal punto che Mario Draghi si potrebbe ribattezzare come “democristiano”, si evince una palese assenza di rottura rispetto alla linea seguita dai governi negli ultimi lustri. Al contrario, si coglie una linea di aperta continuità con la politica adottata in passato da diversi governi sul fronte economico-sociale, e in particolare sul tema dell’istruzione scolastica e della Pubblica Amministrazione.

Lucio Garofalo
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Vauro
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PRECEDENTI INTERVENTI NEL DIBATTITO
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CONTROCANTO
«Ti piace il presidente Draghi?»: «No. Non mi piace»
13-02-2021 – di: Tomaso Montanari su Volerelaluna.

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Piove a Roma e abbiamo il nuovo governo. Ci aspettavamo un maggiore investimento innovativo. Ma, nonostante tutto, vale la pena sostenere, critici e vigili. E la Sardegna? Per ora al palo. Qualcosa però si muove…
Aladinpensiero 12 febbraio 2021
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Draghi? Il dibattito è aperto e va avanti senza preclusioni

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CONTROCANTO
«Ti piace il presidente Draghi?»: «No. Non mi piace»
13-02-2021 – di: Tomaso Montanari su Volerelaluna.
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Si può ritenere che la gestione della crisi sia stata, a tratti, opaca? Per esempio, nel colpo di scena (evidentemente non tale per tutti) per cui le Camere in nessun caso sarebbero state sciolte? Si può dissentire, anche radicalmente, dal Presidente della Repubblica, sostenendo che la scelta di Draghi sia non già un balsamo, ma invece un serio vulnus, per la nostra democrazia? Si può mettere in dubbio lo status messianico del Presidente del consiglio incaricato, ricordando che la sua intera carriera e il suo operato pendono dalla parte di chi ha reso il nostro mondo ciò che è (e cioè mostruosamente ingiusto, e diseguale), e non dalla parte di chi ha provato a migliorarlo? Si può auspicare, infine, che qualcuno, in Parlamento, abbia sufficiente autonomia politica e morale per «disobbedire al presidente Mattarella» (magari per non governare coi fascisti), questa inimmaginabile condotta da reprobi?

In pochi giorni, l’articolo 1 della Costituzione è stato riscritto così: «L’Italia è una Repubblica paternalista, fondata sui migliori». E uso “paternalismo” in senso proprio: nascendo quella parola per definire una «politica […] caratterizzata da una bonaria e sollecita attenzione verso i bisogni dei sudditi, escludendoli però completamente dal controllo delle attività dello Stato e da una qualsiasi forma di partecipazione alla gestione della cosa pubblica» (così il Grande dizionario della lingua italiana).

Il nuovo mantra dell’antipolitica ha assunto toni monarchici, autoritari, repressivi. «È finita la ricreazione! È entrato il preside: ora sono tutti muti, a capo chino»; «finalmente sono stati commissariati, quegli incapaci del Parlamento!»; «ha parlato il Presidente, nella sua saggezza, ora non vola una mosca»; «il Presidente sarebbe “infastidito” dalle condizioni poste dai partiti», e via dicendo. Il fasto del Palazzo del Quirinale ha eclissato le aule sorde e grigie del Parlamento esercitando, ancora una volta, la sua malìa autocratica: i fantasmi di papi e re hanno ripreso la scena, rimettendo al proprio posto il popolo bue, e i suoi bovini rappresentanti. Imponendo il nome di Draghi senza sottoporlo a consultazioni preventive (l’Eletto ne sarebbe uscito svilito); annunciando che un «alto profilo» spazzava finalmente via i populisti trogloditi; teorizzando un governo «che non debba identificarsi con alcuna formula politica», il Presidente ha inferto una mazzata micidiale al Parlamento: che vede divorato, sul colle più alto, un governo cui aveva appena rinnovato la fiducia.

Ora, più ancora di questa mossa con pochi (e discutibili) precedenti – ma comunque dentro i confini formali della Carta – sconcerta il plauso con cui tutti l’hanno accolta: te deum, ceri, inni, vitelli grassi sgozzati. Era il funerale della democrazia parlamentare, così debole, impotente, screditata da esser pugnalata a morte da un sicario saudita, e poi sepolta frettolosamente da un Padre severo: eppure i morti ballavano, e bevevano. Quanto è profonda la disillusione, anzi il disprezzo, verso la democrazia parlamentare, se tutti gioiscono perché le decisioni circa il bene comune vengono ora prese da una persona sola, con una regressione plurisecolare? Il godimento masochista di un’intera democrazia che, vedendosi umiliata, grida: «dai, frustami ancora!».

I pochissimi che, a sinistra, dichiarano anche in pubblico la loro avversità per il nascente governo degli ottimati, lo fanno additando la presenza non già del Caimano prossimo alla mafia, ma della Lega, punto di riferimento di neofascisti e neonazisti, e legatissima in Europa alle estreme destre xenofobe. Ma questa nefastissima inclusione non è un effetto collaterale imprevisto: è un esito fortemente voluto, per due ragioni.

La prima è il coinvolgimento del partito di Salvini in un’operazione chiaramente atlantica: un’operazione che lo allontani da Putin e lo faccia entrare nella cerchia occidentale che condivide onori e oneri del vampirismo turbofinanziario. Un’iniziazione, un’affiliazione.

La seconda, più velenosa e sottile, è la volontà di affermare l’unico vero dogma ideologico del mondo in cui Draghi è protagonista: TINA, There Is No Alternative allo stato delle cose. Non c’è alternativa alla monorotaia dell’ordine economico occidentale: e dunque le differenze politiche (destra e sinistra, fascisti e democratici, conservatori e progressisti…) sono solo cosmetiche, folkoristiche, buone per i talk: tenere tutti insieme (da Leu alla Lega) sotto l’ombrello paternalistico del Grande Banchiere intronizzato sul seggio dell’Esecutivo significa abrogare le ragioni stesse della politica. Il bene della nazione, il bene del popolo, il bene dell’Italia sono dati a priori: decisi, sul Colle più alto, dal padre della Nazione, e affidati al Governo di Alto Profilo. Quel che è non più nemmeno immaginabile è il conflitto: il conflitto sociale che diventa conflitto politico, e che in Parlamento trova una mediazione cui il governo dà attuazione. Tutto da dimenticare: niente conflitto, perché il Bene della Nazione lo conosciamo già.

Peccato che i ricchi non vogliano le stesse cose di cui hanno bisogno i poveri. Ma proprio questo è il punto. Perché questo “governo del Presidente” (cioè “governo non parlamentare se non proforma”) è aristocratico intimamente: programmaticamente. Da Berlusconi ai giornali degli Elkann, tutti invocano il “governo dei migliori”. Si glossa: dei competenti. Vano chiedere competenti su cosa (domanda lecita, viste le prime uscite sulla scuola: da bar dello sport dei Parioli). Vano ricordare che se l’Italia è messa com’è messa, è colpa non dei populisti ma dell’élite più ignorante, corrotta, familista, incapace del pianeta. Vano perché, come è chiaro fin dai tempi di Aristotele, si scrive aristocrazia, si legge oligarchia: governo dei pochi. Cioè dei ricchi. È davvero il culmine italiano dell’ordoliberismo: «uno Stato sotto sorveglianza del mercato, anziché un mercato sotto la sorveglianza dello Stato» (Foucault). In un momento in cui i tre uomini più ricchi d’Italia possiedono quanto i sei milioni di cittadini più poveri, in un momento in cui il massimo pericolo per la democrazia è che i ricchi sono sempre più ricchi e i poveri più poveri, si affida il governo della Repubblica all’uomo Goldman Sachs. Uomo nel senso di maschio, innanzitutto: perché il paternalismo è, per definizione, maschilista. E l’uomo di potere deve essere accompagnato, due passi indietro, da una «moglie di gran classe che non parla neppure se interrogata» (Aspesi). Maschio solo al comando: farà tanto meglio, in quanto non dovrà trattare con gli spregevoli partiti per i nomi dei suoi ministri.

È chiaro che stiamo imboccando l’oligarchia come via d’uscita dalla crisi della democrazia parlamentare? Con tanto di cronache a getto continuo dal buen retiro umbro della famiglia reale: che fa una vita così normale, signora mia! Stiamo cadendo da una (orribile) padella a una (fatale) brace. Una brace che ben conosciamo: «è da vedere se questo modo di pensare, molto diffuso, non sia un residuo della trascendenza cattolica, e dei vecchi regimi paternalistici», si chiedeva Antonio Gramsci.

«Costruire la democrazia equivale a distruggere le oligarchie – ha scritto Gustavo Zagrebelsky – con la precisa consapevolezza che a un’oligarchia distrutta subito seguirà la formazione di un’altra, composta da coloro che hanno distrutto la prima». In questo caso – è il dramma – l’oligarchia è quella di prima, che torna: mai distrutta. Quella che ha portato il Paese al disastro, il Pianeta sull’orlo dell’abisso. Mentre il costume e la retorica tornano a prima del 1789, o, a tutto concedere, a un dispotismo illuminato in cui il monarca-padre decideva per il “bene” di sudditi eternamente minori.

Siccome il danno, l’involuzione, prima che istituzionali sono culturali, se ne esce, se se ne esce, solo a dosi massicce di pensiero critico: pensiero contro, insubordinato, eretico, non conforme. Una mobilitazione di pensiero nelle scuole e nelle università, nei luoghi dove ancora si può cercare, attraverso una «erudizione implacabile» (ancora Foucault) di non piegare le ginocchia di fronte a padri saturnini. Occorre «il senso della rivolta», e la «capacità di sfruttare appieno le rare opportunità di discorso concesse» (Said). E, con il Tommasino di casa Cupiello, occorre saper rispondere, a chi chiede ossessivamente «ti piace il presidente Draghi?»: «no. Non mi piace».

Post scriptum
Dopo aver ascoltato Draghi leggere la lista dei ministri è stata subito ben chiara una cosa: nessuna tragedia politica, in Italia, è separabile dalla farsa. Il «Governo di alto profilo che non debba identificarsi con alcuna formula politica» annunciato da Mattarella è una specie di pletorico governicchio tardodemocristiano-berlusconiano costruito con la più bieca spartizione da manuale Cencelli. Altro che articolo 92 della Costituzione: è il trionfo della partitocrazia (15 politici contro 8 “tecnici”), mentre il Parlamento viene umiliato. Un vero capolavoro istituzionale.
Nani, ballerine, servi di partito, scienziati-manager in quota saudita. Brunetta alla Pubblica Amministrazione da solo vale il viaggio. All’inferno. Poche donne (tra cui la Gelmini, la Carfagna, la Stefani…santoddio…), quasi tutte senza portafoglio, e addette a faccende secondarie. Le uniche in primo piano, di area ciellina: con salde convinzioni circa il rispetto della famiglia tradizionale. Di Maio ancora agli Esteri, Speranza alla Salute. L’eterno Franceschini, incollato letteralmente alla poltrona, che ottiene il titolo lugubre di Ministro della Cultura: voluto da Mussolini nel 1937, abolito nel 1944.
Figuriamoci se fosse stato il Governo dei peggiori. Renzi, Mattarella e Draghi ci hanno regalato un governo di destra. Davvero non so con quale stomaco LeU e i Cinque Stelle potranno votare la fiducia a questo Bar di Guerre Stellari. Ma, come ci ricorda Giorgetti allo Sviluppo, non c’è nulla ridere: il disastro è appena cominciato.

Una versione ridotta dell’articolo è comparsa su Il Fatto Quotidiano del 12 febbraio
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Per connessione: IN PRIMO PIANO
Mario Draghi, una vita per le élites
09-02-2021 – di: Luigi Pandolfi su Volerelaluna.
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Piove a Roma e abbiamo il nuovo governo. Ci aspettavamo un maggiore investimento innovativo. Ma, nonostante tutto, vale la pena sostenere, critici e vigili. E la Sardegna? Per ora al palo. Qualcosa però si muove…

schermata-2021-02-12-alle-22-09-50Con Mario Draghi 23 ministri, 15 uomini e 8 donne.
Sono 4 i ministri per M5S, 3 ciascuno per il Pd, la Lega e Forza Italia, 1 per Leu e Italia Viva, con 8 tecnici. La media dell’età dei ministri è 54 anni. Il giuramento è fissato per le 12.00 di sabato 13 febbraio al Quirinale. Ecco i nomi.

PRESIDENTE DEL CONSIGLIO Mario Draghi

Luigi Di Maio (M5S) agli Esteri

Luciana Lamorgese (tecnica) all’Interno

Marta Cartabia (tecnica) alla Giustizia

Daniele Franco (tecnico) all’Economia

Lorenzo Guerini (Pd) alla Difesa

Giancarlo Giorgetti (Lega) allo Sviluppo economico

Stefano Patuanelli (M5S) all’Agricoltura

Roberto Cingolani (tecnico) alla Transizione ecologica

Dario Franceschini (Pd) alla Cultura

Roberto Speranza (Leu) alla Salute

Enrico Giovannini (tecnico) alle Infrastrutture

Andrea Orlando (Pd) al Lavoro

Patrizio Bianchi (tecnico) all’Istruzione

Cristina Messa (tecnico) all’Università

Federico D’Incà (M5S) ai Rapporti con il Parlamento

Vittorio Colao (tecnico) all’Innovazione tecnologica

Renato Brunetta (Forza Italia) Pubblica amministrazione

Maria Stella Gelmini (Forza Italia) agli Affari regionali

Mara Carfagna (Forza Italia) al Sud

Elena Bonetti (Italia Viva) alle Pari opportunità

Erika Stefani (Lega) alle Disabilità

Fabiana Dadone (M5S) alle Politiche giovanili

Massimo Garavaglia (Lega) al Turismo

Sottosegretario alla presidenza del Consiglio Roberto Garofoli (tecnico).
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lampadadialadmicromicro1Il nuovo Governo comincia. Un’apertura di credito, nonostante tutto. E la Sardegna? Ancora al palo, ma qualcosa eppur si muove!

Non è esattamente quanto ci aspettavamo. Avremo voluto maggior coraggio, maggiore investimento innovativo, anche nella scelta delle persone. Comunque Draghi e la nuova compagine sono in grado, sulla carta, di traghettare l’Italia verso una normalità democratica, quando si dovrà tornare alla sana dialettica maggioranza/opposizione, passando per un rinnovamento dei partiti e un nuovo sistema elettorale proporzionale, che promuova la partecipazione istituzionale. Auspichiamo questo nuovo quadro, nella transizione che deve essere governata, ancora nella pandemia ma con tutte le risorse già a disposizione (Next Generation Eu – Recovery Fund in primis). Dobbiamo uscire dalla crisi sapendo che dobbiamo superare la pandemia e la sindemia, cioè quel complesso di situazioni sanitarie, ambientali, sociali (disuguaglianze, povertà, disoccupazione, diritti negati…) che ci hanno travolto. Dalla crisi, ci ricorda ogni giorno Papa Francesco possiamo uscire migliori o peggiori. Insieme e con duro lavoro possiamo uscirne migliori. Tutti dobbiamo fare la nostra parte. Noi qui, in Sardegna, che rischia di essere ignorata e non resa partecipe dell’impresa comune. Una cosa è certa: se come sardi non ci facciamo sentire, nessuno ci terrà in considerazione. Noi nell’ambito della comunicazione e in quello politico-sociale-culturale faremo la nostra parte, in collaborazione con tutti coloro che intraprenderanno o hanno già intrapreso questo percorso.
Al riguardo, per una volta, pur sapendo in quale situazione di disagio sociale e anche di disperazione versiamo, lasciateci volgere lo sguardo verso i segnali delle cose che vanno in senso ostinatamente contrario: la ripresa della partecipazione, specie giovanile, l’attività (poco riconosciuta dalle Istituzioni) del terzo settore e del volontariato. In questo contesto vediamo crescere una piccola esperienza lanciata da un gruppo di cattolici sardi, che ora comincia a prendere il largo come iniziativa coinvolgente tante altre persone, “gli uomini e le donne di buona volontà”: il Patto per la Sardegna. Ci ritorneremo.
(Franco Meloni)
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Primi commenti.
Governo Draghi un carro per tutti in attesa di elezioni
13 Febbraio 2021
A.P. su Democraziaoggi.
Cos’è il governo Draghi? Come dev’essere intesa questa corsa a esserci senza paletti e condizioni. Come sembrano interpretarlo i partiti che si sono affrettati ad aderire, senza neanche conoscere il programma? Come è stato inteso l’appello di Mattarella all’unità nazionale?
Non è facile rispondere, ma alla buona e all’ingrosso pare che i partiti e i gruppi lo intendano più o meno così.
Draghi deve fare alcune cose indifferibili (Recovery, lotta pandemia, misure mitigatrici in campo economico e sociale, scuola, sanità ecc.). Se le avesse fatte Conte, se ne sarebbe intestato il merito o il corpo elettorale glielo avrebbe riconosciuto. La sua popolarità è già alta; è pericoloso per tutti (anche per il M5S?) incrementarla. Meglio un governo nel quale il merito è di tutti o di nessuno. Ecco perchè tutti vogliono esserci. E tutti vogliono tutti. E ci sono. Si va da alcune eccellenze ad alcune ragazze di B. fino alla Catarbia, che sembra una collegiale. La ratio delle composizione? Lasciamo da parte la vulgata della competenza, bla, bla, bla (non se ne può più!). Volete la verità? Nessuno ritiene vantaggiosa la partecipazione alle elezioni dall’opposizione. “Il potere logora chi non ce l’ha“, diceva uno che se ne intendeva, e non incrementa i voti. Quindi, lasciamo fare a Draghi alcune cose rognose, senza che nessuno possa trarne esclusivo merito (o demerito) in chiave elettorale, poi tutti in lotta contro tutti. E si vedrà. Anche per i ministri, non è tanto importante che ci siano i miei, l’importante che non ci siano neanche quelli altrui. Oppure – come è stato – par condicio, un po’ di tutto. Nel mezzo c’è l’elezione al Colle, e Draghi ha interesse a essere buono, a non scontentare nessuno. Niente figli e figliastri. Se no, tiro dal muretto a secco e impallinatura, come con Marini o Prodi. Ricordate? Sembrava impossibile, e invece… Draghi, dunque, è avvisato. Stia calmo e buono, se vuole salire al Colle. Ma lui questo ben lo sa e tutto vuole fuorché essere crocifisso. Tutto sommato lassù meglio lui di qualche improbabile uomo o donna del centrodestra, con umori antiCarta, razzisti e nostalgici.
E poi? Poi la partita riprenderà. E il gioco sarà pesante. Gli unici fuori dai radar sono ancora una volta i ceti popolari. A loro ci pensa solo Francesco nelle sue preghiere. Molta fede e buona volontà, ma non fa miracoli.
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Tonino Dessì
13 Febbraio 2021 – 10:06 su Democraziaoggi.

Una “ribollita” di centrodestra.
Che un Governo “di unità nazionale” o “di salute pubblica” o di “emergenza” espresso da questo Parlamento sarebbe stato spostato in senso più moderato rispetto al Governo Conte 2, si poteva darlo per scontato.
Vedere tuttavia così plasticamente incarnato in persone fisiche un Governo che è difficile non definire di centrodestra fa abbastanza impressione.
E parlo tanto della componente politica quanto di quella tecnica.
Come spiegare, se non come assunzione dell’interim implicito del ministero in capo a Draghi, il senso del siluramento di Gualtieri all’economia, per esempio, per sostituirlo con un tecnico dalla lunga carriera svolta fra Ragioneria generale dello Stato e Direzione generale di Bankitalia?
In parallelo, tuttavia, allo sviluppo economico nientemeno che il numero due della Lega, Giorgetti.
E Brunetta alla pubblica amministrazione non inganni: ce lo ricordiamo con lo stesso incarico in una precedente occasione e il giudizio non mi pare fosse dei più positivi, ma soprattutto, come storico, principale riferimento berlusconiano in materia economica, completa abbastanza linearmente il quadro degli equilibri interni che caratterizzano l’Esecutivo.
Colpisce sotto questo profilo anche il fatto che la composizione del Governo sia accentuatamente nordista: è vero, al Mezzogiorno c’è la pur volenterosa, intelligente e napoletana Carfagna, ma non riequilibra per nulla il contesto.
Si, naturalmente per esprimere una valutazione compiuta aspettiamo il programma (Recovery, vaccini, ripartenza, poco altro di più, magari niente di esplicitamente antipopolare).
Certo, niente elezioni anticipate in cui scontare meriti e demeriti di questa legislatura.
Infine si tira avanti senza strappi fino all’elezione del nuovo Capo dello Stato, scongiurando il rischio che possa eleggerselo da solo un centrodestra del quale si pronosticherebbe “allo stato” un largo successo elettorale.
Sai però che entusiasmo.
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GOVERNO DRAGHI: IL SUD E LA SARDEGNA MARGINALIZZATI?
di Benedetto Sechi, su fb.
Si sentono flebili lamenti, giungere da alcune parti della penisola e dell’Isola, sulla mancata presenza di rappresentanti nel nuovo governo Draghi. Tempo al tempo! Un qualche straccio di sottosegretario (dei quali confesso, non ho mai capito la funzione), verrà assegnato a chi sta ai confini dell’impero. Si tratterà. perlopiù di pro consoli, ufficiali di collegamento, utili a tenere i rapporti con le truppe, in attesa di ordini.

In realtà tutto il sud è stato messo un da parte! C’è da spendere soldi e questi si sa vanno dove l’economia tira, e l’economia tira soprattutto nel nord. Dall’unificazione del Regno d’Italia è sempre stato così. Non per ineluttabile destino, o per l’indolenza dei meridionali, ma perché cosi si è voluto formare lo stato italiano. Perciò il pensiero di Cavour, continua ad essere il faro dello stivale.

Troppo ghiotto è il piatto, ed i leghisti, che interpretano al meglio gli umori dell’impresa nordista, non se lo sono fatto ripetere due volte, abiurando alle loro storiche quanto insulse battaglie: rom, immigrati, no tasse, no euro, no Europa, pur di essere della partita.

Al sud una classe politica di secondo livello, non riesce a mettere insieme convenienze comuni e legittimarsi per una svolta davvero radicale, che metta in risalto le sue enormi potenzialità.

E la Sardegna? Mah? Questa è oggi, ancora più marginale, nonostante, o forse a causa, del governo sardo-leghista.
Il PSd’Az, che perfino nel suo statuto prevede il raggiungimento dell’indipendenza, ha delegato la sua rappresentanza nazionale a Salvini, sposando, di fatto il nazionalismo ed il sovranismo italiano, negando cioè la sua stessa ragione per esistere.

E’ parso davvero strano che Draghi incontrasse i rappresentanti delle minoranze linguistiche ed etniche, valdostane e sud-tirolesi, ma non i sardi, che pure numericamente sono ben più numerosi. Ancora più strano il fatto che nessuno glielo abbia chiesto.
Ma il presidente Solinas il problema non se lo è neppure posto, ha lasciato che fosse Salvini, rappresentarci.

Si è, ancora una volta, riconfermato che, per lo stato italiano, la lingua sarda non esiste, e che pertanto i sardi non sono un minoranza etnica.
Lo Statuto di Autonomia, ormai vetusto e che perciò andrebbe radicalmente cambiato, non è, evidentemente, tra le priorità di questo presidente regionale e dei sardisti. Il punto, quindi, sta nella scarsa consapevolezza dei sardi, di avere una loro identità culturale, storica, linguistica e perciò politica, sulla quale basare il patto istituzionale che li lega allo stato italiano, ed aggiungo all’Europa.
Si nega così l’esistenza di una “Questione Meridionale”, e di una “Questione Sarda” di gramsciana memoria. Eppure il reddito pro capite del sud è allarmante, povertà e criminalità organizzata crescono, mentre i nuovi paesi arrivati nella U.E. si sviluppano e ci sorpassano.

Ma in un tempo di grandi trasformazioni economiche e sociali, una forte iniziativa per costruire una “Macro Regione Europea del Mediterraneo”, non sarebbe più che sacrosanta? Potrebbe essere utile non solo al sud Italia, alla Sardegna, ma anche alla stessa Europa.
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Il governo d’emergenza e il sommerso della crisi
di Guido Formigoni
12 Febbraio 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
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Corradino Mineo su fb.

“Preparare il futuro, non prepararsi per il futuro”*

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lampadadialadmicromicro1Non so quanti lettori perderemo (in tale eventualità: dispiace, ma pazienza), ma quanto sostiene Beppe Grillo nel post pubblicato ieri sul suo blog, che qui riprendiamo integralmente, mi trova nella sostanza pienamente d’accordo!
Franco Meloni, direttore di aladinpensiero online,

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Condivido quanto scrive Beppe Grillo nel post che ha pubblicato sul suo blog. Penso che lo condividiamo in tanti a prescindere dalle appartenenze politiche. Per me un buon programma politico sulle cose da fare deve perseguire la realizzazione degli obbiettivi dell’Agenda Onu 2030. Il Next Generation Eu (Recovery Plan) è modellato sull’Agenda Onu 2030 e i Piani nazionali e regionali di attuazione delle linee stabilite a livello comunitario devono esserne conformi. Ecco: quanto sostiene/auspica Grillo è sostanzialmente coerente rispetto a quanto prevede l’Agenda Onu 2030 e la sua declinazione europea. Così penso. Ovviamente discutiamone.

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Un Super-Ministero per la Transizione Ecologica
Febbraio 10, 2021
di Beppe Grillo sul suo blog.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica lo hanno Francia, Spagna, Svizzera, Costarica e altri paesi. Presto lo dovranno avere tutti. Non lo dico io. Ce lo gridano la natura, l’economia, la società. E anche Papa Francesco. Siamo francescani, fondati il 4 ottobre, giorno di San Francesco.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica fonde le competenze per lo sviluppo economico, l’energia e l’ambiente. Capiamolo, una volta per tutte: è l’economia che rovina l’ambiente, non il contrario. Lo dico da vent’anni negli spettacoli: “Il vero ministero dell’ambiente è quello dell’economia, dell’energia, delle finanze”.

Un Super-Ministero per la transizione ecologica è la coordinazione per trasformare la società – non solo dell’economia. E’ uno strumento fondamentale, come ci sembrarono fondamentali i primi ministeri dell’ambiente negli anni ’70. Qualcuno allora faceva ironie. Ma oggi il ministero dell’ambiente lo hanno tutti gli Stati.

Dopo mezzo secolo abbiamo capito però che per curare il cancro non bastano i cerotti. I ministeri dell’ambiente sono obsoleti. Da cinquant’anni abbiamo il motore economico-ecologico in folle. Perché il motore è in banca. Non è nel bosco. Ora che lo abbiamo capito dobbiamo finalmente mettere la marcia avanti. La quarta, non la prima.

Solo un Super-Ministero per la transizione ecologica può affrontare le crisi che in cinquant’anni di economia patogena abbiamo fatto diventare emergenze: il clima, la biodiversità, le disuguaglianze, il lavoro, le migrazioni. Questa è una pand-economia micidiale. In mezzo secolo, ha fatto più morti che il Covid in un anno.

Fra poco avremo nei mari più plastica che pesce. Nei cieli, più satelliti che rondini. Nei parchi, più display che lucciole. Occorre un cambiamento di civiltà, non solo di governo. Sì, ma non adesso, ci dicono da cinquant’anni. Attenzione. Velo lo dico da Genova: questo ritardo ci costerà tantissimo. Me lo diceva mio padre, saldatore: costa meno un estintore che un autobotte dei pompieri.

stern_economicsLo sconvolgimento climatico è ora il problema economico, ripeto,
e c o n o m i c o,
più grave. Lo sconvolgimento climatico sta minacciando l’economia, la crescita, la finanza. Fa crescere povertà, disoccupazione, migrazioni. E’ questo il succo del “Rapporto Stern – Economia del cambiamento climatico” dell’economista britannico Sir Nicholas Stern, che il Presidente incaricato di sicuro conosce. Stern lo calcolò nel 2006: agire sul clima subito ci costa 10 volte meno che non agire. Son passati quindici anni. Al 4% per cento all’anno, di quante migliaia di miliardi di euro è aumentato il nostro deficit economico-climatico?

L’Italia deve chiedere al Presidente Macron di gemellarci nel One Planet Summit, ideato nel 2017 dal Presidente francese, ex- banchiere ed ex-ministro delle finanze. Il One Planet Summit riunisce ogni anno a Parigi i maggiori attori privati e pubblici della finanza mondiale che si impegnano per la transizione ecologica. Perché non fare il nuovo One Planet Summit a Roma? E i successivi in altre capitali europee, coinvolgendo così l’intera Europa?

Dopo mezzo secolo di inedia ecologico-economica, dobbiamo darci una mossa. Siamo da cinquant’anni nel comma 22. I banchieri hanno la leva principale per cambiare ma non hanno capito che bisogna cambiare. E quelli che hanno capito che bisogna cambiare non hanno la leva principale. Anche un banchiere e finanziere lo capisce, ma non può dire: “Sì, ma non adesso!”

Mettiamo dei fiori nei nostri bazooka!

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* La frase del titolo è di Papa Francesco.
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- Approfondimenti su Agenda Onu 2030 e Laudato si’

Che succede? La lettura della fase di Sbilanciamoci! Contributi al dibattito.

lampadadialadmicromicro132Nei giorni scorsi abbiamo pubblicato le analisi della fase che stiamo attraversando elaborate dall’ASviS (Associazione per lo Sviluppo Sostenibile). Nell’intento di allargare il dibattito riprendiamo ora le analisi dell’organizzazione Sbilanciamoci. Con ambedue le posizioni in larga parte convergiamo.
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No, Draghi non è simile a Monti
Giulio Marcon
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Sbilanciamoci! 7 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
I paragoni tra Monti e Draghi sono fuori luogo: diversa è la storia personale dei due tecnici, l’ancoraggio culturale e il contesto. Le incognite sono ancora molte su cosa avverrà e vedremo alla prova dei fatti. Fondamentale però sarà la consultazione con le parti sociali già richiesta dal premier incaricato.

Con l’avvento di Draghi nella politica italiana, i paragoni con il governo Monti di dieci anni fa si sono moltiplicati, ma fuori luogo. Allora Monti doveva tagliare la spesa pubblica, fare politiche di austerità, riformare le pensioni, rispondere ai vincoli del Patto di Stabilità europeo. Oggi Draghi deve gestire una immensa mole di finanziamenti, fare politiche di investimenti pubblici ed è libero dai vincoli europei. Monti doveva fare politiche restrittive e di tagli, oggi Draghi può fare politiche espansive e di spesa. Monti è un professore bocconiano, Draghi un banchiere gesuita. Monti si è formato nel milieau neoliberista, Draghi ha avuto come maestri i gesuiti e il keynesiano Federico Caffè. Monti si è dimostrato un politico sui generis, naif; Draghi nei suoi anni di BCE ha dimostrato di essere un fine politico, trattando con la Merkel e Macron, e soprattutto di sapere, da buon gesuita, come funziona il potere. E sempre da buon gesuita nella crisi di governo – la prima volta nella storia delle crisi di governo – consulta anche le parti sociali e non solo i partiti. Nonostante ciò, Monti conosceva meglio l’Italia e soprattutto la sua borghesia – quello che ne è rimasto – mentre Draghi, l’Italia di oggi la conosce poco, e anche gli italiani: senza mettere piede troppo alla Trilateral e al Bilderberg è un frequentatore dell’establishment globale e dell’élite finanziaria mondiale.

Ma non è detto che questo possa essere un limite. Draghi può usare questa estranietà – forse anche un po’ voluta – all’Italia reale per volare alto, superare i problemi sollevandosi ad essi, come una chiave per subire meno il peso dei condizionamenti dei gruppi di potere delle piccole e grandi corporazioni, di una élite sgangherata che non è più classe dirigente, di una politica ridotta ad avanspettacolo di pupi e mercanti in fiera.

Praticamente tutti i commentatori e gli analisti hanno evidenziato come l’arrivo di Draghi abbia segnato il fallimento della politica e l’impotenza delle istituzioni parlamentari. Dopo i governi tecnici nulla è stato come prima. Dopo il governo Ciampi nella prima metà degli anni Novanta, furono cancellati i partiti della prima Repubblica e arrivò Berlusconi. Dopo il governo Monti, poco meno di dieci anni fa, fu travolto il bipolarismo e arrivarono i Cinque stelle; e dopo Draghi le incognite sono veramente molte: sicuramente verrà spazzato via l’equilibrio – chiamiamolo così – di questi anni, sostituito da qualcosa di nuovo, che includerà forze e leader nuovi o quasi, forgiati probabilmente ancora una volta dalla temperie populista e mediatica. E dai poteri economici.

Non ci attendiamo svolte particolarmente virulente (né politiche ultra-liberiste) rispetto alle scelte dei precedenti governi: i binari sono posti, la direzione di marcia tracciata, molte delle controriforme strutturali più importanti e sensibili (pensioni, mercato del lavoro…) sono già state fatte: tra le più importanti ancora da fare c’è quella fiscale e della pubblica amministrazione. Vedremo alla prova dei fatti. Che per noi sono quelli di una nuova politica economica fondata sul lavoro, sulla sostenibilità e la riconversione fiscale, la lotta alle diseguaglianze e il welfare, il rafforzamento del sistema sanitario pubblico e l’istruzione.
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Stralci da La lunga marcia nella società, in uscita nel numero di marzo de Gli Asini
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Un’agenda europea per Mario Draghi
Mario Pianta

Sbilanciamoci! 7 Febbraio 2021 | Sezione: Apertura, Politica
Dopo la ‘facile’ preparazione del governo di Mario Draghi, cambiare le regole europee su spesa nazionale, aiuti alle imprese e debito pubblico sono le tre cose ‘difficili’ che il governo Draghi potrebbe mettere nell’agenda di Bruxelles.

Troppo facile per Mario Draghi, presidente del Consiglio incaricato, raccogliere le disponibilità delle forze politiche – quasi tutte – a far parte del suo governo. Meno facile trovare l’equilibrio per un programma e per un governo che duri fino alla fine della legislatura, nel 2023, se questo è l’obiettivo che si è dato. Non troppo difficile è l’impiego dei 209 miliardi di sussidi e crediti di Next Generation EU in buoni investimenti: il Paese è stato talmente fermo che ha bisogno di tutto.

Il difficile – dobbiamo ricordarlo – era già stato fatto da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e Paolo Gentiloni nei primi mesi del 2020 quando, di fronte alla pandemia, hanno contribuito a cambiare gli equilibri in Europa e a lanciare questo primo strumento di una politica fiscale comune. La prova più importante per Mario Draghi non sarà districarsi tra Giorgetti e Patuanelli, ma spingere l’Europa a fare i passi successivi.

A casa nostra, rimpiazzare l’austerità con una politica espansiva e avere una guida competente del Paese sono scenari che sembrano aver fatto evaporare all’improvviso lo spazio politico per sovranismi, anti-europeismi e populismi. A Bruxelles le cose si muovono più lentamente, e sono tre le urgenze da affrontare, che avranno effetti profondi sul futuro dell’Italia.

I vincoli europei alla spesa pubblica nazionale sono il primo nodo. Con l’emergenza Covid-19, l’Europa ha sospeso fino al 2021 il Patto di stabilità e crescita e così l’obbligo dei governi di andare verso bilanci in pareggio. La sospensione dovrebbe ora trasformarsi in una radicale riscrittura della politica fiscale europea: abbandonare l’idea sbagliata di bilanci in pareggio e rendere permanente – al di là della pandemia – un programma come Next Generation EU, finanziato con eurobond per fare spesa pubblica ‘buona’ dove l’Unione ne ha più bisogno. La luna di miele di Draghi con la politica e la finanza ha qui la sua fragilità maggiore: se il Patto di stabilità e crescita tornasse in vigore, con l’obbligo di tagli di spesa in Italia, in un attimo crollerebbe il consenso al suo governo e si impennerebbe lo spread, il divario con i tassi d’interesse tedeschi sul debito pubblico.

La politica industriale è la seconda questione. Con la pandemia, Bruxelles ha sospeso la proibizione di “aiuti di Stato” alle imprese e tutti i governi – la Germania più di ogni altro Paese – hanno offerto sussidi, sgravi fiscali e capitali pubblici alle aziende più colpite dalla crisi. Anche questa sospensione è temporanea: se venisse reintrodotta, milioni di aziende europee farebbero fallimento. Perfino i Paesi cosiddetti ‘frugali’ sono preoccupati: il ministro dell’Industria danese – insieme a Austria e Repubblica ceca – ha chiesto a Bruxelles di elevare il limite dei sussidi alle imprese (800 mila euro) e delle compensazioni finora ammesse (3 milioni) (Financial Times: https://www.ft.com/content/19897de4-196f-4211-bcb2-fb39195c261c).

L’intervento pubblico a sostegno del sistema produttivo non dev’essere più visto come una ‘distorsione’ del mercato, da ammettere solo in via eccezionale: è oggi lo strumento principale per permettere a imprese e mercati di sopravvivere alla crisi. L’Europa ha bisogno di istituzionalizzare una politica industriale che disegni una traiettoria per lo sviluppo di attività produttive ad alto contenuto di conoscenza, tecnologia e qualità del lavoro, sostenibili sul piano ambientale, capace di ridurre le disparità sociali e territoriali. E’ quello che timidamente già suggeriscono i vincoli posti nell’impiego dei fondi di Next Generation EU per privilegiare tecnologie digitali e sostenibilità ambientale, senza tuttavia disporre di un assetto istituzionale e un’agenda esplicita di politica industriale. Per l’Italia, più colpita dalla perdita di capacità produttiva dal 2008 a oggi, è essenziale darsi un’agenda di questo tipo per organizzare in modo efficace gli interventi di politica industriale, dai progetti di Next Generation EU, ai sostegni alle imprese che dovrebbero prevedere investimenti, ricerca e occupazione in Italia (per le proposte si veda L’Industria: https://www.rivisteweb.it/doi/10.1430/98705).

Il debito pubblico è il terzo nodo. Nel suo articolo sul Financial Times del 25 marzo 2020, Mario Draghi aveva scritto che di fronte alla pandemia “è già chiaro che la risposta deve prevedere un significativo aumento del debito pubblico”. In questi dodici mesi l’aumento è stato generalizzato e una parte rilevante – un quarto circa per alcuni Paesi – del debito pubblico è ora detenuto dalla Banca Centrale Europea. Questa parte potrebbe ora essere ‘congelata’, trasformata in titoli perpetui a tasso zero, oppure cancellata formalmente. E’ stato il presidente del Parlamento europeo David Sassoli, in un’intervista del 14 novembre 2020, a dichiarare che la cancellazione del debito è “un’ipotesi di lavoro interessante, da conciliare con il principio fondamentale della sostenibilità del debito” (https://rep.repubblica.it/pwa/intervista/2020/11/14/news/sassoli_l_europa_deve_cancellare_i_debiti_per_il_covid_-274411308/).

Un nuovo appello di oltre 100 economisti europei, tra cui Thomas Piketty, chiede la cancellazione del debito pubblico nelle mani della BCE, chiedendo in cambio ai governi di destinare un ammontare corrispondente a un piano di ricostruzione sociale e ambientale (https://annulation-dette-publique-bce.com/).

Su questi tre temi, gli anni che il governo Draghi ha di fronte sono un’occasione unica per correggere gli errori più gravi dell’integrazione europea e ridisegnare gli assetti della politica economica. Il 2021 è anno di elezioni in Germania e Olanda, il 2022 in Francia e Ungheria, Angela Merkel uscirà di scena, dopo che è uscito dall’Unione europea il Regno Unito, con tutti i suoi veti a politiche diverse. Si apre uno spazio politico, un’opportunità di cambiamento che per decenni è sembrato impossibile.

Alla Banca Centrale Europea Mario Draghi era vincolato al rispetto dei Trattati e delle politiche dei governi, ed è riuscito a rovesciare la politica monetaria che aveva ereditato nel 2011 da Jean-Claude Trichet. Ora, come leader del governo italiano, avrà l’opportunità di riscrivere quei Trattati, dando all’Europa la coerenza tra politica fiscale e monetaria che è finora mancata, riconoscendo il ruolo dell’intervento pubblico nell’economia.

Un’agenda di cambiamento su possibilità di spesa, politica industriale e debito pubblico farebbe di Mario Draghi il protagonista dei restauri necessari alla costruzione europea e, sul piano interno, potrebbe assicurare al suo governo i margini di manovra di cui ha bisogno.

Per l’Italia la ricostruzione nel dopo-pandemia rappresenta l’occasione di fondo per rovesciare il lungo declino economico del Paese e avviare uno sviluppo all’insegna della sostenibilità ambientale, di produzioni avanzate, del rilancio del welfare, della riduzione delle disuguaglianze (Le proposte di Sbilanciamoci! sono qui: https://sbilanciamoci.info/in-salute-giusta-sostenibile-ebook-sbilanciamoci/). La scommessa su Mario Draghi, e il consenso che potrà ottenere sul campo, si giocherà sulla sua determinazione a ridisegnare assetti politici e manovre economiche tanto a Roma che a Bruxelles.
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Piano di Ripresa e Resilienza: c’è ancora lavoro da fare
Campagna Sbilanciamoci!
2 Febbraio 2021 | Sezione: Campagna Sbilanciamoci!, Politica, primo piano
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Che succede? La lettura della fase di ASviS. Contributi al dibattito.

draghi-schermata-2021-02-06-alle-19-54-15 Editoriali di ASviS*
Senza condivisione dei cittadini non si costruisce un futuro sostenibile.
Draghi è un timoniere sicuro e molte priorità da lui indicate nel recente passato coincidono con quelle dell’ASviS. L’avvento del suo governo non deve però significare la fine della politica
. 05/02/21
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di Donato Speroni su ASviS.

Consentitemi di cominciare con un ricordo personale. Era il settembre del 1992, nel pieno di Tangentopoli. Il governo presieduto da Giuliano Amato aveva appena varato una serie di provvedimenti che, in vista della futura privatizzazione, smantellavano il sistema delle Partecipazioni statali e delle altre attività imprenditoriali pubbliche, trasformando gli enti di gestione in società per azioni e concentrandone il controllo nel ministero del Tesoro. Si era creata così una situazione senza precedenti, perché quello che in passato era l’immenso potere dei “boiardi” che comandavano un insieme comprendente Eni, Iri, ma anche Enel, Ferrovie dello Stato, Banca nazionale del lavoro, si concentrò per un certo periodo su un unico soggetto, il Tesoro, che aveva la responsabilità di fare le nomine, approvare i bilanci, valutare gli investimenti, in una situazione di totale assenza dei politici. Come mi raccontò all’epoca l’amministratore delegato dell’Eni Franco Bernabé, gli uomini dei partiti, sentendosi sotto scacco da parte del pool di Mani pulite, non osavano più fare una telefonata neppure per raccomandare l’assunzione di un usciere.
All’epoca il ministro del Tesoro era Piero Barucci, ma di fatto quel potere era gestito dal direttore generale, il giovane Mario Draghi. Sul Corriere della Sera scrissi un articolo che segnalava questa situazione.
Il capo del più grande conglomerato industriale e finanziario d’Europa vive a Roma e lavora in ufficio della Repubblica italiana. È un economista di 45 anni, senza alcuna esperienza di gestione. Dedica a questo lavoro non più di un’ora al giorno, non perché sia uno sfaticato, ma perché ha tanti altri impegni ancora più importanti. E suoi collaboratori si contano sulle dita di una mano. Mario Draghi, direttore generale del Tesoro, nel tempo lasciato libero dalla difesa della lira e dal controllo dei conti pubblici amministra una holding che fattura quasi 200mila miliardi di lire, occupa 850mila persone e intermedia quasi 1 milione di miliardi (di lire, ndr) di mezzi finanziari. Una holding nata dal decreto legge varato l’11 luglio e definitivamente approvato il 7 agosto che ha trasformato in società per azioni i maggiori enti economici italiani affidandone Il controllo al ministero del Tesoro.
Draghi lesse l’articolo, si assicurò attraverso un comune amico che non si trattava di enemy action ma di una iniziativa dettata solo dal dovere di cronaca, e mi invitò al Tesoro. Fu gentilissimo, parlammo della situazione della lira (sotto attacco in quell’estate) e mi accompagnò a vedere il sancta sanctorum di via Venti Settembre, il Gran Libro del Debito Pubblico, un volumone annotato a mano dove, come dice la Treccani, si iscrivono per ogni prestito contratto dallo Stato gli estremi dei provve­dimenti di emissione e i dati qualitativi e quantitativi di ciascun titolo.
All’epoca il rapporto debito/Pil viaggiava attorno al 115%, un rapporto che prima della crisi del 2008 si riuscì ad abbassare sotto il 104%, ma che oggi sfiora il 160%.
Di quell’incontro serbo il ricordo di una persona calma e gentile, sicura delle sue competenze e per nulla spaventata delle sue grandissime responsabilità. Dal quel momento sono passati 28 anni e penso che nessuno oggi meglio di Mario Draghi possa guidare l’Italia attraverso le tre crisi, sanitaria, economica e sociale, menzionate dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Oltre alle dichiarazioni rese al Quirinale, per capire le intenzioni del Presidente incaricato è interessante leggere il riepilogo, a cura di Dario Di Vico, sulla Rassegna stampa del Corriere, delle convinzioni espresse da Draghi nei suoi recenti interventi. Se ne ricavano quattro caposaldi a cominciare dalla distinzione tra “debito buono e debito cattivo”, che lo porterà a essere “molto più attento del Conte 2 nel determinare scostamenti di bilancio o il ricorso continuo ai bonus, ritagliati per singole categorie o singoli settori dell’economia”.
Altro punto importante del Draghipensiero, la convinzione di non sprecare risorse “per aziende che sono destinate al fallimento o che non ne hanno bisogno”, concentrandosi invece sulle politiche attive del lavoro per proteggere l’occupazione. Prioritaria anche “l’istruzione e, più in generale, l’investimento nei giovani”:
La situazione presente rende imperativo e urgente un massiccio investimento di intelligenza e di risorse finanziarie in questo settore.
Infine, ambiente e digitalizzazione, temi sui quali riportiamo integralmente la sintesi che ne fa Di Vico:
Nel discorso di Rimini Draghi aveva indicato anche due obiettivi che sono pienamente coerenti con la filosofia del Next Generation Eu. «La protezione dell’ambiente, con la riconversione delle nostre industrie e dei nostri stili di vita, è considerata dal 75% delle persone nei 16 maggiori Paesi al primo posto nella risposta dei governi a quello che è il più grande disastro sanitario dei nostri tempi». E aveva aggiunto: «La digitalizzazione, imposta dal cambiamento delle nostre abitudini di lavoro, accelerata dalla pandemia, è destinata a rimanere una caratteristica permanente delle nostre società. È divenuta necessità: si pensi che negli Stati Uniti la stima di uno spostamento permanente del lavoro dagli uffici alle abitazioni è oggi del 20% del totale dei giorni lavorati». I fondi dovrebbero essere assicurati da Bruxelles ma è certo che le bozze di Recovery Plan messe giù da Conte non delineavano una politica industriale di trasformazioni coerenti, ma un insieme di scelte a coriandolo. Un’impostazione che eventualmente Draghi non potrà non correggere.
Una delle priorità di Draghi sarà certamente la revisione e l’integrazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) presentato dal precedente governo. Nell’audizione alle commissioni Bilancio e Ambiente della Camera, giovedì 4, il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini ha messo in evidenza i limiti dell’attuale bozza. Tuttavia, le tre priorità trasversali che vi sono espresse, e cioè giovani, occupazione femminile e Mezzogiorno, sono certamente coerenti con le impostazioni del nuovo esecutivo.
Ricordiamo che su queste priorità sta lavorando anche l’ASviS. L’Alleanza darà voce ai giovani sul Pnrr nell’evento di mercoledì 10 febbraio. Sarà introdotto da Giovannini, ma lascerà piena libertà di espressione alle giovani generazioni, come si dice chiaramente già dal titolo: “Vogliamo decidere sul nostro futuro!” Inoltre, l’ASviS ha dedicato al Mezzogiorno la puntata di “Alta sostenibilità” del 1° febbraio, mentre la stessa rubrica curata dall’ASviS su Radio radicale parlerà di occupazione femminile nella puntata dell’8 febbraio, anche alla luce degli ultimi disastrosi dati presentati dall’Istat, che dimostrano come le donne abbiano subito la parte più rilevante del calo occupazionale.
Forse con la nomina di Draghi è morta la Terza repubblica, come qualcuno ha scritto, identificando la seconda col periodo a egemonia berlusconiana e la terza con la parabola grillina. Sarebbe però sbagliato pensare che sia morta la politica, perché questo Paese non può uscire dalle secche in cui si trova senza la buona politica. Innanzitutto, perché senza politica non c’è consenso. Ci si può affidare temporaneamente a un Cincinnato che salva la Repubblica, ma solo se la crisi è delimitata nel tempo. Ci sono ragioni per pensare che la pandemia sarà seguita da altre sfide difficilissime, derivanti dalla crisi climatica, dalle migrazioni di massa, ma anche da una serie di innovazioni tecnologiche che sconvolgono e sempre più sconvolgeranno i nostri ritmi di vita e di lavoro e le nostre sicurezze. Queste sfide non possono essere affrontate senza una visione condivisa del futuro che si vuole costruire. È dunque auspicabile che il periodo del governo Draghi serva non solo ad affrontare le emergenze, ma anche per consentire alle forze politiche di elaborare una propria visione, magari coagulando alleanze su un’idea condivisa dell’Italia del futuro, e di offrire questa visione all’opinione pubblica. Fare in modo che il voto, quando avverrà, non avvenga solo su suggestioni di breve termine, ma sulla consapevolezza di quello che ci aspetta, dei sacrifici e degli obiettivi. La dichiarazione del 4 febbraio del premier uscente Giuseppe Conte, che vorrebbe unire i partiti di centrosinistra (Pd, M5S e Leu) in una “Alleanza per lo sviluppo sostenibile” va nella direzione giusta, tanto da perdonargli il “tentato scippo” del nome. Ma va anche detto che noi vinceremo la nostra battaglia se lo sviluppo sostenibile non sarà soltanto una bandiera di parte, cioè se le priorità dell’Agenda 2030 saranno condivise da uno schieramento il più ampio possibile.
L’altra ragione per la quale la funzione della politica deve essere tutelata è che l’Italia ha bisogno di capacità di visione e di buona amministrazione a tutti i livelli, perché la partita non si gioca solo a Roma. Questa settimana è risuonata la protesta congiunta dei sindaci di ogni colore politico per le enormi responsabilità che devono affrontare, avendo come ricompensa solo il rischio di una citazione in giudizio. Questa protesta deve essere considerata con attenzione perché sembra essere in atto un meccanismo perverso che suggerisce a ogni persona onesta di non cimentarsi nell’agone politico, in particolare nelle amministrazioni locali. Non è un caso che i sindaci delle grandi città, indipendentemente dall’appartenenza partitica, abbiano espresso la loro solidarietà alla sindaca di Torino Chiara Appendino condannata per i fatti di Piazza San Carlo, una tragedia in merito alla quale ben difficilmente avrebbe potuto fare qualcosa. Che i sindaci abbiano i nervi a fior di pelle si vede anche dalla reazione del presidente dell’Anci e sindaco di Bari Antonio De Caro all’invito del Comitato tecnico-scientifico a vigilare sul rispetto delle norme antipandemia, invito inteso come un rimprovero di scarsa attenzione: “Basta con il tiro al bersaglio sui sindaci, il Cts pensi a fare la sua parte”.
Sui sindaci, nonostante la frammentazione delle competenze delimitate da Regioni e Stato, gravano pesanti responsabilità, come è ben evidenziato dal sito che l’ASviS dedica al Goal 11 dell’Agenda 2030 e che riporta anche i documenti elaborati con Urban@it: gestione del territorio messo a repentaglio dai fenomeni meteorologici estremi, accelerazione del passaggio alle energie rinnovabili, lotta all’inquinamento, riscatto delle periferie, riassetto dei centri storici parzialmente svuotati dallo smart working sono problemi enormi, la cui soluzione richiede visione, competenza tecnica, ma anche un grande lavoro di condivisione con i cittadini.
Su questi problemi è necessario anche un maggior impegno del Pnrr, come ha sottolineato il coordinatore nazionale dei verdi Angelo Bonelli, dichiarandosi “assolutamente d’accordo” con quanto dichiarato da Giovannini.
Nel Pnrr ci sono carenze strategiche poiché solo il 2,5% dei 310 miliardi previsti sono destinati a investimenti sul Trasporto pubblico locale. Il prossimo Governo dovrà affrontare questo problema che rischia di compromettere il futuro delle nostre città e della nostra economia, lasciando senza risposte il grave problema dello smog nelle grandi città.
Affidiamo dunque la nave Italia a Mario Draghi, ma speriamo che questa nuova fase segni anche la riscossa della buona politica, a tutti i livelli.

Venerdì 05 Febbraio 2021
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Nel Pnrr mancano target, valutazioni d’impatto e riforme per guidare gli investimenti

In un’audizione alla Camera, Giovannini ha messo in luce le mancanze del Piano nazionale di ripresa e resilienza. “Serve anche una revisione del Piano energia e clima e un Piano di adattamento ai cambiamenti climatici”. 5/02/21
La bozza di Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), presentata dal governo, presenta diverse lacune. Lo ha spiegato il 4 febbraio il portavoce dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile, Enrico Giovannini, durante un’audizione delle Commissioni Bilancio e Ambiente della Camera dei Deputati.
“Se confrontiamo le linee guida fornite dalla Commissione su come costruire il Pnrr, troviamo una corrispondenza elevata” ha esordito Giovannini, “tuttavia serve una ricomposizione delle missioni previste dal Pnrr italiano, in modo da dare coerenza al Next generation Italia”.
In sostanza, l’Europa ha reso i 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile una priorità, e da questi sono stati derivati i sei pilastri su cui si poggiano le linee guida per l’utilizzo del Next generation Eu. Una connessione importante, che presuppone una piena coerenza tra le politiche da mettere in campo.
Attualmente nel Pnrr italiano manca la definizione di target e obiettivi quantificabili, come invece dovrebbe essere, e servono indicatori di risultato di tipo finanziario e non. Altro capitolo in cui è carente il Piano italiano è quello legato alle riforme, che sono necessarie e che devono guidare gli investimenti. Le risorse e gli investimenti che scaturiranno dal Next generation Eu devono, infatti, andare di pari passo con il Piano nazionale di riforme (Pnr) e, per questo motivo, quest’ultimo andrebbe riscritto con un’ottica diversa da quella usata negli ultimi anni.
“Elemento importante” ha continuato Giovannini, “è il fatto che i progetti presenti nel Piano devono rispondere al principio di non nuocere all’ambiente. Un principio fortissimo, coerente e in linea con il Green new deal. Questo nel Pnrr non si vede”. Risulta infatti assente la questione “biodiversità”, nonostante parliamo di un tema centrale a livello europeo.
Tutto deve procedere in maniera coerente: serve coerenza tra uso dei fondi europei e italiani, e tra i diversi altri Piani che l’Italia deve presentare con urgenza. Esempio è dato dal Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec), ancora non in linea con l’ambizioso obiettivo europeo del taglio del 55% delle emissioni climalteranti entro il 2030, rispetto al 1990; e dal Piano nazionale di adattamento al cambiamento climatico che in Italia ancora manca. Due elementi, questi, di debolezza, che potrebbero indurre l’Europa a dubitare sulle serie intenzioni italiane.
Per quanto riguarda il mondo dell’occupazione giovanile “manca totalmente la citazione della garanzia giovani, nonostante le linee guida Ue ne chiedano esplicitazione”, ha dichiarato Giovannini.
Sempre sul principio di coerenza, dal Piano nazionale non si evince un cambio di direzione della programmazione finanziaria nazionale in favore dello sviluppo sostenibile. Per spiegarlo Enrico Giovannini ha portato questo esempio al tavolo di dibattito: “dei 209 miliardi di euro dobbiamo indirizzare circa 80 miliardi alla transizione ecologica, ma attualmente destiniamo 19 miliardi di euro del bilancio dello Stato nella direzione opposta (in sussidi dannosi all’ambiente). Uno scompenso che va corretto prima possibile”.
Senza una buona governance, pur ottenendo l’intera cifra che ci spetta, non saremo però in grado di spendere in maniera efficace ed efficiente le risorse. Su questo aspetto il Pnrr italiano non chiarisce come debbano essere ripartiti i fondi e, su temi che impattano su materie di competenza statali, regionali e delle città, serve una serio coordinamento di “governance multilivello” per raggiungere i risultati sperati.
Altro elemento da tenere in considerazione è la valutazione dell’impatto che il Pnrr avrà su ambiente e società; anche qui non sono presenti stime nel documento italiano, a parte quelle “importanti ma non esaustive” sull’andamento macroeconomico.
Infine, Giovannini ha ricordato come l’Italia sia avanti sugli indicatori sulle disuguaglianze di genere, “mi piacerebbe vedere per esempio l’impatto del Pnrr sui settori maschili e femminili. Perché, se per qualche ragione si investisse in settori ad alta occupazione maschile, allora bisognerebbe mettere in campo delle politiche compensative o formative per evitare aumenti di divari di occupazione, già drammatici nel Paese”.
Rispondendo a una domanda della deputata Chiara Braga, il portavoce dell’ASviS ha detto: “Ho ascoltato oggi le parole di Giuseppe Conte che ha proposto alle forze che hanno sostenuto il suo governo una sorta di Alleanza per lo sviluppo sostenibile. A parte il fatto, e lo dico sorridendo, che l’ASviS ha compiuto proprio ieri cinque anni di attività, se questa è la prospettiva, allora va cambiato il Pnrr. C’è ancora tantissimo da fare su questi temi, e l’ASviS è a disposizione del Parlamento. Ricordo che, proprio sul Pnrr e sulla Legge di bilancio, presenteremo a fine febbraio un’analisi dettagliata che offre la visione integrata di tutte le nostre 300 organizzazioni”.

di Ivan Manzo

Guarda le slide presentate all’audizione

Venerdì 05 Febbraio 2021
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* Aladinpensiero è associata all’ASviS.
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DRAGHI, CHE HA STUDIATO DAI GESUITI
Attendiamo i programmi. Per capire quanto ci sia nella politica del presidente incaricato di quei valori evangelici che chiamano alla giustizia sociale, all’accoglienza ospitale, alla difesa della vita, specialmente nella sua fragilità… L’intervento del teologo Pino Lorizio, della Pontificia Università Lateranense. Su Famiglia Cristiana.
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NGEU. Senza il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione non si va da nessuna parte.

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Pubblica amministrazione: non basta la rivoluzione digitale
di Fiorella Farinelli su Rocca

Se risiedo in una Regione e mi capita un problema di salute in un’altra, l’ospedale che mi soccorre può ricostruire velocemente la mia storia sanitaria, le patologie, gli interventi, le terapie, le allergie, i farmaci, le vaccinazioni? È una cosa che, soprattutto in situazioni di emergenza, potrebbe fare la differenza. Ma non è affatto scontata. Sebbene il fascicolo elettronico sanitario elettronico sia stato istituito nel 2015, ad esserne dotati sono al momento solo 13 milioni di persone, e solo 12 sono le Regioni che possono condividere in toto o parzialmente i loro dati. C’è di più. Anche nella fortunata circostanza di venire da una Regione e di essere curati in un’altra che hanno entrambe esperienza del fascicolo (ma ce ne sono di grandi e popolose, anche nel Centro-Nord, che non hanno neppure messo mano all’impresa), può capitare che l’ospedale non abbia l’applicativo per accedervi, e allora non si può far niente. Di storie che descrivono i ritardi a rendere «interoperative» le banche dati, e perfino ad aggiornarle puntualmente, ce ne sono tante nelle dettagliate inchieste per il popolare programma televisivo Report condotte dalla giornalista Milena Gabanelli (1). Ce ne sono, per esempio, in uno dei campi più scottanti per un paese che ha milioni di disoccupati, quello dell’incrocio tra domanda e offerta di lavoro. I nostri Centri per l’Impiego non sono, si sa, dei mostri di efficienza, ma quanto dipende da non essere stati messi in grado di operare? Tra i tanti ostacoli di tipo normativo e organizzativo, aggravati da carenze quantitative e qualitative in fatto di personale, c’è l’impossibilità di «vedere» le opportunità lavorative della Regione accanto, perché ogni istituzione ha la sua banca dati, più o meno aggiornata, che resta chiusa e non interagisce con le altre. Le Regioni, in verità, da tempo dovrebbero condividere i loro dati con Anpal, l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro che fa capo all’apposito Ministero. E i dati, per questa via, dovrebbero diventare accessibili nell’intero territorio nazionale, ma il sistema non funziona perché l’accordo interistituzionale di condivisione dei dati (il lavoro è materia «concorrente» tra Stato e Regioni) ancora non c’é. La disponibilità della tecnologia non basta, occorre anche l’indirizzo politico, sostenuto da specifiche decisioni amministrative, e ovviamente anche da adeguate risorse economiche. Lo stesso accade per la formazione professionale di competenza regionale, con l’aggravante che ogni Regione ha i suoi indicatori e i suoi criteri di catalogazione degli allievi, dei contenuti dei corsi, delle ricadute delle qualifiche in termini di occupazione. Col risultato che neppure per i migliori ricercatori è facile produrre analisi comparative compiute. Figuriamoci quanto è complicato, per chi vuole iscriversi, avere un’idea precisa delle opportunità formative disponibili, e del loro grado di utilità per l’inserimento occupazionale. Anche qui, a subire le conseguenze sono in tanti, sia i cittadini che i decisori politici.

non solo le Regioni
Oggi è fin troppo di moda, nel ritorno di fiamma per antiche culture stataliste, attribuire soprattutto alle Regioni – e a un asse decisionale tra Regioni e Stato che non funziona granché – le massime responsabilità dell’inefficienza di molti servizi, e di molti ritardi in termini di utilizzo delle tecnologie. Ma, se è vero che pesano squilibri o sovrapposizioni nel disegno istituzionale e nelle competenze dei diversi livelli istituzionali di governo, può succedere lo stesso, e pure di peggio, anche in altri ambiti, e dentro gli stessi organi o enti statali. È il caso dell’Anagrafe nazionale della popolazione residente, istituita nel 2005, nella cui piattaforma sono entrate finora le anagrafi di soli 5.300 Comuni (sugli oltre 8.000) con la conseguenza che è talora complicato, per esempio, accertare se chi chiede il reddito di cittadinanza ha il requisito della residenza in Italia da 10 anni o se l’imposizione fiscale, che dipende anche dalla composizione del nucleo familiare, è quella giusta: non proprio un dettaglio, quest’ultimo, rispetto al contrasto dell’evasione fiscale. Perfino l’Inps, il nostro fiore all’occhiello per efficienza e digitalizzazione, non è ancora riuscito a far confluire nella sua Anagrafe, attivata dal 2005, i dati sui contributi versati per i lavoratori di tutte le categorie, privati, pubblici, autonomi, degli ordini professionali. Mancano quelli di datori di lavoro pubblici, per esempio, e anche degli ordini.
Spesso mancano, perché caricati in ritardo, anche i contributi versati dai lavoratori. Così il lavoratore che è passato da un comparto di lavoro all’altro, sempre che sia in grado di accedere autonomamente all’Anagrafe (e anche questo è un problema, e non dei minori), non è sempre in grado di verificare se tutti i contributi sono stati pagati correttamente e non può, se ci sono cose che non vanno, attivare per tempo ispezioni e ricorsi. Tutto ciò deriva dal fatto che i processi di informatizzazione sono stati avviati in tempi diversi e da ogni Ente separatamente, senza riferirsi ad esigenze di coordinamento e di collaborazione interistituzionale, o anche considerando solo alcune esigenze e non altre. È il caso del Ministero dell’istruzione che, disponendo di un sistema informatico costruito molto tempo fa solo per la gestione degli organici e della mobilità del personale, non lo ha mai declinato anche su altri scopi, il monitoraggio dei drop out, l’edilizia scolastica, il curriculum formativo e professionale degli insegnanti e così via. Ma qui, più e prima che di ritardi tecnologici, si tratta di culture politico-amministrative, essendo gli organici e la mobilità del personale il vero core dell’attività concreta di viale Trastevere.

il ritardo italiano e l’opportunità N.G.
I ritardi comunque ci sono, e pesanti, rispetto ad altri paesi. Determinano perdite economiche rilevanti, ostacolano e rallentano la formazione di nuove imprese, scoraggiano quelle che potrebbero insediarsi da noi trasferendosi dall’estero, sono causa di disagi agli utenti dei servizi. Secondo l’indice Desi che misura estensione e profondità dei processi di digitalizzazione, nell’Europa28 l’Italia è ancora inchiodata ad un avvilente 24esimo posto. Con una spesa pro capite per cittadino pari a 96 euro, contro 185 della Francia, 207 della Germania, 323 del Regno Unito. Gli investimenti sulla digitalizzazione sono stati finora piuttosto bassi ma – come succede spesso nel nostro Paese – non sempre sono state spese interamente nemmeno le risorse disponibili.
Nel prossimo futuro, tuttavia, almeno in termini di disponibilità di risorse, la situazione potrebbe cambiare radicalmente, sempre che vada in porto l’assegnazione all’Italia dei 209 mld del Next Generation Eu. Alla Missione «Digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura», il Recovery Plan
varato dal Consiglio dei Ministri il 12 gennaio assegna infatti ben 46,18 mld, di cui 11,45 per la trasformazione digitale del sistema pubblico (con 26,73 mld assegnati a quella del sistema produttivo e 8 mld a quella del settore turismo/cultura).

tutto bene dunque? Non proprio
Sono tante le voci degli esperti dei problemi della nostra amministrazione pubblica, tra cui l’autorevole professor Sabino Cassese, a sostenere che senza una sua riforma contestuale neppure un grande investimento nella digitalizzazione otterrà i risultati sperati. Cioè da un lato la semplificazione e l’efficienza dei servizi, dall’altro il superamento delle barriere tra pubblica amministrazione e cittadini. E di questa riforma, la più difficile visto il numero di fallimenti riscontrati finora, è vero che il Recovery Plan al momento non dice una sola parola nuova. La «rivoluzione digitale», in effetti, non è solo transizione da un certo sistema tecnologico ad un altro, implica profondi cambiamenti culturali, organizzativi, del modo di lavorare e della stessa struttura professionale degli Enti. Lo si è visto anche nel passaggio, imposto dalla pandemia, dal lavoro in presenza al cosiddetto smartworking che in molte strutture e servizi pubblici è stato assai più problematico che in aziende private, solitamente più capaci e disponibili a rimettere in gioco assetti e modalità operative consolidate. Un passaggio «legnoso», stigmatizzano gli esperti, qualche volta impraticabile non solo perché le connessioni domestiche non erano quelle giuste o perché il personale non era stato appositamente formato, ma per altri e più strutturali motivi. Parla per tutti il caso clamoroso del settore giustizia, una vera Caporetto, dove durante i mesi del lockdown il lavoro da remoto dei cancellieri è stato impossibile perché dai Pc domestici non si poteva accedere ai fascicoli pur digitalizzati dei processi, col risultato di un blocco pressochè totale dell’attività dei tribunali. Abbondante materia di riflessione ci viene del resto anche dall’esperienza di didattica a distanza della scuola, dove è apparso del tutto evidente che, oltre alle difficoltà dei tanti studenti sprovvisti di connessione e di appositi devices (e di adulti in grado di supportare i più piccoli, i più fragili, quelli che non padroneggiano ancora l’italiano), hanno pesato e pesano molto negativamente, insieme a una non diffusa padronanza da parte degli insegnanti dei dispositivi e delle loro potenzialità, anche altri fattori, più duri e resistenti di qualsiasi legno o legnosità solo abitudinaria. La pretesa di trasferire nei nuovi mezzi la didattica e la valutazione tradizionale da un lato. La rigidità organizzativa del sistema dell’insegnamento, gli orari, i calendari, la struttura chiusa delle classi, la fissità dei curricoli dall’altro. Un’occasione finora largamente sprecata, quella della didattica digitale nell’emergenza pandemica, per cominciare a innovare e modernizzare anche l’organizzazione della scuola.

digitalizzazione non è semplificazione
Quanto alla Pubblica Amministrazione in senso stretto, e ai suoi servizi nazionali e locali, è del tutto improbabile che possa bastare la digitalizzazione a superare la sua storica propensione a rendere complicato ciò che è semplice. È evidente invece che si corre al contrario il grave rischio, se non si procede a modificarne gli assetti, l’organizzazione, le gerarchie e le separatezze interne, i profili e la qualità professionale del suo personale – e perfino l’antica e connaturata cultura statalista del sospetto e della sfiducia nei confronti dei cittadini – che la stessa digitalizzazione ne risulti deformata o depotenziata. Lo si vede, già ora, anche per operazioni o dispositivi che dovrebbero aiutare a risolvere dei problemi, e che invece per la complessità delle regole di accesso o perché ci si è dimenticati di impartire precise disposizioni al personale coinvolto ne producono altri. La piattaforma Immuni, per esempio, ma anche il sistema pubblico di identificazione nazionale (Spid). La semplificazione non viene da sé, non è l’effetto scontato della digitalizzazione.
Il superamento dell’ingorgo e della sovrapposizione di leggi anche di dettaglio sfornate di continuo dal potere legislativo, i fenomeni di «diserzione amministrativa» determinati da una dirigenza potente e tuttavia stretta tra la subordinazione alla politica determinata dallo spoils system e l’interferenza del potere giudiziario, la scarsità di figure professionali con competenze tecniche diverse da quelle unicamente giuridiche, le modalità operative non orientate al risultato, le retribuzioni e le carriere indipendenti dalla qualità e dai risultati effettivi del lavoro e così via, richiedono per essere modificate una contestuale, e spesso anche preliminare, azione riformatrice. Che finora non c’è stata, o non è stata sostenuta da una volontà politica decisa, e con caratteri di continuità. Anche se quella che riguarda la Pubblica Amministrazione è una riforma che non costa, e che potrebbe anzi far risparmiare spesa pubblica ridondante o inutile.
La verità è che da un lato essa implica tempi lunghi e una continuità di azione incompatibili con la breve durata media dei governi italiani (e con lo «sguardo breve» della classe politica italiana). Dall’altro obbliga a mettere le mani negli spinosissimi rovi degli interessi e delle convenienze consolidate, esponendosi quindi all’»impopolarità» e alla perdita di consensi prima di poterne vantare i risultati.
Ma il problema c’è, acuto almeno come quello rappresentato dal fatto che in Campania – ma anche in altre aree del Paese – 1 nucleo familiare su 4 è privo di connessione a internet. O come quello che deriva dai 13 milioni di italiani del tutto privi di competenze digitali, e anche di quelle di base che consentono
di impararle, non solo tra i più anziani ma anche nelle fasce di età più giovani.
Cosa significa tutto ciò per la promessa della digitalizzazione di abbattere le distanze e le barriere tra amministrazioni e cittadini? Che conseguenze sociali avrebbe un accesso a servizi essenziali
basato unicamente sull’informazione e la comunicazione telematica? La digitalizzazione del Paese, è evidente, passa anche dal superamento di queste contraddizioni. E, prima ancora, dall’esserne consapevoli.

Fiorella Farinelli

Nota
(1) M. Gabanelli. La rivoluzione digitale mancata dello Stato che ci costa 30 miliardi l’anno.

NEXT GENERATION
ROCCA 15 FEBBRAIO 2021
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«Tutti hanno diritto alla protezione da Covid-19. Nessun profitto sulla pandemia»

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Vaccini gratuiti per tutti e diritti umani
Su Volerelaluna – 02-02-2021 – di: Gianni Tognoni
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1. «Tutti hanno diritto alla protezione da Covid-19. Nessun profitto sulla pandemia». Questo lo slogan di un appello diffuso in rete da qualche settimana (www.noprofitonpandemic.eu/it/). «Il Covid-19 – prosegue l’appello – si diffonde a macchia d’olio. Le soluzioni devono diffondersi ancora più velocemente. Nessuno è al sicuro fino a che tutti non avranno accesso a cure e vaccini sicuri ed efficaci. Abbiamo tutti diritto a una cura. Firma questa iniziativa dei cittadini europei per essere sicuri che la Commissione europea faccia tutto quanto in suo potere per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutti e tutte».

L’essenza dell’appello è molto semplice: la guerra commerciale e senza esclusione di colpi di cui siamo tutti/e testimoni e spettatori (stupiti, mal-informati, rassegnati, impotenti, confermati nella rabbia o nel disincanto di constatare che il “dopo” Covid-19 è proprio come il “prima” o il “durante”, speranzosi almeno per un istinto di sopravvivenza che la via “fuori dal tunnel” troverà il modo di divenire realtà) si può sostanzialmente riassumere in questi termini: a) la comunità internazionale degli Stati, in tutte le sue espressioni, iniziative, piattaforme di pressione, non riesce a far prevalere il concetto molto semplice che uno strumento presentato e approvato come salvavita e risolutivo per una crisi che non è solo “sanitaria” possa essere considerato e perciò garantito come un diritto: universale come è globale la pandemia; b) i diritti “proprietari” dei privati che hanno fruito anche di enormi risorse pubbliche per sviluppare-produrre l’uno o l’altro dei tanti vaccini più o meno efficaci disponibili o in sviluppo sono intoccabili: le norme commerciali che regolano brevetti, costi, accessibilità delle popolazioni, soprattutto o almeno quelle più a rischio prevalgono sui principi e le convenzioni che tutelano i diritti fondamentali delle persone e dei popoli; c) lo scenario che meglio definisce la situazione è quello che vale nelle politiche economiche: non ci sono beni comuni; anche le clausole esistenti, come quella di Doha che prevede “eccezioni” quando ci sono evidenti bisogni di sanità pubblica (e non c’è dubbio che la pandemia coincide perfettamente con questa definizione), devono essere interpretate e applicate solo se singoli Stati o loro alleanze decidono di adottare il caso dei vaccini per rompere-modificare le “normali” regole generali della proprietà privata e intellettuale che valgono per tutti gli scambi commerciali; d) tocca ai popoli (in assenza dei loro rappresentanti) farsi sentire per spingere i governi (in questo caso l’Unione Europea) a mettere nella loro agenda la possibilità di considerare la pandemia come l’eccezione al modello attuale dell’ordine globale: il diritto alla vita e alla dignità degli umani deve e può essere il criterio prevalente di giudizio e di decisione.

La portata e il senso dell’appello sono chiari. Esso corrisponde, anche nei termini iniziali ‒ raggiungere il milione di firme ‒, a quel che è stato in Italia il referendum sull’acqua come bene comune. Coscienti sempre di quella che è la sua effettività, in Italia e nel mondo. Firmare significa entrare da protagonisti tra le tante iniziative che si sono attivate per garantire un accesso universale al vaccino, e che vedono la partecipazione dell’OMS, degli Stati più diversi per regimi più o meno democratici o con poteri geopolitici (dal Sudafrica, all’India, all’Unione Africana), dei tanti filantropi globali (perfettamente allineati con i principi di una solidarietà che non immagina però nemmeno la pensabilità di un cambio delle regole del gioco: Bill Gates ne il protagonista esemplare).

2. La partecipazione “informata” a questa iniziativa è obbligata. Ma occorre sapere che è in atto una guerra di civiltà molto più ampia. Al di là dei ruoli della Cina (che a Davos si è fatta paladina di una logica di solidarietà verso i paesi che fanno parte dei suoi disegni strategici) o della Russia (che con il suo Sputnik V già ha fatto accordi segreti con i più diversi paesi, dall’Argentina alla Bolivia a Israele) o della piccola Cuba (che aggiunge il suo vaccino alle tradizionali “brigate”), occorre aggiungere qualche informazione utile per completare il senso di “surreale” in cui viviamo: la guerra ha il vaccino come oggetto “simbolico”, più ancora che concreto.

Viviamo in una realtà surreale. In California il bene comune “acqua” è entrato ufficialmente tra i beni quotati in borsa: non è banale come indicatore dell’atmosfera che domina il capitolo dei beni comuni con riferimento a una pandemia ancora più mortale e degradante di quella del Covid-19 in atto in tanti paesi che non possono garantire l’acqua e la nutrizione minima, neppure per la salute materno-infantile. A Manaus, città simbolo dell’abbondanza delle acque amazzoniche e primo “laboratorio globale” per la privatizzazione dell’acqua, in un paese portato al disastro anche nella pandemia da un dittatore eletto in un processo definito di “guerra legale” (warfare), è venuto a mancare l’ossigeno per le terapie intensive: è tornato disponibile solo grazie all’intervento del Venezuela, paese dichiarato terrorista dagli USA e, in fondo, dall’Europa. Per dare un’immagine di partecipazione e di sostegno per un vaccino in discussione come quello di Astra Zeneca, in un paese prostrato dalla pandemia, Johnson si è fatto fotografare mentre aiutava personalmente a trasportare casse di vaccini. L’approvazione del vaccino, con restrizioni, a livello europeo e italiano lo fa entrare ufficialmente nella complicatissima, e sostanzialmente non valutabile in termini comparativi di efficacia, supply chain commerciale dove ormai sono presenti e scambiabili anche i vaccini cinesi e quello russo, per i quali non sembrano valere le regole di registrazione.

Sul New York Times del 28 gennaio sono pubblicati due durissimi articoli, a firma di giornalisti pluripremiati anche con Pulitzer (Matt Apuzzo e Salam Gebreikidan), che documentano: a) le modalità, le implicazioni, i segreti, intollerabili anche in un regime di libero commercio, dei contratti di governi e aziende produttrici di vaccini; b) le conclusioni di un panel internazionale sulla gestione complessiva della pandemia da parte di tutte le agenzie internazionali: «Abbiamo fallito nella nostra responsabilità collettiva: la risposta al Covid-19 è stata una successione globale di incapacità di collaborare secondo criteri di solidarietà, imprescindibili per creare una rete protettiva a misura dei bisogni umani». Negli stessi giorni, la rivista scientifica ufficialmente rappresentativa della medicina USA, JAMA, riassume le politiche sulla pandemia titolando: «L’equità è stata la grande esclusa». Tutti i rapporti economico-finanziari concordano nel documentare che la predittività e la capacità valutativa degli algoritmi si è espressa al meglio nel quantificare come e perché i “guadagni in eccesso” nell’anno della pandemia dei pochi billionaires che contano sarebbero più che sufficienti a coprire tutte le spese per vaccini e vaccinazioni (anche a prezzi di mercato) di tutte le popolazioni programmate invece per una non-copertura.

Quale futuro c’è dietro l’angolo?

Il ruolo dirompente di un contagio strettamente virale, che si è aggiunto, nei paesi centrali, alle pandemie strutturali dei modelli di sviluppo (anche in termini di mortalità: con la variante di costi assistenziali e terapie intensive, che corrisponde al costo-zero delle morti evitabili per assenza di beni essenziali), è ormai generalmente riconosciuto come rivelatore, non come causa, di “fragilità” sistemiche. I toni di questo riconoscimento ovviamente variano: da Davos al Social forum, così come i rimedi. Gli articoli di L. Pennacchi su il manifesto del 31 gennaio e di N. Dentico su Avvenire del 29 gennaio sono in questo senso molto chiari e complementari. È essenziale aggiungere ‒ per sottolineare l’altra linea di “test di civiltà” che la pandemia è riuscita a nascondere ‒ quanto sta accadendo con riferimento ai migranti delle rotte balcaniche (https://volerelaluna.it/migrazioni/2021/01/12/balcani-e-mediterraneo-dove-fallisce-lumanita/). Stessi attori, con gli stessi ruoli: Stati e comunità internazionale nel ruolo di decisori, arbitrari e violenti, perfettamente a conoscenza dei problemi, contro umani vittime di guerre-contagi.

L’iniziativa dei cittadini europei da cui si è partiti sembra ed è molto lontana. Ma ne è ancor più chiaro il valore anzitutto simbolico di promemoria, per ora e per il lungo periodo: come dare alla ovvia obbligatorietà dei diritti umani e dei popoli una rappresentatività capace di trasformarsi in presa di parola udibile fino ad entrare nell’agenda degli Stati e degli attori visibili e segreti, privati e pubblici, cattivi e filantropi? Le campagne vaccinali giocano sul tempo dell’urgenza. Sempre in attesa degli Arcuri o dei Bertolaso di turno, capaci di promettere miracoli ma indisponibili a condividere la democrazia dell’ignoranza-impotenza nello spirito dell’art. 3 della Costituzione: per cercare, non per contrattare soluzioni vendibili con clausole segrete. Andrà così anche per le tante promesse di nuova sanità di cui la campagna vaccinale dovrebbe essere un esperimento didattico? Non abbiamo in aiuto algoritmi, ma solo la realtà surreale di una crisi di governo e di un’Europa che, senza fretta, pensa a un’altra authorithy: HERA (Health European Preparedness and Response Authority). Come Frontex per i migranti?

Rappresentare umani e cittadini in modo da restituire/ci un’identità di soggetti di diritto è un progetto urgente che impone di essere parte di reti trasparenti di solidarietà a fronte degli scenari che si sono accennati.

Oggi Giornata della Fratellanza Universale Umana

4 febbraio. Giornata della Fratellanza Umana. Il messaggio di Papa Francesco.
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Documento sulla “Fratellanza Umana per la Pace Mondiale e la convivenza comune” firmato da Sua Santità Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar Ahamad al-Tayyib (Abu Dhabi, 4 febbraio 2019), 04.02.2019
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PREFAZIONE

La fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare. Dalla fede in Dio, che ha creato l’universo, le creature e tutti gli esseri umani – uguali per la Sua Misericordia –, il credente è chiamato a esprimere questa fratellanza umana, salvaguardando il creato e tutto l’universo e sostenendo ogni persona, specialmente le più bisognose e povere.

Partendo da questo valore trascendente, in diversi incontri dominati da un’atmosfera di fratellanza e amicizia, abbiamo condiviso le gioie, le tristezze e i problemi del mondo contemporaneo, al livello del progresso scientifico e tecnico, delle conquiste terapeutiche, dell’era digitale, dei mass media, delle comunicazioni; al livello della povertà, delle guerre e delle afflizioni di tanti fratelli e sorelle in diverse parti del mondo, a causa della corsa agli armamenti, delle ingiustizie sociali, della corruzione, delle disuguaglianze, del degrado morale, del terrorismo, della discriminazione, dell’estremismo e di tanti altri motivi.

Da questi fraterni e sinceri confronti, che abbiamo avuto, e dall’incontro pieno di speranza in un futuro luminoso per tutti gli esseri umani, è nata l’idea di questo » Documento sulla Fratellanza Umana « . Un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà, tale da invitare tutte le persone che portano nel cuore la fede in Dio e la fede nella fratellanza umana a unirsi e a lavorare insieme, affinché esso diventi una guida per le nuove generazioni verso la cultura del reciproco rispetto, nella comprensione della grande grazia divina che rende tutti gli esseri umani fratelli.

DOCUMENTO

In nome di Dio che ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro, per popolare la terra e diffondere in essa i valori del bene, della carità e della pace.

In nome dell’innocente anima umana che Dio ha proibito di uccidere, affermando che chiunque uccide una persona è come se avesse ucciso tutta l’umanità e chiunque ne salva una è come se avesse salvato l’umanità intera.

In nome dei poveri, dei miseri, dei bisognosi e degli emarginati che Dio ha comandato di soccorrere come un dovere richiesto a tutti gli uomini e in particolar modo a ogni uomo facoltoso e benestante.

In nome degli orfani, delle vedove, dei rifugiati e degli esiliati dalle loro dimore e dai loro paesi; di tutte le vittime delle guerre, delle persecuzioni e delle ingiustizie; dei deboli, di quanti vivono nella paura, dei prigionieri di guerra e dei torturati in qualsiasi parte del mondo, senza distinzione alcuna.

In nome dei popoli che hanno perso la sicurezza, la pace e la comune convivenza, divenendo vittime delle distruzioni, delle rovine e delle guerre.

In nome della»  fratellanza umana « che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali.

In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini.

In nome della libertà, che Dio ha donato a tutti gli esseri umani, creandoli liberi e distinguendoli con essa.

In nome della giustizia e della misericordia, fondamenti della prosperità e cardini della fede.

In nome di tutte le persone di buona volontà, presenti in ogni angolo della terra.

In nome di Dio e di tutto questo, Al-Azhar al-Sharif – con i musulmani d’Oriente e d’Occidente –, insieme alla Chiesa Cattolica – con i cattolici d’Oriente e d’Occidente –, dichiarano di adottare la cultura del dialogo come via; la collaborazione comune come condotta; la conoscenza reciproca come metodo e criterio.

Noi – credenti in Dio, nell’incontro finale con Lui e nel Suo Giudizio –, partendo dalla nostra responsabilità religiosa e morale, e attraverso questo Documento, chiediamo a noi stessi e ai Leader del mondo, agli artefici della politica internazionale e dell’economia mondiale, di impegnarsi seriamente per diffondere la cultura della tolleranza, della convivenza e della pace; di intervenire, quanto prima possibile, per fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale che il mondo attualmente vive.

Ci rivolgiamo agli intellettuali, ai filosofi, agli uomini di religione, agli artisti, agli operatori dei media e agli uomini di cultura in ogni parte del mondo, affinché riscoprano i valori della pace, della giustizia, del bene, della bellezza, della fratellanza umana e della convivenza comune, per confermare l’importanza di tali valori come àncora di salvezza per tutti e cercare di diffonderli ovunque.

Questa Dichiarazione, partendo da una riflessione profonda sulla nostra realtà contemporanea, apprezzando i suoi successi e vivendo i suoi dolori, le sue sciagure e calamità, crede fermamente che tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti.

Noi, pur riconoscendo i passi positivi che la nostra civiltà moderna ha compiuto nei campi della scienza, della tecnologia, della medicina, dell’industria e del benessere, in particolare nei Paesi sviluppati, sottolineiamo che, insieme a tali progressi storici, grandi e apprezzati, si verifica un deterioramento dell’etica, che condiziona l’agire internazionale, e un indebolimento dei valori spirituali e del senso di responsabilità. Tutto ciò contribuisce a diffondere una sensazione generale di frustrazione, di solitudine e di disperazione, conducendo molti a cadere o nel vortice dell’estremismo ateo e agnostico, oppure nell’integralismo religioso, nell’estremismo e nel fondamentalismo cieco, portando così altre persone ad arrendersi a forme di dipendenza e di autodistruzione individuale e collettiva.

La storia afferma che l’estremismo religioso e nazionale e l’intolleranza hanno prodotto nel mondo, sia in Occidente sia in Oriente, ciò che potrebbe essere chiamato i segnali di una «terza guerra mondiale a pezzi», segnali che, in varie parti del mondo e in diverse condizioni tragiche, hanno iniziato a mostrare il loro volto crudele; situazioni di cui non si conosce con precisione quante vittime, vedove e orfani abbiano prodotto. Inoltre, ci sono altre zone che si preparano a diventare teatro di nuovi conflitti, dove nascono focolai di tensione e si accumulano armi e munizioni, in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi.

Affermiamo altresì che le forti crisi politiche, l’ingiustizia e la mancanza di una distribuzione equa delle risorse naturali – delle quali beneficia solo una minoranza di ricchi, a discapito della maggioranza dei popoli della terra – hanno generato, e continuano a farlo, enormi quantità di malati, di bisognosi e di morti, provocando crisi letali di cui sono vittime diversi paesi, nonostante le ricchezze naturali e le risorse delle giovani generazioni che li caratterizzano. Nei confronti di tali crisi che portano a morire di fame milioni di bambini, già ridotti a scheletri umani – a motivo della povertà e della fame –, regna un silenzio internazionale inaccettabile.

È evidente a questo proposito quanto sia essenziale la famiglia, quale nucleo fondamentale della società e dell’umanità, per dare alla luce dei figli, allevarli, educarli, fornire loro una solida morale e la protezione familiare. Attaccare l’istituzione familiare, disprezzandola o dubitando dell’importanza del suo ruolo, rappresenta uno dei mali più pericolosi della nostra epoca.

Attestiamo anche l’importanza del risveglio del senso religioso e della necessità di rianimarlo nei cuori delle nuove generazioni, tramite l’educazione sana e l’adesione ai valori morali e ai giusti insegnamenti religiosi, per fronteggiare le tendenze individualistiche, egoistiche, conflittuali, il radicalismo e l’estremismo cieco in tutte le sue forme e manifestazioni.

Il primo e più importante obiettivo delle religioni è quello di credere in Dio, di onorarLo e di chiamare tutti gli uomini a credere che questo universo dipende da un Dio che lo governa, è il Creatore che ci ha plasmati con la Sua Sapienza divina e ci ha concesso il dono della vita per custodirlo. Un dono che nessuno ha il diritto di togliere, minacciare o manipolare a suo piacimento, anzi, tutti devono preservare tale dono della vita dal suo inizio fino alla sua morte naturale. Perciò condanniamo tutte le pratiche che minacciano la vita come i genocidi, gli atti terroristici, gli spostamenti forzati, il traffico di organi umani, l’aborto e l’eutanasia e le politiche che sostengono tutto questo.

Altresì dichiariamo – fermamente – che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni e anche delle interpretazioni di gruppi di uomini di religione che hanno abusato – in alcune fasi della storia – dell’influenza del sentimento religioso sui cuori degli uomini per portali a compiere ciò che non ha nulla a che vedere con la verità della religione, per realizzare fini politici e economici mondani e miopi. Per questo noi chiediamo a tutti di cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente.

Questo Documento, in accordo con i precedenti Documenti Internazionali che hanno sottolineato l’importanza del ruolo delle religioni nella costruzione della pace mondiale, attesta quanto segue:

· La forte convinzione che i veri insegnamenti delle religioni invitano a restare ancorati ai valori della pace; a sostenere i valori della reciproca conoscenza, della fratellanza umana e della convivenza comune; a ristabilire la saggezza, la giustizia e la carità e a risvegliare il senso della religiosità tra i giovani, per difendere le nuove generazioni dal dominio del pensiero materialistico, dal pericolo delle politiche dell’avidità del guadagno smodato e dell’indifferenza, basate sulla legge della forza e non sulla forza della legge.

· La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione. Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano.

· La giustizia basata sulla misericordia è la via da percorrere per raggiungere una vita dignitosa alla quale ha diritto ogni essere umano.

· Il dialogo, la comprensione, la diffusione della cultura della tolleranza, dell’accettazione dell’altro e della convivenza tra gli esseri umani contribuirebbero notevolmente a ridurre molti problemi economici, sociali, politici e ambientali che assediano grande parte del genere umano.

· Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni; significa anche evitare le inutili discussioni.

· La protezione dei luoghi di culto – templi, chiese e moschee – è un dovere garantito dalle religioni, dai valori umani, dalle leggi e dalle convenzioni internazionali. Ogni tentativo di attaccare i luoghi di culto o di minacciarli attraverso attentati o esplosioni o demolizioni è una deviazione dagli insegnamenti delle religioni, nonché una chiara violazione del diritto internazionale.

· Il terrorismo esecrabile che minaccia la sicurezza delle persone, sia in Oriente che in Occidente, sia a Nord che a Sud, spargendo panico, terrore e pessimismo non è dovuto alla religione – anche se i terroristi la strumentalizzano – ma è dovuto alle accumulate interpretazioni errate dei testi religiosi, alle politiche di fame, di povertà, di ingiustizia, di oppressione, di arroganza; per questo è necessario interrompere il sostegno ai movimenti terroristici attraverso il rifornimento di denaro, di armi, di piani o giustificazioni e anche la copertura mediatica, e considerare tutto ciò come crimini internazionali che minacciano la sicurezza e la pace mondiale. Occorre condannare un tale terrorismo in tutte le sue forme e manifestazioni.

· Il concetto di cittadinanza si basa sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri sotto la cui ombra tutti godono della giustizia. Per questo è necessario impegnarsi per stabilire nelle nostre società il concetto della piena cittadinanza e rinunciare all’uso discriminatorio del termine minoranze, che porta con sé i semi del sentirsi isolati e dell’inferiorità; esso prepara il terreno alle ostilità e alla discordia e sottrae le conquiste e i diritti religiosi e civili di alcuni cittadini discriminandoli.

· Il rapporto tra Occidente e Oriente è un’indiscutibile reciproca necessità, che non può essere sostituita e nemmeno trascurata, affinché entrambi possano arricchirsi a vicenda della civiltà dell’altro, attraverso lo scambio e il dialogo delle culture. L’Occidente potrebbe trovare nella civiltà dell’Oriente rimedi per alcune sue malattie spirituali e religiose causate dal dominio del materialismo. E l’Oriente potrebbe trovare nella civiltà dell’Occidente tanti elementi che possono aiutarlo a salvarsi dalla debolezza, dalla divisione, dal conflitto e dal declino scientifico, tecnico e culturale. È importante prestare attenzione alle differenze religiose, culturali e storiche che sono una componente essenziale nella formazione della personalità, della cultura e della civiltà orientale; ed è importante consolidare i diritti umani generali e comuni, per contribuire a garantire una vita dignitosa per tutti gli uomini in Oriente e in Occidente, evitando l’uso della politica della doppia misura.

· È un’indispensabile necessità riconoscere il diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici. Inoltre, si deve lavorare per liberarla dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità. È necessario anche proteggerla dallo sfruttamento sessuale e dal trattarla come merce o mezzo di piacere o di guadagno economico. Per questo si devono interrompere tutte le pratiche disumane e i costumi volgari che umiliano la dignità della donna e lavorare per modificare le leggi che impediscono alle donne di godere pienamente dei propri diritti.
[segue]

Recovery Fund: il lavoro innanzitutto.

nge-cover-1Un lavoro garantito dalla UE
di Giorgios Argitis e Nasos Koratzanis
Su Sviluppo Felice 1 febbraio 2021.
sviluppofelice1-logo
La proposta di due studiosi greci per l’uso del Recovery Plan interessa anche l’Italia
I programmi di lavoro a breve termine hanno salvato molte vite durante la pandemia. Ma hanno due inconvenienti per le sfide dello sviluppo oggi. Innanzitutto sono interventi difensivi che puntano a preservare non a creare lavoro. La loro applicazione piena al massimo ci porterebbe ai livelli di occupazione pre-Covid, e neanche è sicuro. La logica che li sottende è che la domanda di lavoro delle imprese dipende essenzialmente dal costo del lavoro. Ma si trascurano altri fattori – la domanda dei consumatori, le attese di profitto, la situazione finanziaria – che sono altrettanto influenti, soprattutto in tempi di incertezza.
I programmi di lavoro a breve termine non sono orientati allo sviluppo, e non discutono gli aspetti strutturali delle economie nazionali. Danno solo incentivi alle imprese per conservare i posti di lavoro esistenti; quindi non possono agevolare la ristrutturazione. Se questa politica aiuta il mercato del lavoro contro gli chock, lascia inalterati i divari nel tenore di vita nella UE.
Invece è necessario che la UE intervenga nel mercato del lavoro, incorporando l’idea di Hyman Minsky di un datore di lavoro di ultima istanza, attraverso un Programma di Garanzia del Lavoro. Questo programma non solo reagirebbe allo chock economico della pandemia, ma influirebbe – cosa più importante – sulle dimensioni del benessere. Esso permetterebbe alla UE di stare al passo con le necessità più ampie dello sviluppo odierno, e sarebbe un pilastro del nuovo governo dell’economia, centrato sulla promozione del benessere.
Un Programma di Garanzia del Lavoro è un intervento per combattere la disoccupazione, con cui lo stato offre a tutti i disoccupati un lavoro dignitoso. Se stacchiamo la creazione di posti di lavoro dalla ricerca di profitto delle imprese … possiamo … limitare le asimmetrie del mercato del lavoro che vengono create di solito dalle politiche espansive tradizionali.
Un Programma di Garanzia del Lavoro potrebbe anche contenere regole per la protezione dell’impiego che migliorerebbero la qualità del lavoro. E, dato che la partecipazione è aperta a tutti i disoccupati, esso spingerebbe le imprese private ad adattare le condizioni di lavoro dei loro dipendenti a quelle degli occupati dal Programma. Questo quindi può diventare un modo per innalzare la qualità del lavoro in tutta l’economia.
Tale programma opera come stabilizzatore automatico delle fluttuazioni economiche … e rafforza la stabilità finanziaria. Inoltre, a differenza di diversi programmi di sostegno del reddito, accresce il prodotto economico, e quindi riduce il rischio che il restringersi dell’offerta produca un’inflazione trainata dalla domanda (ciò si può ottenere anche stabilendo il livello minimo salariale). Quindi può controllare l’inflazione nei periodi di crescita accelerata e prevenire la deflazione quando l’economia rallenta.
Il Programma di Garanzia del Lavoro può essere disegnato in modo flessibile, a seconda delle necessità socio-economiche e spaziali, promuovendo così l’inclusione e la qualità della vita. Riferendosi a tutti i disoccupati, esso assicura alla gente comune il suo diritto fondamentale al lavoro e insieme contrasta le disuguaglianze di reddito, i pregiudizi sociali e le discriminazioni.
Il programma può adottare rigidi criteri ecologici, che i privati non potrebbero affrontare, e avviare azioni di sostenibilità ambientale, come il riciclo e il risanamento. Può anche incoraggiare le spese per l’ambiente, come gli incentivi alle imprese che adottano tecniche sostenibili e al consumo sostenibile delle famiglie.
Contribuendo alla stabilità macroeconomica, un tale Programma può creare le condizioni per mobilitare l’investimento privato in una serie di attività, migliorando e modernizzando la loro capacità produttiva. Quindi il programma può diventare parte di un piano più vasto di sviluppo nazionale per la ristrutturazione, la specializzazione in settori ad alto valore aggiunto e la competitività strutturale. Mantenendo l’occupazione, il programma incentiva le imprese ad assumere lavoratori specializzati e quindi ad espandere la produzione. …
La grande quantità di denaro liquido assicurata dal Recovery Plan della UE e l’attenzione al benessere forniscono una solida base per creare il Programma di Garanzia del Lavoro. … Naturalmente per raggiungere questo Programma è necessario superare rivalità, resistenze delle strutture di potere e pregiudizi circa le politiche “sane”.
Fino a poco tempo fa pensare di usare il debito della UE per finanziare politiche inclusive sarebbe stata un’utopia, ma la pandemia lo ha reso una realtà. Oggi forse la sfida più cruciale per la UE è proprio l’adozione di una nuovo paradigma economico che includa il Programma di Garanzia del Lavoro per accrescere il benessere.
(da Social Europe, 7th January 2021)
https://www.socialeurope.eu/author/giorgos-argitis-and-nasos-koratzanis
——-Per connessione un articolo del 2018——-
Quando il lavoro lo crea lo Stato
Cédric Durand, Dany Lang
sbilanciamoci-20
Sbilanciamoci! – 8 Gennaio 2018 | Sezione: Europa, Lavoro, Società.
In base al principio dello Stato come Datore di Lavoro di Ultima Istanza, lo Stato – o le autorità locali – dovrebbero offrire un’occupazione a tutti coloro che sono disposti ad accettarlo a un salario pubblico di base. Una misura che consentirebbe di affrontare il problema della disuguaglianza e della disoccupazione
(Articolo pubblicato su Global Labour Column)
La Grande Recessione in cui le economie sviluppate sono entrate nel 2007 si è trasformata in Europa in un vero e proprio disastro sociale. In Francia, ci sono tutte le ragioni per essere disperati dei nuovi governanti che tengono in pugno le redini dal 2012; di fatto, l’abbandono dei sindacati al loro destino dopo le poco convinte minacce di nazionalizzazione è solo la punta dell’iceberg.
La politica economica di François Hollande comprende il rigore di bilancio su una scala senza precedenti dalla Seconda Guerra Mondiale (in 5 anni previsti tagli per un valore pari a 60 miliardi di euro), l’istituzionalizzazione della “golden rule” europea che limita il disavanzo pubblico strutturale allo 0,5% del PIL, il programma per la “competitività” che offre alle imprese 20 miliardi di euro sotto forma di crediti di imposta (7 miliardi dei quali finanziati tramite un aumento dell’IVA) e il recepimento nell’ordinamento nazionale di un accordo raggiunto tra alcune organizzazioni di lavoratori e organizzazioni sindacali minori volto a incrementare drasticamente la flessibilità sul mercato del lavoro. Un orientamento profondamente neoliberista basato su scelte che vanno necessariamente analizzate.
La prima scelta è quella dell’austerità. La strategia d’uscita dalla crisi di tipo deflazionista propugnata dalle élites europee può soltanto condurre a una lunga e dolorosa recessione. In seguito a una crisi finanziaria, il settore privato ha bisogno di liberarsi dai propri debiti. Se, in più, lo Stato inizia a ridurre periodicamente la propria spesa, la spirale della depressione può solo peggiorare.[1] Per quattro anni, le previsioni della “Troika” (Commissione Europea, BCE e FMI) sono state sistematicamente contraddette dai fatti, proprio a causa del loro rifiuto di prendere in considerazione questo elementare meccanismo macroeconomico. D’altro canto, un recente studio condotto dal Fondo Monetario Internazionale[2] riconosce quanto appena detto. Inizialmente, il FMI riteneva che una riduzione della spesa pubblica pari a 1 euro comportasse una diminuzione del Prodotto Interno Lordo pari solamente a 0,5 euro, salvo poi realizzare che tale decremento avrebbe condotto a una contrazione dell’attività per una somma computabile tra 0,9 e 1,7 euro.
Quindi, mentre l’austerità si sta diffondendo in tutta Europa, non rimane la minima possibilità di veder mantenute la promessa di Hollande di spostare verso il basso la curva di disoccupazione. Eppure non c’è proprio nulla di “naturale” nella piaga della disoccupazione.

I limiti del rilancio degli investimenti
hymanminsky-1Hyman Minsky è l’economista più osannato dall’inizio della crisi finanziaria. Dall’agosto 2007, il “Wall Street Journal”[3] è stato il sostenitore più accanito della sua postuma glorificazione. Ai margini del mondo accademico, Minsky aveva spiegato come la finanza generi cicli violenti e destabilizzanti. Una delle prime formulazioni della sua “ipotesi sull’instabilità finanziaria” può essere rintracciata in un articolo pubblicato nel 1973, “The Strategy of Economic Policy and Income Distribution”[4], in cui Minsky individua due strategie anti-disoccupazione oggi estremamente istruttive. Per quanto riguarda la prima strategia, esisterebbe una visione secondo la quale “la crescita economia è desiderabile e il tasso di crescita è determinato dal ritmo degli investimenti privati”, strategia che condurrebbe all’“enfasi sugli investimenti privati come il modo migliore per raggiungere la piena occupazione”. Pertanto, l’obiettivo della politica di recupero sarebbe quello di assicurare che le aspettative di profitto degli investitori tornino a essere orientate verso l’alto, consentendo così il riavvio del processo di accumulazione.
Tutto ciò implica sgravi fiscali su investimenti e appalti pubblici (tipicamente, in armamenti o costruzioni e opere pubbliche) e sussidi diretti al settore edilizio o a quello della Ricerca e Sviluppo. Minsky individua numerosi punti deboli in questa strategia: provoca un aumento della quota di reddito destinata al capitale, promuove relazioni finanziarie instabili, contribuisce alla crescita delle disparità retributive, alla diffusione del consumismo e potrebbe anche indurre inflazione. Oggi, andrebbe anche aggiunto che queste politiche si scontrano con i limiti della crescita capitalista. L’esaurirsi del dinamismo industriale nei Paesi sviluppati, l’aumentata domanda di servizi prodotti da persone per le persone (salute, tempo libero, educazione, ecc.) e il peggioramento delle condizioni ambientali vengono a maturazione in una fase in cui la tendenza secolare caratterizzata da una crescita più lenta della produttività[5], richiede un ripensamento di fondo su quale deve essere la futura evoluzione delle dinamiche industriali.

Lavoro pubblico centrato sulle capacità dei disoccupati
La strategia anti-disoccupazione sostenuta da Minsky è focalizzata su un’occupazione pubblica. Il principio cardine è basato sull’idea di Stato come Datore di Lavoro di Ultima Istanza (d’ora innanzi ELR, employer of last resort). Secondo questo approccio, i cui principali fautori sono gli economisti della Modern Monetary Theory, lo Stato – o le autorità locali – dovrebbero offrire un’occupazione a tutti coloro che sono disposti ad accettarlo a un salario pubblico di base (possibilmente al di sopra di esso, in base alle qualifiche richieste per occupare il posto di lavoro offerto).
Lo Stato “prende i disoccupati così come sono, adattando i posti di lavoro alle loro capacità”, ma non si tratta di workfare. Il rendere disponibili i posti di lavoro non implica necessariamente l’obbligo di lavorare; non rimpiazza, bensì integra gli attuali sussidi di disoccupazione e i programmi di assistenza sociale. L’impiego è in attività ad alta intensità di manodopera che producono utilità immediatamente manifeste per la collettività, specialmente in ambiti quali l’assistenza ad anziani, bambini e malati, i miglioramenti urbani (spazi verdi, mediazione sociale, restauro di immobili, ecc.), il ripristino ambientale, le attività scolastiche e le iniziative artistiche. Caratteristica comune a tutte queste attività è che esse si svolgono in settori nei quali la pressione per aumenti di produttività sono deboli o nulli. Come sottolineato da Minsky, l’obiettivo è quello di “un migliore impiego delle attuali capacità” piuttosto che un loro incremento.

Lo scontro fiscale con il capitale
Una tassazione fortemente redistributiva e i risparmi realizzati sui sussidi di disoccupazione fornirebbero i fondi necessari per pagare questi nuovi posti di lavoro. Questa strategia condurrebbe anche a una “parziale, veloce eutanasia dei rentier”. Dunque, non c’è “nessun bisogno di stimolare gli investimenti (…). Possono così essere introdotte imposte di successione realmente progressive ed efficaci”[6]. E le imposte sui profitti “non hanno più bisogno di essere determinate dalla necessità dei flussi di cassa aziendali”[7]. Questo è particolarmente vero da più di tre decenni, in quanto la maggior parte dei profitti non è stata reinvestita[8], bensì distribuita agli azionisti. A differenza di una politica di rilancio indiscriminata, un ulteriore vantaggio della politica ELR risiede nel fatto che essa è rivolta ai disoccupati, i quali non solo rappresentano i soggetti che più ne necessitano, ma costituiscono anche capacità produttiva inutilizzata.
Dato l’immenso spreco umano e sociale rappresentato dalla disoccupazione, che cosa impedisce ai Governi di adottare questo tipo di politiche? La risposta è che l’agenda della “competitività” è quella preferita dal mondo degli affari. Se incentrata sui costi, la strategia della “competitività”, basata sulla compressione dei salari o sulla riduzione delle imposte pagate dalle imprese, punta a rilanciare investimenti e occupazione grazie alla maggiore profittabilità e alla più ampia quota di mercato. Se orientata verso la fascia alta del mercato, implica che la spesa pubblica sia indirizzata a sostenere innovazione e formazione visti come mezzi per incrementare la produttività. In entrambi i casi, comunque, le argomentazioni a sostegno di tale strategia dipendono dalle opportunità di apprezzamento del capitale in un contesto altamente competitivo, il quale comporta che i benefici attesi da queste politiche andranno, in larga parte, a scapito dei partner commerciali.
Ciò nonostante, mettere in pratica la strategia ELR significa modificare la struttura dell’integrazione economica su scala mondiale e, nell’immediato, su quella europea. D’altro canto, risulta necessario prevenire la fuga dei capitali che sarebbe inevitabilmente innescata da una politica fiscale troppo risoluta (se necessario, facendo ricorso ai controlli valutari) e stabilizzare le importazioni, attraverso politiche di deprezzamento del tasso di cambio o misure di contingentamento.
Per altri versi, si dovrebbe porre in essere un sistema per il finanziamento del debito pubblico sostenuto dai risparmi delle famiglie in tutti quei Paesi che accettano di mettere congiuntamente in pratica questa politica, assicurandosi allo stesso tempo che la Banca centrale garantisca i titoli da esso emessi. Risulta necessario anche porre delle barriere al libero scambio in modo da orientare l’attività economica verso la produzione del valore d’uso e la conservazione della biosfera. Tutto ciò comporta misure orientate alla riduzione del circuito di produzione e alla negoziazione di accordi che stabiliscano i prezzi nel medio periodo, specialmente nel campo delle materie prime e degli alimenti.
Se tali misure appaiono troppo radicali, esse non sono niente in confronto al fanatismo mercatista che ha ormai preso piede tra i nostri leader politici. Proprio questo fanatismo li ha spinti a rifiutare quelle opzioni che consentirebbero di affrontare risolutamente disuguaglianza e disoccupazione. Ma non è forse questo il tipo di audacia che ci si dovrebbe aspettare da una politica realmente di sinistra?

(Traduzione di Federica Colasanti)

[1] Richard C. Koo, “The world in balance sheet recession: causes, cure, and politics”, Real-World Economics Review, issue no. 58.
[2] Olivier Blanchard and Daniel Leigh, “Growth Forecast Errors and Fiscal Multipliers”, IMF Working Paper, WP/13/1, January 2013.
[3] Justin Lahart, “In Time of Tumult, Obscure Economist Gains Currency”, Wall Street Journal, August 18, 2007
[4] Minsky, Hyman P., “The Strategy of Economic Policy and Income Distribution” (1973). Hyman P. Minsky Archive, Paper 353.
[5] Robert J. Gordon, “Is U.S. Economic Growth Over? Faltering Innovation Confronts the Six Headwinds”, NBER Working Paper, No. 18315, issued in August 2012.
[6] Minsky, Hyman P., op. cit., p. 100.
[7] Ibid.
[8] Engelbert Stockhammer, “Some Stylized Facts on the Finance-Dominated Accumulation Regime”, Working Papers wp142, Political Economy Research Institute, University of Massachusetts at Amherst, 2007.
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Aladinpensiero come media partner del Patto per la Sardegna ha attivato una pagina fb intitolata Aladinpensiero con il Patto per la Sardegna. Eccola: https://www.facebook.com/Aladinews
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Recovery Plan: una lettura critica

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La Società della cura e il Recovery Plan
di Marco Bersani
su Volerelaluna
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La Società della cura (https://societadellacura.blogspot.com/) moltiplica i suoi interventi sulla scena politica. Dopo la diffusione, nel dicembre scorso, di un documento contenente “proposte per uscire ora dall’emergenza, condivise da 350 realtà collettive e da oltre 1200 persone attive individualmente” (https://volerelaluna.it/materiali/2020/12/22/il-nostro-dono-di-natale/) ha attivato un confronto pubblico, in corso in questi giorni, con l’obiettivo di definire, entro il 10 febbraio, «un piano di radicale conversione ecologica, sociale, economica e culturale della società» seguendo la strada indicata «dalle lotte, dal mutualismo, dalla solidarietà e dalla Costituzione». Si colloca in questo quadro la discussione organizzata il 22 gennaio introdotta dalla relazione di Marco Bersani che si pubblica di seguito.
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Per affrontare adeguatamente la discussione sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNNR, meglio conosciuto come Recovery Plan), occorre collocarlo nel contesto più complessivo dell’Unione Europea in questa fase. Senza questo, si rischia di credere alla narrazione mainstream di un’Unione europea improvvisamente passata dall’austerità a politiche economiche espansive, e all’arrivo di un bastimento carico di miliardi, rispetto ai quali occorre solo deciderne la destinazione.

Un chiarimento sul MES

Così appare ad esempio la discussione intorno al MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, che mette a disposizione un fondo per le spese sanitarie (per l’Italia, sono 36 miliardi). Su questo punto, divenuto sensibile anche per realtà del mondo sanitario che, lavorando quotidianamente in emergenza, rischiano di ascoltare le sirene dei fautori del MES, occorre fare chiarezza. I 36 miliardi del MES non sono risorse aggiuntive. Il MES è una delle modalità di reperimento di risorse per coprire le spese previste nel comparto sanitario, spese già approvate con la legge di bilancio, e il cui ammontare è indipendente dalle modalità con cui le si finanzia. Non ci sono 36 miliardi in più, c’è solo la possibilità di finanziare una parte della spesa deliberata per il Servizio Sanitario Nazionale (121,37 mld per il 2021) attraverso il MES, invece che con l’ordinaria emissione di titoli di Stato. Il “vantaggio” sarebbe nei tassi di interesse leggermente inferiori per quella parte; lo svantaggio, ben più considerevole, sono le condizionalità (leggi: politiche di austerità), inscritte nel Trattato e mai modificate, nonostante le dichiarazioni del Gentiloni di turno.

Le cifre reali del Recovery Plan

Proviamo a leggere meglio anche le mirabolanti cifre del Next Generation Ue, una serie di fondi europei, con in testa il cosiddetto Recovery Fund. Il governo ha in questi giorni approvato il Recovery Plan, ovvero l’insieme dei progetti per accedere a questi fondi. La prima cosa da sottolineare è che, mentre i fondi assegnati all’Italia corrispondono a 196,5 miliardi, il Governo ha predisposto un piano per 209,9 miliardi. Di questa cifra, 68,9 mld sono trasferimenti e 141 sono prestiti. Sono tutte risorse aggiuntive? No, le risorse aggiuntive sono i 68,9 mld di trasferimenti e 53,5 della quota prestiti, perché gli altri 87,5 mld di quota prestiti vanno a coprire spese già deliberate (cambia solo, come per il MES, la modalità di finanziamento). Risultato: non stanno arrivando 209,9 miliardi, ma solo 122,4 mld (di cui 68,9 senza interessi e 53,5 con tassi d’interesse leggermente inferiori) nell’arco di un periodo di sei anni (2021-2026). Si tratta dunque di 20 miliardi all’anno e anche questi soggetti alle “Raccomandazioni Ue specifiche per paese”, ovvero le cosiddette “riforme strutturali” liberiste, che, proprio in questi giorni, vengono costantemente ricordate come adempimenti obbligatori per poter ottenere i fondi assegnati.

Obiettivi di lotta sull’Unione europea

Non siamo dunque in presenza di un mutamento sostanziale del profilo dell’Unione europea, bensì dentro una fase in cui i vincoli vengono resi meno stretti per rispondere alla pandemia e rilanciare l’economia, in attesa di ripristinarli non appena l’emergenza sarà stata superata. Per questo motivo, occorre legare la battaglia sul Recovery Plan a una strategia più ampia che rompa la gabbia liberista dell’Unione europea, almeno in tre direzioni, qui velocemente sintetizzate:

- rompere la trappola del debito: solo per fare un esempio, prima delle spese in deficit fatte nel 2020 per rispondere alla pandemia, dei 2.400 miliardi di debito pubblico italiano, solo 266 corrispondevano a spesa in deficit, il resto era unicamente frutto del sistema perverso degli interessi sul debito, per i quali attualmente paghiamo 60 miliardi all’anno. Si tratta della terza voce di bilancio, dopo sanità e previdenza. A questo proposito, occorre rivendicare la cancellazione del debito (le forme tecniche esistono) accumulato per le spese necessarie al contrasto della crisi prodotta dalla pandemia e occorre rivendicare il principio giuridico delle “circostanze significativamente mutate” per applicare una drastica riduzione degli interessi sul debito storicamente contratto;
- rendere la BCE banca centrale a tutti gli effetti: la Bce oggi è l’unica banca centrale del mondo a non funzionare come una banca centrale, ovvero a essere indipendente dagli Stati e a finanziare il sistema bancario privato e ‒ quando lo fa, come in questo periodo di emergenza ‒ a finanziare solo indirettamente gli Stati e il settore pubblico. A questo proposito, se la Bce divenisse una banca centrale a tutti gli effetti, non ci sarebbe alcun bisogno di inventare meccanismi come il Recovery Fund, il MES e quant’altro, poiché sarebbe la Banca Centrale Europea stessa a garantire il debito degli Stati membri;
- abolire i vincoli di Maastricht: patto di stabilità, pareggio di bilancio e fiscal compact sono stati sospesi fino al 2022 per permettere agli Stati di poter spendere per rispondere alla pandemia. Ma se per curare le persone vengono sospesi i vincoli finanziari, non ci vuole Aristotele per dedurre che quei vincoli sono contro la cura delle persone. Occorre quindi rivendicarne l’abolizione per costruire dal basso un nuovo patto costituente fra i popoli dell’Europa.

Uno sguardo generale al Recovery Plan

Dette più sopra le cifre, proviamo ora dare uno sguardo d’insieme al Recovery Plan approvato dal Governo, che sarà l’oggetto del piano di lavoro generale e tematico del nostro processo di convergenza verso la società della cura. Il piano si fonda su tre assi strategici (digitalizzazione e innovazione / transizione ecologica / inclusione sociale) e su tre priorità trasversali (donne / giovani / Sud). È diviso in sei missioni, a loro volta declinate in 16 componenti e in 47 linee di intervento. Le sei missioni sono le seguenti: Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura (46,18 mld); Rivoluzione verde e transizione ecologica (68,90 mld); Infrastrutture per una mobilità sostenibile (31,98 mld); Istruzione e ricerca (28,49 mld); Inclusione e coesione (27.62 mld); Salute (19.72 mld).

A una lettura generale il piano appare totalmente privo di una visione, costruito come una ordinaria legge di bilancio, dove ognuno cerca di portare a casa qualcosa per il proprio settore e i propri interessi di riferimento. È un piano costruito intorno all’idea che la pandemia sia un incidente di percorso, un evento esogeno al modello socio-economico, un accadimento estraneo, superato il quale il sistema potrà riprendere il proprio ordinario cammino. È un piano figlio della cultura liberista, basata sull’idea della trinità religiosa di competitività-concorrenza-crescita e sull’assunto che il benessere della società si fondi sul benessere delle imprese. È un piano che prova a stabilizzare e rivitalizzare il modello economico-sociale sui filoni dell’innovazione digitale e degli investimenti nel settore ambientale, prefigurando così una nuova fase di capitalismo digitale e verde. Per tutti/e noi che da tempo abbiamo evidenziato, dentro le nostre proposte, le nostre lotte e le nostre pratiche, come la pandemia sia tutt’altro che un incidente di percorso o un evento esogeno al modello capitalistico, sembra abbastanza chiaro come il nostro lavoro collettivo debba avere l’obiettivo di dare una lettura antisistemica, chiara e comprensibile del Recovery Plan e di favorire, sull’insieme e sulle singole declinazioni, da una parte l’approfondimento della sfida sull’alternativa di società (la società della cura) e, dall’altra, la convergenza delle esperienze per avviare un’ampia mobilitazione sociale.
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È l’introduzione alla discussione sul Recovery Plan organizzata dalla Società della cura il 22 gennaio 2021.
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Ferrovie e alta velocità. Assente la Sardegna
di Giuseppe Biggio
By sardegnasoprattutto / 28 gennaio 2021 / Società & Politica /
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Recovery Plan

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La Missione istruzione e Ricerca del Recovery Plan: buone intenzioni, insufficienze, vaghezze, interessanti indirizzi

Pubblicato il: 27/01/2021 06:05:11 – FIORELLA FARINELLI
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Anche se molto migliorato rispetto alle bozze precedenti (sono diminuiti bonus e sussidi a favore degli investimenti, aumentate le risorse per sanità e istruzione, eliminate incongruenze), è certo che il Recovery Plan varato il 12 gennaio non può essere la versione definitiva. Per essere più convincente, e più coerente con le indicazioni della Commissione europea, sono necessarie altre modifiche. La parte delle politiche attive e del lavoro dei giovani, per dirne una, è inadeguata agli sconquassi che dobbiamo aspettarci. […]
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Anche se molto migliorato rispetto alle bozze precedenti (sono diminuiti bonus e sussidi a favore degli investimenti, aumentate le risorse per sanità e istruzione, eliminate incongruenze), è certo che il Recovery Plan varato il 12 gennaio non può essere la versione definitiva. Per essere più convincente, e più coerente con le indicazioni della Commissione europea, sono necessarie altre modifiche. La parte delle politiche attive e del lavoro dei giovani, per dirne una, è inadeguata agli sconquassi che dobbiamo aspettarci. Ed è poco più che un titolo, perché affidata quasi solo alla ‘digitalizzazione’, la parte relativa all’efficientamento della Pubblica Amministrazione. Sono solo due degli esempi che si possono fare. Manca, inoltre, la definizione della governance, rinviata a un futuro decreto «che identifichi le responsabilità della realizzazione, garantisca il coordinamento con i ministri competenti e gli altri livelli di governo, monitori i progressi di avanzamento della spesa». Non sono dettagli per un Paese dove nell’ultimo settennato si è stati capaci di spendere solo il 40 per cento dei Fondi UE, con un asse decisionale Stato, Regioni, Città che funziona male e una ‘diserzione amministrativa’ piuttosto diffusa. Un Piano è un Piano solo se semplificazione ed efficienza non sono slogan ma norme, regole, responsabilità precise che mettano in grado di ‘aprire i cantieri’ . Non solo. Per innescare cambiamenti decisivi in un Paese già sfibrato prima della pandemia e suscitare condivisione e sentimenti sociali positivi, il Piano dev’essere costruito in modo trasparente, ascoltando e tenendo conto di critiche e proposte. Siamo in ritardo, ma c’è ancora un po’ di tempo. Anche per questo può essere ancora utile mettere a fuoco la coerenza tra priorità e progetti, e tra progetti e risorse.

La Missione Istruzione e Ricerca

La quarta delle sei Missioni contenute nel Piano, articolate in 16 linee d’azione e 47 progetti, si intitola Istruzione e Rcerca. Il finanziamento è di 28,5 mld, di cui 16,7 vanno a «potenziamento delle competenze e diritto allo studio» , 11,7 mld sono per la linea «dalla ricerca all’impresa». Pur essendo il finanziamento pubblico in educazione più consistente dopo il piano di ricostruzione post-bellica delle scuole e quello di sviluppo del sistema successivo alla riforma della scuola media, i 16,7 mld sono ancora insufficienti rispetto alle criticità educative del Paese e alla piena attuazione di tutti progetti elencati. Considerato che la nostra spesa pubblica per l’istruzione è la più bassa in ambito europeo (e che a regime bisognerebbe arrivare al 4-5% del PIL), che siamo tra i Paesi con il tasso più alto di early school leavers, di dispersione implicita (mancato raggiungimento delle competenze pure per chi è in possesso dei titoli di studio), di giovani adulti privi di diplomi e di titoli di livello terziario, ci sarebbe bisogno sia di più risorse sia di appropriate modifiche strutturali, di tipo ordinamentale e anche relative alla qualità professionale, all’organizzazione del lavoro, a nuovi tipi di carriere basate su impegno e meriti, a un nuovo codice deontologico dei docenti. Questo non solo per ottemperare alla saggia indicazione della Commissione Europea che chiede di evitare che le risorse siano come «pioggia che cade sul deserto», ma per l’esperienza fatta con le politiche di coesione implementate con i PON, sostanzialmente inefficaci – rispetto agli abbandoni precoci e ai divari territoriali – proprio perché costruite con progetti temporanei e aggiuntivi non sostenuti da politiche e investimenti ordinari.

Edilizia scolastica

Anche i 6,8 mld per l’edilizia scolastica («efficientamento energetico e cablaggio degli edifici pubblici» della Missione 2), neppure un quinto di quello che occorrerebbe per mettere in sicurezza e riqualificare l’intero patrimonio scolastico, dovrebbero essere implementati tenendo conto anche dell’esigenza di riconvertire gli spazi su modelli educativi e didattici innovativi e di favorire, a partire dalle periferie più disagiate, un diverso rapporto tra gli istituti scolastici e le comunità di riferimento (declinazioni e territorializzazioni che nel testo attuale non ci sono). Bisogna aggiungere che, a voler intervenire davvero sulla situazione educativa del Paese, occorrerebbe finalmente dismettere l’idea che l’unico target sia quello degli studenti ‘a rischio’ e considerare anche i drop out e gli adulti ( almeno i giovani adulti) senza diplomi e senza qualifiche, il 20% tra i 29 i 34 anni , nella logica sempre conclamata e mai attuata dell’apprendimento permanente. Sconcerta inoltre la non contestualizzazione delle politiche proposte. Cosa sarà la nostra scuola tra 10 anni, con 1 milione e 300mila iscritti in meno, un turn over del 40 per cento del personale docente, un peso specifico sempre più consistente di studenti con background migratorio ? Cosa significherà tutto questo in termini di spesa e di bisogni formativi ? Qual è l’idea di scuola cui ispirarsi?

Diritto allo studio

La linea d’azione «Potenziamento delle competenze e diritto allo studio» si articola in tre tipologie di intervento. La prima è «Accesso all’istruzione e divari territoriali» , con 9,45 mld, di cui 2,35 per borse di studio e alloggi per studenti universitari e 7,10 per la prevenzione precoce delle diseguaglianze (comparto 0-6): tempo pieno, contrasto degli abbandoni, rafforzamento delle competenze di base. La seconda è «Competenze STEM e Multilinguismo» (che comprende anche attrezzature didattiche, laboratori, «scuola 4.0» ), con 5,02 mld. La terza è “Istituti Professionali e ITS» ( e orientamento ai percorsi post diploma ), con 2,25 mld. Semplificando molto, «i fuochi sono essenzialmente due, da un lato la prevenzione delle diseguaglianze educative, sociali/individuali e territoriali, dall’altro il mismatch tra preparazione scolastica e competenze richieste dall’innovazione tecnologica e dal mondo del lavoro. L’investimento più importante, e anche quello in cui – grazie a una vasta e tenace mobilitazione di tutto il mondo che gli gira attorno, dalla ricerca pedagogica alle associazioni di cittadinanza attiva – mostra i più netti miglioramenti rispetto alle bozze precedenti, è quello relativo allo 0-6, asili nido e scuole per l’infanzia. Non solo, infatti, il piano di sviluppo degli asili nido, inizialmente promosso nella Missione «Parità di genere» –quindi ascritto impropriamente più alle finalità della conciliazione lavoro-maternità e all’occupazione femminile che a finalità educative, e coperto da uno stanziamento evidentemente insufficiente– è stato riportato, coerentemente con il Dlgs 65/2017, nella Missione «Istruzione», ma con uno stanziamento più prossimo alla realizzazione dell’obiettivo, che è la copertura del 33% della domanda in ogni Regione. Si tratta infatti di 3,6 mld, un investimento consistente, sebbene occorrerebbero in verità 4,8 mld in conto capitale (e poi un costo di gestione annuale di 4 mld). Allo stesso comparto appartiene lo stanziamento di 1 mld per il potenziamento delle scuole per l’infanzia (ma ancora non si parla di ‘generalizzazione’). Meno chiaro l’investimento sul Tempo Pieno (1 mld), presumibilmente per la scuola primaria, in cui però un piano di generalizzazione costerebbe 2,8 mld annui solo di spesa corrente . Al contrasto degli abbandoni e dei divari territoriali va 1,5 mld. Ma a un programma organico di attuazione del diritto allo studio nel primo ciclo mancano, evidentemente, alcuni ‘ingredienti’. Un nuovo modello di Tempo Pieno ordinamentale, almeno nella primaria, e comunque tempi più lunghi, anche nella secondaria di I grado, per attività educative vocazionali. Un sistema di orientamento al proseguimento dopo la scuola media ( l’orientamento previsto nella terza linea d’azione riguarda solo la transizione dalla secondaria di II grado ai percorsi di livello terziario) e lo spostamento dell’esame di stato al termine del ciclo obbligatorio. E poi una riforma dell’ istruzione e formazione professionale attraverso cui decine di migliaia di ragazzi assolvono all’obbligo decennale conseguendo un primo livello di qualificazione professionale, un sistema oggi diviso tra enti formativi accreditati dalle Regioni e Istruzione professionale statale, settore paradossalmente meno sviluppato e qualificato proprio dove dispersione e abbandoni mordono di più. La seconda e la terza linea d’azione sono assai più vaghe: non è chiaro il collegamento degli obiettivi con la riforma degli istituti tecnici e professionali e, più in generale, con il rafforzamento dell’intera filiera tecnico-professionale anche in collaborazione con le Università, sebbene l’investimento sugli ITS (1,5 mld) risponda a esigenze segnalate da più parti e i 3 mld in laboratori e attrezzature per la “scuola 4.0 “ sembrino promettenti.

La formazione degli insegnanti

A tutto ciò si aggiungono svariate riforme, anche nel sistema universitario, solo in parte collegate con le linee d’azione e i progetti, e dai contenuti talora troppo imprecisi per consentirne una valutazione. La più interessante prevede un nuovo sistema di formazione iniziale e reclutamento degli insegnanti, con coincidenza tra l’esame di laurea e l’esame di Stato per l’accesso alla professione, presumibilmente collegata con le due riforme delle lauree abilitanti e delle classi di laurea. Ci sono poi l’istituzione di una Scuola di alta formazione per il personale scolastico ( Università-Indire) a frequenza obbligatoria; le riforme per l’aggiunta nei curricoli di moduli Stem, competenze digitali e linguistiche, con apposita formazione degli insegnanti, oltre alle riforme degli istituti tecnici e professionali, degli ITS, dell’orientamento ai livelli terziari, dei dottorati. Tutto o quasi, si direbbe, da precisare meglio nelle finalità e nei contenuti specifici. C’è ancora molto da fare, quindi, sperando che ce ne sia il tempo, la volontà, le competenze.

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Fiorella Farinelli Politica e saggista, docente esperta di istruzione e formazione, componente dell’ Osservatorio nazionale per l’Integrazione degli alunni stranieri
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