Editoriali

PNRR e città. Concepire le città come bene pubblico da tutelare gelosamente

citta
di Paolo Berdini su Rocca*.
La cultura che ha permeato le città nel lungo percorso della storia ha quale costante indelebile la difesa dal nemico esterno, dall’altro da sè. Sono innumerevoli i casi di ampliamento delle cinte murarie da parte delle città che cercavano di guadagnare spazi per nuove attività economiche e per nuovi quartieri in grado di soddisfare la crescita demografica. Ma prima di ampliare, dovevano essere completate le nuove difese murarie. La seconda cinta muraria dell’Assisi medievale testimonia ancora dello sforzo che fu compiuto nella seconda metà del ’200 per dare respiro e spazi per una città che cresceva in fretta. In età recente le mura non serviranno più. Le armi moderne le hanno rese inutili. Questo decisivo passaggio storico non ha però cancellato la cultura della ricerca del nemico esterno da cui difendersi.
Oggi, gli immigrati dai paesi poveri sono l’altro da sè, da cui bisogna difendersi non solo con leggi ingiuste, ma anche con ordinanze dei sindaci che hanno cercato di cancellare addirittura – senza rendersi conto della mostruosità che si compiva – la possibilità di chiedere elemosine.

non c’eravamo accorti del nemico in casa
Con il Covid 19 si è aperta una nuova fase della vita delle nostre città. Il nemico lo avevamo a casa e non ce ne eravamo accorti. Il virus è nato e si è diffuso con rapidità perché le condizioni di vita nelle grandi città, dal turismo ridotto a macchina insostenibile alla sistematica riduzione del welfare urbano, dal degrado ambientale all’incuranza per la vita degli animali. Il virus che ha cambiato la vita nelle nostre città l’abbiamo creato noi, non ha dovuto scalare mura. La pandemia ha svelato che è il trentennale dominio culturale neoliberista ad aver distrutto le città. L’anno trascorso ha infatti mostrato la parte destruens generata dalla cultura predatoria verso le città e l’ambiente. Ma insieme ad un disastro di proporzioni inedite, la pandemia ha anche reso evidente l’esistenza di straordinarie energie che hanno saputo mantenere un diverso modello di relazioni sociali. Ha fatto emergere la parte costruens rappresentata dal mondo dell’associazionismo cattolico e laico che ha tentato di sopperire ai vuoti del welfare urbano. In ogni città – grande o piccola che fosse – è stato il mondo dell’associazionismo no profit ad aver garantito la convivenza civile distribuendo un pasto caldo, un aiuto economico o un sostegno alle famiglie più anziane o alle persone costrette a casa dall’infezione.
Una dualità delle pulsioni umane acutamente descritta da Ernesto Balducci oltre venti anni. Egli scriveva infatti che «La città è il modulo in cui ha cercato la sua sintesi il duplice impulso che governa l’uomo come individuo e come specie: l’impulso unitario allo scambio, alla collaborazione, all’intesa e l’impulso distruttivo, antagonistico che si esprime nella volontà di potenza e quindi nella riduzione dell’altro a oggetto di occupazione».
La pandemia ha dunque svelato che esiste un tessuto sociale in grado di incarnare una prospettiva unitiva, rispettosa della dignità della persona e dell’ambiente, rispettosa della città intesa come polis. Questo tessuto di sensibilità ed esperienze è però dominato da un’economia di rapina che sta mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza del pianeta, se si pensa ai cambiamenti climatici in atto.
Non sarà dunque l’economia dominante a salvare le città. Si sente affermare spesso che quando la pandemia sarà stata sconfitta, nulla sarà come prima. Ed in effetti, se si rimanesse all’interno dei paradigmi economici e culturali che sono alla base di quanto è avvenuto, la ricostruzione delle città dopo la pandemia potrebbe riservarci altre amare sorprese, come l’ulteriore riduzione dei servizi pubblici e l’aumento delle disuguaglianze. Del resto, come non ricordare che durante il primo lockdown del 2020 c’era stato un coro unanime che aveva garantito interventi rapidi per ricostruire la sanità territoriale smantellata, per garantire alle scuole la manutenzione che manca da tre decenni, per potenziare i trasporti pubblici così da garantire distanziamento sociale. È passato un anno e nulla è stato fatto in tal senso. L’economia dominante è impegnata soltanto nella ricerca dei finanziamenti del Recovery fund ma non sembra disposta a mutare di nulla il sistema che ha dimostrato di aver fallito.

un nuovo modello sociale può salvare le città
È dunque nella ricerca del superamento dell’attuale modello economico e culturale che dobbiamo ripartire se vogliamo salvare le città. Si tratta di mutare i paradigmi che non si sono dimostrati in grado di garantire uno sviluppo equilibrato delle città e dei territori e di passare ad una nuova fase di interventi pubblici, i soli in grado di scongiurare un ulteriore aumento delle disuguaglianze sociali. Peraltro, la pandemia ha avuto un effetto collaterale gravissimo: la questione ambientale è scomparsa dai media ed è invece questo il nodo che deve essere risolto.
Per uscire dalla crisi, le città vanno ripensate nella chiave dell’attuazione del concetto di Ecologia integrale. Questa proposta sociale e culturale è stata come noto formulata da papa Francesco cinque anni fa [Laudato sì’], affermando che: «È fondamentale cercare soluzioni integrali, che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della natura, (LS, 139)».
L’idea di ‘città dell’ecologia integrale’ si fonda su tre diritti rappresentati dalle tre «t» (tierra, tetho, trabajo). La terra, e cioè l’ambiente da ricostruire, il tessuto verde che dovrà permeare le città del futuro; l’abitare, concetto che supera l’esclusivo bisogno di casa e comprende proprio quel sistema dei servizi sociali indispensabili per la piena realizzazione dei diritti e falcidiati dall’economia neoliberista; il lavoro, infine, e cioè il perseguimento del modello della riconversione ecologica che fornisca a tutti la possibilità di sperimentare la proprie capacità di costruire occasioni di futuro.

creare sistemi verdi urbani e territoriali
La crisi ambientale si supera se tutte le città inizieranno ad attrezzarsi per rispondere ai cambiamenti climatici. Le uniche possibilità di mitigazione stanno nella costruzione di cinture verdi intorno agli abitati, parchi urbani, viali alberati e percorsi protetti. L’unica possibilità per costruire il riscatto della città, sta nella costruzione di un nuovo rapporto con l’ambiente circostante. Si tratta di disegnare un sistema di parchi urbani in grado di creare bellezza e mitigare gli effetti del cambiamento climatico in atto. La creazione di ‘sistemi verdi’ urbani e territoriali è il primo passo della costruzione della città dell’ecologia integrale.
Anche il bisogno di case per le famiglie più povere si può superare solo con un rinnovato intervento pubblico. La cancellazione del governo pubblico delle città negli ultimi trenta anni ha provocato la più grave crisi abitativa dagli anni ’80, e cioè da quando si era vicini alla soluzione del problema.
Da allora l’Italia – unico caso in Europa occidentale – ha cancellato la costruzione di alloggi pubblici. Non ce n’era più bisogno, affermava la cultura dominante, perché il mercato avrebbe risolto la questione. Negli anni ’80 venivano costruite in media 18 mila case popolari all’anno. Nel decennio ’90 la produzione scende a 10 mila. Nel decennio 2000-2010 si è arrivati a poco più di 5 mila.
Oggi non si costruiscono più: nel 2009 la legislazione nazionale ha ratificato il capovolgimento culturale: nasce l’housing sociale. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: mancano case popolari e in molte grandi città esistono occupazioni in edifici impropri, unico modo per non dormire per strada.
Questo processo di creazione di alloggi pubblici non deve fermarsi alle periferie. La pandemia del Covid-19 ha mostrato centri storici vuoti di persone, perché tutto è stato piegato alla monocultura del turismo. Se vogliamo dare ancora un senso compiuto alla città, uno degli obiettivi più urgenti è quello di aumentare l’offerta abitativa pubblica nel centro storico. Una città deserta non serve a nessuno. Servono città abitate che devono tornare a riempirsi di famiglie e di bambini.

non basta la casa per abitare
Ma, come afferma il concetto di ecologia integrale, non basta la casa. Abitare significa anche poter disporre dei servizi indispensabili a costruire l’inclusione, ad affermare i diritti sociali. Ad iniziare dalla salute. Deve essere ricostruita la rete di protezione territoriale della salute pubblica attraverso una rete efficiente di presidi territoriali permetterà di comprendere senza ritardi l’insorgenza di nuove pandemie o di malattie. Ogni quartiere si deve ad esempio dotare di ‘case della salute’ in grado di garantire il primo screening e la prima assistenza per tutti i cittadini.
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In questo stesso ambito, è indispensabile rimettere mano alla rete di assistenza degli anziani. La civiltà di una società si misura su come tutela gli anziani. Troppe Rsa sono state infatti localizzate senza un’idea di inclusione ma solo sulla base degli interessi della proprietà immobiliare o dei gruppi privati che le gestiscono. Occorre tornare a una visione pubblica del problema in grado, per esempio, di ubicarle in maniera strategica all’interno del grande patrimonio immobiliare pubblico – spesso abbandonato – che potrebbe essere recuperato per creare occasioni di lavoro preziose.
Abitare significa anche garantire il diritto all’istruzione, da perseguire attraverso una nuova offerta scolastica. Al di là dell’emergenza dettata dalla pandemia, occorre ridisegnare gli spazi della didattica. Le scuole e gli spazi che le caratterizzano devono tornare ad essere centrali nel ripensamento di tanti tessuti periferici in cui esistono spesso soltanto le sale del gioco d’azzardo. È ora di sostituirli con un nuovo senso comunitario.
Sono molte le esperienze di volontariato che hanno saputo ampliare l’offerta dei servizi educativi per i ragazzi più sfavoriti. Questo processo spontaneo deve diventare il modello con cui si ridisegna il diritto all’educazione dei giovani. Abitare significa avere il diritto alla mobilità. Siamo il paese che ha il record di veicoli a motore circolanti. Costruire moderni sistemi non inquinanti serve dunque a garantire il diritto delle periferie urbane e territoriali a spostarsi. Abitare significa infine avere diritto alla cultura. Le nostre città hanno sofferto per i continui tagli di risorse al settore, ma sono le periferie ad aver pagato un prezzo elevatissimo con le difficoltà di proseguire la loro attività dei pochi teatri esistenti. La cultura genera inclusione e senso di appartenenza e deve pertanto diventare occasione preziosa per costruire una città nuova.

riconversione modale del trasporto urbano
Il salto tecnologico delle città, dal rinnovo energetico degli edifici alla riconversione delle modalità di spostamento su ferro, è l’elemento portante per creare nuove occasioni di lavoro qualificato, in particolare per i giovani.
La riconversione modale del trasporto territoriale e urbano favorirà, come è avvenuto in tutta l’Europa che l’ha già sperimentata, la nascita di aziende di produzione, di ricerca, di innovazione, di sperimentazione di materiale rotabile e sistemi di sicurezza. Occasioni di prezioso lavoro qualificato per uscire dalla crisi economica incombente e per delineare un nuovo volto della città. Il trasporto su ferro è lo strumento per ridurre le emissioni e migliorare la qualità dell’aria. È soltanto il processo di riconversione ecologica urbana a poter garantire occasioni di lavoro stabili, qualificate e durature.
Le città hanno attraversato millenni di mutamenti in virtù del fatto che sono sempre state progettate e gestite dalla mano pubblica. L’ultimo trentennio rappresenta dunque un’eccezione imposta dall’economia dominante. Di fronte alla crisi economica, ambientale e sociale generata dal liberismo selvaggio, l’unica speranza è di tornare a concepire le città come bene pubblico da tutelare gelosamente.
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*Paolo Berdini è un urbanista e saggista. Ex assessore all’Urbanistica della giunta capitolina, ha pubblicato numerosi saggi di urbanistica con taglio fortemente critico sulle politiche di saccheggio delle città; è stato editorialista del Manifesto, del Corriere della Sera e del Fatto Quotidiano e membro di Italia Nostra e del consiglio nazionale del WWF dal 2009 al 2012.
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ROCCA 1 APRILE 2021
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24fd9376-09d5-4fca-96f5-a48310e0e3e8 La ripresa dell’Italia parta dalle città verdi
Campagna Sbilanciamoci!
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26 Marzo 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Le città italiane, allo stremo, sono dimenticate dal Piano di Ripresa e Resilienza [PNRR]. Dal mondo ambientalista un appello e una petizione al governo, promossi anche da Sbilanciamoci!, affinché ripresa e lotta al climate change partano da città più verdi. Rilanciamo il testo del comunicato stampa e l’appello.

Roma, 26 marzo 2021 – Stiamo rischiando di perdere un’occasione unica: quella di affrontare in modo risolutivo l’emergenza climatica trasformando finalmente le città italiane in luoghi dove vivere piacevolmente, dove muoversi con un trasporto pubblico funzionante, elettrico, a zero emissioni. Dove l’edilizia pubblica e privata sia sicura ed efficiente dal punto di vista energetico. In città ricche di infrastrutture verdi e dove acquistare prodotti alimentari biologici e locali. Dove è naturale muoversi in bici, a piedi o in carrozzina, dove la sharing mobility è alla portata di tutti. Una città vivibile, insomma, lontanissima purtroppo da molte realtà italiane ma possibile grazie ai fondi che arriveranno dall’Unione Europea per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’allarme è che nonostante rappresentino il cuore pulsante dell’Italia, ad oggi le città sono largamente ignorate nel PNRR, sebbene siano i luoghi dove i cittadini stanno pagando il prezzo più alto per le conseguenze della pandemia e dove si gioca in concreto la sfida per una vera e duratura transizione ecologica.

È questo, in sintesi, il messaggio lanciato oggi al Governo Italiano e in particolare al Presidente del Consiglio, Mario Draghi e ai Ministri Roberto Cingolani, Enrico Giovannini, Stefano Patuanelli, Giancarlo Giorgetti attraverso l’appello promosso dal Kyoto Club e da Transport&Environment e sostenuto dalle storiche organizzazioni come Greenpeace, Legambiente, WWF, Sbilanciamoci!, Cittadini per l’Aria e molte altre sigle insieme ai giovani di Fridays for Future.

Nell’appello si fa notare come le città italiane siano allo stremo: negozi, bar e ristoranti chiusi, trasporto pubblico e molte categorie di lavoratori sull’orlo del fallimento, alto contagio e mortalità da Covid. Eppure, le città ospitano la maggioranza della popolazione, sono i centri dell’innovazione culturale, sociale, economica e tecnologica del Paese. Insomma, la sfida per un futuro sostenibile si vince, o si perde, in città.

L’obiettivo è assicurarsi che i fondi europei vadano anche a beneficio della vita quotidiana e dei territori dei cittadini, dove la vita di tutti i giorni è stata sconvolta dalla pandemia di covid-19.

Quattro i punti su cui vertono le richieste lanciate dell’appello: la mobilità sostenibile, le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica e l’agroecologia.

Per quanto riguarda la mobilità i fondi del PNRR che secondo le associazioni dovrebbero ammontare a 41,15 miliardi di euro, circa il 20 % del fondo devono finanziare (direttamente o indirettamente): infrastrutture ciclabili sicure, urbane ed extraurbane, interventi per l’intermodalità bici-trasporto pubblico, la riqualificazione dello spazio pubblico a favore di spazi pedonali, ciclabili e verde urbano e a beneficio dell’uso pubblico (giardini, piazze, aree giochi, bar e ristoranti sicuri e all’aperto), realizzando infrastrutture per la mobilità dolce intese anche come corridoi drenanti, ecologici e di mitigazione ambientale; il potenziamento del trasporto rapido di massa (bus elettrici, tram, metro) e dei treni metropolitani, extraurbani e regionali. Puntare inoltre a un pendolarismo efficace e confortevole, e che incentivi un turismo sostenibile a valorizzazione di tutte le città italiane. Si chiede una riduzione delle auto private e che la flotta passeggeri e merci (pubblica e privata) sia sostituita con mezzi elettrici silenziosi e confortevoli, rispettosi della città e dei suoi abitanti. Inoltre, si punta alla realizzazione di un’infrastruttura nazionale di ricarica elettrica.

Per le fonti rinnovabili si chiede di installare almeno 6.000 MW di rinnovabili elettriche l’anno, con interventi attenti a minimizzare il consumo del suolo, con una riforma che velocizzi le autorizzazioni e provvedendo alle necessarie modifiche potenziando la rete di distribuzione e il sistema degli accumuli (batterie).

Il PNRR deve lanciare programmi significativi di efficientamento degli edifici pubblici a partire dalle scuole e nell’edilizia residenziale. In riferimento all’edilizia privata, i piani di spesa devono essere vincolati ad obiettivi minimi di efficienza.

Infine, incentivare la transizione ad un modello agricolo che non alteri il clima, che valorizzi le risorse locali e biologiche e il capitale naturale, proteggendo la biodiversità. Inoltre, chiediamo la promozione di stili alimentari a base vegetale e di disincentivare invece l’importazione di prodotti responsabili di deforestazione. L’Italia deve quindi porsi obiettivi più ambiziosi di quelli della Politica Agricola Comune Europea.

I temi dell’appello “La ripresa dell’Italia parte dalle città verdi” sono anche oggetto di una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere a tutti i cittadini di aderire e mandare un segnale forte al Governo per ricostruire, grazie ai fondi dell’Europa un’Italia per le prossime generazioni.

L’appello è promosso da Kyoto Club e Transport&Environment Italia e sottoscritto da: Fridays For Future Italy, Legambiente, Cittadini per l’Aria, Greenpeace Italia, WWF Italia, Lega Anti Vivisezione, Federazione Italiana Ambiente Bici, Rinascimento Green, Bike Italia, Sbilanciamoci!, Associazione Comuni Virtuosi, Cittàslow, Touring Club Italia, Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio, Sindaci della Bici, Osservatorio Bikeconomy, Rete dei Comuni Sostenibili, Urban@it.
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- Ecco l’appello.
[segue]

PNRR e città

24fd9376-09d5-4fca-96f5-a48310e0e3e8 La ripresa dell’Italia parta dalle città verdi
Campagna Sbilanciamoci!
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26 Marzo 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Le città italiane, allo stremo, sono dimenticate dal Piano di Ripresa e Resilienza. Dal mondo ambientalista un appello e una petizione al governo, promossi anche da Sbilanciamoci!, affinché ripresa e lotta al climate change partano da città più verdi. Rilanciamo il testo del comunicato stampa e l’appello.

Roma, 26 marzo 2021 – Stiamo rischiando di perdere un’occasione unica: quella di affrontare in modo risolutivo l’emergenza climatica trasformando finalmente le città italiane in luoghi dove vivere piacevolmente, dove muoversi con un trasporto pubblico funzionante, elettrico, a zero emissioni. Dove l’edilizia pubblica e privata sia sicura ed efficiente dal punto di vista energetico. In città ricche di infrastrutture verdi e dove acquistare prodotti alimentari biologici e locali. Dove è naturale muoversi in bici, a piedi o in carrozzina, dove la sharing mobility è alla portata di tutti. Una città vivibile, insomma, lontanissima purtroppo da molte realtà italiane ma possibile grazie ai fondi che arriveranno dall’Unione Europea per il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. L’allarme è che nonostante rappresentino il cuore pulsante dell’Italia, ad oggi le città sono largamente ignorate nel PNRR, sebbene siano i luoghi dove i cittadini stanno pagando il prezzo più alto per le conseguenze della pandemia e dove si gioca in concreto la sfida per una vera e duratura transizione ecologica.

È questo, in sintesi, il messaggio lanciato oggi al Governo Italiano e in particolare al Presidente del Consiglio, Mario Draghi e ai Ministri Roberto Cingolani, Enrico Giovannini, Stefano Patuanelli, Giancarlo Giorgetti attraverso l’appello promosso dal Kyoto Club e da Transport&Environment e sostenuto dalle storiche organizzazioni come Greenpeace, Legambiente, WWF, Sbilanciamoci!, Cittadini per l’Aria e molte altre sigle insieme ai giovani di Fridays for Future.

Nell’appello si fa notare come le città italiane siano allo stremo: negozi, bar e ristoranti chiusi, trasporto pubblico e molte categorie di lavoratori sull’orlo del fallimento, alto contagio e mortalità da Covid. Eppure, le città ospitano la maggioranza della popolazione, sono i centri dell’innovazione culturale, sociale, economica e tecnologica del Paese. Insomma, la sfida per un futuro sostenibile si vince, o si perde, in città.

L’obiettivo è assicurarsi che i fondi europei vadano anche a beneficio della vita quotidiana e dei territori dei cittadini, dove la vita di tutti i giorni è stata sconvolta dalla pandemia di covid-19.

Quattro i punti su cui vertono le richieste lanciate dell’appello: la mobilità sostenibile, le fonti rinnovabili, l’efficienza energetica e l’agroecologia.

Per quanto riguarda la mobilità i fondi del PNRR che secondo le associazioni dovrebbero ammontare a 41,15 miliardi di euro, circa il 20 % del fondo devono finanziare (direttamente o indirettamente): infrastrutture ciclabili sicure, urbane ed extraurbane, interventi per l’intermodalità bici-trasporto pubblico, la riqualificazione dello spazio pubblico a favore di spazi pedonali, ciclabili e verde urbano e a beneficio dell’uso pubblico (giardini, piazze, aree giochi, bar e ristoranti sicuri e all’aperto), realizzando infrastrutture per la mobilità dolce intese anche come corridoi drenanti, ecologici e di mitigazione ambientale; il potenziamento del trasporto rapido di massa (bus elettrici, tram, metro) e dei treni metropolitani, extraurbani e regionali. Puntare inoltre a un pendolarismo efficace e confortevole, e che incentivi un turismo sostenibile a valorizzazione di tutte le città italiane. Si chiede una riduzione delle auto private e che la flotta passeggeri e merci (pubblica e privata) sia sostituita con mezzi elettrici silenziosi e confortevoli, rispettosi della città e dei suoi abitanti. Inoltre, si punta alla realizzazione di un’infrastruttura nazionale di ricarica elettrica.

Per le fonti rinnovabili si chiede di installare almeno 6.000 MW di rinnovabili elettriche l’anno, con interventi attenti a minimizzare il consumo del suolo, con una riforma che velocizzi le autorizzazioni e provvedendo alle necessarie modifiche potenziando la rete di distribuzione e il sistema degli accumuli (batterie).

Il PNRR deve lanciare programmi significativi di efficientamento degli edifici pubblici a partire dalle scuole e nell’edilizia residenziale. In riferimento all’edilizia privata, i piani di spesa devono essere vincolati ad obiettivi minimi di efficienza.

Infine, incentivare la transizione ad un modello agricolo che non alteri il clima, che valorizzi le risorse locali e biologiche e il capitale naturale, proteggendo la biodiversità. Inoltre, chiediamo la promozione di stili alimentari a base vegetale e di disincentivare invece l’importazione di prodotti responsabili di deforestazione. L’Italia deve quindi porsi obiettivi più ambiziosi di quelli della Politica Agricola Comune Europea.

I temi dell’appello “La ripresa dell’Italia parte dalle città verdi” sono anche oggetto di una petizione sulla piattaforma Change.org per chiedere a tutti i cittadini di aderire e mandare un segnale forte al Governo per ricostruire, grazie ai fondi dell’Europa un’Italia per le prossime generazioni.

L’appello è promosso da Kyoto Club e Transport&Environment Italia e sottoscritto da: Fridays For Future Italy, Legambiente, Cittadini per l’Aria, Greenpeace Italia, WWF Italia, Lega Anti Vivisezione, Federazione Italiana Ambiente Bici, Rinascimento Green, Bike Italia, Sbilanciamoci!, Associazione Comuni Virtuosi, Cittàslow, Touring Club Italia, Associazione Italiana di Architettura del Paesaggio, Sindaci della Bici, Osservatorio Bikeconomy, Rete dei Comuni Sostenibili, Urban@it.
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- Ecco l’appello.
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E’ online
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EGC Award
Premiatele città più ecosostenibili. Su Rocca.
Dal 2010 la Commissione europea premia ogni anno le buone pratiche locali in materia di sostenibilità ambientale. Le città candidate al titolo di Capitale verde vengono valutate sulla base di dodici indicatori: mitigazione al cambiamento climatico, adattamento al cambiamento climatico, mobilità urbana sostenibile, uso sostenibile della terra, natura e biodiversità, qualità dell’aria, rumore, rifiuti, acque, crescita verde ed eco-innovazione, performance energetica, governance. Per l’anno 2021 è
stata premiata la città finlandese di Lahti, situata a circa 100 chilometri a nord-est di Helsinki nella baia meridionale del lago Vesijärvi, con 120.000 abitanti, capitale della regione Päijät-Häme, famosa a livello internazionale per gli sport invernali. Lahti è stata premiata in particolare per il suo impegno a diventare una città a zero emissioni di carbonio entro il 2025 e a economia circolare a zero rifiuti entro il 2050. Attualmente la città è riscaldata unicamente con combustibile riciclato e con legno locale certificato e il 99% dei rifiuti domestici sono riciclati. Grazie a modalità di trasporto sostenibili nella città finlandese le emissioni di gas serra sono state ridotte del 70% rispetto al livello del 1990. I cittadini e i viaggiatori si spostano prevalentemente a piedi, in bicicletta, con i mezzi pubblici e durante la stagione invernale con gli sci. Le città che hanno conquistato in precedenza la qualifica di «Capitale verde europea» sono Stoccolma (2010), Amburgo (2011), Vitoria-Gasteiz (2012), Nantes (2013), Copenaghen (2014), Bristol (2015), Lubiana (2016), Essen (2017), Nijmegen (2018), Oslo (2019) e Lisbona (2020).
Per il 2022 è stata designata capitale verde d’Europa Grenoble, giunta in finale con Digione, Tallinn e Torino.
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navi_pillay_june_2014 Unione Europea
«Clima Comune»
rete europea
di sindaci.
Oltre 60 primi cittadini italiani hanno aderito a StopGlobaWarming.eu, una campagna organizzata da Eumans! movimento paneuropeo di cittadini che con un milione di firme obbliga la Commissione europea a discutere della proposta di istituire un prezzo minimo europeo per le emissioni di Co2 e di usare i ricavi per la transizione energetica e per abbassare le tasse sul lavoro. L’iniziativa dei Cittadini
Europei è uno strumento di democrazia partecipativa previsto dai Trattati Ue ed è sottoscritta da Mogens Lykketoft, Presidente dell’Assemblea generale Onu ai tempi degli accordi di Parigi, Navy Pillay (nella foto), già Alto Commissario Onu per i diritti umani, e centinaia di artisti e intellettuali. La scadenza per raggiungere il milione di firme è il 22 aprile 2021, Giornata Mondiale della Terra. In Italia, sono oltre venti i Comuni che hanno deciso di sostenere l’iniziativa, al fianco di altre città europee.
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«La mafia teme la scuola più della giustizia»

contromafieLa scuola che fa paura alla mafia
Volerelaluna, 25-03-2021 – di: Tomaso Montanari*
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Un grande fiorentino adottivo che ha dedicato la sua vita alla lotta contro tutte le mafie, Antonino Caponnetto, non si stancava di ripetere che «la mafia teme la scuola più della giustizia». Caponnetto lo sapeva da siciliano, e da cittadino, prima ancora che da magistrato antimafia. E tutti noi lo sappiamo, e lo ripetiamo. Ma se non vogliamo che questa giornata resti solo vuota celebrazione, se vogliamo che quelle parole profetiche ci scuotano fin nelle viscere allora dobbiamo chiederci: di quale scuola, di quale università, di quale cultura, hanno paura le mafie?

Danilo Dolci, mite profeta di giustizia, lo spiegava già nel 1955. Per vincere la mafia, scriveva, «occorre promuovere azioni politiche morali, dal basso. […] Educazione morale nei pubblici uffici, scuola sicura ai bambini e ai giovinetti – e scuola che collabori alla realizzazione del mondo nuovo. Efferati o incoscienti si è, se non si dà modo subito a tutti di partecipare alla vita: di lavorare, studiare, curarsi; di partecipare alla pari alla responsabilità, alla vita pubblica. Cominciando a garantire proprio gli ultimi, quelli che non ce la fanno, a qualsiasi costo (costo giusto, si capisce); proprio, in un certo senso, il contrario di come si sta facendo». Il contrario di come si sta facendo: le parole, chiarissime, di Dolci colpiscono anche le nostre sicurezze di oggi. Invitano a convertirci: cioè, letteralmente, a cambiare strada.

Perché la scuola che fa paura alla mafia è quella della Costituzione. Rivolgendosi, nel 1950, a una platea di insegnanti, Piero Calamandrei definì la scuola un «organo costituzionale», al pari delle Camere del Parlamento o della Presidenza della Repubblica. La funzione costituzionale della scuola – dalla primaria all’università – è formare cittadini. Ma come si fa a formare cittadini, cittadini resistenti contro le mafie?

La chiave è il primo comma dell’articolo 9 della Carta, dove si dice che la Repubblica è fondata anche sullo «sviluppo della cultura» e sulla «ricerca scientifica e tecnica». Ora, quella «ricerca scientifica» va intesa nel senso più ampio possibile: è la ricerca di base, ma ancora prima è la ricerca della conoscenza. La ricerca della verità come diritto e dovere dei cittadini. È una concezione dello Stato frontalmente antimachiavellica: perché si fonda sul fatto che i cittadini non siano tenuti all’oscuro, ma invece sappiano. E sappiano perché sono stati provvisti degli strumenti cognitivi per cercare la verità. Si prende sul serio l’idea che la sovranità appartiene al popolo: mentre l’ignoranza si addice ai sudditi, il sovrano deve ricevere un’istruzione. Implicitamente, ma non troppo, la Repubblica si fonda sulla capacità dei cittadini di essere in dissenso: in dissenso con chi detiene, pro tempore, il potere; in dissenso con la maggioranza.

La scuola, dunque, dovrebbe permettere di conoscere la realtà, ma anche offrire gli strumenti per criticarla. Non allora il luogo di formazione di chi si prepara a diventare un pezzo di ricambio per lo stato delle cose (per esempio con l’alternanza scuola-lavoro intesa come una palestra di schiavitù), ma una scuola in grado di trasmettere, accanto agli strumenti cognitivi e a quelli culturali, il pensiero critico necessario per essere cittadini. E dunque per esercitare un discernimento civico, anche in relazione al voto: la buona scuola è quella che interroga il mondo per cambiarlo, non quella che insegna ad adattarsi al mondo com’è.

L’ingiustizia sociale che produce diseguaglianza è travestita da meritocrazia fin dalla scuola, che dovrebbe costruire eguaglianza e favorire la mobilità sociale e invece fa esattamente il contrario. I figli di genitori privi di titolo di studio proseguono oltre l’obbligo solo nel 44,9% dei casi, mentre per i figli di genitori laureati la percentuale è del 99,1%. Ma la selezione sociale non è finita: la metà di coloro che riescono a continuare e si iscrivono alle superiori prende ripetizioni private. Un giro d’affari da 800 milioni l’anno, per il 90% al nero: ma soprattutto un potentissimo fattore di discriminazione economica. E chi non ce la fa entra nella categoria dei Neet (Not in education employment or training) che ingoia il 25,7% dei giovani dai 15 ai 29 anni, ossia 2,3 milioni di persone. Non è una scuola per poveri, quella italiana: perché «non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, e si limita a certificarle». Il che non vuol dire soltanto che il figlio del notaio farà il notaio e quello del contadino il contadino, ma che si riprodurranno disuguaglianze tra Nord e Sud, città e aree interne, laureati e non laureati, attraverso processi di selezione interna e di legittimazione di questo classismo. È questa scuola non fa affatto paura alla mafia: proprio oggi non possiamo non dircelo! Perché non è la scuola che prepara il mondo nuovo, come la voleva Danilo Dolci, ma una scuola che cementa il mondo vecchio.

Tutto è cominciato «quando abbiamo cercato di mostrare che un buon sistema formativo produce un ritorno economico». Fino ad arrivare a tappe forzate a un tempo – il nostro – in cui l’alternanza scuola-lavoro fornisce al mercato una gran massa di mano d’opera gratuita senza alcuna prospettiva di avere in cambio una qualche formazione: fa una certa impressione apprendere che diecimila studenti italiani vengano inviati ogni anno nei fast food di Mac Donald’s. La meritocrazia appare anche in questo senso il contrario dell’eguaglianza: perché è semmai livellamento, riduzione a uno standard produttivo, negazione di qualsiasi originalità e differenza individuale. Ha più merito chi si piega di più insomma: ecco la prima lezione che si rischia di imparare in una scuola che educa al “successo”.

In Italia lo scopo della scuola non è più quello, assegnatole già da Condorcet nel Settecento, di «diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare». No, oggi è quello teorizzato dall’economista americano Kenneth Arrow: «l’istruzione superiore non aumenta né la conoscenza né la socializzazione. Al contrario, serve come dispositivo di screening, in quanto seleziona persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro». La scuola della cosiddetta meritocrazia, cioè una scuola che di fatto seleziona per censo lasciando intatti i privilegi, non forma alla giustizia, ma alla legge del più forte: che è proprio quella in cui la mafia si riconosce. «Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo d’espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose»: sono parole di don Lorenzo Milani; che aggiungeva: «Non c’è nulla che sia ingiusto quanto far parti uguali fra disuguali».

All’università le cose vanno ancora peggio, se possibile. Oggi si laurea solo il «5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati». E «le università non condividono il sapere con i cittadini ma propongono una offerta formativa ai clienti». Le università pubbliche, per quanto finanziate dallo Stato, sono in concorrenza tra loro, si fanno pubblicità, si piazzano sul mercato. Avere le foto di un calciatore famoso che fa l’esame in Ateneo è il sogno proibito di ogni rettore: ma, bisogna chiederci, quanto si preoccupano tutte le università italiane del diritto allo studio, della vita fuori sede degli studenti poveri, della carriera dei docenti precari schiavizzati senza ritegno? Che posto ha la giustizia nell’università italiana di oggi? E, per dirla proprio tutta, che paura può fare alla mafia un’università sempre più devastata da fenomeni di corruzione, di potere, di concorsi truccati? Fenomeni per i quali le procure ravvisano il reato di associazione a delinquere, e i giornali parlano di “mentalità mafiosa”: perché fondata sull’appartenenza a clan accademici, perché violentemente vendicativa, fortemente gerarchica e acritica. Davvero pensiamo che questa università possa fare paura alla mafia?

Qualche anno fa, l’allora presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche disse letteralmente queste parole: «il dovere nostro è di fare andare avanti l’Italia. Quindi, di fare sinergie, mettere insieme le forze, senza pensare a principi etici». Quel professore credeva che l’Italia non sia frenata dalla corruzione, ma dalle troppe preoccupazioni etiche. Oggi dobbiamo avere il coraggio di dire il contrario. Se vogliamo che le parole di Caponnetto siano ancora vere, dobbiamo costruire una scuola e un’università che invece pensino, eccome, ai principi etici. Quelli della nostra Costituzione: l’eguaglianza sostanziale da costruire, il pieno sviluppo della persona umana come obiettivo, il rifiuto del principio d’autorità e il primato del pensiero critico.

Sogno un’università, una facoltà di economia, in cui un giovane brillante nato in una famiglia povera, emarginato dalla scuola pubblica e quindi “adottato” da un clan mafioso e avviato a una formazione da manager, da colletto bianco al servizio degli interessi criminali – sappiamo bene quante storie così esistono davvero – ebbene, un’università in cui quello studente brillante e destinato al peggio possa aprire gli occhi.

Possa imparare che il successo e il profitto non sono l’unico metro; possa imparare non solo una tecnica che lo renda competente ed esperto, ma anche un orientamento morale, e una responsabilità civile; possa incontrare professori spogli di ogni potere se non quello della conoscenza, non padroni, capi, baroni, ma servitori del bene comune. E che, allora, almeno un dubbio possa attraversargli la mente, facendogli vedere che c’è un’alternativa. Che un riscatto è possibile.

Da professore, oggi il mio impegno è questo: fare la mia parte fino in fondo per costruire una scuola e una università che facciano davvero paura alla mafia. E dunque, ripetiamo le parole di Danilo Dolci, una scuola e un’università che collaborino alla realizzazione di un mondo nuovo. Un mondo libero, e giusto.

È l’intervento svolto dall’autore il 20 marzo a Firenze nella
“Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie”

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*Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)
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Salvatore Vento – 21 Marzo 2021 by c3dem_admin | su C3dem
Nell’ultimo ventennio il tema della responsabilità sociale dell’impresa, in italiano Rsi e in inglese Csr (Corporate social responsability), è uscito dall’insegnamento nei dipartimenti universitari del mondo anglosassone per diventare oggetto di dibattito pubblico. I più accreditati Master in Business Administration prevedono corsi specifici. La pandemia del coronavirus sollecita, con ancora più forza, comportamenti responsabili a tutti i livelli e pone all’ordine del giorno la messa in discussione del modello di sviluppo socioeconomico imperante. [...]
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Etica&Impresa

64c78141-d560-45c4-a33c-f79fe76df27aDalla responsabilità sociale dell’impresa all’eticonomia
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Salvatore Vento – 21 Marzo 2021 by c3dem_admin | su C3dem

Nell’ultimo ventennio il tema della responsabilità sociale dell’impresa, in italiano Rsi e in inglese Csr (Corporate social responsability), è uscito dall’insegnamento nei dipartimenti universitari del mondo anglosassone per diventare oggetto di dibattito pubblico. I più accreditati Master in Business Administration prevedono corsi specifici. La pandemia del coronavirus sollecita, con ancora più forza, comportamenti responsabili a tutti i livelli e pone all’ordine del giorno la messa in discussione del modello di sviluppo socioeconomico imperante.

Nel 2001 l’Unione Europea aveva emanato due appositi documenti: il Libro verde “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, seguito l’anno seguente da una Comunicazione della stessa Commissione. Nel Libro verde, la Rsi veniva definita come l’integrazione volontaria delle problematiche sociali ed ecologiche nelle operazioni commerciali e nei rapporti delle imprese con le parti interessate.

Per attuare i principi europei in Italia tali funzioni rientravano nelle competenze del Ministero del lavoro. Anche le Regioni, a partire da quella toscana, adottavano programmi di Rsi: finanziamenti alle Pmi che intendevano procedere alla certificazione Sa 8000, che è uno standard internazionale certificato attraverso un sistema di verifica di una parte terza. L’Italia è il paese col maggior numero di aziende certificate del mondo (pari al 33%). Quasi il 70% delle aziende certificate rientrano tra le Pmi (1-250 addetti).

Tutte le banche ormai sono in grado di offrire fondi d’investimento che contengono azioni o obbligazioni di aziende con certificazione di comportamenti etici. I fondi che investono in società con una politica ESG (Environmental, Social, Governance) forte hanno avuto buoni risultati. Etica Sgr, società di gestione del risparmio (Sgr), propone esclusivamente fondi comuni di investimento sostenibili e responsabili e ha lo scopo di “rappresentare i valori della finanza etica nei mercati finanziari, sensibilizzando il pubblico e gli operatori finanziari nei confronti degli investimenti socialmente responsabili e della responsabilità sociale d’impresa”. Il patrimonio gestito da Etica Sgr ammonta a 5 miliardi di euro depositati da 260 mila clienti. Secondo l’analisi della Bce, nella zona euro gli asset dei fondi ESG sono aumentati del 170% dal 2015. Nello stesso periodo il valore delle obbligazioni verdi in circolazione nell’area euro è aumentato di sette volte. Famiglie, assicurazioni e fondi pensione detengono oltre il 60% dei fondi ESG dell’eurozona.

Anche nella filiera della moda italiana si è posta attenzione sui comportamenti etici. La sostenibilità non deve essere solo ambientale, ma anche sociale, ha dichiarato Carlo Capasa, presidente della Camera Nazionale della Moda Italiana, aggiungendo che la sfida della sostenibilità sociale e del giusto salario per chi lavora nella moda è fondamentale e ha un pari peso con la sostenibilità ambientale. Esistono diverse realtà virtuose che producono eccellenza e lusso, rispettando ambiente e persone. E’ ampiamente noto il caso di Brunello Cucinelli, in particolare sul tema dell’etica del lavoro, oppure quello di Tiziano Guardini sulla sostenibilità dei materiali usati nei capi d’abbigliamento. Interessante è anche l’esperienza di collaborazione di Loro Piana con gli allevatori di capra cashmire Hircus della Cina e della Mongolia, tesa a tutelare questo tipo di allevamento tradizionale e a proteggere le comunità locali.

All’ultimo World Economic Forum di Davos, che ha celebrato i cinquant’anni d’incontri, è stato ribadito che lo scopo dell’impresa non è solo il profitto, ma anche la protezione dell’ambiente, la giustizia sociale, e la promozione di un benessere per tutta la comunità. Il “capitalismo shareholder” degli azionisti si dovrà trasformare in “capitalismo stakeholder” di tutti i portatori di interesse (imprenditori, lavoratori, fornitori, clienti, comunità).

La rivoluzione verde e la transizione ecologica previste dal PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza), con una dotazione di 69 miliardi di euro, deve ora rappresentare una grande occasione per una pratica attuazione, in Italia, di questi principi.

Il bisogno di etica nell’impresa, nell’economia e nella società ha portato, negli ultimi vent’anni, alla nascita di movimenti di contestazione, ingiustamente definiti “no global”. Le manifestazioni cominciano a Seattle (Usa) nel 1999 e sono diretti contro la conferenza del Wto (Conferenza Mondiale per il commercio). Proseguono nel 2001 contro il G8 a Genova. Riprendono col movimento “Occupy Wall Street”. Nel 2011, al referendum sull’acqua pubblica, in Italia ha partecipato il 57% degli elettori e oltre il 95% ha detto che l’acqua è un bene comune. Più che un tempo di rivoluzioni dirette da soggetti sociali specifici, il nostro è il tempo di rivolte continue, come scrive Donatella Di Cesare (Il tempo della rivolta, Bollati Boringheri, 2020): una “pratica d’irruzione” contro ingiustizie e iniquità, che ha un “potere destituente” nei confronti delle autorità che contesta. “Mi rivolto, dunque sono”, diceva Albert Camus. A questo punto, però bisognerebbe fare un’analisi sui risultati di queste rivolte, risultati che sono molto condizionati, e non potrebbe essere diversamente, dalle dinamiche sociali in cui nascono. Tra le recenti rivolte che hanno avuto un richiamo internazionale si possono ricordare “Black lives matter”, contro il razzismo sempre emergente negli Stati Uniti, le proteste per la democrazia a Hong Kong e quelle in corso in questi giorni contro la dittatura dei militari in Birmania.

Nel 2012 Joseph Stiglitz scrisse un libro intitolato Il prezzo della disuguaglianza. Come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro. Negli Stati Uniti, negli anni del boom precedenti la crisi finanziaria del 2008, l’1% dei cittadini si è impadronito di più del 65% dei guadagni del reddito nazionale totale; nel 2010, a fronte di una leggera ripresa, l’1% guadagnava il 93% del reddito aggiunto.
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Oggi la lotta alle disuguaglianze è diventato un argomento di dibattito pubblico, e in molte città sono nati gruppi di discussione e di proposte. A livello nazionale c’è, per esempio, il “Forum Disuguaglianze diversità”, presieduto da Fabrizio Barca. E nel 2016 è stata costituita l’ASVIS-Agenzia italiana per lo sviluppo sostenibile, presidente Pierluigi Stefanini, portavoce Enrico Giovannini (oggi ministro del governo Draghi); quest’agenzia si richiama all’Agenda ONU 2030, approvata nel settembre 2015 dall’Assemblea generale dell’Onu, che propone 17 obiettivi per lo sviluppo sostenibile in ambito ambientale, economico, sociale e istituzionale da raggiungere entro il 2030.
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Nel 2019 il premio Nobel per l’economia è stato assegnato congiuntamente agli economisti Abhijit Banerjee, Esther Duflo e Michael Kremer per l’approccio sperimentale nella lotta alla povertà globale. Banerjee e Duflo, marito e moglie, insegnano al Massachusetts Institute of Technology, mentre Kramer è docente ad Harvard. Duflo è la seconda donna a vincere il riconoscimento in questa categoria. Nell’annunciare i vincitori dell’edizione 2019, il Comitato per i Nobel sottolinea come i risultati delle ricerche dei tre vincitori “hanno migliorato enormemente la nostra capacità di lottare in concreto contro la povertà”. In particolare, “come risultato di uno dei loro studi, più di 5 milioni di ragazzi indiani hanno beneficiato di programmi scolastici di tutoraggio correttivo”. Essi “hanno introdotto un nuovo approccio per ottenere risposte affidabili sui modi migliori per combattere la povertà globale”.

Secondo indagini della Banca d’Italia, a fine 2017 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 9.743 miliardi di euro, 8 volte il loro reddito, di cui oltre la metà derivante da immobili. Il Pil nel 2019 ammontava a 1.800 miliardi di euro, mentre il debito pubblico raggiungeva i 2.409 miliardi di euro. Il reddito risparmiato è oggi ai massimi storici, circa il 12,6% del reddito (dati Intesa San Paolo, Centro Luigi Einaudi) e i depositi bancari nei conti correnti arrivano a 1.200 miliardi. Il risparmio individuale, se ben investito, può senz’altro contribuire al bene collettivo.

Con l’elezione di Papa Francesco (13 marzo 2013) tutti questi temi hanno assunto un respiro più ampio, una dimensione universale, che mettono in discussione l’attuale modello di sviluppo e la mercificazione delle relazioni umane (“Laudato si’”, “Fratelli tutti”). Del resto già negli anni ’70 il movimento sindacale poneva alla discussione pubblica l’interrogativo “cosa, come, dove, produrre”. In diverse città nascono gruppi e comunità sotto il nome di “Laudato si’” per cercare di mettere in pratica gli enunciati dell’enciclica. I giovani economisti, ricercatori e attivisti sollecitati dalla economia di Francesco nel documento finale del 21 novembre 2020 hanno indicato in 12 punti le loro proposte. Il tema della custodia dei beni comuni (specialmente quelli globali quali l’atmosfera, le foreste, gli oceani, la terra, le risorse naturali, gli ecosistemi tutti, la biodiversità, le sementi) dovrà essere posto al centro delle agende dei governi e degli insegnamenti nelle scuole, università e business school; occorre immediatamente abolire i paradisi fiscali in tutto il mondo perché il denaro depositato in un paradiso fiscale è denaro sottratto al nostro presente e al nostro futuro e perché un nuovo patto fiscale sarà la prima risposta al mondo post-Covid.

Quando la strutturazione in classi era ben marcata, la classe operaia delle grandi fabbriche, negli anni Settanta del Novecento, con i suoi sindacati riuscì a ottenere conquiste significative per tutti i cittadini, come ad esempio il servizio sanitario nazionale. Oggi, di fronte alla “frantumazione sociale” sempre più marcata, non c’è un soggetto sociale trainante, ma una pluralità di sensibilità che in certi momenti riescono ad aggregarsi e a costituirsi in movimento.

La vera sfida per la democrazia è coniugare il disagio sociale diffuso con i movimenti innovativi sui temi dell’ecologia integrale. Fridays For Future con la sua leader svedese Greta Thunberg, il 15 marzo 2019, ha portato, per la prima volta nella storia dei movimenti, milioni di ragazzi di tutto il mondo nelle piazze per lo sciopero per il clima. È significativo che la canzone cantata nelle piazze tragga ispirazione dal ritmo di “Bella ciao”. La Convenzione dell’ONU sui cambiamenti climatici, tenutasi a Parigi tra il novembre e il dicembre 2015, pose il tema dell’adozione di misure per contenere il riscaldamento del pianeta, ma fu molto controversa: durò dodici giorni spesi tra mediazioni e compromessi. Dopo quattro anni saranno i ragazzi e le ragazze che porranno questo problema nelle scuole e sulle piazze di tutto il mondo. Comincia, pur tra numerose contraddizioni, a diffondersi la consapevolezza che l’abbandono dell’agricoltura e degli ambienti rurali, il declino della biodiversità, la deforestazione, l’inquinamento dei terreni, dell’acqua e dell’atmosfera, la concentrazione delle popolazioni nelle aree urbane, a lungo andare portano all’accelerazione di agenti patogeni che si trasmettono dalle specie animali all’uomo.

Infine, possiamo dire che, se da una parte, l’Italia si conferma come un paese della “società del benessere”, dall’altra l’aumento delle disuguaglianze e della povertà ha raggiunto livelli socialmente non sostenibili. Il rischio è che, a seguito della necessaria risposta all’emergenza sociale provocata dal Coronavirus, prevalga una cultura assistenzialistica, come se si trattasse soltanto di distribuire la ricchezza senza preoccuparsi di come produrla. Ricordo che Mancur Olson, negli anni Ottanta, scriveva che le nazioni si avviano al declino quando la lotta tra i gruppi d’interesse è rivolta essenzialmente alla distribuzione della ricchezza e non più al suo accrescimento.

Salvatore Vento

Finalmente alleati l’ambiente e il lavoro! Ecco un buon progetto di transizione energetica da diffondere e imitare.

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Dal carbone alle rinnovabili: il caso di Civitavecchia
Mario Agostinelli e Guido Viale
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Sbilanciamoci! – 19 Marzo 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Una larga e variegata mobilitazione di forze sociali per la riconversione della centrale Enel di Torrevaldaliga, sostituendo carbone e metano fossili con fonti rinnovabili. Gli interessi che si contrappongono al progetto. La storia, i protagonisti, la posta in gioco di un conflitto che si preannuncia lungo.

Per le prospettive di politica industriale nazionale, la fase attuale assomiglia a quella sprecata nel settore della mobilità nei primi anni 2000. Allora la crisi Alfa Romeo aveva fatto terra bruciata intorno ad un sindacato che unitariamente chiedeva la riconversione radicale verso motori non più a combustibile fossile, ma alimentati a idrogeno e orientati ad un “Piano di Mobilità Sostenibile” per la Lombardia. La Fiat non era certo all’altezza di una sfida di tale portata, così impegnata al gruzzolo di famiglia più che a una riconversione ecologica e foriera di buona occupazione, Tutto allora si consumò in un patto tra governi regionali, nazionali e interessi immobiliari. L’intero settore in transizione scomparve per sempre dalla manifattura lombarda, lasciando sul campo solo un manipolo di indotto per l’industria tedesca.

Oggi, per certi versi, l’occasione si ripete con qualche elemento di consapevolezza e di responsabilità in più. Parliamo dell’occasione di aprire frontiere prima inimmaginabili alla sostituzione del carbone e del metano fossili con fonti rinnovabili che, oltre all’emergenza climatica, diano risposte alle questioni occupazionali e al “senso” del lavoro, armonizzandone l’eccesso di capacità trasformativa con i limiti e i guasti arrecati alla natura. Il caso di Civitavecchia – su cui si sta esprimendo un’ampia mobilitazione – è paradigmatico di un problema nazionale riguardo al quale non possono prevalere gli interessi puramente aziendali di corporation a compartecipazione pubblica, né equilibri di governo che trasmutano in green washing orizzonti di ecologia integrale.

I ritardi e le motivazioni con cui non si vuole aprire nel paese un dibattito sulla sostituzione della potenza fossile con quella rinnovabile – sempre più conveniente, rafforzata da stoccaggi chimici o idrici, corredata da fornitura di vettori flessibili come l’idrogeno verde e protesa ad una più efficiente elettrificazione di un sistema energetico decentrato – lascia presumere che o non ci sarà phase-out dal carbone o che l’alimentazione delle caldaie e delle turbine restaurate avverrà, anziché coi nastri trasportatori dal deposito carbonifero, col prolungamento di un metanodotto che arrivi al mare, magari per poi inabissarsi e sbucare su un’altra riva.

Il gas è tutt’ora in cima ai piani strategici di Eni, la maggiore multinazionale italiana, ma trova la complicità di Enel Italia – si noti che Enel Group all’estero investe solo in rinnovabili! – perché il rischio di investimento in un nuovo grande impianto a metano qui da noi è coperto da sussidi pubblici e dagli oneri aggiuntivi che si scaricano nelle bollette dei consumatori, garantiti dal capacity market. E come se ciò non bastasse, le aziende fossili premono per ottenere interessi privilegiati dalla BEI anche per i nuovi impianti fossili e veder garantita dalla Commissione UE una tassazione delle emissioni di CO2 al camino che non metta fuori mercato il Kwh da metano rispetto al Kwh trasformato da impianti eolici e fotovoltaici puliti. Altro che concorrenza, visto che tempi di ammortamento e valorizzazione di impianti di questo genere superano i 30 anni di funzionamento mantenendo il mix di combustibili impiegato fuori gioco rispetto agli obiettivi di zero emissioni previsto per la UE al 2050.

Appare quindi evidente come l’impianto Enel di Civitavecchia Torrevaldaliga – oggetto di una lunga battaglia locale tutt’ora in crescita – vada chiuso e riconvertito, senza ingannare gli abitanti laziali sulla frottola che il passaggio al metano rappresenterebbe lo slancio dovuto verso l’obiettivo di azzeramento delle emissioni di CO2 entro il 2050. Il “trucco” poi, per cui Eni, fornitore abituale di gas, punterebbe a limitare le sue quantità di emissioni rispetto a quelle indicate dalla UE moltiplicando gli impianti di sequestro della CO2 nel sottosuolo (CCS) non è suffragato né sul piano industriale e nemmeno su quello sperimentale. Pertanto, il piano strategico dell’Ente è in contrasto con le indicazioni UE, dato che prevede una progressiva riduzione dell’estrazione di petrolio, ma un aumento della prospezione e dello sfruttamento del gas metano nel mix energetico complessivo.

Un gruppo di ricercatori e tecnici che da tempo sostiene la riduzione di gas climalteranti e la tutela della salute nell’area di Civitavecchia ha messo a punto un progetto di massima che prevede la produzione di elettricità esclusivamente da fonti rinnovabili, stabilizzate nella loro intermittenza da stoccaggi e conversione in idrogeno verde, disponibile a sua volta come vettore energetico per varie destinazioni territoriali: nello specifico, la potenza proverrebbe sia da fotovoltaico su ampie aree dell’impianto da dismettere (in particolare i depositi di carbone) sia, soprattutto, da eolico off-shore. Un parco eolico di pale galleggianti collocato a 20-30 chilometri dalla costa (quindi senza impatto visivo diretto), collegate a riva con cavi sottomarini e integrata da idrolizzatori per conservare in idrogeno e rendere successivamente disponibile l’eccesso di corrente elettrica prodotta. L’Italia possiede basi tecnologiche al riguardo e lo stesso PNRR favorisce anche sotto il profilo finanziario un simile approccio.

Si troverebbe così risposta alla sufficienza e alla sicurezza della rete elettrica non solo locale, rendendo energeticamente autonoma la città di Civitavecchia e il suo hinterland e disponendo di fonti locali diffuse e interconnesse, grazie anche a una stazione di storage che compensi l’intrinseca discontinuità di sole e vento (che nel caso di Civitavecchia forniscono un bilancio tra i più favorevoli in Europa).

Intorno ad esso si è sviluppata una discussione che ha interessato sia la maggior parte delle associazioni e delle organizzazioni locali, sia il sindacato, sia diversi consiglieri e parlamentari, oltre alle principali associazioni ambientaliste, e alla CNA. È sorprendente e lungimirante l’entrata in campo da parte dei lavoratori, a partire dalla Camera del Lavoro territoriale, di altri sindacati di categoria e della Uil confederale, che non solo interpretano la necessità della svolta ecologica, ma valorizzano anche in termini quantitativi e qualitativi il diritto alla salute e alla buona occupazione. La Fiom locale e i sindacati presenti in centrale hanno già scioperato a più riprese su tutti i turni e hanno impressionato una città spesso pigra rispetto al suo destino e passiva nei confronti di una natura depredata in modo non dissimile dal lavoro.

Sta qui succedendo l’opposto di quanto avviene a Ravenna, dove il progetto Eni di un impianto CCS di sequestro di anidride carbonica non sta incontrando parimenti consapevoli opposizioni, nemmeno nel sindacato. Nella città tirrenica, oltre ai sindacati, quasi tutte le associazioni ambientaliste e civiche, gli studenti, il sindaco (eletto con una lista civica orientata a destra) e persino la diocesi – citando la Laudato Sì’ – hanno manifestato un forte interesse per il progetto e sono in programma diversi incontri (per lo più online) per farlo conoscere e per approfondirne gli aspetti tecnici, economici e occupazionali.

Che cosa possiamo ricavare da questa esperienza sommariamente riassunta?

Che è la prima volta che in modo così esplicito un settore consistente e significativo della classe operaia si mobilita a favore di un progetto di transizione energetica, invece di arroccarsi nella difesa delle soluzioni di mera conservazione, sostanzialmente incompatibili con una vera svolta ecologica. Questo sembra dimostrare che, di fronte a un progetto credibile, i lavoratori possono assumere un ruolo protagonista, scuotendo sia gli interessi corporativi del management delle imprese che alcune delle pigrizie ancora presenti in zone sindacali più imprevidenti.
Che la prospettiva aperta da questo progetto si fonda sia sull’urgenza della crisi climatica, sia sulla sua credibilità tecnica e occupazionale (il volano di attività che il progetto comporta fornirebbe un moltiplicatore di occupazione qualificata; ad ora anche il calcolo economico sembrerebbe favorevole grazie ai fondi di Next Generation UE e alle occasioni di reindustrializzazione ad alta specializzazione che vengono incentivate in loco), sia, soprattutto, su una mobilitazione di forze sociali cittadine, a cui il progetto sta dando continuità e che porta a riflettere sulle potenzialità di un progetto prospettato nella forma di una “coalizione sociale”.
Che questa versione di rappresentanza anche diretta adeguatamente sostenuta, rinvigorita da una diffusione ampia di formazione e conoscenza, può innescare il processo di una sua replicazione a livello nazionale e, perché no?, internazionale, quando il problema della riconversione produttiva si pone con assoluta urgenza, qualificandosi di fronte alla direzione aziendale, come la vera controparte del processo di riconversione e della futura gestione dell’impresa, con una progressiva erosione dei poteri del management, in nome della difesa del “bene comune”.
Che si tratta comunque di un processo conflittuale che non può restare confinato, pena la sua sconfitta, in un ambito prettamente aziendale, ma che riesce vincente se rimarca sul territorio interessi sociali e politici irrinunciabili, anche quando non vengono rappresentati dalle forme della governabilità calata dall’alto.

Non siamo saliti sul carro di Draghi, ma la sua Agenda è la nostra Agenda. Come realizzarla è la vera questione. Cosa cambia con Enrico Letta?

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di Franco Meloni
Riproduciamo ancora una volta l’editoriale che Luciana Castellina ha scritto per Sbilanciamoci! perchè nella sostanza esprime con esemplare chiarezza la mia posizione sul governo Draghi, con qualche precisazione e aggiornamento soprattutto in relazione alla elezione di Enrico Letta alla segreteria del Pd. Parlando di prospettive, cioè del “Che fare?” assumo poi come riferimento il contributo di Alfonso Gianni, sul Manifesto, ripreso anche dal manifesto sardo e da aladinpensiero.
Ribadiamo: l’Agenda del governo Draghi è la nostra Agenda. Vi sono elencati i titoli delle priorità da affrontare ora e per lungo tempo, durante e dopo la pandemia. Come non apprezzare il fatto che Draghi richiami l’Agenda Onu 2030 sullo Sviluppo sostenibile, così come assunta e declinata dall’Unione Europea, in particolare nell’adozione del Next Generation Eu? E’ evidente che la vera questione è come realizzare detti obbiettivi, per definizione tutti virtuosi, e quali interessi si vogliono tutelare e in qual modo e in quale misura… Al riguardo si possono richiamare le diverse questioni, ma mi limito in questa sede agli aspetti della “transizione ecologica” con la citazione della posizione di Greenpeace, che condivido, invitando ad aderire alla relativa Campagna [vedi sotto]. Comunque, certamente Draghi ha a cuore gli interessi di tutti, ma secondo la sua scala di priorità, che è quella di un esponente dell’alta borghesia, che tutela la sua classe innanzitutto, tuttavia è un keynesiano e anche un cattolico-sociale che non trascura il popolo. Il conflitto di classe che non è morto, serve proprio a spostare gli interessi, per noi appunto verso il popolo, verso la generalità dei cittadini. Per questo occorrerebbe una forte Sinistra, non importa se al governo o all’opposizione, purchè ben salda nei principi e decisa nell’attività politica al servizio delle masse popolari, come si diceva un tempo. Questa Sinistra oggi non c’è, almeno rispetto alle necessità della fase storica. Ne avremo bisogno. E bisogna costruirla. Come? Per noi partendo da quanto si muove nel Paese, fuori da palazzo, nei movimenti di cui parlano Luciana Castellina, Alfonso Gianni e altri, anzi soprattutto altre, come Norma Rangeri e Elly Schlein. Dobbiamo certo collegare l’esterno con l’interno, cioè quanto si riesce a fare di organizzato nel territorio (i movimenti della democrazia di base, le organizzazioni sindacali, etc.) con le forze buone dei partiti che agiscono sopratutto negli ambiti istituzionali. Una porta tra questi due mondi (l’interno e l’esterno, per semplificare) per quanto riguarda il Pd ci sembra individuabile nella proposta di Enrico Letta delle Agorà democratiche, su cui, contrariamente a quanto sostiene Alfonso Gianni, io credo occorra investire e, quindi, impegnarci di conseguenza. E, ancora, la conquista dello ius soli è uno degli importanti obbiettivi che condividiamo e che dobbiamo praticare con convinzione. Che dire poi sul Next Generation Eu – Recovery Plan? C’è moltissimo da lavorare da qualsiasi parte si stia. Noi sappiamo dove.
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Le lacune di Draghi
Luciana Castellina

Sbilanciamoci! 24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. […]
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Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/
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letta-microAl Letta di governo rispondiamo con la sinistra
16 Marzo 2021
di Alfonso Gianni
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(…) C’è un’unica possibilità. Aprire un processo costituente inclusivo, in cui forze più o meno organizzate, associazioni, gruppi, esperienze di lotte territoriali si possano incontrare considerandosi transitorie per raggiungere un esito non predefinito e non predefinibile, essendo appunto il frutto di un processo costituente. Le energie per aprire un simile processo non mancano se si guarda non tanto a ciò che resta della sinistra d’alternativa organizzata, ma soprattutto alla vivacità di azione e di pensiero che è emersa, proprio in questa drammatica crisi pandemico-economica, a livello della società civile.
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TRANSIZIONE ECOLOGICA: dalle parole ai fatti. La Campagna di Greenpeace.
transizione-ecologica

NGE Recovery Plan: appelli per migliorarlo

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La generazione fantasma
Campagna Sbilanciamoci!, Rete della Conoscenza; Unione degli Studenti; Link-Coordinamento Universitario
11 Marzo 2021 | Sezione: Campagna Sbilanciamoci!, Lavoro, Politica, Società

lampadadialadmicromicroAladinpensiero accoglie l’invito della Campagna Sbilanciamoci! e aderisce all’appello lanciato dai giovani e le giovani del Paese che chiedono di uscire dalla crisi nella direzione giusta, con investimenti nel lavoro, nell’istruzione e nell’autodeterminazione.
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Siamo i giovani e le giovani di questo Paese e sul Recovery Fund abbiamo un piano.

Siamo i giovani a cui è stato detto di accontentarsi, che dovevamo fare gavetta, che uno stage non pagato è normale, che prima o poi il contratto sarebbe arrivato, che dovevamo solo aspettare. Però il tempo passava e lo sfruttamento restava sempre lì.

Siamo le studentesse e gli studenti a cui è stato detto che andava tutto bene, che pagare migliaia di euro ogni anno tra tasse, affitti e libri era normale, che le scuole e le università sarebbero ripartite. Invece siamo sempre di più ad abbandonare gli studi perché l’istruzione nel nostro Paese è un lusso, ma mai una priorità, come hanno dimostrato questi mesi.

Abbiamo 15, 25, 30 anni. Siamo cresciute/i tra due crisi, abbiamo visto il nostro futuro diventare sempre più incerto, la precarietà trasformarsi nell’unica certezza. Ci siamo sentite/i dire che basterebbe impegnarci di più, che è colpa nostra se non troviamo lavoro, che dovevamo andare all’estero per avere un futuro.

Ci hanno ripetuto che non c’erano i soldi: per l’istruzione, per la ricerca, per creare lavoro, per la sanità, per risanare i nostri territori e contrastare il disastro climatico. Adesso i soldi ci sono.

Il Next Generation EU parla di noi: noi che non sappiamo se l’anno prossimo riusciremo ancora a pagare le tasse all’università, che dobbiamo decidere se restare qui o andare a cercare opportunità altrove, che siamo costrette/i a vivere dai nostri genitori perché la famiglia è ancora l’unica forma di welfare esistente.

Si parla del nostro futuro, ma continuate a farlo senza di noi, la generazione fantasma. Invece è arrivato il momento di ascoltarci. Serve #UnPianoPer uscire dalla crisi nella direzione giusta e ripartire davvero. Noi abbiamo qualcosa da dire.

. 5% del PIL in istruzione, perché senza conoscenza non c’è futuro
L’Italia è agli ultimi posti in Europa per quanto riguarda la percentuale di PIL in istruzione e il numero di laureati, ma in cima alle classifiche per le tasse universitarie più alte e la dispersione scolastica. Vogliamo il 5% del PIL per rendere l’istruzione gratuita, per investire in edilizia scolastica e universitaria, per un reddito di formazione per le studentesse e gli studenti. Perché una società della conoscenza è possibile, ma solo se l’istruzione smette di essere per pochi e, con la cultura, diventa una priorità. No, non bastano i soldi del Recovery Fund: e allora che paghino i più ricchi, contribuendo davvero allo sviluppo del Paese.

. Lavoro pagato, di qualità, senza più sfruttamento
Lavoro gratuito, ricatti e sfruttamento sono spesso l’unica alternativa alla disoccupazione. A partire dagli investimenti del Next Generation EU vogliamo che si ragioni di come cambiare il mondo del lavoro: indennità obbligatoria per stage e tirocini, piano di assunzioni straordinarie a tempo indeterminato nella PA, contrasto alla precarietà, un piano per l’occupazione femminile che garantisca davvero la piena autodeterminazione di tutte noi. E un rapporto tra formazione e lavoro che non serva a schiacciare la conoscenza alle esigenze del mercato ma a ripensare il mondo che ci circonda, senza continuare a sfruttare territori e persone.

. Un paese in cui restare
Ogni anno decine di migliaia di giovani lasciano il nostro Paese, mentre sono ancora di più i giovani meridionali che abbandonano le loro regioni. Vogliamo investimenti in infrastrutture e sviluppo al Sud, un piano di contrasto alla povertà e alle diseguaglianze e per l’autodeterminazione, che metta al centro il lavoro e un vero reddito incondizionato, vogliamo poter restare ed essere al centro delle strategie di sviluppo dei nostri territori da Nord a Sud del Paese, nei centri come nelle periferie, nelle città come nelle aree interne.

Promosso da
Rete della ConoscenzaUnione degli Studenti Link Coordinamento Universitario

Hanno aderito fino ad ora
ARCI – Sbilanciamoci – Chi si cura di te? – Mi Riconosci? Sono un professionista dei beni culturali – Genova che osa – Lato B – Collettivo Valarioti – Associazione 1° Maggio – Aladinpensiero associazione socio-culturale.

Per firmare e aderire
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Ricostruire l’Italia con il Sud
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Ricostruire l’Italia con il Sud: 10 punti per il Pnrr

Redazione di Sbilanciamoci!
9 Marzo 2021 | Sezione: Apertura, Politica

La nuova versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza deve tenere insieme le diverse aree del Paese e dare garanzie sullo sviluppo del Mezzogiorno. Un documento di 25 esperti chiede al governo il massimo impegno nel ridurre le disparità territoriali.
lampadadialadmicromicro133Aladinpensiero News e l’associazione socio-culturale Aladinpensiero aderiscono con entusiasmo e convinzione al documento-appello e si impegnano a diffonderlo e a farlo sottoscrivere nel nostro territorio. Ci preoccupa il silenzio in questo frangente degli intellettuali sardi e non solo. Diamoci una smossa!

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che il governo dovrà presentare alla Commissione Europea entro il prossimo 30 aprile, dovrebbe dare garanzie sull’obiettivo di riduzione delle disparità. A contare non sarà solo la semplice allocazione di risorse alle regioni meridionali, ma anche le modalità della loro governance: serve discontinuità rispetto alle precedenti fasi di programmazione, coerenza nel tempo del flusso di risorse disponibili e il rafforzamento delle competenze delle amministrazioni pubbliche. E andrebbe inserita, fra gli interventi di riforma più urgenti, la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni”. Pubblichiamo di seguito il documento, promosso da 25 esperti di Mezzogiorno e di politiche territoriali, sulla necessità di rendere esplicito il ruolo del Sud nella ricostruzione del Paese.

Il documento

L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua “ricostruzione” coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.

Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali – per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del paese – deve essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.

Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno deve essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale. Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa.

Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:

1. rendendo esplicito il ruolo del Sud nelle sue principali missioni e il contributo che dal Sud può venire alla crescita del paese, con particolare riferimento alla transizione green, alla logistica, alle nuove attività manifatturiere, al ruolo delle sue aree urbane anche nella trasformazione digitale, al rafforzamento del sistema della ricerca e delle filiere scolastica e formativa e dei servizi socio-sanitari;
2. contenendo un chiaro indirizzo politico verso la produzione di beni pubblici per la coesione e la competitività nell’intero paese, e quindi verso la riduzione dei divari civili, a partire da scuola, sanità e assistenza sociale, anche attraverso un concreto riconoscimento del ruolo del Terzo Settore, e delle disparità nelle dotazioni infrastrutturali materiali (mobilità di lungo e breve raggio) e immateriali (reti digitali, istruzione, ricerca);
3. rendendo esplicito come l’obiettivo traversale della coesione territoriale viene perseguito all’interno di ciascuna missione, e di ciascuna linea di progetto, attraverso una puntuale localizzazione degli interventi (o dei criteri per la loro successiva selezione) e definizione degli obiettivi territoriali di spesa;
- definendo a livello territoriale in tutte le missioni, e in tutte le linee di progetto, i risultati attesi per i cittadini e le imprese;
1. facendo complessivamente scaturire da questa impostazione di metodo l’allocazione al Sud di una quota delle risorse complessive del Piano significativamente superiore al suo peso in termini di popolazione (al netto dei finanziamenti FSC e REACT-EU e al netto dei progetti “in essere”), coerentemente con l’impostazione e gli indicatori del programma comunitario;
- e impegnandosi a realizzare un sistema di monitoraggio ad accesso aperto, sulla base del quale il governo riferirà annualmente in Parlamento sull’avanzamento negli obiettivi di spesa e nei risultati ottenuti, nell’insieme e a livello territoriale;
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:

1. prevedere una governance con una significativa discontinuità anche rispetto alle precedenti programmazioni delle politiche di coesione, aperta al contributo delle forze economico-sociali e tale da garantire, molto più che in passato l’avanzamento della spesa da parte dei soggetti attuatori nei tempi previsti e il raggiungimento dei risultati attesi;
2. prevedere un intervento straordinario di riforma e rafforzamento delle Amministrazioni pubbliche ed in particolare di quelle comunali, di semplificazione delle norme e delle procedure e di potenziamento del loro personale e delle loro capacità, sulla base di un’analisi accurata dei fabbisogni. Senza uno straordinario rafforzamento dei Comuni difficilmente le risorse disponibili per investimenti potranno essere spese nei tempi;
3. contenere precisi impegni affinché nelle future Leggi di Bilancio siano destinate risorse correnti ordinarie adeguate a garantire il mantenimento nel tempo dei risultati attesi via via raggiunti, sia per quanto riguarda la dotazione e la qualità dei servizi attivabili con i nuovi investimenti (es. mobilità) sia per la dotazione e la qualità dei servizi di cittadinanza, a partire da salute, istruzione, assistenza, abitazione, connessioni digitali.
4. inserire fra gli interventi di riforma l’attuazione di quanto previsto dalla modifica costituzionale del 2001 e dalla successiva legislazione di attuazione (42/2009) con particolare riferimento alla rapida definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (ex art. 117 Cost.) per tutti i cittadini italiani, in base ai quali determinare fabbisogni standard e interventi perequativi nella finanza di Regioni e Comuni.
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero “ricostruita” e non potrà contare in Europa.
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Ricostruire l’Italia con il Sud

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Ricostruire l’Italia con il Sud: 10 punti per il Pnrr

Redazione di Sbilanciamoci!
9 Marzo 2021 | Sezione: Apertura, Politica

La nuova versione del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza deve tenere insieme le diverse aree del Paese e dare garanzie sullo sviluppo del Mezzogiorno. Un documento di 25 esperti chiede al governo il massimo impegno nel ridurre le disparità territoriali.
lampadadialadmicromicro133Aladinpensiero News e l’associazione socio-culturale Aladinpensiero aderiscono con entusiasmo e convinzione al documento-appello e si impegnano a diffonderlo e a farlo sottoscrivere nel nostro territorio. Ci preoccupa il silenzio in questo frangente degli intellettuali sardi e non solo. Diamoci una smossa!

Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, che il governo dovrà presentare alla Commissione Europea entro il prossimo 30 aprile, dovrebbe dare garanzie sull’obiettivo di riduzione delle disparità. A contare non sarà solo la semplice allocazione di risorse alle regioni meridionali, ma anche le modalità della loro governance: serve discontinuità rispetto alle precedenti fasi di programmazione, coerenza nel tempo del flusso di risorse disponibili e il rafforzamento delle competenze delle amministrazioni pubbliche. E andrebbe inserita, fra gli interventi di riforma più urgenti, la definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni”. Pubblichiamo di seguito il documento, promosso da 25 esperti di Mezzogiorno e di politiche territoriali, sulla necessità di rendere esplicito il ruolo del Sud nella ricostruzione del Paese.

Il documento

L’Italia si trova di fronte all’occasione irripetibile di avviare la sua “ricostruzione” coniugando sviluppo e coesione sociale, per giocare un ruolo di primo piano nell’Europa del prossimo decennio.

Per tale ragione, a nostro avviso, l’obiettivo di ridurre le disparità di genere, generazionali e territoriali – per molti aspetti strettamente collegate nelle aree più deboli del paese – deve essere al centro del Piano di Rilancio e di tutti i suoi interventi, coerentemente con la complessiva impostazione comunitaria del programma Next Generation EU.

Dunque, lo sviluppo del Mezzogiorno deve essere un grande obiettivo del Piano: per la rilevanza dei divari interni al paese, che in base ai criteri di riparto comunitari hanno determinato la dimensione del finanziamento destinato all’Italia; per motivi di uguaglianza fra i cittadini e di rispetto del dettato costituzionale; per motivi di efficienza economica: gli investimenti nel Mezzogiorno hanno un moltiplicatore più elevato e determinano impatti sull’attività produttiva dell’intero sistema nazionale. Il recupero del ritardo accumulato dall’Italia in Europa si supera tenendo insieme le parti del Paese in una strategia di sviluppo comune. Come nella logica del Next Generation EU, il Piano deve valorizzare le complementarità e le interdipendenze produttive e sociali tra i Nord e i Sud, riconoscendo che i risultati economici e il progresso sociale dei Nord dipendono dal destino dei Sud e viceversa.

Nella sua attuale formulazione il Piano non dà garanzia che le sue risorse saranno investite con questo indirizzo, e ancor meno che ci saranno effetti sulla riduzione delle disparità e sulla crescita del Mezzogiorno e quindi dell’intero paese. Per questo, a nostro avviso, il Piano dovrebbe essere riformulato:

1. rendendo esplicito il ruolo del Sud nelle sue principali missioni e il contributo che dal Sud può venire alla crescita del paese, con particolare riferimento alla transizione green, alla logistica, alle nuove attività manifatturiere, al ruolo delle sue aree urbane anche nella trasformazione digitale, al rafforzamento del sistema della ricerca e delle filiere scolastica e formativa e dei servizi socio-sanitari;
2. contenendo un chiaro indirizzo politico verso la produzione di beni pubblici per la coesione e la competitività nell’intero paese, e quindi verso la riduzione dei divari civili, a partire da scuola, sanità e assistenza sociale, anche attraverso un concreto riconoscimento del ruolo del Terzo Settore, e delle disparità nelle dotazioni infrastrutturali materiali (mobilità di lungo e breve raggio) e immateriali (reti digitali, istruzione, ricerca);
3. rendendo esplicito come l’obiettivo traversale della coesione territoriale viene perseguito all’interno di ciascuna missione, e di ciascuna linea di progetto, attraverso una puntuale localizzazione degli interventi (o dei criteri per la loro successiva selezione) e definizione degli obiettivi territoriali di spesa;
- definendo a livello territoriale in tutte le missioni, e in tutte le linee di progetto, i risultati attesi per i cittadini e le imprese;
1. facendo complessivamente scaturire da questa impostazione di metodo l’allocazione al Sud di una quota delle risorse complessive del Piano significativamente superiore al suo peso in termini di popolazione (al netto dei finanziamenti FSC e REACT-EU e al netto dei progetti “in essere”), coerentemente con l’impostazione e gli indicatori del programma comunitario;
- e impegnandosi a realizzare un sistema di monitoraggio ad accesso aperto, sulla base del quale il governo riferirà annualmente in Parlamento sull’avanzamento negli obiettivi di spesa e nei risultati ottenuti, nell’insieme e a livello territoriale;
La semplice allocazione di risorse non garantisce tuttavia il cambiamento del Sud e del paese. Pertanto, a nostro avviso, il Piano dovrebbe anche:

1. prevedere una governance con una significativa discontinuità anche rispetto alle precedenti programmazioni delle politiche di coesione, aperta al contributo delle forze economico-sociali e tale da garantire, molto più che in passato l’avanzamento della spesa da parte dei soggetti attuatori nei tempi previsti e il raggiungimento dei risultati attesi;
2. prevedere un intervento straordinario di riforma e rafforzamento delle Amministrazioni pubbliche ed in particolare di quelle comunali, di semplificazione delle norme e delle procedure e di potenziamento del loro personale e delle loro capacità, sulla base di un’analisi accurata dei fabbisogni. Senza uno straordinario rafforzamento dei Comuni difficilmente le risorse disponibili per investimenti potranno essere spese nei tempi;
3. contenere precisi impegni affinché nelle future Leggi di Bilancio siano destinate risorse correnti ordinarie adeguate a garantire il mantenimento nel tempo dei risultati attesi via via raggiunti, sia per quanto riguarda la dotazione e la qualità dei servizi attivabili con i nuovi investimenti (es. mobilità) sia per la dotazione e la qualità dei servizi di cittadinanza, a partire da salute, istruzione, assistenza, abitazione, connessioni digitali.
4. inserire fra gli interventi di riforma l’attuazione di quanto previsto dalla modifica costituzionale del 2001 e dalla successiva legislazione di attuazione (42/2009) con particolare riferimento alla rapida definizione dei “livelli essenziali delle prestazioni” (ex art. 117 Cost.) per tutti i cittadini italiani, in base ai quali determinare fabbisogni standard e interventi perequativi nella finanza di Regioni e Comuni.
Senza una migliore capacità amministrativa e coerenti politiche ordinarie i risultati conseguiti con il Piano non potranno essere mantenuti nel tempo, l’Italia non sarà davvero “ricostruita” e non potrà contare in Europa.

9 marzo 2021

Documento proposto da:

Laura Azzolina, Università di Palermo

Luca Bianchi, economista

Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud

Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli

Luigi Burroni, Università di Firenze

Domenico Cersosimo, Università della Calabria

Leandra D’Antone, storica

Paola De Vivo, Università Federico II Napoli

Carmine Donzelli, editore

Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma

Lidia Greco, Università di Bari

Alessandro Laterza, editore

Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria

Alfio Mastropaolo, Università di Torino

Vittorio Mete, Università di Firenze

Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli

Rosanna Nisticò, Università della Calabria

Emmanuele Pavolini, Università di Macerata

Francesco Prota, Università di Bari

Francesco Raniolo, Università della Calabria

Marco Rossi-Doria, maestro

Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli

Rocco Sciarrone, Università di Torino

Carlo Trigilia, Università di Firenze

Gianfranco Viesti, Università di Bari

Otto marzo

rocca
di Fiorella Farinelli su Rocca.

Sherecession significa recessione che riguarda «lei», un nome coniato negli Usa per dire che è sulle donne che si abbattono i peggiori effetti economici della pandemia. Sta succedendo anche da noi. I dati Istat sull’andamento dell’occupazione nello scorso dicembre, un mese di solito particolarmente frizzante per straordinari e lavori aggiuntivi o stagionali, dicono che questa volta si sono invece persi 101mila posti, ben 99mila occupati da donne. Non c’è, purtroppo, da sorprendersi. In tutto il 2020 su 4 posti di lavoro perduti quelli «in rosa» sono stati 3. Non è stato sempre così nelle recessioni. In quelle provocate dalle guerre mondiali, per esempio, fu soprattutto con il lavoro femminile che vennero coperti i posti di lavoro lasciati vuoti dai maschi al fronte, dalle morti e dalle invalidità dei militari. Perfino nell’industria pesante e nei trasporti pubblici, ambiti e professioni tradizionalmente riservati all’altra metà del cielo (ma che emozione, per l’emancipazionismo femminile di quei tempi, quelle foto in bianco e nero di signore alla guida dei tram, fiere delle nuove responsabilità e di un’allora insperata autonomia). Anche in tempi più recenti, come nella grande crisi del 2008, a liquefarsi furono soprattutto molti lavori prevalentemente maschili nelle costruzioni e nell’industria che gli gira intorno, mentre fu il comparto dei servizi a riprendersi per primo e a sviluppare nuove attività, con molti nuovi posti di lavoro sopratutto femminili (oggi in tutto il mondo, segnala l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, il 42% del lavoro nel settore dei servizi pubblici e privati lo fanno le donne). Ma con la pandemia la storia è tutta diversa. È senza dubbio il lavoro femminile ad essere il più colpito, in Italia più acutamente che altrove. Negli Stati Uniti e in Germania le statistiche dicono infatti che gran parte delle donne che hanno perso l’occupazione non vanno ad ingrossare le file delle «inattive», ma ne cercano subito un’altra, anche utilizzando le opportunità formative e i supporti pubblici che agevolano le transizioni. Da noi invece sono tante quelle che, perso il lavoro, stanno sparendo dal mercato del lavoro. Un fenomeno, fin troppo noto alle donne italiane, che i sociologi chiamano «scoraggiamento». Quando la situazione è così difficile, come in tante aree del Mezzogiorno, che non vale neppure la pena di provarci. Sappiamo cosa c’è dietro. Un mercato del lavoro più «rigido» che altrove, l’assenza di politiche attive, i Centri per l’Impiego che non funzionano, la minore diffusione tra le donne delle competenze professionali, tecniche, digitali che servirebbero. E soprattutto i problemi, particolarmente acuti nel nostro paese, di scarsa conciliabilità del lavoro con gli obblighi di cura. I figli, i nipoti, gli anziani, i malati, i disabili di famiglia, e poi un’organizzazione domestica in gran parte sulle loro spalle, con una media di 21 ore settimanali di lavoro, anche per le donne impiegate a pieno tempo, contro le 6-7 dei maschi. L’insufficienza, la scarsa qualità, i costi dei servizi sociali e sociosanitari, assai diffusi in Italia, colpiscono le donne due volte. Perché offrono molti meno posti di lavoro del necessario, e proprio in un comparto più coerente con le propensioni e le professionalità femminili. E perché sono proprio quei limiti a stressare la vita delle donne.

il Gender Gap
La situazione del lavoro femminile in Italia era difficile già prima della pandemia.
Nel 2019, nonostante i progressi del decennio precedente trainati da una partecipazione delle ragazze all’istruzione e da indici di successo scolastico e universitario sempre più alti, a partire dagli anni Ottanta, il tasso di occupazione femminile era ancora pari solo al 50,1% (che vuole dire metà delle donne tra i 16 e i 65 anni fuori dal lavoro, almeno quello stabile e regolare, mentre in altri paesi europei l’area delle escluse è sotto il 40%). Di quasi 18 punti più basso di quella maschile, e con differenze enormi tra Nord (60,4%) e Sud (33,2%). Con un indice di disoccupazione esplicita (11,1%) tra i più alti dei paesi avanzati. In mezzo, le vaste praterie dello «scoraggiamento» che congela la ricerca del lavoro, delle occupazioni in nero, intermittenti, precarie, malpagate. Per Gender Gap, cioè per divario tra lavoro maschile e femminile, l’Italia è inchiodata nell’Europa-20 in un non onorevole 17° posto, troppo in basso per un paese ricco, evoluto, democratico. I redditi da lavoro delle donne sono mediamente inferiori del 25% a quelli maschili, il part time riguarda per il 73,2% il lavoro femminile (ed è involontario nel 64% dei casi), ci sono settori in cui le donne ancora oggi entrano a fatica e solo con titoli di studio e competenze professionali di livello alto. Ci sono ancora discriminazioni nelle assunzioni, nei licenziamenti, nelle carriere (è di qualche anno fa la legge che vieta di assumere le donne con la riserva di sciogliere il rapporto di lavoro se interviene una gravidanza: ma ai tribunali di casi così ne arrivano ancora tanti), e nei trattamenti salariali inferiori a parità di prestazione. Ma c’è, bisogna ammetterlo, anche un troppo frequente ritrarsi delle donne dal lavoro perché ritenuto o perché effettivamente inconciliabile con la maternità, spesso perché il reddito lavorativo è troppo basso rispetto alle spese che si dovrebbero sostenere per farsi sostituire nel lavoro di cura o per pagare i servizi educativi per l’infanzia. Secondo l’Ispettorato del Lavoro, nel 2019 a dimettersi dal lavoro dopo il parto sono state 37.611 donne. Ma è il confronto con le medie europee a rivelare, oltre ai condizionamenti oggettivi della maternità sul lavoro femminile, la presenza di ostacoli di altra natura, anche culturali. Se le donne italiane tra i 20 e i 49 anni senza figli lavorano nel 62,4% dei casi (contro un valore europeo del 77,2%) e se quelle con un figlio lo fanno nel 57,8% dei casi (contro l’80,2% nel Regno Unito, il 78,3% in Germania, il 74,6% in Francia), nei maggiori paesi europei le donne con due figli lavorano di più delle italiane senza figli. Sul mercato del lavoro femminile pesano dunque anche antichi stereotipi, pregiudizi di genere, ritardi culturali di cui le donne sono vittime, anche quando li interiorizzano. Con conseguenze negative di vario tipo, tra cui la povertà dei nuclei familiari numerosi in cui a lavorare è un solo adulto e la scarsa autonomia delle donne in famiglia. Non c’è dubbio, inoltre, che è in questo intreccio di condizionamenti oggettivi e soggettivi che si è generata anche una crescente rinuncia alla maternità. Tra i suoi guai e le sue anomalie, l’Italia vede anche un collasso della natalità più grave che in altri paesi. Che fa saltare molti equilibri nel welfare e che impoverisce la società delle risorse umane più giovani. Con l’aggravante, negli ultimi anni, delle pesanti limitazioni a ulteriori flussi migratori e dal progressivo allinearsi dei comportamenti riproduttivi delle famiglie straniere a quelli delle coppie autoctone, che non «compensano» più con i bambini con back ground migratorio le culle vuote degli italiani.

una grandinata senza fine
Su tutto ciò la pandemia si sta rovesciando come una grandinata di cui non si vede la fine. Sono le regole del «distanziamento» a tagliare le gambe proprio ai settori dove l’occupazione femminile è più alta.
Sono in crisi il turismo e l’alberghiero, il tessile e l’abbigliamento, l’estetica e il lusso, i servizi commerciali «non essenziali», i ristoranti, i bar, le mense aziendali e quelle scolastiche e universitarie, trascinando con sé – grazie anche allo sviluppo emergenziale (ma quanto definitivo?) del cosiddetto smartworking – un insieme di altri servizi, dalla pulizia degli uffici alle lavanderie per gli hotel. Appesantisce il quadro il fatto che proprio in gran parte di questi settori sia più diffuso il lavoro stagionale, intermittente, a tempo determinato, spesso del tutto o parzialmente in nero, come quello, anch’esso prevalentemente femminile, del lavoro nelle famiglie, dalle colf alle badanti. Lavori meno protetti, dunque, più esposti ai licenziamenti, non tutelati dalla cassa integrazione o da altri ammortizzatori sociali. Come del resto parte consistente del lavoro autonomo,
anche nei comparti degli spettacoli e della cultura, dai cinema ai teatri. Tutto perduto, non si sa per quanto, e neppure se ci sarà un recupero pieno quando ci saremo finalmente liberati dalla pandemia. Non
tutto, è molto probabile, potrà tornare come prima, nei consumi, nei viaggi, nel turismo, nel modo di lavorare. Si sono aggiunti, inoltre, ulteriori ostacoli al lavoro femminile – alla ricerca attiva dell’occupazione, alla formazione per un nuovo lavoro – determinati dai lunghi mesi e settimane in cui le scuole sono chiuse, dai bambini e ragazzi confinati in casa alle prese con le piattaforme per la didattica da remoto, dall’impossibilità di ricorrere al prezioso supporto dei nonni. Un incubo la vita quotidiana nelle case più piccole, a contendersi gli spazi per lo studio, il lavoro, lo smartworking, tanto più se ci sono malati o persone con bisogni speciali rimasti senza aiuto. Altro che «scoraggiamento», è una valanga di ulteriori stress che è piombata su tante donne. Anche per le imprenditrici, segnala una recente inchiesta di Unioncamere, il clima si è fatto pessimo perché sono le donne, si sa, ad essere considerate meno affidabili dalle banche che dovrebbero concedere il credito necessario a resistere. Con in più le difficoltà, in molti casi, di minori competenze nel campo delle attività, di sicuro sviluppo, fortemente connotate dal digitale e da altre innovazioni tecnologiche. Ci saranno, per le donne e anche per tanti uomini che dovranno nei prossimi mesi passare ad altri lavori, efficaci programmi di aiuto anche formativo?

contrastare gli stereotipi di genere
La via d’uscita non sono, né saranno, solo gli incentivi alle assunzioni femminili, e neppure solo i bonus o i voucher che vanno e vengono, sempre diversi, da un governo all’altro. Occorrono sostegni economici e fiscali stabili per le famiglie con figli, servizi educativi e scuole a tempo pieno su cui
poter contare, congedi parentali generosi, flessibilità di tempi ed orari di lavoro, nuovi servizi sociosanitari per anziani, malati, disabili. E poi anche strategie educative di contrasto degli stereotipi di genere che condizionano le scelte formative, per incoraggiare e orientare le ragazze a studi con cui acquisire le competenze culturali e professionali che consentano di accedere a ogni comparto del lavoro. Dalle «rivoluzioni» digitale e ambientale, così come dall’indispensabile sviluppo dei sistemi sanitari e di un nuovo welfare, nasceranno nuovi fabbisogni professionali, nuovi profili di competenze, e nuovi lavori. In cui l’intelligenza e le sensibilità femminili saranno preziose, se sorrette da appropriati strumenti conoscitivi. Non si dovrebbe, ancora una volta, perdere il treno. Quanto ai maschi, e al diffuso maschilismo che limita e ostacola le libertà femminili in casa e nel lavoro, anche qui ci vorrebbero apposite strategie «educative». Ma è forse il campo più difficile e problematico, anche in una scuola popolata soprattutto da insegnanti donne, anche dentro le famiglie. Non è affatto un dettaglio per il futuro di un paese come il nostro.
Fiorella Farinelli
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DONNE E LAVORO
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A che punto è l’autonomia delle donne (8 marzo 2021)
Su Sviluppo felice.
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Il nostro impegno contro le disuguaglianze di genere
Pubblicato il 8 Marzo, 2021 in Contributi
Forum Disuguaglianze e Diversità

La pandemia ha coinvolto tutti evidenziando le fragilità ed esasperando le disuguaglianze. In questo scenario le donne sono state le più colpite, perché più precarie e vulnerabili dal punto di vista lavorativo e ancora maggiormente schiacciate sui compiti di cura. Vulnerabilità aggravate dalla violenza maschile pervasiva e trasversale. Una situazione grave per cui servono interventi multidimensionali a partire da quelli che potranno essere inseriti nel Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza
[segue]

Next Generation EU. Quali scelte per uscire dalla crisi?

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L’opportunità del Recovery Plan: dalla programmazione alla gestione
di Graziella Pisu *

Per ricostruire l’Europa dopo la pandemia di COVID-19, la Commissione, il Parlamento europeo e gli Stati membri hanno concordato un rafforzamento del Quadro finanziario vigente tramite il Next Generation EU (NGEU), generato da un’emissione di titoli sui mercati da parte della Commissione Europea (CE) e consistente in 750 miliardi di euro aggiuntivi rispetto ai 1074 miliardi del Quadro finanziario pluriennale.

L’obiettivo è un’Europa più ecologica, digitale e resiliente. Il Dispositivo europeo per la ripresa e la resilienza di 750 Miliardi di euro è composto da: 360 miliardi di prestiti, 312 miliardi di sovvenzioni; 45,5 miliardi su REACT-EU; 10 miliardi per il Fondo per una transizione giusta (JTF), 5 miliardi su Orizzonte Europa; 5,6 miliardi del Fondo InvestEU; 7,5 miliardi per lo sviluppo rurale e 1,9 miliardi su RescEU.

Per quanto riguarda l’Italia, ciò che la crisi pandemica ha messo in luce è la necessità di riforme ed investimenti in particolare in sanità e nella resilienza economica, sociale e istituzionale.

Il maggior beneficiario del NGEU è l’Italia con circa 209 miliardi. Si tratta di uno strumento innovativo che comunque necessita, come gli altri strumenti finanziari, di una serie di passaggi. Infatti, Ogni Stato Membro dovrà inviare alla CE un Piano di ripresa e resilienza entro la fine di aprile 2021.
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Il Piano di riforma, per l’Italia, che dovrà tener conto delle raccomandazioni europee sarà caratterizzato da diversi elementi i principali :

Economia più verde e sostenibile (37% del totale come da Regolamento)
Digitalizzazione del Paese (20%)
Pubblica Amministrazione al servizio dei cittadini e delle imprese
Tessuto economico più competitivo e resiliente
Potenziamento degli investimenti nella formazione e nella ricerca
Un ordinamento giuridico più moderno ed efficace.
Il Piano nazionale, sarà trasmesso, come detto, entro il 30.04.2021 in via definitiva alla CE , che avrà 2 mesi di tempo per la trasmissione all’Ecofin il quale dovrà approvare la proposta entro un mese. Le misure avviate a decorrere dal 1°.02.2021, sono ammissibili purché soddisfino i requisiti del Regolamento anche se la certezza dell’approvazione la si avrà, per via di questa tempistica, solo da fine luglio. Non aspettare quest’ultima data è fondamentale, dati i tempi molto ristretti, per l’avvio e il completamento dei progetti entro il 2026.
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Sulla performance complessiva delle strutture preposte alla gestione dei fondi comunitari hanno influito diversi fattori di criticità:

- inadeguatezza della fase di programmazione;
- debolezze della struttura amministrativa;
- carenze di natura procedurale/organizzativa.

Qui parlerò del primo punto, per discutere la parte gestionale in un prossimo scritto.

Per rispettare i tempi contingentati (e col Recovery Plan saranno ancora più ristretti), sarebbe stato necessario far partire la fase di programmazione nel momento in cui lo strumento è stato proposto mentre, come emerso per l’ennesima volta nel recente incontro fra CRP (Centro Regionale di Programmazione) e parti sociali, per il POR FESR 21/27, il processo viene generalmente avviato in prossimità della scadenza di presentazione alla CE. Va tenuto presente che la proposta regionale per il Recovery Plan (RP) deve essere coerente con il più ampio Programma Regionale di Sviluppo 2020-24 che fissa gli indirizzi generali e con gli altri strumenti regionali di programmazione già operanti:

- la Strategia regionale di Sviluppo sostenibile (SRSvS);
- la Strategia di specializzazione intelligente;
- la Strategia regionale di adattamento ai cambiamenti climatici;
- i Piani e programmi di settore.
Sulla base dei programmi e delle strategie regionali e degli strumenti finanziari comunitari e nazionali disponibili, il decisore politico deve coraggiosamente fare delle scelte e definire una scala di priorità in un confronto aperto con il partenariato istituzionale, economico, sociale e ambientale, sia a livello regionale che territoriale.

Questo percorso deve essere necessariamente accompagnato da un fondo per il finanziamento della progettazione che consenta agli EE.LL. di anticipare le procedure autorizzative che spesso hanno causato ritardi importanti nella realizzazione delle opere. Infatti le Regioni e gli Stati che hanno seguito questo percorso, si trovano ora con progetti in corso di realizzazione o per lo meno già cantierabili.

In Sardegna, invece, al momento attuale ci troviamo senza un documento di programmazione operativo per il settennio 2021-27 e senza progetti di investimento per il RP 21-26 che possano rappresentare un volano iniziale di attività e di spesa della politica di coesione.

L’Italia riceverà dal QFP (Quadro Finanziario Pluriennale) per il 2021-27 circa 35 miliardi di euro. Alla Sardegna, inclusa nuovamente fra le regioni meno sviluppate, saranno assegnati circa 3 miliardi di euro fra FESR e FSE da spendere entro il 2029.

Non sappiamo invece quanto dei circa 209 miliardi di € deliberati per l’Italia tra fondo perduto e prestiti, la nostra Regione riceverà nell’ambito del PNRR per il quale le somme dovranno essere impegnate entro il 2023 e spese entro il 2026.

Nonostante il lavoro preliminare di ricognizione sul PNRR da parte dello Stato sia iniziato nello scorso agosto, e la Conferenza delle Regioni del 6 agosto 2020 abbia deciso di costituire un gruppo di lavoro interregionale, la Presidenza della Giunta ha raccolto una lista di progetti estratti dai cassetti degli assessorati solo nel mese di novembre.

Per capire la scarsa capacità di direzione collegiale di questa Giunta segnalo che il 30 settembre 2020 l’Assessorato dell’Ambiente ha presentato al Ministero dell’Ambiente, e non alla conferenza delle regioni, un pacchetto di 55 interventi infrastrutturali per 378 milioni di euro relativi alla mitigazione del rischio idrogeologico. Sia la lista di novembre che questo pacchetto non sono stati discussi né in Consiglio Regionale, né con le parti economiche, sociali e ambientali, né con le istituzioni territoriali. Non conosciamo la distribuzione delle risorse finanziarie nelle differenti missioni, né la visione strategica, né la coerenza con le linee guida dell’UE e con gli obiettivi nazionali del PNNR.

Ricordo che i rapporti tra Giunta e Consiglio, in merito alla procedura da adottare per l’elaborazione degli atti di programmazione sono disciplinati dall’articolo 14 della L.R 2 agosto 2018 n.30, che prevede che il Presidente della Regione, o un Assessore da lui delegato, renda dichiarazioni al Consiglio regionale il quale approva specifici atti di indirizzo alla Giunta regionale.

E’ evidente che se la realizzazione dei progetti non rispetterà la tabella di marcia, i fondi saranno interrotti. Per evitare di perdere le risorse, il Presidente del Consiglio ha chiamato i colossi internazionali della consulenza che avranno il compito di fornire analisi dei dati, impatto sui progetti e dovranno spiegare ad esempio, se un investimento ha funzionato o meno in altri paesi e fornire studi sui possibili effetti.

Auguri a tutti noi.

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* Intervento della dott.ssa Graziella Pisu, esperta fondi strutturali europei, già direttore del Centro di Programmazione della Regione Autonoma della Sardegna, al seminario web organizzato da Aladin Pensiero e Il manifesto sardo venerdì 5 marzo dal titolo Recovery Plan, che fare?
L’articolo è pubblicato in contemporanea su il manifesto sardo.
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DOCUMENTAZIONE PERTINENTE
L.R 2 agosto 2018 n.30
Art. 14
Sostituzione dell’articolo 16 della legge regionale n. 13 del 2010
(Programmazione regionale unitaria)
1. L’articolo 16 della legge regionale n. 13 del 2010 è sostituito dal seguente:
“Art. 16 (Indirizzi alla programmazione regionale)
1. Al fine di definire la posizione della Regione all’avvio dell’elaborazione di piani, programmi o altri atti di programmazione regionale cofinanziati con risorse europee o nazionali, il Presidente della Regione, o un Assessore da lui delegato, rende dichiarazioni al Consiglio regionale.
2. Il Consiglio regionale approva, in base alle dichiarazioni di cui al comma 1, specifici atti di indirizzo alla Giunta regionale.
3. Il Presidente della Regione, o un Assessore da lui delegato, informa tempestivamente il Consiglio regionale sull’andamento e sull’esito dei negoziati con la Commissione europea o lo Stato.
4. La Giunta regionale trasmette al Consiglio regionale per il parere delle competenti commissioni consiliari:
a) le proposte di piano, programma o altri atti di programmazione regionale soggette ad approvazione da parte della Commissione europea o a procedura negoziale con lo Stato;
b) le modificazioni ai piani, programmi o altri atti di programmazione, soggette ad approvazione da parte della Commissione europea o a procedura negoziale con lo Stato.
Le Commissioni esprimono il parere entro il termine di venti giorni, decorso il quale se ne prescinde.
5. La Giunta regionale trasmette, per conoscenza, al Consiglio regionale:
a) i piani, programmi o altri atti di programmazione regionale a seguito della loro approvazione definitiva o alla conclusione della procedura negoziale;
b) le modificazioni ai piani, programmi o altri atti di programmazione, non soggette ad approvazione da parte della Commissione europea o a procedura negoziale con lo Stato.”.
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- Il sito youtube de il manifesto sardo su cui è possibile rivedere il webinar del 5 marzo 2021.

Che succede in Italia?

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COMMENTI
La vergogna di Zingaretti, le macerie di Draghi
Vorelalaluna, 06-03-2021 – di: Marco Revelli
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Soluzione/Dissoluzione
Quella che appariva (a troppi) come la soluzione della crisi italiana – la nascita del Governo Draghi – si rivela in realtà una potente accelerazione del processo di dis/soluzione del nostro sistema politico in atto da tempo. Le dimissioni di Nicola Zingaretti sono l’ultimo passaggio – drammatico – della reazione a catena innescata da Matteo Renzi quando ha dinamitato il governo Conte II. E insieme il segno dello sfacelo di un assetto istituzionale che nasconde le proprie macerie dietro il sorriso enigmatico – e vagamente minaccioso – di Mario Draghi. Quel passaggio di consegne tra l’Avvocato (del popolo) e il Banchiere (dei potenti) non ha segnato solo un chiarissimo spostamento a destra dell’asse politico (come abbiamo più volte denunciato). Ha rilasciato anche uno sciame sismico che mina alla base il già precarissimo equilibrio del sistema politico, incrementando la tendenziale liquefazione di tutte lo forze che lo compongono. E può aprire la via ad avventure imprevedibili oggi (si pensi a quel quasi 50% di elettori che nei sondaggi figurano come “incerti”, cioè privi di rappresentanza politica).

Il capitalismo irresponsabile e le sue macerie
E’ stata, quella crisi di governo assurda e insieme logicissima, la vittoria del blocco di potere che costituisce il baricentro di un capitalismo fattosi in quasi un trentennio di declino arrogante e straccione. Un ceto parassitario e speculativo, aggregato com’è intorno a quella che Luciano Gallino, in un libro profetico, aveva chiamato l’”impresa irresponsabile”, immaginata per intenderci sul modello delle autostrade dei Benetton. Ci stanno dentro gli avvelenatori dell’Ilva, i criminali manutentori del ponte Morandi, i tradizionali vincitori degli appalti di tutte le “grandi opere” devastatrici del paesaggio, gli immobiliaristi romani e i robber baron del capitalismo delle reti oltre che, sotto, molto sotto, il reticolo pulviscolare dell’economia molecolare padana, galleggiante solo grazie ai bassi salari e all’assenza di resistenza sindacale. Sono loro i vincitori del 13 febbraio. Loro che avevano incominciato a picconare Giuseppe Conte prima ancora che entrasse a Palazzo Chigi, contestandone (ricordate?) il curriculum, preoccupati che il suo sguardo si posasse un pochino – poco poco, appunto – su quanto sta in basso. Loro che hanno sostenuto l’offensiva di Salvini per svuotare la pur debole spinta anti-establishment dei 5stelle nella compagine giallo verde (epico il ribaltamento sul TAV Torino-Lione). E poi a lavorare per scavare la terra sotto i piedi a quella giallo-rosa chiedendo, fin dall’inizio della pandemia, di mettere l’economia al di sopra della salute. Ancora loro, infine, a usare il capitano di ventura Matteo Renzi, sempre pronto a imprese in cui si tratti di tradimenti, nella mattanza finale, per mettere al sicuro (ovvero nelle loro tasche) il tesorone in arrivo dall’Europa… Facciamocene una ragione: l’Italia è questa cosa qui, nelle mani di questa gente qui.

La vergogna e la maledizione renziana
In questo senso il gesto di Zingaretti ha un carattere esemplare. Come ha scritto ieri Norma Rangeri costituisce “la più cruda, eloquente rappresentazione” di cos’è oggi il Pd. Ma anche di cos’è diventato il Paese. E’ un atto di onestà. O, meglio, di verità. Dà la dignità delle parole a ciò che ognuno di noi vede e ha visto ogni giorno. Pesa come un macigno il termine VERGOGNA, ed è difficile trovare espressione più calzante per i comportamenti di quel gruppo dirigente. Ma non solo di quello. Così come pesa quell’espressione shakespeariana – “Qui funziona solo il fratricidio” -, che la dice lunga su quanto l’eredità del bullo di Rignano continui a operare all’interno di quel corpo collettivo malato. Esattamente due anni fa, il 17 marzo del 2019, il Presidente della regione Lazio aveva preso in mano un “partito morto” (così l’ha definito una sua fedele, Cecilia D’Elia). Svuotato da più di quattro anni di segreteria renziana (che l’aveva preso al 25,4% e lasciato al 18,7%, suo minimo storico). E in effetti come sarebbe stato possibile sopravvivere con un corpo e con un’anima per un partito che per quasi 1550 giorni si era dato anima e corpo a un simile avventuriero della politica? Tanto più che quel partito senz’anima, o con un’anima fragilissima, era nato, quando con sciagurato azzardo, nel 2008, Walter Veltroni aveva avviato la fusione fredda con la Margherita immaginando di farne il perno di un bipartitismo italiano spirato in culla. A quel compito da rianimatore di terapia intensiva l’ultimo suo segretario si era applicato con buona volontà, anche se senza brillantissime idee. Fino a dover scoprire, alla fine, l’inutilità di quell’accanimento terapeutico di fronte alla coriacea incapacità del partito (ridotto ad arcipelago di gruppi d’interesse ognuno concentrato sui rispettivi equilibri interni) di rapportarsi alla sofferenza diffusa, lacerante, di buona parte della popolazione o anche solo di includerla nel proprio orizzonte di pensiero.

Macerie sociali
Per una sorta di astuzia della ragione, che dissemina indizi anche se quasi mai vengono colti da chi dovrebbe, nello stesso giorno degli agguati a Zingaretti e della sua decisione finale l’Istat ha rilasciato gli ultimi dati, terribili, sulla povertà assoluta. Versano in questa condizione, cioè non possono fruire del minimo indispensabile per “una vita dignitosa” (questa è la definizione ufficiale,, più di 5 milioni e mezzo di persone, quasi un cittadino su dieci. Un milione in più rispetto all’anno scorso, per la metà “operai o assimilati”, cioè titolari di un posto di lavoro che però non gli permette comunque di vivere. E non sono stati ancora sbloccati i licenziamenti. Chi rappresenterà questo bacino di sofferenza sociale nel tempo durissimo che ci aspetta? Chi li sottrarrà al fascino del demagogo di turno che li ammalia e tradisce? O alla dura legge della protezione in cambio di fedeltà, che è la tomba di ogni democrazia.

L’articolo in versione leggermente più breve è comparso sul Manifesto del 6 marzo 2021 col titolo Le macerie nel passaggio di consegne tra l’Avvocato e il Banchiere.
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Marco Revelli
E’ titolare delle cattedre di Scienza della politica, presso il Dipartimento di studi giuridici, politici, economici e sociali dell’Università degli Studi del Piemonte Orientale “Amedeo Avogadro”, si è occupato tra l’altro dell’analisi dei processi produttivi (fordismo, post-fordismo, globalizzazione), della “cultura di destra” e, più in genere, delle forme politiche del Novecento e dell’”Oltre-novecento”. La sua opera più recente: “Populismo 2.0″. È coautore con Scipione Guarracino e Peppino Ortoleva di uno dei più diffusi manuali scolastici di storia moderna e contemporanea (Bruno Mondadori, 1ª ed. 1993).
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“Poltrone e potere, vergogna del Pd”: parole del segretario del partito
5 Marzo 2021
di Ottavio Olita su il manifesto sardo.

“Dagli amici mi guardi Dio, che dai nemici mi guardo io”: per molte settimane, se non per mesi, ma soprattutto dopo aver concorso a varare il governo Draghi, Nicola Zingaretti deve averlo pensato.

Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Sardegna (Next Generation EU-Recovery Plan). Che fare?

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Venerdì 5 marzo alle ore 18.00 Il manifesto sardo e AladinPensiero organizzano un seminario web sul Recovery Plan in diretta dalla pagina Facebook, YouTube e dal sito del manifesto sardo.
Intervengono: Lilli Pruna, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro – Università di Cagliari; Chiara Maria Murgia, laureanda in Cooperazione Internazionale e Sviluppo presso La Sapienza Università di Roma; Alessandro Spano, docente di economia aziendale – Università di Cagliari; Enrico Lobina della Fondazione Sardinia; Graziella Pisu, esperta fondi strutturali europei, già direttore Centro di Programmazione RAS; Umberto Allegretti, professore emerito di diritto pubblico – Università di Firenze; Andrea Soddu, sindaco di Nuoro. Coordinano Roberto Loddo direttore de il manifesto sardo e Franco Meloni direttore di Aladinpensiero.
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Sono 209,9 i miliardi di euro destinati dall’Unione Europea all’Italia sul Recovery Fund (denominazione ufficiale Next Generation EU), da spendere entro il 2026, a cui si aggiungono i fondi strutturali europei (e per ciascun anno quelli ordinari di bilancio) sia residui, sia i nuovi della programmazione 2021-2027 (questi ultimi da spendere entro il 2029). Gli interventi programmabili in precisi progetti devono rispondere ai criteri stabiliti dalla Commissione e dal Parlamento europeo, declinando su 6 “missioni” fondamentali i 17 macro obbiettivi di sviluppo sostenibile fissati nell’Agenda Onu 2030, pienamente recepiti dall’Unione Europea. Le sei missioni sono: 1. Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e Ricerca; 5. Inclusione e Coesione; 6. Salute.
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L’Italia non è in ritardo rispetto alla programmazione dei fondi (i piani devono essere presentati alla Commissione europea entro il 30 aprile 2021) stante il fatto che il precedente governo Conte aveva licenziato un’ipotesi di Piano (PNRR) il 12 gennaio u.s.: un documento ben strutturato, tuttavia incompleto e carente nell’individuazione dei percorsi attuativi; soprattutto privo del consenso delle Regioni, degli Enti locali e delle parti sociali, che sono indispensabili rispetto ai buoni esiti complessivi. Il governo Draghi apporterà i necessari correttivi nelle direzioni citate. Ne siamo certi, anche se non conosciamo ancora in quale misura lo farà.

A proposito della gestione e della spendita dei fondi, nutriamo fondate preoccupazioni sull’efficienza degli apparati ai quali compete l’operatività. De Gaulle, o forse ancor prima Napoleone, diceva “l’intendenza seguirà”, nel senso che alle decisioni politiche devono necessariamente seguire quelle attuative. Ecco, anche su questo versante, stante l’esperienza del passato, non possiamo essere tranquilli. C’è molto da correggere, in tutti gli ambiti interessati e a tutti i livelli. E in Sardegna? I problemi sono analoghi, con una dose di maggiore criticità.

Non sappiamo ancora di quanti fondi potrà disporre la Sardegna. Si parla di oltre 7 miliardi di euro, con le ulteriori aggiunte (fondi strutturali e di bilancio), sempre riferiti alla programmazione 2021-2027. Sui due versanti, quello della programmazione e quello della gestione, occorre impegnarsi, in misura molto più rilevante di quanto già si sta facendo. Occorre cambiare passo per tutti i diversi aspetti, ricercando e praticando la massima unità possibile tra le forze politiche tra di loro, le istituzioni e le parti sociali. Un po’ sul modello proposto (o imposto) da Mattarella-Draghi, che speriamo abbia successo. Dobbiamo mettere mano all’adeguamento della struttura gestionale, richiamando all’esercizio di forte corresponsabilità i pubblici impiegati, a tutti i livelli. E chiamando i cittadini, singoli e organizzati, a un forte coinvolgimento, nelle forme più avanzate della sussidiarietà.

Di tutto questo ci occuperemo in una serie di webinar, organizzati da il manifesto sardo e da Aladinpensiero (e altri media che si aggiungeranno), a cui parteciperanno politici, sindacalisti, esperti, funzionari pubblici, esponenti del mondo economico, della cultura, del terzo settore e volontariato, operatori della comunicazione. La NGEU è un’occasione che sarebbe drammatico perdere. Ma noi siamo gramscianamente ottimisti.
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IN PRIMO PIANO
M’hai detto un prospero!

02-03-2021 – di: Gianandrea Piccioli su Volerelaluna.
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CONSIGLIO REGIONALE
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L’intervento del presidente Christian Solinas.
Sul sito della Regione Autonoma della Sardegna
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Cagliari, 2 marzo 2021 – Un gruppo di lavoro che dia rappresentanza a tutte le forze politiche del Consiglio regionale, da insediarsi immediatamente, per mettere a punto una progettualità vincente basata su 4-5 grandi linee d’azione strategiche da presentare al Presidente Draghi, e capaci di disegnare uno scenario di prospettiva e rilancio concreto della Sardegna. È la linea tracciata dal Presidente della Regione Christian Solinas nel corso del dibattito in Consiglio regionale sugli interventi finanziabili con le risorse del Recovery fund, divisi nelle sei macro-aree previste dal ‘Piano nazionale di Ripresa e Resilienza’, PNRR. “Abbiamo la possibilità di mettere in campo un piano di rafforzamento della Sardegna in grado di mobilitare investimenti in settori ritenuti strategici per il rilancio dell’economia sarda e capaci di consolidare la ripresa, cogliendo le opportunità che derivano dal massiccio pacchetto di sostegni europeo che alimenterà il più imponente programma di investimenti dai tempi del Piano Marshall. Piano che il Presidente Draghi si appresta a definire – ha spiegato il Presidente Christian Solinas – Dopo un anno di intenso lavoro che ha avuto come ultimo, straordinario, risultato l’inserimento della nostra Isola in fascia bianca, la priorità della Regione è ora traghettare i sardi fuori dalla crisi. Per questo c’è tutta la disponibilità da parte di questa Giunta a definire insieme a tutte le forze politiche, le forze sociali e il mondo accademico sardo i progetti innovativi di portata regionale, così da determinare una rivoluzione in termini di innovazione, riqualificazione verde, aumento del Prodotto interno lordo e benessere secondo canoni di sostenibilità e redditività, ritenuti centrali per la ripresa dell’Isola, ha concluso. Il Presidente Solinas ha ricordando il lavoro e la ricognizione effettuati da tutti gli Assessorati nella predisposizione degli oltre 200 progetti presentati alla Conferenza Stato-Regione e alle strutture competenti dei Ministeri nel corso della fase di raccolta. Un lavoro, ha detto, che è frutto di un patrimonio stratificato nel tempo di interventi che le classi dirigenti hanno ritenuto importanti per l’Isola e che oggi è aperto ai contributi di tutti e che abbiamo la possibilità di cambiare o rafforzare”.
Obiettivo della Regione è rimettere in moto l’economia della Sardegna ottimizzando le risorse europee per rendere il sistema competitivo, favorendo il completamento di opere infrastrutturali importanti e l’attivazione di processi virtuosi che spaziano dall’innovazione digitale anche nei comparti più tradizionali, all’economia circolare passando per difesa del suolo, la scuola, i trasporti sostenibili, in linea con le sei missioni individuate con il PNRR ovvero “Digitalizzazione, innovazione e competitività del sistema produttivo”, “Rivoluzione verde e transizione ecologica”, “Infrastrutture per la mobilità”, “Istruzione, formazione, ricerca e cultura”, “Equità sociale, di genere e territoriale”, “Salute”. “La capacità di ripresa del tessuto economico e sociale sardo – ha proseguito il Presidente – va sostenuta con adeguate misure e interventi che restringano la forbice delle diseguaglianze e allevino l’impatto della crisi, in particolare sull’occupazione. Oggi possiamo dirci pronti a impiegare al meglio le risorse che arriveranno dall’Europa. Abbiamo lo spazio per agire e il dovere di farlo con unità d’intenti e spirito di collaborazione, per il bene della nostra Isola. Confermo la disponibilità a rimettere sul tavolo le progettualità e programmare un cronoprogramma serrato per rispettare i tempi che ci consentano di presentare un grande piano per la Sardegna, ha concluso il Presidente nella sua replica al termine del dibattito in Aula, rinnovando l’invito alla partecipazione delle forze politiche, culturali, sociali, datoriali e sindacali della Sardegna.
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Recovery, verso la costituzione di una cabina di regia
C’è la disponibilità della Giunta ad accantonare i 206 progetti presentati dalla Regione a dicembre
Su L’Unione sarda online.
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NESSUN DOCUMENTO AL TERMINE DELLA SEDUTA. DEPONE MALE PER L’INTERO CONSIGLIO REGIONALE.
Come sono andate realmente le cose nel resoconto del Consiglio regionale, nel sito web.
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lampadadialadmicromicro133Una nostra proposta
Riguardo all’impegno assunto dal presidente della regione e condiviso da tutte le forze politiche presenti in Consiglio Regionale (partecipazione delle forze politiche, culturali, sociali, datoriali e sindacali della Sardegna), con specifico riferimento alle entità della società civile, di cui siamo parte attiva, sosteniamo la richiesta dell’istituzione di un Osservatorio regionale di monitoraggio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che coinvolga le entità sopra richiamate. Tutto ciò in analogia con l’Osservatorio nazionale indipendente di recente costituito su impulso della rivista online Sbilanciamoci!, a cui ha aderito anche Aladinpensiero, potendo, eventualmente, l’Osservatorio sardo costituirne articolazione territoriale.
Al riguardo si osserva come le funzioni del proposto Osservatorio regionale coincidano con il costituendo (da parte della Regione Sarda) Forum Regionale per lo Sviluppo sostenibile*, che, avendo rilevanza istituzionale, potrebbe coesistere con l’organismo di carattere spontaneo. O forse potrebbe trattarsi di un’unica entità, cosa possibile in applicazione dei principi di sussidiarietà (si parla qui di sussidiarietà orizzontale), sanciti dalla Carta costituzionale (art. 118).
* REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA – GIUNTA REGIONALE. DELIBERAZIONE N. 64/23 DEL 28.12.2018
Oggetto: Indirizzi per la costruzione della Strategia Regionale per lo Sviluppo Sostenibile (SRSvS).
“(…) La definizione della Strategia dovrà avvenire attraverso il coinvolgimento della società civile e a tal fine verrà costituito un Forum Regionale per lo Sviluppo Sostenibile quale spazio di informazione, ascolto, confronto e consultazione che si avvarrà di momenti di incontro, gestiti con metodologie partecipative, al fine di garantire il dialogo e lo scambio con tutte le parti sociali interessate”.
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Sembra che la Regione stia per costituire questo Forum. Potrebbe essere incaricato di “sorvegliare” anche l’applicazione del Recovery Plan in Sardegna, considerato che i relativi progetti devono rapportarsi proprio agli obbiettivi dell’Agenda Onu 2030. E’ di oggi (mercoledì 3 marzo 2021) il varo da parte della RAS del Forum. Ecco dove trovare le informazioni al riguardo: http://www.regione.sardegna.it/j/v/2847?s=1&v=9&c=94637&na=1&n=4&nodesc=1&ph=1&disp=2
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Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Sardegna (Next Generation EU-Recovery Plan). Che fare?

aasvis-schermata-2021-02-06-alle-19-39-28lampadadialadmicromicroMartedì 2 marzo il Consiglio regionale discuterà sulle proposte progettuali per la spendita dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza in Sardegna (Next Generation EU-Recovery Plan), per un ammontare di 7 miliardi e 690 milioni di euro (questa è la cifra di fonte regionale resa nota dalla stampa) da spendersi e rendicontarsi entro il 2026. A queste somme si aggiungono le risorse della programmazione 2021-2027 dei fondi strutturali europei, nonchè quelle residuali, e, anno per anno, quelle ordinarie di bilancio. Si tratta di disponibilità finanziarie enormi, mai viste, neppure negli anni dei piani di rinascita. Per sard-2030schermata-2021-02-17-alle-14-48-00quanto riguarda il Recovery Plan, gli interventi progettuali devono rispondere ai criteri stabiliti dalla Commissione e dal Parlamento europeo, declinando su 6 “missioni” fondamentali i 17 macro obbiettivi di sviluppo sostenibile fissati nell’Agenda Onu 2030, pienamente recepiti dall’Unione Europea. Le sei missioni sono: 1. Digitalizzazione, Innovazione, Competitività e Cultura; 2. Rivoluzione verde e transizione ecologica; 3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile; 4. Istruzione e Ricerca; 5. Inclusione e Coesione; 6. Salute.
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schermata-2021-01-25-alle-16-45-59 Come Aladinpensiero non vogliamo formulare una nuova lista degli interventi da realizzare, quanto raccomandare che le risorse non vengano disperse ma al contrario concentrate su progetti che rispondano efficacemente ai bisogni delle popolazioni. In particolare appoggiamo le proposte dei Sindaci sardi, formulate direttamente o attraverso la loro associazione ANCI Sardegna e le Unioni dei Comuni sardi. Nel ribadire la necessità di interventi strutturali che ristabiliscano un riequilibrio con il Nord del Paese, consentendo parità di opportunità per un nuovo sviluppo della Sardegna, sollecitiamo che vengano individuati investimenti e iniziative che creino rapidamente nuova occupazione.
Ci interessa in questa fase richiamare le forze politiche a ricercare e praticare il massimo di unità tra di loro e il coinvolgimento delle espressioni organizzate della società, siano esse entità del mondo economico, dei sindacati, della cultura, del terzo settore e del volontariato. Richiediamo attenzione alla gestione dei fondi, riducendo al minimo il carico burocratico, chiamando alla massima collaborazione e disponibilità il personale delle pubbliche amministrazioni, operando anche radicali modifiche regolamentari che privilegino il conseguimento dei risultati rispetto alle procedure. Sosteniamo la richiesta dell’istituzione di un Osservatorio regionale di monitoraggio del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza che coinvolga le entità sopra richiamate. Tutto ciò in analogia con l’Osservatorio nazionale indipendente di recente costituito su impulso della rivista online Sbilanciamoci!, a cui ha aderito anche Aladinpensiero, potendo, eventualmente, l’Osservatorio sardo costituirne articolazione territoriale.
Al riguardo si osserva come le funzioni del proposto Osservatorio regionale coincidano con il costituendo (da parte della Regione Sarda) Forum Regionale per lo Sviluppo sostenibile*, che, avendo rilevanza istituzionale, potrebbe coesistere con l’organismo di carattere spontaneo. O forse potrebbe trattarsi di un’unica entità, cosa possibile in applicazione dei principi di sussidiarietà (si parla qui di sussidiarietà orizzontale), sanciti dalla Carta costituzionale (art. 118).
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Infine, convinti sostenitori dell’ecologia integrale e dell’esigenza di preparare il futuro così come ci esorta a fare Papa Francesco, mentre ricerchiamo anche in questa circostanza il massimo della partecipazione popolare a questa che consideriamo un’occasione storica da non sprecare, intendiamo iscrivere le nostre iniziative nel risveglio di un nuovo meridionalismo nell’interesse della Sardegna, del Sud e, in definitiva di tutta l’Italia e dell’Europa.
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* REGIONE AUTONOMA DELLA SARDEGNA – GIUNTA REGIONALE. DELIBERAZIONE N. 64/23 DEL 28.12.2018
Oggetto: Indirizzi per la costruzione della Strategia Regionale per lo Sviluppo Sostenibile (SRSvS).
“(…) La definizione della Strategia dovrà avvenire attraverso il coinvolgimento della società civile e a tal fine verrà costituito un Forum Regionale per lo Sviluppo Sostenibile quale spazio di informazione, ascolto, confronto e consultazione che si avvarrà di momenti di incontro, gestiti con metodologie partecipative, al fine di garantire il dialogo e lo scambio con tutte le parti sociali interessate”.
Sembra che la Regione stia per costituire questo Forum. Potrebbe essere incaricato di “sorvegliare” anche l’applicazione del Recovery Plan in Sardegna, considerato che i relativi progetti devono rapportarsi proprio agli obbiettivi dell’Agenda Onu 2030.
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ECCO LA LETTERA DEI SINDACI DELLE UNIONI DEI COMUNI SARDI CHE NOI APPOGGIAMO
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Al Presidente della Giunta Regionale
On. Christian Solinas
presidenza@pec.regione.sardegna.it
Al Presidente del Consiglio Regionale
On. Michele Pais
conisglioregionale@pec.crsardegna.it
Al Presidente di ANCI Sardegna
Emiliano Deiana
ancisardegna@pec.it
Al Presidente di UNCEM Sardegna
Daniela Falconi
ancisardegna@pec.it

(…) insieme a tutti i Presidenti delle Unioni aderenti alla Misura 5.8 della Programmazione Territoriale, che ha visto coinvolte n. 30 Unioni dei Comuni, che raggruppano circa 300 Comuni e rappresentano oltre un milione di cittadini sardi.
Nell’ambito del Recovery Plan che riguarderà la Sardegna chiedono un grande progetto di contrasto allo spopolamento, per lo sviluppo delle aree interne, montane, marginali e delle piccole isole che concentri risorse ingenti per superare un ritardo di sviluppo storico delle nostre comunità.
Gli interventi sulle infrastrutture di collegamento verso i centri più popolati, la connettività e le reti (5G e BUL), lo sviluppo locale e la mobilità sostenibile, le energie rinnovabili e la transizione energetica, gli investimenti sul capitale umano e sulla scuola, per una sanità territoriale a misura d’uomo, per il sostegno alla cultura diffusa.
Solo un grande progetto di contrasto alla desertificazione umana potrà consentire alla Sardegna di svilupparsi in maniera armonica ed equilibrata.
Perché noi pensiamo che in Sardegna città e paesi, aree urbane e aree rurali, zone interne, zone costiere ed isole minori debbano coesistere e svilupparsi in maniera armonica e bilanciata.
Confidando nel vostro interesse rispetto alle richiamate argomentazioni, ma soprattutto nella vostra attenzione verso le aree marginali della nostra terra e le popolazioni che le abitano, restiamo in attesa di un favorevole riscontro e porgiamo, con l’occasione, i più cordiali saluti.
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I sindaci di Cagliari (Paolo Truzzu), Sassari (Nanni Campus), Quartu Sant’Elena (Graziano Milia), Nuoro (Andrea Soddu) e Olbia (Settimo Nitzi) hanno firmato una lettera congiunta sul Recovery Plan – NGEu: “Non disperdere i fondi. Concentrarsi su un solo obiettivo”.
“Il Recovery Plan dovrà essere per l’Europa e per l’Italia non solo uno strumento per affrontare le negative conseguenze economiche delle misure di contrasto alla diffusione del coronavirus, ma anche un’opportunità e un’occasione per introdurre profondi mutamenti nel sistema economico e sociale. Ciò sarà possibile solo se prevarrà la capacità di indirizzare la spendita delle risorse su progetti credibili che possano davvero segnare un mutamento profondo e duraturo. Anche la Sardegna dovrà partecipare a questo percorso, rifuggendo dalla tentazione di disperdere le proprie possibilità di proposta in decine di progetti di svariata natura. Da questo punto di vista pensiamo che ci si dovrebbe concentrare su un solo obiettivo: il superamento dei due principali svantaggi dell’Isola rispetto al resto dell’Italia e dell’Europa. Da una parte la difficoltà di interconnessione tra le diverse parti della Sardegna, dall’altra un sistema di produzione di energia costoso e obsoleto. A questo scopo è indispensabile la realizzazione di una rete ferroviaria veloce e integrata come unico strumento utile a creare una connessione profonda fra le diverse parti della Sardegna. Storicamente la difficoltà di mettere in relazione sistemica l’intera isola è sempre stato uno degli impedimenti maggiori alla crescita economica e sociale della stessa, il Recovery Plan potrebbe e dovrebbe essere un’occasione da non perdere.
Allo stesso tempo, sviluppare il grande potenziale dell’Isola nel campo delle fonti energetiche rinnovabili per la produzione da elettrolisi di idrogeno verde decarbonizzato che non solo consentirebbe un drastico abbattimento delle emissioni di CO2, ma anche, in una regione potenzialmente ricca di rinnovabili, di progettare un futuro totalmente privo delle medesime emissioni”
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lampadadialadmicromicro13NGEu-Recovery Plan in Sardegna. Crediamo sia da appoggiare la richiesta dei cinque sindaci sardi. E’ esagerato concentrasi su un solo obbiettivo, ma è giusto non disperdere i fondi in troppi progetti. Questo dei collegamenti ferroviari merita il podio, per l’utilità e per la sostenibilità. Ovviamente quanti ai sistemi energetici da utilizzare occorre essere sicuri nelle scelte da fare, per questo coinvolgendo gli esperti e le comunità scientifiche pertinenti. Intanto plaudiamo che in questa occasione sia sia trovata l’unanimità di intenti tra sindaci espressione di diverse appartenenze politiche.
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Come Aladinpensiero ne abbiamo parlato in più occasioni, eccone una: https://www.aladinpensiero.it/?p=99242
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PROSSIMI EVENTI
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Venerdì 5 marzo alle ore 18.00 Il manifesto sardo e AladinPensiero organizzano un seminario web sul Recovery Plan in diretta dalla pagina Facebook, YouTube e dal sito del manifesto sardo.
Intervengono: Lilli Pruna, docente di Sociologia dei processi economici e del lavoro – Università di Cagliari; Chiara Maria Murgia, laureanda in Cooperazione Internazionale e Sviluppo presso La Sapienza Università di Roma; Alessandro Spano, docente di economia aziendale – Università di Cagliari; Enrico Lobina della Fondazione Sardinia; Graziella Pisu, esperta fondi strutturali europei, già direttore Centro di Programmazione RAS; Umberto Allegretti, professore emerito di diritto pubblico – Università di Firenze; Andrea Soddu, sindaco di Nuoro. Coordinano Roberto Loddo de il manifesto sardo e Franco Meloni di AladinPensiero.
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Giuseppe De Rita interviene sul Corriere proponendo realismo (forse troppo): “Un Recovery plan all’insegna del massimo realismo”.
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Aladi(n)battiti. Reddito e Lavoro. Sul reddito di cittadinanza e altro ancora.

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RIMBALZI
Il reddito di base oltre il tempo della pandemia
25-02-2021 – di: Giuseppe Allegri su Volerelaluna.

Con queste note si vorrebbe invitare a una chiamata collettiva sui possibili spazi di miglioramento di politiche pubbliche di promozione sociale, dinanzi al dibattito europeo e globale sul reddito di base al tempo della pandemia. Considerando anche che nei giorni in cui si ultimano questi appunti il nascente Governo Draghi rimane interlocutorio sulle possibili condizioni di miglioramento della legislazione intorno al reddito di cittadinanza, mentre Oltralpe Libération, celebre quotidiano della nuova sinistra francese, richiama, nella prima pagina di martedì 9 febbraio, la proposta di revenu universel sostenuta da Benoît Hamon, ex candidato socialista alle presidenziali 2017 e ora vicino ai movimenti giovanili e verdi, e quindi dedica un intero dossier online al tema del reddito di base / revenu universel / basic income.

Ottant’anni di modello sociale europeo e due anni di parodistico dibattito italiano

Come oramai sappiamo, dalla primavera 2019 anche il nostro ordinamento repubblicano ha finalmente previsto una forma di “reddito minimo” (minimum income, da noi chiamato reddito di cittadinanza), a circa ottant’anni dalle prime previsioni in questo senso proposte dal Beveridge Report (1942), successivamente introdotte dal governo laburista di Clement Attlee (1945-1948), per liberare le persone dal bisogno, e a oltre trenta dall’introduzione del revenu minimum d’insertion (RMI) nella Francia del governo socialista di Michel Rocard, cioè dalla previsione del diritto di ottenere dalla collettività sufficienti mezzi di sussistenza («droit d’obtenire de la collectivité des moyens convenables d’existence», art. 1 della legge del 1° dicembre 1988). Per ricordare il primo e l’ultimo Paese della vecchia Europa che nei decenni passati introdussero misure di questo tipo. È stato il cuore del modello sociale europeo, pensato negli Stati costituzionali pluralistici e sociali del secondo dopoguerra a partire da misure universalistiche di protezione sociale, che – accanto all’accesso all’istruzione e alla sanità di qualità – prevedeva una lotta alla povertà finalizzata alla tutela effettiva della dignità umana e alla promozione di migliori condizioni di vita e di lavoro per tutta la cittadinanza. Con sussidi diretti alle persone in particolari condizioni di rischio, vulnerabilità e/o fragilità (anziani, malati, inabili al lavoro, famiglie con figli minori, donne in gravidanza, disoccupati cronici etc.), quindi con un’assicurazione sociale di integrazione al reddito per rifiutare i ricatti del lavoro povero, perciò in favore di tutti i salariati, per i lavoratori indipendenti e autonomi con le loro libere attività in proprio, per i disoccupati, sottoccupati o giovani in cerca di prima occupazione.

Nonostante questa arcinota storia oramai quasi secolare, il dibattito politico e culturale intorno al reddito di cittadinanza (RdC introdotto ai tempi del Governo giallo-nero-verde Conte I, con decreto legge n. 4/2019 e successiva legge di conversione n. 26/2019) rimane ancora sospeso in una urticante e indegna parodia, tra sussidio di ultima istanza e di disoccupazione. Da una parte il sempre più timido sostegno da parte dei promotori di questa misura, quel Movimento 5 Stelle dell’allora Ministro del lavoro e delle politiche sociali Luigi Di Maio che neanche due anni fa festeggiava con il retorico e sguaiato grido «abbiamo abolito la povertà». Dall’altra ci sono quegli eterni nemici di qualsiasi forma di sostegno al reddito, da loro pregiudizialmente ritenuta come un’elemosina per gli scansafatiche, propensi a prendere il reddito restando sdraiati sul divano, oppure seduti a mangiare pasta al pomodoro, come sostenne oramai quasi un decennio fa Elsa Fornero, allora Ministra del lavoro e delle politiche sociali del Governo presieduto da Mario Monti e quindi tra le principali responsabili del ritardo con cui si è arrivati a una misura del genere.

Così la legge di conversione ha incluso da subito le fantomatiche norme anti-divano con il vizio di origine, immediatamente evidenziato da Chiara Saraceno, di considerare il RdC come una politica del lavoro, confondendo politiche di sostegno al reddito con politiche attive del lavoro, generando solo confusione, false aspettative, inducendo abusi e prevedendo poi un’assai «discutibile impostazione meritocratica» della stringente condizionalità all’ottenimento del reddito, con una incredibilmente «fitta disciplina sanzionatoria, che occupa uno spazio davvero inusitato nel corpo della legge n. 26/2019 (in particolare con gli artt. 7, 7 bis, 7 ter», come osserva il giuslavorista Stefano Giubboni e come ricostruito anche nei diversi saggi contenuti nel volume collettivo di cui è curatore, Reddito di cittadinanza e pensioni: il riordino del welfare italiano, cui si rinvia per ulteriori approfondimenti.

Frammentazione e insicurezza al tempo della pandemia

La normativa adottata nella lotta alla pandemia ha allentato questi vincoli e ha poi introdotto una serie di indennità, trattamenti di integrazione salariale, bonus, reddito di emergenza, ristori etc. polverizzando le misure di sostegno al reddito in una ventina di interventi categoriali e settoriali (dall’istanza per l’emersione di lavoro subordinato irregolare, alle indennità di 600 e 1000 euro, alle indennità Covid-19 per i lavoratori domestici, al REM, ai Congedi Covid-19 retribuiti, al bonus baby sitting, bonus indennità collaboratori e istruttori sportivi etc.), generando un coacervo di strumenti sempre più parziali e occasionali, perché ogni volta una porzione della società rimaneva comunque fuori dalle tutele e garanzie previste in precedenza. Una sorta di rincorsa a tappare i buchi di un Welfare rimasto vittima della sua tradizionale impostazione categoriale, frammentata e fondamentalmente affidata all’intervento sussidiario della famiglia, anche in tempi di pandemia e conseguente sospensione di molte attività lavorative e imprenditoriali e per giunta spesso lacerati da rapporti familiari coatti, a causa dei diversi vincoli di isolamento.

Come nota il recente Rapporto DisuguItalia 2021 di Oxfam Italia, «in questo contesto, le misure di sostegno pubblico al reddito, al lavoro e alle famiglie emanate nel corso del 2020 dal Governo hanno contribuito ad attenuare gli impatti della crisi e a ridurre moderatamente i divari retributivi e reddituali. [… Ma] vecchie vulnerabilità si sono acuite e sommate a nuove fragilità, con conseguenze allarmanti per il benessere dei cittadini, l’inclusione e la coesione sociale». Tanto che altrove, anche come Basic Income Network Italia, abbiamo espressamente parlato di urgenza del reddito di base nella pandemia. Tutto ciò da un lato produce insicurezza, incertezza e risentimento nei confronti delle istituzioni pubbliche in quella porzione più debole della società, che si aspetta strumenti di protezione e tutela dai meccanismi di Welfare. Dall’altro innesca stigma e sfiducia in «quel 40% degli italiani in condizioni di povertà finanziaria, ovvero senza risparmi accumulati sufficienti per vivere, in assenza di reddito o altre entrate, sopra la soglia di povertà relativa per oltre tre mesi» (per citare sempre il Rapporto DisuguItalia 2021), circa 25 milioni di persone che in realtà costituiscono una parte impoverita di quel ceto medio già precarizzato, sottoccupato, sfiduciato, ora piombato nell’assenza di lavoro, se non sommerso, grigio, occasionale etc. e da sempre tradizionalmente poco avvezzo a entrare nei meccanismi burocratici della sicurezza sociale.

Per questo è necessario indagare gli spazi pubblici di confronto per migliorare il RdC esistente, pensare tutele e garanzie che diano risposte all’altezza della situazione e immaginare il welfare del presente e del futuro.

Per un possibile cantiere comune, a partire dal reddito di base

Quelle che seguono sono solo suggestioni, quasi slogan di un primo possibile ragionare in comune, nel senso di condividere analisi, riflessioni, proposte, progetti per migliorare le istituzioni di sicurezza sociale nella prospettiva di pensare un vero e proprio ius existentiae (per riprendere, nel dibattito italiano, tra i molti e le molte, le proposte di Luigi Ferrajoli, Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia, Stefano Rodotà, Il diritto di avere diritti e quindi Elena Granaglia e Magda Bolzoni, Il reddito di base). Un reddito di base inteso come erogazione monetaria individuale, una nuova istituzione, diritto sociale fondamentale a condurre una vita quanto più libera possibile dai ricatti, un vero e proprio investimento pubblico in favore delle persone, per farle uscire da uno stato di ricatto e minorità, per una Democrazia del reddito universale come titolava il volume manifestolibri che nel 1997 raccoglieva testi dei maggiori studiosi europei del Basic Income, come Philippe Van Parijs, Alain Caillé, Claus Offe, che si stavano confrontando con l’avvento della società digitale e della precarietà diffusa.

1. Per un dibattito sul reddito di base in Italia

Proprio il riferimento agli anni Novanta del Novecento della rivoluzione informatica e dei primi movimenti di lotta alla disoccupazione/sottoccupazione e alla precarietà oramai strutturale, ci ricorda che in quegli stessi anni in Francia si aprì un fervido dibattito culturale, sociale, politico, sindacale e accademico intorno all’urgenza di estendere e ampliare le garanzie del revenu minimum d’insertion (RMI), ricordato in precedenza e introdotto nel 1988. L’intero decennio dei Novanta fu infatti attraversato da un ricchissimo dibattito, che coinvolse forze culturali e politiche, intellettuali e studiosi, sociologi ed economisti, sindacalisti e giuristi, come Thomas Piketty e Philippe Van Parijs, lo stesso Michel Rocard con Jean-Michel Belorgey, padri dell’allora esistente misura di RMI, quindi Jean-Marc Ferry e Alain Caillé, André Gorz e Daniel Cohen. Dibattito fatto di proposte e riflessioni che provarono a utilizzare lo stesso acronimo RMI per proporre un revenu minimum inconditionnel, cioè svincolato da particolari limitazioni e condizioni di accesso e di eventuale controprestazione lavorativa, fino alla previsione di una allocation universelle, un vero e proprio reddito di base, revenu de base, universale e incondizionato, nel quadro di un necessario aggiornamento universalistico del modello sociale statuale francese, nel contesto di quello europeo. È possibile immaginare che, magari anche a partire dallo spazio e dalle reti raccolte intorno al Centro per la Riforma dello Stato, si inneschi questo plurale dibattito e confronto per contribuire a elaborare elementi di modifica del RdC nel senso di un vero e proprio diritto sociale fondamentale individuale – e non familiare – verso una prospettiva sempre più universale e meno condizionata? Il tutto proprio a partire dalle ipotesi di sperimentazione che permette la stessa legislazione esistente, magari in favore di alcuni soggetti, come i giovani nella proposta di perequazione intergenerazionale di un’eredità universale, di cittadinanza, da erogare al compimento del 18esimo anno di età, proposta dal Forum Diseguaglianze e Diversità. O anche nel senso di quel reddito di autodeterminazione, rivendicato da tempo dal movimento Non una di meno, e inteso come «garanzia di indipendenza economica e dunque concreta forma di sostegno per le donne che intraprendono percorsi di fuoriuscita da relazioni violente (intrafamiliari e lavorative) […] strumento di prevenzione rispetto alla violenza di genere, di autonomia e liberazione dai ricatti dello sfruttamento, del lavoro purché sia, della precarietà, delle molestie».

2. Reddito di base incondizionato, tra iniziativa dei cittadini europei e futuro dell’Europa sociale

In questa prospettiva è utile ricordare che fino al 25 dicembre 2021 si potrà sostenere e firmare (direttamente online, presso il sito istituzionale dedicato alla raccolta del milione di firme) l’Iniziativa dei Cittadini Europei (ICE), istituto previsto dall’art. 11 TUE per la partecipazione della società civile nei rapporti con la Commissione europea, in questo caso per favorire l’introduzione di forme di reddito di base incondizionato (RBI o Unconditional Basic Income – UBI) nei 27 Stati UE. Si aggiunga che in questi primi sei mesi dell’anno la presidenza portoghese del Consiglio dell’UE ha come obiettivo anche quello di lavorare intorno al tema dell’Europa sociale, a partire dal Pilastro europeo dei diritti sociali (2017), dalla recente Risoluzione dell’Europarlamento su Un’Europa sociale forte per transizioni giuste (A strong Social Europe for just transitions, 17 dicembre 2020, al cui punto 36 si sottolinea che «ogni persona in Europa dovrebbe essere coperta da un regime di reddito minimo e che le pensioni dovrebbero assicurare un reddito superiore alla soglia di povertà») e dal programmato Vertice sociale europeo – Social Summit di Operto del prossimo 7 maggio. Il tema del futuro dell’Europa sociale – e delle connesse transizioni ecologiche, digitali, energetiche etc. – è quindi strettamente connesso a quello del reddito minimo e di base, nell’auspicabile prospettiva che proprio la garanzia di un Basic Income possa far parte del Recovery Programme. Considerando anche che otto membri dell’Europarlamento riuniti nel gruppo Positive Money, tra i quali Guy Verhofstadt e Sandro Gozi, si sono pronunciati in favore di qualcosa di simile a un QE for the people, sulla falsariga del bazooka monetario – Quantitative Easing – attivato da Mario Draghi allora alla BCE, un helicopter money distribuito direttamente dalla BCE, che una parte dell’opinione pubblica ritenga debba erogare un vero e proprio reddito di base. Mentre nel mondo il dibattito su helicopter money e basic income va avanti oramai da tempo, ripensando a quando anche l’Economist notò come le istanze del reddito di base cominciavano a trovare sempre maggiore consenso tra sperimentazioni locali e progetti istituzionali. Del resto, nelle settimane della primavera scorsa, del primo periodo di lotta alla pandemia globale da Sars-CoV-2 e dalla connessa Covid-19, il 71% di circa 12mila cittadini europei, consultati all’interno di un’ampia ricerca accademica, si dichiarò favorevole all’introduzione di un reddito di base per tutti i cittadini europei.

3. Sperimentazioni di reddito di base: il caso finlandese in chiave post-pandemica

Negli ultimi anni si è molto discusso della sperimentazione finlandese del reddito di base, portata avanti nel 2017-2018. Promossa dal governo, coinvolse duemila persone disoccupate, estratte a sorte nelle liste dei fruitori di sussidi, che ricevettero un reddito mensile di 560 €. L’Istituto finlandese per la protezione sociale, Kela, pubblica risultati e analisi della sperimentazione, sulla spinta di Olli Kangas, padre putativo di questo progetto e direttore di ricerca al Kela stesso. Dai primi report la gran parte degli analisti nota come da questa sperimentazione potrebbero uscire risposte utili e necessarie per pensare in modo più equo e inclusivo le nostre società nell’epoca (post-)pandemica, a partire da tre punti emersi dalle condizioni vissute dai fruitori finlandesi del reddito di base: diminuzione di stress causato da insicurezza economico-finanziaria; maggiore fiducia nelle proprie aspettative future; crescita di condizioni di autodeterminazione e autonomia individuale. Tre coordinate fondamentali per pensare benessere psichico individuale, investimento sul futuro, promozione di maggiore indipendenza, tanto più nella necessaria connessione tra pandemia, lockdown e reddito di base: da una grande crisi derivano grandi cambiamenti?

4. Per un nuovo Welfare, a partire dal sostegno al reddito

«Questa situazione impone un ripensamento del welfare, in cui fare proposte innovative – e non pensare solo a dispositivi protettivi – come nuove forme universalistiche di sostegno al reddito, non come politica di emergenza, ma come nuovo approccio al welfare. In salute mentale vediamo chiaramente l’insufficienza di modelli di welfare fondati sull’asse “produttività/improduttività”». Sono parole che prendo in prestito da un importante intervento, titolato Un nuovo Welfare Comunitario per la Salute Mentale (in Welfare Oggi, n. 3/2020, 9-22), di Roberto Mezzina, già autorevole Direttore dei Servizi di Salute Mentale di Trieste, il quale, in una precedente intervista con Luca Negrogno per l’Istituzione Gian Franco Minguzzi, sottolineò l’urgenza di una presa di posizione del mondo attivo intorno alla salute mentale in favore di misure di sostegno al reddito: «è una questione sul tavolo, è necessario un dibattito pubblico innovativo». E qui il CRS potrebbe impegnarsi a favorire questo dibattito, a partire dal confronto sugli insegnamenti basagliani con il loro vero e proprio movimento di “pazienti”, psichiatri, operatori, tecnici, ricercatori, intellettuali etc., cui partecipò anche Mezzina, con l’obiettivo di tenere insieme corpo organico e corpo sociale, condizione individuale e contesto materiale. Penso in primissima battuta nella connessione con gli studi e le pratiche di Robert Castel, che è forse stato il più prezioso analista del rapporto tra questione sociale, salute mentale e benessere psico-fisico, nella prospettiva attuale dibattuta in tutto il mondo che il reddito di base possa migliorare la salute mentale di un Paese. Questo approccio diventa fondamentale dinanzi agli effetti psicologici intergenerazionali – dai giovanissimi agli anziani – prodotti dalla reclusione e dall’isolamento in tempi di pandemia, con la connessa necessità di pensare, al presente e al futuro, strumenti di inclusione, partecipazione, protagonismo delle persone oltre la dimensione “produttiva” della cittadinanza sociale.

5. Reddito di base tra società automatica, città in trasformazione e officine municipali

In quest’ottica sistemica, il reddito di base è inteso come strumento di sicurezza sociale universale per proteggere gli individui dai duraturi effetti economico-sociali della crisi sanitaria, ma anche dai cambiamenti dei sistemi di produzione e lavoro, nell’economia di piattaforma, digitale e automatizzata e nelle città in trasformazione. Questo è forse il cantiere dove il CRS è maggiormente sensibile, con la sua Scuola critica del digitale oramai attiva da tempo nella sua disamina del capitalismo digitale e di piattaforma, e i suoi progetti intorno alle Officine Municipali, intese anche come nuove istituzioni dove sperimentare e favorire incontri virtuosi tra soggetti, spesso dispersi, frammentati, sottoccupati e precari, delle diverse forme dei lavori – da remoto e in presenza – di innovatori sociali, coworking di vecchia e nuova generazione, quindi affaticata informalità dell’autorganizzazione e della cooperazione sociale e istituzioni locali più tradizionali, come Municipi, Comune, Regione, ma anche quelle scolastiche, universitarie, sportive, del tempo libero e della socialità.

Tutto questo non deve però avere il sentore di un’ennesima utopia, se non da intendersi come “indispensabile”, per dirla con le parole del sempre provocatoriamente concreto Philippe Van Parijs (Il reddito di base: un’utopia indispensabile, in Il Mulino, n. 1/2018), il quale ci ricorda con spietata lucidità, fuori da retoriche paternalistiche, caritatevoli, marginalizzanti, che «oggi è giunto il momento di elaborare e proporre un’alternativa all’utopia neoliberale della sottomissione totale delle nostre vite individuali e collettive al mercato, e un’alternativa all’utopia paleosocialista della sottomissione totale delle nostre vite allo Stato. Di questa utopia il reddito di base è un elemento centrale». Perché ci permette di pensare una vera, concreta, libertà per tutte e tutti, ora che anche all’interno delle diverse classi dirigenti comincia a balenare l’insostenibilità esistenziale, ecologica, sistemica dell’attuale modello economico capitalistico.

L’articolo è tratto dal sito del CRS (Centro per la Riforma dello Stato) – 15 febbraio 2021 .

* Giuseppe Allegri è socio fondatore del Basic Income Network Italia, autore del volume Il reddito di base nell’era digitale. Alcuni di questi profili sono stati approfonditi in G. Allegri, Dal reddito di cittadinanza italiano al dibattito europeo sul reddito di base. Per un nuovo Welfare nella pandemia, in Rivista Critica del Diritto Privato, n. 3/2020, 401-431, cui si rinvia, anche per i riferimenti bibliografici ivi contenuti.

La crisi della Politica. Da dove ricominciare? Dibattito

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La Provvidenza, la normalizzazione e il futuro della sinistra
Volerelaluna, 3-02-2021 – di: Andrea Danilo Conte
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La formazione del Governo Draghi, le vicende che l’hanno favorita e accompagnata, la sua accettazione acritica da parte delle forze politiche (all’infuori della destra neofascista e di qualche esponente, in numero inferiore alle dita di una mano, di Sinistra italiana) e della totalità della stampa nazionale hanno aperto in quel che resta della sinistra un confronto sulle prospettive che si aprono. Le domande sono chiare: dove stiamo andando? E, ancora, che fare? A questo dibattito, su cui stanno arrivando molti e appassionati contributi, Volere la Luna dedicherà una particolare attenzione.

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Venne il giorno della Provvidenza ed era un giorno di pioggia come tutti gli altri. SuperMario, il Messia, il più competente, colui che tutto il mondo ci invidia e che non ci farà più vergognare, squarcia gli Osanna e dai cori emergono uomini e donne a volte mediocri a volte raccapriccianti. Ci avevano preparati ad avere il meglio cui l’Italia potesse aspirare. L’innovatore invece attinge al passato, quasi a voler fermare la storia, e vara un Governo di destra-centro-sinistra che riesce a concentrare il peggio dei Governi di centrodestra e di centrosinistra degli ultimi decenni: Brunetta, Gelmini, Carfagna, Franceschini, Orlando. Il suo Governo riporta l’orologio indietro di vent’anni. Come se la storia non avesse già decretato il fallimento del liberismo, della terza via e del berlusconismo. Il Migliore riesce nell’impresa di mettere insieme tutti questi fantasmi del passato quasi scommettendo che essi si possano esorcizzare gli uni con gli altri. Davamo tutti per morto il neoliberismo e ci dicevano che il Draghi della Trojka, della lettera d’intenti, della messa in ginocchio della Grecia era un lontano ricordo e che l’Uomo era cambiato. E invece l’Uomo della Provvidenza (che in Italia sarà anche Divina, ma è sempre di sesso maschile) vara un’operazione nostalgia piuttosto scialba e mediocre. Siamo dalle parti dei Governi Dini e Monti, ma in un contesto storico e internazionale totalmente mutato e con un tessuto sociale sfibrato e in ginocchio rispetto a venti o dieci anni fa. E con un tesoro di miliardi da distribuire in modo da ridisegnare gli equilibri di potere e i rapporti di forza dei prossimi anni.

Tanto rumore per nulla, dunque? Non è così.

La vera portata del Governo Draghi non sta nel Governo stesso, ma nel tipo di operazione di cui è portatore. Lo scenario politico ne esce travolto e radicalmente mutato nel giro di pochi giorni. L’operazione Draghi lascia fuori solo la Destra nazionalista e razzista, ma insonorizza e imbriglia tutto il resto, il sovranismo muscolare e xenofobo, il populismo movimentista, anche l’egoismo narcisista renziano. Non è un’operazione casuale, è quello che si voleva, che si è teorizzato e preparato nei dettagli: l’omologazione del sistema politico italiano. I poteri economici nazionali e sovranazionali hanno ritenuto che non si potesse rischiare, che alcuni disegni di legge in cantiere dovessero essere affossati e che timidissimi segnali di autonomia presenti nel precedente Governo e nel premier dovessero essere bloccati sul nascere. E così, anche la democrazia costituzionale ne esce normalizzata e commissariata. Quello di Draghi è un Governo ineccepibile sul piano della democrazia parlamentare, ma è un Governo normalizzatore e imbrigliatore delle dinamiche partecipative della democrazia costituzionale: azzerare le differenze, rendere obsoleta l’esistenza di posizione politiche contrapposte; tra Salvini e Speranza non ci devono essere differenze o comunque non devono essere percepite, perché il messaggio diretto al ventre del Paese è abbandonare gli egoismi di parte e concorrere tutti insieme al bene della nazione. Destra e sinistra definitivamente omologate. I rider e le multinazionali, gli invisibili e i miliardari del Billionaire, sono la stessa cosa. Difendere i primi contrasta con l’interesse nazionale. E soprattutto i primi devono rimanere senza rappresentanza politica, mentre ai secondi è garantita la “copertura” di tutto l’arco parlamentare. Da questo punto di vista, si tratta del disegno più pericoloso che il Paese potesse subire. Azzerare il conflitto vuol dire consegnare lo scettro ai più forti, negare l’esistenza stessa della lotta politica per la difesa di interessi differenti; e prelude sempre alla chiamata della Patria che non consente diserzioni. E infatti nessuno ha disertato; anche quella sparuta pattuglia di parlamentari di sinistra, del tutto scollegata con i fermenti vivi del Paese, ha piegato la testa. Il Normalizzatore ha sancito così la definitiva vittoria dell’antipolitica; ci avevano detto di aspettarci chissà quale svolta storica o quale raffinata teoria e invece siamo a livello di pettegolezzo da bar: «tanto son tutti uguali». Draghi offre così il migliore puntello alla recente vittoria referendaria: che senso ha avere così tanti parlamentari se tanto stanno tutti dalla stessa parte? L’unanimismo rende inutili le sfumature e le differenze e la rappresentanza era già diventata un costo da tagliare.

Ma se questo è lo scenario, oggi che essere “di parte” è messo al bando dalla storia, per chi intende la democrazia costituzionale come partecipazione dei cittadini alla vita politica del Paese in difesa di idee, valori, interessi, programmi si apre uno scenario inedito e senza precedenti. In un contesto in cui tutte le forze rappresentate in Parlamento fanno da megafono alla normalizzazione di ogni alterità, chi intende stare da una parte sola ha un’occasione unica. Bisogna far nascere immediatamente nel Paese una forza politica alternativa, che sottragga alla Meloni il palcoscenico della vita pubblica per evitare l’ultima delle beffe, ossia che una forza in realtà omogenea alla compagine governativa riesca a intercettare l’opposizione senza essere autenticamente diversa. La costituzione di una forza politica che sappia mettere a nudo l’anticaglia di questo Governo non può essere rinviata oltre. Fra un anno, l’antipolitica avrà seminato ulteriori veleni e una parte rilevante del Paese non può continuare a essere ancora esclusa dalla rappresentanza politica. O dovremo prepararci a scenari ancora più cupi.

Ci sono alcuni pilastri imprescindibili per avviare questo percorso. Primo. Il meglio che offre il Paese non è dentro questo Governo e non trova rappresentanza in questo Parlamento. Bisogna risvegliare queste energie e farle tornare in politica, coinvolgerle da subito nel processo costituente. Secondo. Chi è antagonista a questo sistema politico ed economico deve smetterla di ritenersi autosufficiente e di vantarsi della propria identità e purezza. Nei prossimi mesi, PD e 5S deflagreranno. Occorre da subito, con umiltà, avviare un dialogo con le parti migliori di questi due soggetti politici perché nessuno è sufficiente a sé stesso. Terzo. La testimonianza appartiene alla sfera personale dell’impegno politico, non a quella collettiva. Un soggetto collettivo che si propone il cambiamento del Paese deve essere consapevole che le sue posizioni e tutta la sua comunicazione devono essere popolari e non elitarie.

Il momento è questo e non è rinviabile. Forse Draghi è davvero l’uomo mandato dalla Provvidenza, per dare nuova vita a una storia spezzata.
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IN PRIMO PIANO
Governo Draghi: come in Svizzera?
Volerelaluna, 23-02-2021 – di: Francesco Pallante
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Alla fine, la legislatura a maggioranza Cinque Stelle si conclude davvero come in Svizzera. Solo che a venire presa a modello dal sistema elvetico non è la componente iper-maggioritaria, incentrata sugli istituti della democrazia diretta, bensì quella iper-consociativa, incentrata sul ruolo dei partiti politici. Difficile immaginare una sconfitta più clamorosa dell’impostazione ideologica grillina.

Tra le peculiarità della Svizzera c’è quella di non essere una democrazia parlamentare e nemmeno una democrazia presidenziale: il governo non nasce dalla fiducia conferita dal parlamento né da un voto popolare diretto. La forma di governo elvetica è ispirata al cosiddetto regime direttoriale, un modello, nato dall’esperienza della Rivoluzione francese, che non ricorre in alcuna altra democrazia del mondo. Caratteristica del sistema direttoriale è l’elezione dell’organo esecutivo – che funge anche da Capo di Stato collegiale – da parte del parlamento, in modo tale che sia proporzionalmente rispettata la consistenza dei maggiori gruppi parlamentari. Questo significa che i ministri sono espressione non di una maggioranza politica, come avviene nei sistemi parlamentari, bensì dell’intera assemblea rappresentativa, così da riprodurre in piccolo, all’interno dell’organo esecutivo, il pluralismo politico-ideologico che connota il parlamento. Sarebbe come se, in Italia, sulla base dei risultati delle votazioni del 2018, il governo fosse stato fin da subito – ordinariamente e non, come adesso, eccezionalmente – formato da ministri riconducibili al Movimento 5 Stelle, al Partito democratico, alla Lega e a Forza Italia. Occorre, inoltre, tenere presente che il parlamento svizzero è eletto con sistema proporzionale e che, come nei sistemi presidenziali, una volta designato, il governo non è poi sfiduciabile.

Com’è intuibile, un governo composto secondo la formula ora descritta non è, di regola, in condizione di esprimere un indirizzo politico omogeneo. A sua volta, un parlamento eletto tramite legge elettorale proporzionale e non tenuto a costruire alleanze di governo risulta normalmente incapace di esprimere una maggioranza stabile. Ecco spiegato il frequente ricorso al corpo elettorale per l’assunzione, tramite referendum, delle decisioni maggiormente delicate: il prezzo da pagare per la stabilità dell’esecutivo e per il rispetto del pluralismo politico è il rischio della paralisi decisionale, che viene equilibrato attribuendo l’essenziale del potere deliberativo direttamente agli elettori. Anche se – va aggiunto – nella prassi non è poi così raro che le forze politiche, per non rimanere “tagliate fuori” dall’esercizio del potere decisionale, trovino il modo di accordarsi.

Il problema è che da noi il modello svizzero arriva non in virtù della forza dei partiti, necessaria a riequilibrare la forza degli elettori, ma a causa della debolezza di entrambi: dei partiti e degli elettori. È il tragico paradosso della cosiddetta seconda Repubblica: nata per sottrarre potere alle forze politiche organizzate e attribuirlo ai cittadini, ha finito per toglierlo alle une e agli altri. Quattro «governi tecnici» – Ciampi, Dini, Monti e, ora, Draghi – sono lì a dimostrarlo. Il vecchio sistema politico, bene o male, aveva sempre saputo gestire i passaggi storici cruciali: l’uscita dal fascismo, la guerra fredda, la ricostruzione post-bellica, la crisi petrolifera, la strategia della tensione, il terrorismo. Quello nuovo si sfalda non appena si esula dall’ordinario: l’adozione dell’euro, la crisi finanziaria del 2008, la pandemia e la ripresa post-pandemica.

È venuto il momento di abbandonare la falsa contrapposizione tra i partiti (la società politica) e gli elettori (la società civile) – una contrapposizione portata alle estreme conseguenze dal Movimento 5 Stelle, in piena continuità, non in rottura, con il passato – e comprendere che solo rafforzando i primi si rafforzano anche i secondi. Altrimenti non ci resta che rassegnarci a quella che pare essere la nuova costituzione materiale della Repubblica: quando il gioco si fa duro, i duri escono da Palazzo Koch ed entrano a Palazzo Chigi.
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sbilanciamoci-20 Le lacune di Draghi
Luciana Castellina, su Sbilanciamoci!
24 Febbraio 2021 | Sezione: Editoriale, Politica

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta, in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza. E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio che in questo si è fidato solo di manager. E […]

Appena si è saputo che è a Mario Draghi che sarebbe stato affidato il governo d’emergenza proposto dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella l’area politica vasta ma destrutturata cui io appartengo – la sinistra – ha immediatamente protestato. ”E’ un banchiere” – hanno gridato quasi tutti con orrore.

Io no. Perché, poiché non mi pare ci si trovi in un tempo in cui è pensabile l’eliminazione a breve delle banche, che lui sia uno abituato a dirigerle non mi è apparso uno scandalo. Ho anzi considerato buona cosa che dopo una così accesa e ormai prolungata ondata di sovranismo ci sarebbe stato in Italia un primo ministro non certo di sinistra e però leader autorevolissimo di quell’ala, fino ad oggi assai minoritaria, impegnata a battersi per cambiare l’Unione nel senso in cui ogni ragionevole esponente della sinistra dovrebbe voler andare. E cioè su una linea che preveda un bilancio comune, una autonoma capacità fiscale, il potere di emettere eurobond e di abolire le più rigide (e catastrofiche) regole relative al pareggio dei bilanci, rendendo così disponibili le risorse indispensabili ad avviare uno sviluppo sostenibile. Insomma, una correzione sostanziale della pessima struttura disegnata dai Trattati.

In questa direzione Draghi si è in effetti mosso da parecchi anni, al limite delle sue competenze (e persino un po’ oltre).

Poiché io sono fra quelli che ritengono quanto accade a livello europeo di massima importanza, della sua nomina ero dunque contenta. Credo infatti che la dimensione nazionale non sia più sufficiente a recuperare la sovranità popolare che la globalizzazione ha cancellato, e che dunque solo quella europea potrebbe, forse, consentirci di tornare ad esercitarla. Così restituendo ruolo alla politica, cioè agli umani, per limitare il potere deliberativo oggi affidato quasi esclusivamente al pilota automatico del mercato.

Ad una settimana dal conferimento dell’incarico a Draghi sono tuttavia molto scontenta: trovo infatti – come del resto quasi tutta la sinistra – davvero impresentabile la compagine governativa messa insieme dal nostro primo ministro. Che in questo si è rivelato proprio un banchiere, fiducioso solo nei manager, come se il disastro ambientale non fosse soprattutto responsabilità delle miopissime scelte per lo più operate dalla loro categoria, per la quale obiettivi prioritari sono profitto e Pil.

Stridono – a fronte delle scelte compiute da Draghi – le sue belle parole sull’importanza dell’ecologia, visto che non c’è, fra i tecnici che proprio lui ha scelto, neppure un ecologo, che è come portare un malato a curarsi da un ingegnere anziché da un medico. Così come la centralità che attribuisce all’innovazione tecnologica, quando l’elemento decisivo è piuttosto il mutamento dell’umanità, sempre più drammaticamente ignara di esser solo l’insignificante 0,6 % delle specie che abitano la terra con le quali se si vuole sopravvivere si dovrà ben interagire. Non servono a molto manager e tecnocrati per passare ad una economia circolare, concetto a loro per lo più oscuro e però centrale se si vuole davvero una trasformazione del nostro modo di consumare, produrre, vivere, della gerarchia dei nostri piaceri.

Dice Draghi che non andranno più finanziate le aziende che non sono vitali. Ma chi è vitale? Chi guadagna un sacco di soldi riempiendo i supermarket di prodotti superflui che consumano risorse non rinnovabili? Chi giudicherà quali sono le aziende migliori: i “migliori” fra coloro che hanno contribuito a portarci al dissesto che è sotto i nostri occhi? La cosa più preoccupante che questa crisi politica ci rivela è la scarsissima conoscenza della complessità dell’ecosistema da parte dell’establishment politico del nostro paese. E Draghi non sembra fare eccezione.

Non è un caso che fra i riferimenti delle linee guida dei bandi del Recovery Plan e quelli dei progetti annunciati, sia dal PNRR del governo Conte, sia, ora e ancor più, da quelli annunciati da Draghi, vi sia tanta poca coincidenza. Basta guardare alle parole: 109 volte la parola “ecosistema” nel documento europeo, 2 in quello italiano, tanto per fare un esempio. La stessa proporzione per parole altrettanto importanti, quali, per esempio, “biodiversità”, che non si protegge facendo crescere qua e là dei bei boschetti. Il rischio che Bruxelles ritenga le nostre richieste incompatibili con i requisiti fissati non è fantasia!

Sono osservazioni che possono sembrare pignolerie, ma sono invece indici allarmanti della storica sottovalutazione del dramma ambientale e dunque di quello sanitario, che al primo è strettamente collegato. Per un governo che è stato definito d’emergenza proprio in nome dell’urgenza della questione salute e di quella ecologica, non c’è male.

Ma è considerazione che riguarda anche la questione sociale, perché sembra non si capisca che pensare di affrontare in modo serio la questione sociale grazie alla ripresa del vecchio modello di sviluppo, magari accelerato da un prevedibile “sblocca cantieri”, non è “efficienza” e “modernità”, ma cultura da dinosauri.

Quanto mi delude e mi allarma del governo Draghi non è dunque la presenza dei partiti di Salvini o Brunetta (in qualche modo scontata quando si ricorre a un governo di emergenza). E’ invece soprattutto la scelta dei tecnici di fiducia operata dal nuovo presidente del Consiglio: la transizione ambientale affidata a Cingolani, specialista di nanotecnologie che, quando si è pronunciato sul cambiamento energetico, ha parlato più del gas che di rinnovabili; l’accorpamento del ministero dell’Ambiente con quello dello Sviluppo che non solo non si fa come pure promesso, ma quest’ultimo viene affidato a un esponente del partito che vuole il ponte di Messina; l’innovazione tecnologica nelle mani di Colao che, oltre ad aver dato vita alla prima commissione di esperti fallita ancor prima di cominciare, viene ora decantato perché brillantissimo manager della Vodafone, fautore della modernizzazione 5G, quando la vera modernità sarebbe portare la rete nei territori, e quartieri definiti in gergo “non interessanti per il mercato” perché poveri di clienti e che infatti dalla sua azienda, così come dalle altre, proprio per via di questa povertà sono state lasciate senza collegamenti digitali. (Questo rischia fra l’altro di far fallire ogni tentativo di riportare i giovani nelle campagne per animare la trasformazione più indilazionabile che è quella dell’agricoltura).

La cosa più preoccupante è che queste scelte appaiono dettate soprattutto dall’arretratezza culturale dell’establishment che compone questo governo, di destra, di centro, e di buona parte di quella che si definisce di sinistra. Non è un bello spettacolo.

Un’ultima aggiunta: la delusione maggiore che mi ha dato Draghi è proprio sul terreno su cui mi aspettavo di più: quello della politica europea. Perché forse per la prima volta non ci sarà più un ministro per gli Affari europei. Capisco che Draghi l’abbia ritenuto inutile visto che c’è lui che ne sa più di ogni altro, ma, santiddio, il simbolico pesa in politica, eccome! E non sarà un bel segnale: adesso, infatti, avremo probabilmente a sostituzione del ministro, un sottosegretario agli Esteri incaricato dell’Europa. Tanto per far capire al mondo che noi, l’UE la consideriamo “estero”, non la Comunità di cui facciamo parte e con la quale quotidianamente condividiamo scelte che non hanno a che vedere con la politica estera.

Prima di concludere: dal nuovo governo credo non possiamo aspettarci molto, visto che nasce da una sconfitta della sinistra: la deliberata operazione liquidatoria animata da Matteo Renzi (per conto di forze ben riconoscibili) per togliere di mezzo il governo Conte, pieno di difetti e sorretto da una maggioranza confusa e fragile, ma pur sempre orientato a sinistra e forte di una conduzione del paese nel momento di una crisi senza precedenti assai migliore di quanto chiunque si sarebbe aspettato. Nonostante le mie amare considerazioni su quanto è prevedibile che ora accada non sono pessimista: non tutto dipende per fortuna dal governo, in Italia sopravvive una società per nulla passiva, animata da una gran quantità di organizzazioni ambientaliste autorevoli e molto attive, da sindacati forti, da movimenti sociali radicati sul territorio, da una combattiva presenza femminista. La sua rappresentanza politica istituzionale è frantumata e perciò poco visibile. Ma c’è, e si farà sentire. Se Draghi è bravo e ben intenzionato, dovrebbe esser capace di utilizzare la sua mobilitazione.

La versione tedesca di quest’articolo appare sulla rivista online IPG della Friedrich Ebert Stiftung, la fondazione della Spd tedesca, http://www://ipg-journal.de/

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