Editoriali
La povertà in Italia in forte aumento
La povertà in Italia nel 2020
22-06-2021 – di: ISTAT
Nel mese di giugno di ogni anno l’Istat diffonde il report La povertà in Italia nel quale sono contenute le stime riferite all’anno precedente. Il report diffuso nei giorni scorsi, e relativo alla situazione del 2020, contiene dati interessanti e fonte di estrema preoccupazione. In sintesi: la povertà assoluta e quella relativa continuano a crescere. (Volerelaluna: la redazione).
L’Italia dispone di un quadro articolato di indicatori di povertà la cui varietà consente di cogliere le molte dimensioni del fenomeno, specie in un anno come il 2020, segnato da una congiuntura economica particolarmente difficile e anomalo da molti punti di vista. Le diverse linee di povertà e i relativi indicatori mostrano la situazione secondo prospettive differenti.
La soglia di povertà assoluta fa riferimento a un paniere di beni e servizi che vengono considerati essenziali per una determinata famiglia per conseguire uno standard di vita minimamente accettabile. Non si tratta quindi di una unica soglia, ma di molte soglie che variano, per costruzione, in base alla dimensione della famiglia, alla sua composizione per età, alla ripartizione geografica e alla dimensione del comune di residenza (vedi il Prospetto in Nota Metodologica che mostra le soglie mensili di povertà assoluta per le principali tipologie familiari, ripartizione geografica e tipo di comune). La soglia di povertà relativa, invece,varia di anno in anno a causa della variazione della spesa per consumi delle famiglie o, in altri termini, dei loro comportamenti di consumo. Tale soglia, infatti, deriva da un calcolo interno alla distribuzione delle spese (è pari infatti alla spesa per consumi media pro-capite per una famiglia composta da due persone). La misura di povertà relativa fornisce,quindi,una valutazione della disuguaglianza nella distribuzione della spesa per consumi e individua le famiglie povere tra quelle che presentano una condizione di svantaggio rispetto alle altre. Nel 2020, per una famiglia di due componenti, la soglia è risultata pari a 1.001,86 euro, cioè oltre 93 euro meno della linea del 2019.
Per tenere conto dei cambiamenti nei comportamenti di spesa, ogni anno si calcola anche una linea di povertà dell’anno corrente rivalutando quella dell’anno precedente con la variazione dei prezzi. La soglia 2019, rivalutata al 2020 in base all’indice dei prezzi al consumo per l’intera collettività (pari a -0,2%), è risultata pari a 1.092,76 euro (90,90 euro in più della soglia standard). L’incidenza di povertà relativa 2020, calcolata rispetto alla soglia 2019 rivalutata, è, di conseguenza, molto più elevata ed è pari al 13,4% (3.484mila famiglie povere, ossia circa 847mila in più). Le due diverse stime permettono di individuare le famiglie che nel 2020, pur avendo conseguito dei livelli di spesa inferiori a quelli del 2019, non risultano povere per effetto della considerevole riduzione dei consumi e delle condizioni medie di vita nell’anno segnato dalle misure restrittive per il contenimento della pandemia.
I dati sono univoci. Sono in povertà assoluta 5,6 milioni di persone, record dal 2005. Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni.
Nel 2020, sono in condizione di povertà assoluta poco più di due milioni di famiglie (7,7% del totale da 6,4% del 2019) e oltre 5,6 milioni di individui (9,4% da 7,7%). Dopo il miglioramento del 2019, nell’anno della pandemia la povertà assoluta aumenta raggiungendo il livello più elevato dal 2005 (inizio delle serie storiche). Per quanto riguarda la povertà relativa, le famiglie sotto la soglia sono poco più di 2,6 milioni (10,1%, da 11,4% del 2019).
Per scaricare il rapporto integrale: https://www.istat.it/it/files/2021/06/REPORT_POVERTA_2020.pdf el 2020
22-06-2021 – di: ISTAT
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Newsletter ASviS – Sulle migrazioni serve una strategia europea che guardi al medio termine
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Don Lorenzo Milani
54 ANNI DA QUEL GIORNO:
26 GIUGNO 1967 DON LORENZO CI LASCIO’
di Arcangelo Riccardi, su fb.
Il suo testamento: “Cari ragazzi, ho voluto più bene a voi che a Dio, ma ho speranza che lui non stia attento a queste sottigliezze e abbia scritto tutto al suo conto. Un abbraccio, vostro Lorenzo”.
Lorenzo Milani nasce a Firenze il 27 maggio 1923 da Albano e Alice Weiss in una famiglia benestante e colta. Intellettuali e scienziati gli ascendenti Milani, veronesi d’origine ma trapiantati in Toscana. Di cultura mitteleuropea gli ascendenti materni, boemi d’origine, emigrati nella Trieste asburgica, ebrei di etnia, ma quasi tutti lontani da osservanze religiose e agnostici. Nel 1930 la famiglia Milani, coi figli Adriano, Lorenzo ed Elena, si trasferisce da Firenze a Milano, dove il padre, laureato in chimica, ha trovato un lavoro.
Lorenzo compie gli studi fino alla maturità classica, conseguita il 21 maggio 1941. Con sorpresa e rammarico dei genitori, che però non lo contrastano, rifiuta di iscriversi all’università: vuol fare il pittore. Il padre allora lo manda alla scuola di un bravo artista tedesco che vive a Firenze: Hans Joachim Staude. Ci resta pochi mesi, ma ne subisce una forte influenza culturale ed etica. In autunno, tornato a Milano, si iscrive all’Accademia di Brera e lavora con foga nello studio che il padre gli ha preso in una elegante zona della città. Nella primavera del 1943, dopo i primi pesanti bombardamenti aerei, la famiglia si trasferisce ancora a Firenze. Qui, nel giro di pochi mesi, Lorenzo matura una radicale svolta esistenziale: si converte al cattolicesimo e decide di farsi prete, entrando in seminario l’8 novembre di quello stesso anno.
Ordinato sacerdote il 13 luglio del 1947, don Lorenzo Milani viene nominato cappellano a San Donato di Calenzano, dove ci resta per oltre sette anni. Appena arrivato, impianta in canonica una scuola serale aperta a tutti i giovani, senza discriminazioni politiche, purché di estrazione popolare e operaia. Un prete giovane che invece dei tornei di calcio, di ping-pong e bigliardino offre ai giovani una scuola, usando come libri di testo la Costituzione, i codici, i contratti collettivi di lavoro, i giornali. Che esorta gli operai a iscriversi al sindacato e a difendere i propri diritti con le due armi irrinunciabili dello sciopero e del voto.
In breve tempo si tira addosso prima la diffidenza, poi l’aperta ostilità dei benpensanti e di molti preti della zona. Si arriva così al dicembre del 1954, quando don Lorenzo viene “esiliato” a Barbiana, una parrocchia sperduta sull’Appennino, formata da nemmeno un centinaio di anime sparse sui monti. Pier Paolo Pasolini scriverà più tardi che questa punizione “in realtà è stato il più bel dono che gli si potesse fare”. E don Milani lo riconosce per primo e subito. Ad un suo allievo di San Donato risponde: ”Non mi commiserate troppo, perché io devo aver avuto qualche antenato montanino. Mi par d’esser qui da sempre. Ormai sono completamente rincivilito e se per disgrazia mi portassero la luce elettrica, avrei paura di prendere la scossa. Ma il più bello è che anche qui m’hanno accolto come un vecchio amico che torna”.
E lì don Lorenzo organizza una nuova scuola a misura dei bisogni dei suoi montanari. Lucio, uno dei suoi alunni, che doveva accudire le mucche nella stalla, scriverà più tardi nella famosa Lettera ad una professoressa: “La scuola sarà sempre meglio della merda”. A Barbiana tutti i ragazzi vanno a scuola dal priore. Dalla mattina presto fino a sera, estate e inverno. Nessuno “è negato per gli studi”. Non c’è ricreazione e non è vacanza nemmeno la domenica. Nella lettera ai giudici don Lorenzo racconta che “Su una parete della nostra scuola c’è scritto grande ”I care”. E’ il motto intraducibile dei giovani americani migliori. “Me ne importa, mi sta a cuore”. E’ il contrario esatto del motto fascista “Me ne frego”.
L’obiettivo di don Milani è quello di educare i suoi ragazzi ad essere responsabili delle loro azioni, cittadini sovrani, capaci di usare la parola: “Perché è solo la lingua che fa uguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli”.
In una lettera inviata ai ragazzi di Piadena e al loro maestro Mario Lodi, i ragazzi di Barbiana descrivono la loro esperienza educativa: “Questa scuola, senza paure, più profonda e ricca, dopo pochi giorni ha appassionato ognuno di noi a venirci. Non solo: dopo pochi mesi ognuno di noi si è affezionato anche al sapere in sé. Il priore ci propone un ideale più alto: cercare il sapere solo per usarlo al servizio del prossimo, per esempio dedicarsi da grandi all’insegnamento, alla politica, al sindacato, all’apostolato o simili. Per questo qui si rammentano spesso e ci si schiera sempre dalla parte dei più deboli: africani, asiatici, meridionali italiani, operai, contadini, montanari. Ma il priore dice che non potremo far nulla per il prossimo, finché non sapremo comunicare. Perciò qui le lingue sono la materia principale. Prima l’italiano perché sennò non si riesce a imparare nemmeno le lingue straniere. Poi più lingue possibile, perché al mondo non ci siamo soltanto noi. Vorremmo che tutti i poveri del mondo studiassero lingue per potersi intendere e organizzare tra loro. Così non ci sarebbero più oppressori, né patrie, né guerre”.
Alla sorella Elena che gli annuncia il proprio matrimonio civile don Lorenzo risponde:”Sono contentissimo che tu ti sposi e non ho nessun motivo di dolermi che tu lo faccia in Comune. Esser cristiani è una fortuna, non un obbligo. Mi può dispiacere che tu non abbia questa fortuna, non che tu compia un atto in armonia con quello che pensi”.
A Barbiana, in una canonica senza acqua corrente e luce elettrica, la scelta di povertà austera di don Milani si radicalizza, fino al rifiuto di gestire il podere della parrocchia. Campa della sola “congrua”, il magro stipendio statale per i parroci. Dalla famiglia e dagli amici accetta solo aiuti per la scuola e la salute dei suoi ragazzi, spesso minata dalla miseria della montagna. Gli servono libri, enciclopedie, atlanti, dischi, calcolatrici, cancelleria, utensili… Ha bisogno di medicine, analisi ed esami medici, vitamine, cure dentarie. Denari, ne chiede per i viaggi all’estero, quando d’estate manda i ragazzi ad imparare le lingue e la vita degli altri popoli. Ma devono provvedere da soli, lavorando.
Nel 1958 esce “Esperienze pastorali”, il suo primo e unico libro, del quale pochi mesi dopo il Sant’Uffizio, giudicandolo inopportuno, ordina il ritiro dal commercio e vieta ristampe e traduzioni.
Nel 1960 avverte i primi sintomi del morbo di Hodgkin, che gli procurerà sofferenza e disagi per sette lunghi anni. Nel 1965 replica pubblicamente agli insulti rivolti da un gruppo di cappellani militari agli obiettori di coscienza e viene rinviato a giudizio per apologia di reato. Impossibilitato dalla malattia a presentarsi in tribunale, scrive la propria autodifesa, resa pubblica alla prima udienza del processo. E’ la “Lettera ai giudici” con la famosa frase, oggetto di tante polemiche: “Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene fare scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto”.
Serenamente consapevole della sua scelta, ormai gravemente ammalato, ebbe a dire: “Non ho paura di non fare a tempo a dire tutto quello che mi rimane da dire… Non importa che io lo dica… La verità si fa strada da sola”.
Assolto con formula piena, resta imputato, per il ricorso del pubblico ministero. Ma non arriva a ricevere la condanna d’appello, che colpirà comunque il suo scritto. Il 26 giugno 1967, all’età di 44 anni, muore di leucemia a Firenze, in casa della madre. Un mese prima esce “Lettera a una professoressa”, il libro scritto dai ragazzi della scuola di Barbiana sotto la sua regia ”da povero vecchio moribondo”. Ora la scuola è chiusa. I “ragazzi” sono sparsi per l’Italia e anche all’estero, impegnati nel sindacato, nella scuola, nelle associazioni.
A 54 anni dalla morte di don Milani, la testimonianza di fede del Priore di Barbiana, l’amore indicibile per un Dio che ha il volto povero dei suoi ragazzi, la sua obbedienza disobbediente, la rettitudine morale, la coerente laicità, la sete di cultura, lo studio come cosa seria e processo educativo collettivo, il rispetto del valore primario della coscienza, la concezione nobile della politica, l’amore ai poveri, l’impegno per la Costituzione e l’antifascismo, i valori in cui don Lorenzo credeva ci interessano ancor assai. Anche se egli, oggi, è più scomodo che mai. Non ci si può rivolgere al suo pensiero con l’intenzione di annetterlo o edulcorarlo, ma solo con quello di mettersi in discussione.
Non importa di prenderlo a modello od elevarlo a mito: piuttosto importa di rifarci a lui per riproporre l’irriducibilità di alcuni temi. Anche per questo noi lo amiamo e ne onoriamo la memoria.
26 giugno 2021 Arcangelo Riccardi
P.S.: vd. Giorgio Pecorini “Don Milani! Chi era costui?” Baldini & Castoldi.
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Papa Francesco e don Milani.
Su aladinpensiero online.
Lavoro
di Fiorella Farinelli, su Rocca.
Luana D’Orazio, apprendista di 22 anni, ingoiata il 4 maggio da un macchinario in una fabbrica de distretto tessile di Prato. La sua fresca bellezza postata su Facebook, la ragazza-madre di una bambina di 5 anni, il fratello gravemente disabile, un salario di 980 Euro (ma qualche volta, ha raccontato sua mamma, capitava che fossero 1000 e allora era una piccola festa).
Luana
E poi il sospetto, terribile, che come nell’orditoio gemello sequestrato dalla magistratura, anche in quello che l’ha uccisa fossero stati disattivati i dispositivi automatici di sicurezza. Intenzionalmente, per permetterne la massima velocità operativa, contando magari sul fatto che gli operai più giovani di sicurezza non ne sanno abbastanza, e sul clima di condivisione che c’è di solito nelle piccole aziende dove il sindacato non c’è e il delegato alla sicurezza neppure. Una tempesta perfetta, dunque, con gli ingredienti giusti per sollevare un’ondata di dolore e indignazione nell’opinione pubblica. E per tornare ancora una volta a interrogarsi, chi solo retoricamente e chi sul serio, sulle «morti bianche», quante, dove, perché. Ma c’è da scommettere che le reazioni solo emotive non dureranno a lungo. Le morti sul lavoro, una media nel 2019 di 3 al giorno festività comprese, di solito non fanno granché notizia. Per tanti motivi, tra conformismi e convenienze, sono tra le meno visibili. Tanto più oggi, anestetizzati come siamo da mesi e mesi di centinaia di morti quotidiane per pandemia. E tutti o quasi con la tentazione di giustificare ogni semplificazione o ogni deroga che faciliti l’agognata ripresa produttiva (nella funivia del Mottarone finalmente riaperta, non è stata la disattivazione dei freni automatici la causa principale della tragedia del 23 maggio, lo schianto al suolo della cabina con 14 vite perdute e un bambino gravemente ferito?).
sulla sicurezza si fa troppo poco
Sul rischio di un rapido ritorno al silenzio, e su quello assai più grave che sulla sicurezza nei luoghi di lavoro si continui a fare troppo poco, e che quel che si fa non si faccia come si dovrebbe, è tornato il 12 maggio, in un question time rivolto al presidente Draghi, il deputato Guglielmo Epifani. Diceva, l’ex segretario generale della Cgil nel suo penultimo intervento in aula prima di morire, che la pur positiva decisione del governo, assunta già prima della morte di Luana, di rafforzare le attività dell’Ispettorato nazionale del lavoro con 1000 nuove assunzioni – e poi forse altre 1000 – in aggiunta a un organico attuale di circa 4.500 addetti, non può bastare da sola a contenere drasticamente i rischi di gravi incidenti, più alti da noi rispetto alla media europea, e a paesi manifatturieri come
e più del nostro, per esempio la Germania. Una media di 1200 l’anno solo le morti, la punta dell’iceberg di centinaia di migliaia di incidenti sul lavoro, 369.290 gli infortuni accertati nel 2019, il 65,8% delle denunce presentate (molte di più quelle degli ultimi quindici mesi, ma i numeri più recenti sono meno attendibili per via degli infortuni dovuti a Covid 19 che sono un terzo del totale, delle tante attività rimaste chiuse e della riduzione per effetto dello smartworking degli incidenti «in itinere»).
È però fin troppo pacifico che una parte degli infortuni da noi non vengano censiti, sia oggi che prima della pandemia, perché molto lavoro è in nero e allora le denunce non ci sono o vengono occultate da ricoveri in ospedale attribuiti ad altre cause. Ma perché aumentare gli organici dedicati alle ispezioni potrebbe non bastare? Perché, argomentava Epifani, è altrettanto importante superare la frammentazione degli interventi di controllo e di ispezione, riconducibile al fatto che sono affidati sia al Ministero del lavoro che a quello della sanità, quindi sia allo Stato che alle Regioni (e ogni Regione sempre un pò a modo suo, nonostante il solenne accordo di qualche anno fa in Conferenza Unificata). L’Istituto nazionale del lavoro è nato, nel 2015, proprio per coordinare quello che oggi soffre di interventi scoordinati, di interferenze, sovrapposizioni, perfino rivalità e concorrenze tra i vari enti. Per questo ha un profilo istituzionale e organizzativo che lo rende «terzo», e autonomo da altri attori e autorità. Ma è stato finora poco finanziato, ha un organico insufficiente non solo per quantità ma anche per qualità tecnica e professionale. E il problema dei problemi è che dispone di una banca-dati non ancora integrata ed interoperativa con quelle delle Regioni, delle Asl, di Inps, Inail, e di altri enti con funzioni analoghe o connesse che però operano ciascuno per conto proprio, non di rado pestandosi i piedi. Ecco anche qui, e sulla pelle di chi lavora, gli irrisolti problemi del nostro scombinato regionalismo, dei ritardi nella modernizzazione digitale, delle contrarietà o resistenze istituzionali, politiche, corporative a un funzionamento efficiente, integrato, trasparente, socialmente controllabile delle attività e dei servizi pubblici. Ci vorrà tempo, e molto lavoro, per venirne a capo. Nel frattempo, era il suggerimento di Epifani, la garanzia del coordinamento delle attività ispettive dovrebbe essere assunta direttamente dalla Presidenza del Consiglio. Bisogna prepararsi, da subito, ai maggiori rischi che potrebbero determinarsi sotto la pressione della ripresa produttiva e del recupero affannoso di ciò che è andato perduto.
la vita e la salute non ammettono deroghe
I question time, si sa, si devono fare in pochi minuti. Ma chi di sicurezza del lavoro si occupa, non solo nel sindacato ma anche nei tribunali, nelle università, tra gli avvocati e i medici del lavoro, sa che i problemi sono anche altri, non meno inquietanti dell’inefficienza del pubblico e della sua non infrequente arrendevolezza agli interessi delle imprese (con la cattiva abitudine, che si mormora essere assai diffusa e facilitata da troppo laschi regolamenti regionali, di anticipare informalmente ai datori di lavoro le date delle ispezioni). Se è certo che di ispezioni bisogna farne di più (nel 2020 l’Istituto nazionale ne ha fatte solo 10.179, una media di neanche 2 per ogni addetto) e se, come ha denunciato il sindaco di Prato, nella sua città non ci sono più di 4-5 ispettori a fronte di oltre 4.000 aziende del suo distretto tessile, è certissimo che una migliore «cultura della sicurezza» richiede la costruzione di un triangolo virtuoso tra innovazione tecnologica e manutenzione dei macchinari, intese più stringenti tra le parti sociali, e tanta formazione e qualificazione professionale del personale, non solo degli operatori esecutivi ma anche di chi dirige, proprietari e management.
Rischi e guai, infatti, vengono da più parti. Innanzitutto da un sistema produttivo fatto per il 92% di piccole e piccolissime imprese poco in grado di investire economicamente in tecnologie sofisticate ad alto profilo di sicurezza (macchinari obsoleti e maltenuti sono frequentissimi anche in agricoltura, costruzioni, logistica), e abituate da tempo a giocare la partita della competitività principalmente
sulla riduzione dei costi, quelli del lavoro, delle attrezzature, della formazione.
Occorrono interventi pubblici mirati, una contrattazione nazionale e decentrata più esigente, una presenza più attiva delle rappresentanze sindacali nelle singole aziende e anche in ambiti settoriali e territoriali. Ma è decisivo anche che i lavoratori – tutti, anche i precari e stagionali, anche i collaboratori familiari, anche i tanti di provenienza straniera che conoscono poco l’italiano – siano più informati, consapevoli, responsabili. In grado, anche se condizionati dalla disparità rispetto al potere aziendale, anche se con la paura di perdere il lavoro, anche se non sempre supportati dalla presenza in azienda del sindacato, di rendersi conto dell’entità del rischio, di denunciare il mancato rispetto delle regole, in proprio o rivolgendosi a chi può aiutarli. In grado anche di utilizzare correttamente, senza disattenzioni e approssimazioni, i dispositivi personali di tutela e sicurezza. La vita e la salute di ciascuno e di tutti non ammettono deroghe.
formazione, vertenze, controllo
Ma è una sfida, quella della formazione obbligatoria dei lavoratori nel campo della sicurezza, tanto strategica quanto trascurata. In Italia non mancano, s’intende, le situazioni di eccellenza, per lo più in aziende di grande e media dimensione. Ma in moltissimi altri casi, dove le aziende vedono nella formazione solo un costo, una perdita dannosa di tempo di lavoro, un potenziale ostacolo alla produttività e alla disciplina di fabbrica, le attività formative vengono dilazionate, ridotte al minimo, realizzate in modalità prevalentemente astratte e teoriche (sempre più spesso on line), spesso affidate a formatori esterni che sanno poco o niente delle caratteristiche delle macchine e delle prestazioni di quella determinata unità operativa, dell’organizzazione del lavoro, dei livelli di istruzione e della qualità professionale degli addetti. Una formalità banalizzata, e inadatta allo scopo. Nell’ultimo contratto nazionale dei metalmeccanici, si prevede correttamente che la formazione comprenda anche l’analisi degli infortuni che si sono verificati, la simulazione degli incidenti possibili, lo scambio informativo e formativo tra lavoratori più esperti e meno esperti nello specifico contesto operativo, tra le macchine e sulle linee di produzione. È un’indicazione appropriata, ma sarà possibile attuarla, e svilupparla anche in altri contratti di lavoro? Sono stati gli stessi sindacalisti che l’hanno firmato a proporre, in queste settimane di allarme e di emozione per la morte di Luana, che in ogni azienda si tengano incontri straordinari tra direzioni e organismi sindacali per
analizzare i rischi connessi a questa fase di ripresa a pieno regime della produzione. A sollecitare a tutto il mondo sindacale la costruzione di vertenze unitarie sui temi della sicurezza e della prevenzione, e per il rilancio di una formazione continua non finalizzata unicamente all’addestramento alla prestazione o all’aggiornamento delle competenze finalizzato all’innovazione tecnologica ma anche allo sviluppo della qualità professionale. È infatti anche da qui che passa la dignità del lavoro operaio, la riconquista del suo assai logorato valore sociale. Soprattutto per i più giovani per cui il lavoro in fabbrica è spesso oggi solo il segno di un cattivo destino o del fallimento di altri più attraenti progetti di vita, una condizione da cui scappare il prima possibile, una realtà senza alcuna possibilità individuale e collettiva di crescita e di emancipazione. Non era così una volta, ma oggi bisogna tenerne conto, anche con la formazione.
Fiorella Farinelli
ROCCA 1 LUGLIO 2021
tanta strada nei miei sandali
tanta voglia di futuro
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Infortuni sul lavoro. Le relazioni del dottor Kafka
07-06-2021 – di: Vincenzo Cottinelli su Volerelaluna.
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Impegnati per l’Europa
Apriamo il cantiere dell’Unione europea ai cittadini e alla società civile.
9 Giugno 2021 by c3dem_admin | su c3dem..
Un mese fa, il 9 maggio, si è inaugurato il percorso della Conferenza sul futuro dell’Europa che impegnerà per due anni i governi, i parlamenti e le società civili dei paesi dell’Unione europea in una riflessione si spera schietta e partecipata su che cosa vogliamo che sia per il nostro futuro l’Unione a cui abbiamo dato vita settanta anni fa (vedi su c3dem del 9 maggio). L’associazione c3dem ha chiesto a Pier Virgilio Dastoli, presidente della sezione italiana del Movimento europeo, di “aprire il cantiere” di questo percorso, di cui diamo qui il link a un dossier informativo predisposto dalla nostra Camera dei deputati e il link alla “piattaforma” digitale che raccoglie opinioni e proposte dal basso.
Trascorsi oltre tredici anni dalla firma del Trattato di Lisbona, il sistema europeo – messo alla prova da quattro crisi successive (quella finanziaria e poi economica e sociale, quella del terrorismo di ispirazione islamista, quella dei flussi migratori ed infine quella della pandemia) – deve essere sottoposto ad una profonda revisione per realizzare tre obiettivi principali:
- Garantire l’autonomia strategica dell’Unione europea.
- Assicurare alle sue cittadine e ai suoi cittadini una prosperità condivisa.
- Completare il quadro istituzionale superando lo squilibrio fra la dimensione. intergovernativa o confederale e la dimensione sopranazionale con il rafforzamento del suo carattere democratico e la sua efficacia.
In questo spirito e secondo questa logica, appare necessario aggiornare i seguenti aspetti dell’Unione europea così come furono definiti nel negoziato diplomatico che, abbandonando il metodo costituzionale concepito con la “dichiarazione di Laeken” (2001) e sintetizzato nel “Progetto di Trattato che adotta una costituzione per l’Europa” (2004), portò al compromesso intergovernativo dei futuri trattati sull’Unione europea e sul suo funzionamento (“Trattato di Lisbona”, 2009):
La ripartizione delle competenze fra il livello degli Stati (e dei poteri locali e regionali) e quello europeo insieme ad una revisione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità
La coerenza fra le politiche comuni interne e le azioni esterne
Il superamento della dicotomia fra la politica estera e di sicurezza comune (ivi compresa la dimensione della difesa) e l’azione esterna dell’Unione
Il superamento della discrasia fra la politica economica e monetaria da una parte e la coesione sociale e territoriale dall’altra
La capacità fiscale dell’Unione europea
Le disposizioni relative ai principi democratici, la cittadinanza e il rispetto dello stato di diritto
Le disposizioni relative alle istituzioni
Le modalità dell’integrazione differenziata e i confini politici dell’Unione europea
Per ottenere un aggiornamento dell’Unione, la Conferenza sul futuro dell’Europa – che si è aperta il mese scorso – deve essere colta come un’occasione innovativa che superi la logica delle consultazioni dei cittadini europei così come sono state realizzate fino alla vigilia delle elezioni europee del 2019, costituendo uno spazio pubblico deliberativo in cui si confrontino la dimensione della democrazia partecipativa e quella rappresentativa, ispirandosi ad esperienze avvenute in Belgio, Francia, Irlanda e Islanda, per limitarsi all’Europa.
Dopo la fase deliberativa, nella Conferenza si dovranno aprire due momenti successivi: 1) una fase di monitoraggio da parte della società civile organizzata, dei panel transnazionali e della piattaforma digitale del follow-up che sarà dato dalle istituzioni europee (Consiglio europeo,
Consiglio, Commissione ma anche BCE) alle deliberazioni della Conferenza (maggio-dicembre 2022); e 2) una fase costituente da parte del Parlamento europeo in collaborazione con i parlamenti nazionali (gennaio-dicembre 2023) per tradurre le deliberazioni della Conferenza e gli orientamenti delle istituzioni in un progetto di riforma del sistema europeo che costituisca il tema centrale dei programmi dei congressi dei partiti europei e della campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo che avverrà nel maggio 2024.
Nella storia dell’integrazione europea quasi tutti i processi che hanno fatto avanzare il progetto di una “unione sempre più stretta fra i popoli europei” – come fu scritto nel preambolo del Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 1957 – sono stati realizzati senza un reale coinvolgimento di quegli stessi popoli europei che l’integrazione avrebbe dovuto unire in un sistema di originale cooperazione radicalmente diverso dal diritto internazionale.
Ci sono state tuttavia due rilevanti eccezioni che vale la pena di prendere in considerazione nelle modalità di coinvolgimento dei cittadini durante la Conferenza sul futuro dell’Europa:
il Congresso del Popolo Europeo (iniziativa degli anni 1958-62) che, tenuto conto dei pochi mezzi di mobilitazione dell’epoca di cui disponevano i federalisti, fu un grande successo di partecipazione
la Convenzione (un’assemblea di 62 membri) che scrisse la Carta dei diritti fondamentali (nota come “Carta di Nizza”, 2000) – nata da una suggestione dello European Forum of Civil Society – frutto di un’intensa collaborazione fra i membri della Convenzione (e in particolare il Presidium), da una parte, e le organizzazioni della società civile portatrici di interesse sui valori ed i diritti, dall’altra.
Appare chiaro che qualunque forma di consultazione dei cittadini che non contenga modalità di deliberazione collettiva e di scrittura di testi destinati a diventare vincolanti per le istituzioni e i popoli non rappresenta un esercizio di democrazia partecipativa.
In Europa questa modalità di deliberazione collettiva, ispirata alle Citizens’ Assemblies tenutesi nei Paesi Bassi tra il 2004 e il 2007 (e contemporaneamente in Canada), fu applicata inizialmente in Belgio nel Citizens’ Summit (o G1000) che si tenne l’11 novembre 2011 e poi dai Citizens’ panels nel novembre 2012, dopo una consultazione online dove vennero scelti come temi prioritari la sicurezza sociale, l’immigrazione e la redistribuzione della ricchezza.
Nel 2012 essa è stata applicata in Irlanda quando i due partiti della maggioranza di governo decisero di affidare la riforma di alcuni grandi temi costituzionali ad una Convention on the Constitution composta da 66 cittadini sorteggiati e 33 parlamentari, con la scelta innovativa di far sedere accanto, in uno stesso organo deliberativo, cittadini scelti da una società di sondaggi con campionamento casuale stratificato e politici scelti fra i parlamentari. Grazie al lavoro dalla Convention, il referendum del 22 maggio 2015 introdusse nella cattolica Irlanda i matrimoni egualitari con il consenso del 62% degli elettori.
In Islanda, infine, la deliberazione collettiva secondo il modello della democrazia partecipativa fu applicata fra il 2013 e il 2014 ma il testo scritto dai cittadini fu alla fine bocciato dal Parlamento.
Occorre tener conto di questi esempi nel processo che si sta aprendo con la Conferenza sul futuro dell’Europa ragionando su cosa dobbiamo imparare dai tentativi di scrivere una nuova costituzione in modo aperto e partecipato e traslando gli esempi belga, irlandese e irlandese nell’Unione europea.
Devono ancora essere verificate e tentate le condizioni per evitare di far fallire l’ennesimo esercizio di coinvolgimento delle cittadine e dei cittadini europei, avendo come obiettivo ultimo e primario quello di creare le condizioni di quello che Juergen Habermas ha chiamato patriottismo costituzionale europeo, per stabilire un forte legame fra le cittadine e i cittadini europei e i valori di una costituzione pluralista e democratica e per formare una sfera pubblica come spazio per il dialogo e il dibattito pubblico fra i cittadini.
Ci sono tre elementi che dovrebbero essere presi in considerazione per creare le condizioni di una vera democrazia partecipativa:
Le istituzioni europee e nazionali insieme ai grandi quotidiani e ai media nazionali dovrebbero creare le condizioni per una politica di comunicazione e di informazione inclusiva e trasparente sulle modalità di partecipazione al dibattito, sui temi prioritari e sulle conseguenze delle scelte alternative fra un’unione più stretta o una diluizione del processo di integrazione europea.
Aprendo la piattaforma alle associazioni rappresentative e all’organizzazione della società civile si dovrebbero elaborare dei “Cahiers de doléances et propositions”, per mettere in luce le criticità del processo di integrazione europea, e dei “papers” simili ai Federalist Papers utilizzati per creare consenso intorno alla Costituzione americana, e ciò al fine di aprire la strada alla elaborazione di un progetto costituzionale europeo.
Si dovrebbe infine introdurre nel dialogo fra la società civile e le istituzioni la soluzione digitale della blockchain, uno strumento dell’intelligenza artificiale trasparente, neutrale, non-gerarchico, accessibile, non manipolabile e di alta sicurezza tecnologica, decentralizzato, immutabile e garantito dai rischi da attacchi nella prospettiva della cybersecurity.
Oltre alle questioni di metodo, deve essere approfondito il legame fra la democrazia partecipativa e le politiche europee: il bilancio e le finanze; la coesione economica, sociale e territoriale,; i diritti fondamentali; la responsabilità sociale e ambientale; il patto europeo sul clima e sulla resilienza; la governance dell’Unione economica e monetaria nel quadro degli obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Si tratta di identificare i bisogni di una vera democrazia partecipativa (fiducia, trasparenza, efficacia, innovazione.) per ogni grande politica europea nel quadro delle attuali competenze dell’Unione europea e di quelle che dovrebbero esserle trasferite sulla base del dibattito sul futuro dell’Europa, gli strumenti giuridici e istituzionali (regolamenti e direttive) e le leve nell’era digitale a cominciare dalla blockchain.
Pier Virgilio Dastoli
(Presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo)
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NASCE L’OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA. Su iniziativa del Coordinamento per la democrazia costituzionale, Laudato Si’ e NOstra. Aderisce Aladinpensiero.
Signor Ministro Cingolani, la transizione ecologica non si fa così!
Già il Pnrr inviato a Bruxelles contiene troppe ambiguità. Non sarà facile quindi vincere le resistenze conservatrici dei potentati economici.
Le scelte del governo sugli appalti e sulle semplificazioni sono già un pessimo segnale. Un piano strategico per fare uscire l’Italia dalla crisi non si realizza solo con i bandi per usare le risorse del Pnrr, ma richiede che il Governo adotti un’ottica di programmazione, usando le società a partecipazione pubblica per costruire un insieme di interventi con obiettivi coerenti con la svolta ecologica e in particolare una transizione energetica fondata sull’uso delle energie rinnovabili.
Tale processo deve mantenere un carattere partecipativo stimolando e coinvolgendo le istituzioni locali e le organizzazioni sociali.
Al contrario la scelta delle cabine di regia rappresenta la delega ad una cerchia di tecnici e fiduciari del presidente Draghi che alimenterà lo scetticismo della popolazione verso la politica non tenendo conto della mobilitazione e dell’impegno della società civile sulla questione ecologica.
Il caso di Civitavecchia è emblematico. Si sono svolte manifestazioni sindacali e di cittadini, presidi in piazza che hanno coinvolto le rappresentanze della città, per contrastare la scelta di una centrale a turbogas da ben 1680 MW in luogo di quella attuale a carbone. Ogni calcolo di convenienza anche economica la rende perdente se confrontata con un progetto fondato su fotovoltaico per il porto, con eolico off-shore e idrogeno verde per fornire l’elettricità necessaria per un ridisegno del territorio.
L’uso del gas naturale oggi è solo l’alibi per mantenere l’Italia nella cultura e nell’economia fossile. La scelta dell’idrogeno verde è strategica e deve essere perseguita immediatamente. Del resto documenti dell’Iea e dell’Onu hanno messo sotto accusa non solo il carbone ma l’uso del gas naturale. Né appare convincente, sia dal punto di vista dei rischi per l’ambiente che da quello economico, la soluzione della cattura della CO2 e del suo immagazzinamento.
Per queste ragioni le tre organizzazioni firmatarie intendono costituire lunedì 7 giugno un osservatorio sulla transizione ecologica, innanzitutto sull’attuazione del Pnrr, per evitare che vengono mancati gli obiettivi della neutralità climatica e che ingenti somme vengano sprecate, lasciando nella sostanza inalterato il vecchio modello di sviluppo.
Roma, 4 giugno 2021
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Transizione ecologica: la gestione del ministro Cingolani non appare convincente
https://www.ilfattoquotidiano.it/2021/06/07/transizione-ecologica-la-gestione-del-ministro-cingolani-non-appare-convincente/6222219/
di Mario Agostinelli
Ecologista, politico e sindacalista
AMBIENTE & VELENI – 7 GIUGNO 2021
Roberto Cingolani ogni giorno descrive la sua missione con varie suggestioni (“fusione nucleare, idrogeno verde, impresa ciclopica”) ma con al fondo un tratto ben distinguibile e non accettabile. Il ministro non interviene nelle scelte con la drammaticità imposta dall’urgenza della crisi climatica: al contrario, confida in una chiave esclusivamente tecnologica per affrontare la “compromissione della termodinamica del pianeta” (parole sue).
L’assetto accentratore con cui l’esecutivo Draghi descrive e imposta la ripresa post pandemica gli offre un palcoscenico dal quale detta le sue formule magiche, visto che i progetti di rilancio del Paese non contemplano il coinvolgimento della società o una dialettica tra punti di vista, ma sono ispirati dai grandi gruppi, con agganci internazionali e sensibili alle lobby multinazionali, talvolta in contrasto con le direttive europee, soprattutto in materia ambientale.
Il ministro, partendo dall’affermazione che entro il 2030 l’Italia dovrà installare 70 GW di rinnovabili (moltiplicando per 10 gli attuali investimenti), ha collocato successivamente al 2030 la vera decarbonizzazione della produzione elettrica e dell’industria. In sostanza, si tratta dell’avallo alle resistenze conservatrici dei gruppi energetici nazionali ed internazionali, mentre occorre una svolta e un cambiamento drastico di paradigma entro il 2025. Così si copre il più banale passaggio dal carbone al gas, come richiesto in ogni sede dai vertici di Eni e di Enel. Quando poi si afferma che dopo il 2030 avremo altri 25 anni per uscire dalle fonti fossili si “buca” il 2050, la “dead line” posta dalla Ue.
Plastica monouso, il ministro della Transizione ecologica esulta perché la Ue ci permette di continuare a inquinare
Plastica monouso, il ministro della Transizione ecologica esulta perché la Ue ci permette di continuare a inquinare
Che questo percorso sia quello che paventiamo, lo dimostra in alcune pieghe il “decreto semplificazioni” appena varato: il nostro Paese non vuole prepararsi alle rinnovabili senza l’ausilio dei combustibili fossili e, quindi, ci si lamenta dei ritardi nei processi autorizzativi per le rinnovabili, ma si allentano le regole di controllo e di protezione dell’ambiente e della salute nel caso specifico di nuove centrali (art.18). Perfino sul nucleare, pur sapendo che la questione in Italia è stata chiusa da ben due referendum, il ministro è stato molto blando nei confronti del tentativo della Francia e di altri paesi di far passare a livello europeo la fissione dell’atomo come fonte “a basso tenore di carbonio”, trascurando la letalità del suo impiego pur di farla accettare, al pari del Ccs, come fonte per produrre idrogeno blu anziché verde. Cingolani avrebbe dovuto dire semplicemente che l’Italia porrà il veto a qualunque tentativo di alimentare un futuro altroché residuale per il nucleare in Europa.
Intanto, c’è un inspiegabile ritardo del Governo Draghi nell’approvare (doveva essere inviato a Bruxelles il 31 marzo scorso) il piano per decidere dove installare l’eolico off-shore, mentre lo stesso fotovoltaico richiede una accelerazione nelle autorizzazioni, con la collocazione prioritaria su superfici esistenti e in aree industriali dismesse. In realtà, si coprono le resistenze al superamento dell’uso di tutte le fonti fossili il prima possibile. I gruppi pubblici, che dovrebbero essere i primi ad adeguarsi alle direttive di un governo che fa riferimento al Green Deal Europeo, tentano di eluderne l’indirizzo entro i confini nazionali, mentre al di fuori di essi, dove risulta forse più complicato fare “greenwashing”, investono solo in rinnovabili!
Le critiche di Rutelli al governo sul clima: “Siamo fuori strada. L’agenda è inadeguata per la ‘rivoluzione verde’, se ne occupi Draghi”
Le critiche di Rutelli al governo sul clima: “Siamo fuori strada. L’agenda è inadeguata per la ‘rivoluzione verde’, se ne occupi Draghi”
Così, per le centrali elettriche a carbone, dove il “phase out” è obbligato, si pensa al rimpiazzo di potenza con metano anziché passare direttamente a rinnovabili, pompaggi o idrogeno verde, ridisegnando così consumi, produzioni e buona occupazione in territori a lungo vulnerati dalla combustione dei fossili. Il gas naturale ha chiuso il suo ciclo: insistere con nuove infrastrutture, come si vorrebbe fare con i turbogas a Civitavecchia, clamorosamente in contrasto con la popolazione, le istanze sociali e le istituzioni, significherebbe pregiudicare una riconversione ecologica, laddove è già matura, a partire dal mondo del lavoro.
Le politiche industriali stesse non possono aspettare il 2030 per cambiare. Pensiamo all’Ilva di Taranto: dopo la recente sentenza occorre decidere il suo futuro, contemporaneamente occupazionale ed ambientale. Lo Stato è già entrato in Ilva con una partecipazione azionaria rilevante e presto sarà un’azienda pubblica a tutti gli effetti che potrà riprendere un’attività solo se compatibile con la salute. In questo caso, l’uso delle rinnovabili e dell’idrogeno è forse l’unico asse di fondo su cui provare a riprogettare una destinazione, lungo l’intero ciclo che tocca l’acqua, i gas in atmosfera, la bonifica del suolo.
La gestione della transizione ecologica che si sta evidenziando non appare convincente. Il ministro Cingolani ha il dovere di esplicitare come verranno impiegati oltre 50 milioni al giorno per 5 anni previsti dal Pnrr. La velocizzazione non può risolversi in un favore ai colossi energetici che oggi svolgono un ruolo di resistenza verso il cambiamento, la difesa del clima e l’innovazione, frustrando il ruolo delle istituzioni territoriali e la presa di coscienza delle collettività.
Scritto in collaborazione con Alfiero Grandi
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WEBINAR SULLA SALUTE
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PER APPROFONDIRE. PNRR, IL TESTO E LE CRITICHE; IL RITORNO DELLO STATO
8 Giugno 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem
Un interessante Dossier di Camera e Senato illustra il Piano nazionale di ripresa e resilienza.. La lettura critica del Forum Diversità e Disuguaglianze: “Manca una visione forte e mobilitante”. Il webinar di Radio Radicale con la discussione sulla valutazione del PNRR condotta dall’ASVIS. Sabino Cassese, “Lo Stato non torna, c’era già, ma la musica è cambiata” (Corriere della sera). I contributi de lavoce.info: Angelo Baglioni, “Non più Stato ma uno Stato migliore, questo ha chiesto Ignazio Visco”; Fabiano Schivardi, “Dopo la crisi: dallo Stato-giocatore allo Stato-allenatore”; Gianni Toniolo, “Welfare state: il futuro è nel ritorno a Beveridge”; Massimo Baldini, “Nuove reti sociali per nuove povertà”; Gilberto Turati, “Quattro temi chiave nell’agenda per la salute”; Michele Polo, “Internet, la quarta utility”. E qui anche i video dei 5 forum tenutisi al Festival dell’Economia di Trento. Inoltre: Luca Mercalli, “Transizione eco-illogica del ministro Cingolani” (Il Fatto); Elena Granaglia, “Il welfare nel PNRR. Riconoscere quanto c’è, ma non trascurare i rischi” (Eticaeconomia); Federico Butera, “La questione organizzativa italiana. Rigenerazione organizzativa, politica per il bene comune e la difesa sociale, formazione delle persone integrali” (Eticaeconomia).
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Che succede? Di che si parla?
L’ACCORDO SULLA TASSA MINIMA GLOBALE.
6 Giugno 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Gianluca Di Donfrancesco, “Al G7 primo storico accordo sulla tassa minima globale” (Sole 24 ore). Alessandra Smerilli, “Tre buone cose da fare con i soldi della multitax” (Avvenire). Sergio Fabbrini, “La governance del Pnrr e il governo dell’Italia” (Sole 24 ore). Paolo Pombeni, “Pubblica amministrazione, la rivoluzione di Brunetta” (Il Quotidiano). Valerio Valentini, “La rivincita di Renato” (Foglio). “Decreto Reclutamento. La scommessa sul capitale umano pubblico per la ripresa del Paese” (fonte ministeriale).
IL “J’ACCUSE” DI SEID
LA MORTE DI SEID: Antonio Averaimo, “Scuote il caso di Seid tra fragilità e razzismo” (Avvenire). Seid, “Il mio j’accuse” (dai social). Marina Corradi, “Come schiaffo che brucia” (Avvenire). Maria Novella De Luca, “Quegli sguardi che feriscono” (Repubblica). Giovanna Casadio, “Letta: ‘Chiediamo perdono’ e rilancia la legge sullo ius soli” (Repubblica).
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Indignazione a scadenza.
5/6/2021. Tonino Dessì su fb.
Avrei proprio voluto non parlarne, del suicidio di Seid Visin.
Solo chi le vive, certe situazioni, del resto, può capirle fino in fondo.
Io, in particolare, sento una profonda immedesimazione, perché avverto ogni giorno sulle spalle tutta la responsabilità di una scelta famigliare, genitoriale, fatta dodici anni fa.
Non posso non interrogarmi sul fatto che il tempo passa, che prima o poi non potrò essere più validamente al fianco di mio figlio e che a un certo punto non potrò esserlo definitivamente e lui chissà che condizione vivrà, ancora giovane, a quel tempo.
Ammetto che per quanto fossi consapevole delle difficoltà di quella scelta, non avevo mai percepito prima quanto profonda fosse l’avversione e l’aggressività della società italiana (e quella sarda non fa eccezione, credetemi) verso la differenza di pelle.
È, quella del razzismo, una delle misure più evidenti dell’odio interno che cova tanto verso “le diversità” quanto verso “le differenze”, quelle preesistenti e quelle emergenti.
Non è la sola, intendiamoci.
Sono situazioni diffuse e molteplici e non sembri che voglia, accomunandole, diversità e differenze, annegarle tutte in un calderone indistinto, anche perché purtroppo non sono nemmeno tutte solidali tra loro e le fratture sono intrecciate e trasversali (basti pensare alla durezza delle contrapposizioni che aleggia persino in ambiti “progressisti” sul disegno di legge Zan, tanto che io stesso non ne parlo più volentieri).
Comunque questo non è un periodo in cui spiri un clima generale di solidarietà ed è ciò che mi angoscia di più.
Vi è, parliamoci chiaro, chi ha la maggiore responsabilità politica di questa condizione generale.
La destra italiana è certamente a tal proposito, quanto a responsabilità soggettive su questo terreno, una delle peggiori d’Europa.
La campagna xenofoba, in particolare, è stata sistematicamente alimentata dalla Lega di Matteo Salvini e da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, ma già in partenza non è stata affatto estranea al berlusconismo.
Invito oggi chi abbia curiosità a leggere il post cinicamente ipocrita (e persino negazionista sulle motivazioni) di Salvini sul suo profilo e la sferzante risposta scritta da Roberto Saviano fra i commenti in calce a quell’esecrabile dichiarazione.
Non sembri infine una nota di polemica politica fine a se stessa se osservo che non tutto il mondo democratico e le sue componenti derivanti dalla diaspora della sinistra si sono presentati in questi anni come una barriera compatta contro questa patologia profonda della società italiana.
Non lo sono state le politiche e le posizioni dei governi di centrosinistra nella trascorsa legislatura.
Il M5S si è collocato dall’altra parte col governo giallonero del primo anno della legislatura corrente.
Nessuna visibile correzione di rotta sotto il secondo governo Conte, direi silenzio sotto Draghi, salva l’eliminazione, da parte del Parlamento, di alcune delle disposizioni di legge securitarie più impresentabili e meno gestibili.
Altro che “sinistra che ha abbandonato le lotte per i diritti sociali dedicandosi solo ai diritti civili”: quanto mi repelle questa critica idiota.
Come se le due cose non fossero le due facce della stessa medaglia, l’una reciproca condizione dell’altra nell’aspirazione a una società giusta, solidale, fraterna.
E infatti, se ci fate occasione, sovranisti e rossobruni d’ogni osservanza oggi eludono notizia, argomento, commenti.
Concludendo, al TG3 di poco fa la notizia è finita in coda, quasi come capita ai fatti minori di cronaca nera, dopo l’euforia sull’andamento positivo della pandemia, la soddisfazione per la campagna vaccinale, l’enfasi per l’accordo preannunciato a Londra sulla tassazione delle multinazionali del web, il pastone sui movimenti politici dei partiti e dei rispettivi schieramenti.
Quanto durerà anche l’indignazione delle persone perbene e più sensibili sui social?
Uno, due giorni?
Insomma, forse anche questo post potevo pure io risparmiarmelo.
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PARTITI E SABBIE MOBILI: Renato Mannheimer, “Tutte le conversioni sulla via del governo Draghi” (Il Riformista). Paolo Pombeni, “L’effetto Draghi spinge i partiti nelle sabbie mobili” (Il Quotidiano). Marcello Sorgi, “Dai referendum una scossa ai partiti” (La Stampa). Antonio Polito, “La tattica che soffoca i partiti” (Corriere della sera).
LA DESTRA: Giovanni Orsina, “La svolta al centro del Capitano” (la Stampa). Marcello Sorgi, “Il partito unico del leghista” (La Stampa). Alessandro Di Matteo, “Federazione a destra. Salvini accelera, Forza Italia implode” (La Stampa). Marco Tarchi, “L’eterna illusione di una destra moderata” (Domani). IL PD: Giuseppe Boschini, “Dove va il Pd di Letta” (Settimana news). Montesquieu, “Enrico Letta e quel che resta di VeDrò” (La Stampa). Filippo Barbera, “Letta e la dote per i giovani, ovvero il politicismo contro la politica” (Manifesto). INOLTRE: Dario Di Vico, “Gli autogol del mondo del lavoro” (Corriere). Gianpiero Della Zuanna, “L’immigrazione che ci aiuterà” (Corriere della sera). Giuseppe De Rita, “Non è il welfare che aiuta la natalità. Serve più fiducia nel futuro” (intervista a La Stampa). Gianni Cuperlo, “La pazza idea di chi vuole cancellare la rivoluzione di Basaglia” (Domani). Roberto Cingolani, “Dobbiamo pensare ai nostri figli, non alle ideologie” intervista al Corriere).
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Amazon, Piketty: “Spesi milioni in propaganda contro i lavoratori, metodi che ci devono preoccupare anche in Europa”
Su Il Fatto quotidiano.
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Un reddito di base e un’eredità per tutti
Thomas Piketty su Internazionale.
5 giugno 2021
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Scelte energetiche per la Sardegna. Che succede?
La sedia di Vanni Tola.
Che accade nel mondo delle energie rinnovabili? Il ruolo di Terna e le scelte del PNRR.
Nei giorni scorsi, un sindacalista Cgil, con un’intervista a la “La Nuova Sardegna”, ha chiesto al Presidente Solinas di intervenire direttamente sulla partita energetica, pretendendo chiarezza, e invitandolo a sollecitare il Governo Draghi affinché sciolga (a favore della dorsale) i dubbi ancora presenti sull’infrastrutturazione del metano e per impedire che il Tyrrhenian Link produca danni alla Sardegna a vantaggio di altri? Che sta accadendo? Vediamo di comprendere meglio alcuni aspetti della questione energetica isolana che, come vedremo, sono anche parte di un più vasto programma di rilancio del piano energetico nazionale. E’ in atto un confronto a distanza tra due colossi della produzione e del trasporto di energia, la società Snam e la società Terna. Del progetto Snam per la rete di distribuzione del metano (dorsale sarda) abbiamo scritto in precedenti articoli ai quali rimandiamo.
I programmi di Terna
Terna – Rete Elettrica Nazionale è il primo operatore di rete indipendente d’Europa e tra i principali al mondo per chilometri di linee gestite. Attraverso Terna Rete Italia, gestisce la Rete di Trasmissione Nazionale con 74669 km di linee elettriche in alta tensione. In Sardegna Terna persegue l’obiettivo di migliorare la rete di infrastrutture in vista della decarbonizzazione del sistema energetico italiano con un intervento finanziario certamente significativo. Il piano industriale 2021-2025 prevede, infatti, un investimento societario di un miliardo, più dell’11% dell’intera somma destinata all’intero territorio nazionale (8,9 miliardi).
Nella provincia di Sassari la società di infrastrutture elettriche ha investito 65 milioni di euro nella linea Santa Teresa-Tempio-Buddusò che consentirà di ammodernare la rete dell’isola in funzione dell’atteso sviluppo delle fonti rinnovabili, in particolare dell’eolico e del fotovoltaico migliorando la trasmissione elettrica nell’area orientale della regione, che è penalizzata dalla ridotta infrastrutturazione e dall’elevata richiesta di elettricità da parte del settore turistico, nei mesi estivi. Inizialmente l’intervento mirerà a garantire una maggiore efficienza del servizio di trasmissione dell’energia e favorire una maggiore continuità di immissione in rete dell’energia prodotta dagli impianti idroelettrici presenti nell’area. Gli sviluppi futuri invece trasformeranno questa iniziativa in un’opera considerata “strategica” anche per il sistema elettrico italiano in quanto “consentirà di ammodernare la rete dell’isola in funzione dell’atteso sviluppo delle fonti rinnovabili, in particolare eolico e fotovoltaico”.
Alcuni ragguagli tecnici.
Il nuovo elettrodotto a 150 kilovolt (kV) si snoda per circa novanta chilometri, in parte con cavo interrato, che passa attraverso otto Comuni nella Sardegna settentrionale. Nasce dopo una serie di confronti tra Terna e le amministrazioni locali e, come dichiara Terna, è “finalizzato alla condivisione degli interventi in ottica di sostenibilità”. Prevede la realizzazione di due stazioni elettriche, una a Tempio e una a Buddusò, che “permetteranno di collegare direttamente i tre snodi principali della rete elettrica locale, creando una nuova direttrice che garantirà più resilienza, sostenibilità, efficienza e affidabilità per la trasmissione elettrica regionale“. Questo progetto si aggiunge ai due progetti che già vedevano protagonista l’Isola: il Sa.Co.I 3, che mira all’interconnessione tra Sardegna, Corsica e penisola italiana, e il Tyrrhenian Link, un elettrodo sottomarino da 3,7 miliardi che unirà Sardegna, Sicilia e Campania.
L’interconnessione Sardegna, Corsica, Italia e la nascita dell’hub energetico nell’isola.
Un’altra grande opera prevista da Terna si chiama Tyrrhenian Link, l’opera che preoccupava il sindacalista della CGIL di cui si parlava in apertura dell’articolo. “Con l’interconnessione tra Sardegna, Corsica e penisola italiana (Sa.Co.I 3) e il Tyrrhenian Link, il nuovo elettrodotto sottomarino da 3,7 miliardi di euro che unirà la Sardegna con la Sicilia e quest’ultima con la Campania, la Sardegna si vedrà assegnare un ruolo strategico a livello internazionale: sia in ottica di phase-out (eliminazione graduale ndr) delle centrali a combustibili fossili e quindi per la decarbonizzazione del sistema energetico italiano grazie allo sviluppo delle fonti rinnovabili, “sia come hub elettrico dell’Europa e dell’area del Mediterraneo per l’integrazione dei mercati”. I documenti concernenti l’iter legislativo e il progetto sono consultabili al ministero della Transizione ecologica e nei comuni interessati. Il progetto, che prende il nome di Driving Energy, fa capo al gruppo presieduto da Valentina Bosetti, che gestisce la rete elettrica nazionale di trasmissione. Un piano centrato sull’Italia ma con uno sguardo rivolto al suo sviluppo come hub del Mediterraneo, attraverso il potenziamento delle interconnessioni con l’Africa da un lato e l’Europa dall’altro. L’obiettivo finale è quello di consegnare alle prossime generazioni un sistema elettrico sempre più affidabile, efficiente e decarbonizzato”, che mette al centro la sostenibilità.
Un mega investimento di Terna, il Driving Energy
Assi portanti del progetto sono: la sicurezza della rete, l’abilitazione delle fonti di energia rinnovabili, il raggiungimento degli obiettivi del Green New Deal europeo e del Piano Nazionale Integrato per l’Energia e il Clima (PNIEC) e la creazione di valore economico e occupazionale. Per arrivare a questo, sono previsti investimenti da record, mai realizzati prima: 9,2 miliardi complessivi, di cui 8,9 miliardi (+22% rispetto al precedente piano) per lo sviluppo delle infrastrutture in Italia di cui 1,4 miliardi già nel 2021. Sull’estero Terna investirà 300 milioni in nuovi progetti, soprattutto in Sud America.
Lo sviluppo della grande rete
Sulle attività avviate in Italia, l’impegno di Terna dei prossimi cinque anni sarà indirizzato verso lo sviluppo, l’ammodernare e il rafforzamento della rete di trasmissione e la messa in sicurezza del sistema, in vista dei 30 GW aggiuntivi di potenza rinnovabile previsti al 2030, per centrare gli obiettivi green fissati dal governo. I benefici attesi saranno molto superiori rispetto al costo dell’investimento. Recenti studi stabiliscono che ogni miliardo di investimenti in infrastrutture ne genera tra due e tre in termini di PIL e circa mille nuovi posti di lavoro. Degli 8,9 miliardi che saranno investiti complessivamente, ne saranno spesi 5,4 per incrementare la capacità di trasporto superando le congestioni ora presenti in alcune aree di mercato, facilitare il transito Nord-Sud (e viceversa) e aumentare le interconnessioni con l’estero.
I progetti attualmente inseriti nel perimetro del Piano sono:
– il Tyrrhenian Link – l’interconnessione tra Campania, Sicilia e Sardegna che contribuirà alla decarbonizzazione della Sardegna, integrando appunto diverse zone di mercato con importanti benefici in termini di efficienza;
– l’elettrodotto che unirà la zona di Colunga (provincia di Bologna) a quella di Calenzano (provincia di Firenze), assicurando così un notevole aumento della capacità di scambio fra Centro-Sud e Centro-Nord;
– l’elettrodotto che collegherà le due sponde della Sicilia da Chiaramonte Gulfi (provincia di Ragusa) a Ciminna (provincia di Palermo) migliorando la qualità e la continuità della fornitura elettrica nella Regione;
– il SA.CO.I.3, con il rafforzamento del collegamento tra Sardegna, Corsica e Penisola Italiana.
Si prevede che il SA.CO.I3 entrerà in esercizio entro il 2025, mentre già nel 2021 dovrebbe essere operativa l’interconnessione Italia – Francia. “Nella prima parte del prossimo anno – ha dichiarato l’amministratore delegato di Terna, Donnarumma – auspichiamo anche il via libera al progetto di collegamento con la Tunisia, che creerà un corridoio tra l’Africa e l’Europa, i cui lavori dovrebbero completarsi entro il 2027, ma forse anche prima” con la naturale intermittenza delle fonti rinnovabili. Quanto all’estero, Terna è oggi attiva in alcuni Paesi dell’America Latina, dove punta a mantenere la sua presenza: oltre ai progetti in essere in Brasile, Perù e Uruguay, il piano 2021-2025 prevede di cogliere nuove opportunità, con investimenti fino a 300 milioni di euro.
Innovazione e digitalizzazione.
Nuove tecnologie e digitalizzazione richiederanno uno sforzo consistente e acquisiranno sempre maggiore importanza, perché ormai questi elementi sono imprescindibili per abilitare la transizione energetica a beneficio di tutto il sistema energetico. Terna dedicherà circa 900 milioni di euro, degli 8,9 complessivi, alla digitalizzazione e all’innovazione, proseguendo nelle attività di controllo da remoto delle stazioni elettriche e delle principali infrastrutture attraverso l’installazione di sistemi di sensoristica, monitoraggio e diagnostica, anche di tipo predittivo, a beneficio della sicurezza della rete e del territorio.
Sostenibilità e tutela del territorio al centro del piano.
Per quanto concerne la sostenibilità, la presidente Bosetti (gestione rete elettrica nazionale) ha ricordatoche “gli investimenti sono disegnati per rispondere a uno scopo di lungo periodo che è quello della decarbonizzazione”. Il 95% degli impieghi di Terna sono per loro natura sostenibili. A tutela dell’ambiente Terna si impegna a minimizzare l’impatto visivo e paesaggistico delle infrastrutture elettriche, anche rimuovendo, nell’arco temporale del Piano, circa 500 chilometri di linee rese obsolete dai nuovi investimenti di sviluppo della rete.
Energia per il futuro. Eccellenza Italia, tecnologia e soluzioni hi-tech. In Sardegna rete elettrica all’avanguardia nel mondo.
Molti non sanno che la Sardegna è già oggi leader per know how e soluzioni di ingegneria: sistemi di accumulo, compensatori sincroni, cavi sottomarini da record e il polo innovativo del Sulcis, Hi-tech e innovazione. L’isola si conferma un importante esempio virtuoso in Italia e nel mondo per la tecnologia e le avanzate soluzioni tecniche e ingegneristiche utilizzate da Terna negli interventi di sviluppo e ammodernamento della rete elettrica. Grazie a una serie di impianti e strumentazioni d’avanguardia, in alcuni casi unici a livello internazionale, la Sardegna è quindi diventata un laboratorio delle high performance tecnologies per le ‘smart grid’, una rete intelligente capace di integrare e bilanciare in sicurezza la produzione crescente di energia da fonti rinnovabili.
Una superficie di oltre 250 mila metri quadrati ospita il polo multi tecnologico di Codrongianos (in provincia di Sassari), un impianto di rilevanza mondiale, il più grande della Sardegna. E’ qui che Terna ha realizzato lo Storage Lab per la sperimentazione dei sistemi di accumulo dell’energia, i compensatori sincroni per stabilizzare la rete elettrica e il terminale sardo del Sa.co.i., lo storico collegamento ad alta tensione in corrente continua (HVDC) su cui transita l’elettricità scambiata con la penisola italiana e con la Corsica.
Quella dell’accumulo di energia è una tecnologia in cui l’Italia è all’avanguardia nel mondo. In particolare, il progetto Storage Lab rappresenta il più grande sito multi tecnologico di batterie d’Europa, e il primo progetto di storage a supporto e protezione delle reti elettriche, che rende Codrongianos il polo elettrico con il maggior numero di tecnologie al mondo. Nella medesima area geografica sorge anche la stazione terminale del moderno elettrodotto in alta tensione in corrente continua, SA.PE.I. che collega direttamente la Sardegna con la penisola italiana grazie a un impianto sottomarino avanzatissimo.
I sistemi di accumulo di energia fondamentali per l’impiego delle rinnovabili.
Nel Sulcis è attivo un laboratorio a cielo aperto per testare le caratteristiche di funzionamento degli isolatori di corrente elettrica. Si chiama Lanpris ed è un campo prove sperimentale che Terna ha realizzato all’interno della stazione elettrica del Sulcis: è uno dei pochi impianti al mondo di questo genere per lo studio degli isolatori e servirà a individuare soluzioni tecnologiche innovative per migliorare la sicurezza sia degli elettrodotti che delle stazioni elettriche.
Terna da anni ha ritenuto necessaria la realizzazione di sistemi di accumulo a batterie, soprattutto al Sud e nelle isole maggiori, per stabilizzare ed equilibrare l’intermittenza tipica delle fonti rinnovabili, che in Sardegna coprono oltre il 40% del consumo energetico.
Le principali soluzioni tecnologiche di accumulo disponibili, richiedono un’adeguata sperimentazione prima di essere giudicate idonee. La sperimentazione dei sistemi di accumulo dello Storage Lab ha l’obiettivo di individuare il giusto mix di tecnologie in grado di ottimizzare il rapporto costi/benefici nonché le caratteristiche di ognuna delle tecnologie come ad esempio vita utile, tempi realizzativi, efficienza, prestazioni, oltre alle possibili soluzioni ‘smart grid’ associabili a ciascuna tecnologia.
Terna possiede il più grande know-how in materia di grid scale energy storage a livello mondiale con circa dodici tecnologie sperimentate, . A Codrongianos, ne stanno sperimentando sette, la società ha già completato l’installazione e la messa in esercizio dei primi 7,4 MW di sistemi di accumulo e altri 0,4 MW di capacità sono in costruzione, come previsto dalla società nel Piano di Difesa della rete elettrica.
Compensatori sincroni, più sicurezza e risparmi per il sistema elettrico.
La Sardegna ha anche il primato di ospitare i primi due compensatori sincroni di Terna specificamente studiati per una migliore gestione delle fonti rinnovabili. Il sito di Codrongianos è stato scelto per la sua posizione strategica rispetto all’obiettivo di regolazione e stabilizzazione della rete sarda che queste complesse apparecchiature sono chiamate a svolgere. Si tratta di macchine di grandi dimensioni, da 320 tonnellate ciascuna, prodotte da Ansaldo Energia collegate alla rete che consentono di migliorare la stabilità e la sicurezza della rete elettrica nella regione.
Come nel resto dell’Italia, anche in Sardegna lo sviluppo delle fonti rinnovabili – che per loro natura sono intermittenti, e quindi non programmabili, e creano sbalzi di tensione – sta interessando in modo sempre più significativo la rete elettrica locale: questo può comportare, soprattutto in reti poco interconnesse tra loro o poco estese (ed è il caso della Sardegna) difficoltà nella loro gestione e nella regolazione della tensione. I compensatori rappresentano così una valida soluzione per ovviare a queste problematiche garantendo maggiore capacità di regolazione e migliore flessibilità di esercizio, e quindi aumentare la funzionalità della rete, evitando sbalzi di tensione e assicurando minori perdite di energia e situazioni critiche.
Alcune considerazioni finali
La Sardegna svolge attualmente e continuerà a svolgere un ruolo importante nella rivoluzione energetica in atto. Concorrono naturalmente diversi fattori, la posizione geografica al centro del Mediterraneo, le condizioni climatiche con grande disponibilità di fonti energetiche rinnovabili (solare ed eolico in particolare). C’è una grande disponibilità di progetti e una mole notevole di finanziamenti disponibili per realizzarli. Alcuni fattori potenzialmente limitanti sono rappresentati da una insufficiente attenzione della classe politica regionale, sostanzialmente poco presente nel governare dei processi in atto. Anche l’attenzione dell’opinione pubblica è poco evidente e molto influenzata dalla diffusione di opinioni molto critiche soprattutto quando si parla di produzione di energia, opinioni che risentono evidentemente di lacune comunicative. Alcuni esempi sui quali approfondiremo l’analisi con successivi interventi.
Si contrappongono strumenti di intervento molto efficaci quali la costituzione delle Comunità Energetiche con i processi di produzione di energia elettrica da utilizzare e diffondere nei mercati. Pare un’ipotesi strategica poco razionale. L’autosufficienza energetica dei nostri comuni (con Comunità Energetica) non è in contrasto con il fatto che la Sardegna possa produrre e distribuire energia elettrica al di fuori del perimetro isolano diventando un hub internazionale. Altro discorso è quello che riguarda la doverosa vigilanza e il contrasto contro le speculazioni malavitose condotte da organizzazioni affaristiche senza scrupoli nell’ambito della valorizzazione delle risorse energetiche alternative.
Analogamente appare contraddittoria la giusta critica all’eccessiva diffusione delle pale eoliche nel territorio alla quale si accompagna il rifiuto aprioristico dell’installazione di impianti eolici nel mare, sostenendo il luogo comune che imbruttirebbero le spiagge. E’ notorio che normalmente tali impianti sono installati a una distanza dalle coste che va dai venti ai quaranta chilometri, una distanza tale da renderli invisibili dalla terraferma. Taccio volutamente su alcune interpretazioni fantapolitiche degli investimenti in atto in ambito energetico fatte proprie da pseudo inchieste televisive che leggono quanto accade in termini di ulteriore “colonizzazione” del territorio da parte di “poteri finanziari occulti” che sarebbero portatori di fantasiosi disegni politici segreti per rubarci il vento e il sole di Sardegna.
(Vanni Tola)
Salviamo il pianeta Terra
Acqua, dieci anni perduti
Guglielmo Ragozzino
Sbilanciamoci! 28 Maggio 2021 | Sezione: Ambiente, Apertura
Dieci anni fa il “popolo dell’acqua pubblica” vinse i due referendum del 12 e 13 giugno 2011. Un grande impegno rimasto disilluso, un’occasione mancata su cui serve fare chiarezza mentre la sete del mondo aumenta e i governanti si travestono da Greta.
Ricordo e rimpianto di una buona idea
Una premessa. Sommaria geografia dell’acqua
I numeri dell’acqua sono incerti. L’acqua presente nel pianeta Terra sarebbe di 1,4 miliardi di chilometri cubi, o di 1,385 miliardi per la precisione. Quasi tutto mare, acqua salata. L’acqua evapora per il calore del sole, dal mare e dai continenti emersi, forma vapore acqueo, nubi, per poi precipitare sotto forma di pioggia o di neve sulla terra o sull’oceano. La pioggia, la neve, il ghiaccio, dovuto al freddo, non sanno di sale. In quantità assoluta l’acqua non cambia, in un’unica Terra, solo che gli oceani – i mari – coprono la maggior parte della superficie terrestre e ricevono quindi la maggior parte della pioggia che cade e diventa salata, mischiandosi all’acqua di mare,salata, mentre la riserva solida di acqua dolce – ghiacciata – subisce l’attacco dovuto all’effetto serra con il connesso riscaldamento globale. I ghiacciai, sciolti dal calore, diventano fiumi e finiscono in mare e la loro acqua da dolce diventa salata. L’effetto è duplice: diminuisce la riserva (acqua dolce ghiacciata) e aumenta il livello dell’acqua negli oceani e nei mari , coprendo molte città e attività costiere sulle sponde.
L’acqua dolce o potabile equivale al due e mezzo, tre per cento al massimo diviso tra calotte glaciali (e ghiacciai) al settanta per cento scarso, acqua del sottosuolo al trenta per cento scarso. Le due scarsità, sommate insieme, tralasciano un altro 0,9 per cento che costituisce le acque superficiali formate da laghi, fiumi e via dicendo. Nel dettaglio, l’acqua dolce superficiale è per l’87 per cento costituita da laghi, per l’11per cento da stagni e per il 2 per cento da fiumi. Ridicola e strana la storia: è per questo 2% di uno 0,9%, di un 3% per cento di acqua che si fanno le guerre, nel corso dei secoli. In totale, è in gran parte irraggiungibile per l’uso comune l’acqua potabile, essendo ai Poli, in Antartide, in Groenlandia, sotto forma di ghiaccio. L’acqua dolce disponibile è dunque quella dei fiumi, dei laghi, delle paludi, delle nevi perenni e dei ghiacciai accessibili. Una grande riserva è nel sottosuolo, dove si è accumulata nel corso dei secoli e dei millenni.
La popolazione umana ha imparato nei millenni a raggiungere l’acqua sotterranea, con una modalità che chiameremo, in forma sommaria, pozzo. L’uso umano, per l’acqua potabile del Pianeta a disposizione dei viventi sarebbe utilizzata per il 60-70 per cento in agricoltura, per il 20-25 nelle attività di trasformazione, ricomprese tutte sotto la voce industria, mentre il resto sarebbe dedicato al consumo immediato, quello di bere, cucinare, pulire, lavare e lavarsi, ecc. Sono però suddivisioni incerte da valutare e che cambiano al cambiare delle organizzazioni sociali nel corso del tempo.
Il consumo totale di acqua dolce sarebbe stato di cinquemila chilometri cubi l’anno a fine secolo 2000, di cui la metà soltanto utilizzati direttamente e l’altra metà dispersa. Siccome Terra è un involucro chiuso, l’acqua dispersa non è perduta; non può che entrare in un circuito idrico più o meno lungo e in gran parte incontrollabile, svolto per vie traverse; basta aspettare, basta applicare tecniche adatte… però. Se i numeri correnti sono incerti, la progressione nei consumi in aumento lo è molto meno. Si è stabilito che l’aumento nella captazione di acqua potabile – il bisogno, la sete – cresce più rapidamente dell’aumento di popolazione: mentre la popolazione umana è cresciuta di quattro volte nel secolo scorso – da un miliardo e mezzo a sei miliardi di persone – e aumenterà forse di un’altra metà nel secolo presente, la domanda di acqua potabile potrebbe triplicare o forse quadruplicare nel corso di questo 22mo secolo. Si profilano dunque problemi idrici difficili da risolvere per gli anni avvenire. L’acqua non s’inventa: occorre far buon uso di quella che c’è. Mitigazione, adattamento o che altro?
Mitigare qui vuol dire ridurre il carico dell’effetto serra che agisce sullo scioglimento dei ghiacci ciò che in ultimo termine significa il cambiamento di stato: dall’acqua gelata e senza sale in acqua più calda, marina e salata; Lo scioglimento dei ghiacci di Antartide e Groenlandia avrebbe l’effetto. prima indicato, di far crescere il livello degli oceani e dei mari interni, sommergendo molte città e attività umane costruite presso i mari. Per mitigare in questo caso si deve sviluppare una serie di attività complesse e costose. Piantare alberi, riducendo-riassorbendo l’emissione di anidride carbonica che è alla base dell’effetto serra. Si può cercare di trattenere l’acqua dei fiumi, allargando i bacini e i depositi naturali di acqua dolce. Un riassunto accurato di quel che occorre fare in termini di adattamento lo si trova ne libro di Bill Gates “Clima – Come evitare un disastro”. Un obiettivo facile da raccontare e difficile da perseguire; più difficile ancora è però cambiare le nostre abitudini, il nostro modo di vivere, di mangiare, di correre dietro ai piaceri più leciti, cambiando le cose, da buone cose dolci in cose passabilmente salate. Servirà un industria che funzioni anche con un raffreddamento salato cioè usando acqua che svolga la funzione prevista sui macchinari non essendo necessariamente potabile, nel tessile, nell’alimentare, nel settore chimico, nel raffreddamento delle centrali elettriche e così via. Poi c’è l’agricoltura. Sembra che in Israele, nel secolo scorso abbiano provato a fa crescere pomodori irrorando le piante con acqua discretamente salata: un buon risultato dal punto di vista della coltivazione e uno pessimo badando ai sapori. Ma, “C’est ne que un début, continuons à manger“.
Le coltivazioni possono sopportare modifiche che prevedano un uso ridotto d’inaffiamento di pioggia artificiale con un uso sapiente di semenze e di selezione di prodotti, di luoghi, di soluzioni temporali che assumano anche o soprattutto questo tema del risparmio di acqua dolce. C’è inoltre la possibilità di mettere da parte un’agricoltura troppo dispendiosa in termini di irrigazione preferibile a favore di altre produzioni meno assetate o più secche.
L’adattamento riguarda poi la possibilità di riutilizzare l’acqua dolce sporcata nell’uso abituale. Oggi non esiste unsa tecnica diffusa, disponibile per riutilizzare a breve giro l’acqua inquinata per l’uso civile o per irrigare i campi e innaffiare i giardini; oggi si manda tutto al fiume, quindi al mare l’acqua usata, tanto per togliersela di torno. Anche il fiume, però fa parte della nostra geografia; la sua acqua è la nostra acqua. Questo è valido in generale, a livello di Terra, ma vale ancor prima a livello di territorio. Forse si potrebbe fare di meglio.
Dieci anni dopo
Scadono dieci anni dal referendum italiano sull’acqua. Come molti ricorderanno i referendum che si occupavano di acqua erano in realtà due e inoltre in quell’occasione (12-13 giugno 2011) si votava anche sul nucleare e sulla responsabilità dei ministri. I temi sull’acqua rispondevano a una convinzione diffusa, da ratificare con la legge popolare. L’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce. Come il solito, il voto ammesso da Cassazione e Corte costituzionale non era su affermazioni così sintetiche e precise, ma su particolarità della legislazione precedente che al tempo stesso potevano essere attaccate con un referendum abrogativo rendendo impraticabile (forse) il permesso-divieto della legge. In realtà i titolari dei diritti e delle leggi – governi, parlamenti – non amano che la gente comune si immischi con le loro pratiche e le loro scelte, complicate e spesso astruse, con intenti che restano coperti o addirittura segreti. Così avviene talvolta che una scelta precisa come l’abolizione del Ministero dell’agricoltura, chiesta con un referendum e fatta propria con un voto di maggioranza e da molti milioni di persone, contro una quasi inesistente opposizione, si trasformi inopinatamente nella nascita del Ministero per le Produzioni agricole. Per essere precisi: con effetto del referendum del 18-19 aprile 1993, il MAF Ministero per l’agricoltura e le foreste, antichissimo ministero dei tempi sabaudi, abolito dal refendum è rinato per effetto della legge di applicazione 491-1993 e si è trasformato in Miraaf, Ministero per le risorse agricole alimentari e forestali.
I referendum sull’acqua bene comune andavano a colpire l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi“) che stabiliva che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, dovessero essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta “in house“, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento. L’altro referendum idrico puntava a colpire il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale“), che stabiliva come nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” pagava in bolletta dovesse essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.
Il referendum “contro la privatizzazione dell’acqua” nasce da una grande mobilitazione popolare, un vero record di partecipazione: 1 milione e 400 mila firme (ne bastavano 500 mila) furono raccolte da marzo a luglio 2010 dai comitati promotori. Dire “privatizzazione dell’acqua” è però fuorviante: come si è visto, uno degli articoli di legge oggetto dei referendum si riferisce a tutti i servizi pubblici di rilevanza economica, ossia quelli per i quali sono previsti una bolletta o un biglietto a prezzo controllato o un ticket. Rientrano in questa nozione di servizi pubblici di rilevanza economica l’acqua, i trasporti pubblici, lo smaltimento dei rifiuti, la refezione scolastica e altri ancora, in contrapposizione ad altri servizi, sociali e assistenziali, che paghiamo invece con le tasse.
È giusto che servizi essenziali di pubblica utilità possano essere gestiti anche da aziende private anziché esclusivamente da consorzi o enti pubblici locali? E se anche venisse abolita – col secondo quesito referendario – la remunerazione del capitale investito, ossia quel 7% di guadagno fissato per legge per chi investe nei servizi idrici, vuol dire che le nostre bollette dell’acqua saranno meno care? O il servizio sarebbe meno efficiente? Con sprechi ulteriori?
Per precisare il significato legale dei referendum torneremo rapidamente alla loro grammatica, servendoci delle spiegazioni di allora:
Quesito referendario n° 1: “Modalità di affidamento e gestione dei servizi pubblici di rilevanza economica” .
Il quesito chiede di abrogare o confermare l’articolo 23bis della legge 133 del 2009 (“Legge Ronchi”) che stabilisce che i gestori dei servizi locali a rilevanza economica, come il servizio idrico integrato, i trasporti pubblici e lo smaltimento dei rifiuti, debbano essere scelti dall’ente locale attraverso una gara d’appalto, riducendo la possibilità dell’affidamento diretto a una società pubblica cosiddetta in house, ossia una società con gestione aziendale autonoma ma capitale interamente pubblico e partecipata dall’ente locale di riferimento.
L’affidamento diretto è tecnicamente ancora possibile, ma deve essere esplicitamente motivato dall’ente locale; l’articolo impone anche che tutte le attuali gestioni pubbliche in house cessino entro dicembre 2011 a meno che non selezionino tramite gara un partner privato a cui affidare non meno del 40% del capitale.
Ai gestori a capitale misto pubblico e privato quotati in borsa l’articolo impone che la quota pubblica massima venga ridotta al 40% entro giugno 2013 e al 30% entro dicembre 2015, a meno che non decidano di partecipare a una gara per un nuovo affidamento del servizio che già gestiscono.
Quesito referendario n. 2: “Determinazione della tariffa del servizio idrico integrato in base all’adeguata remunerazione del capitale investito”
Il quesito chiede di abrogare o confermare il comma 1 dell’articolo 154 della legge152 del 2006 (“Testo unico ambientale”), che stabilisce che nel costo finale dei servizi idrici che il “cittadino-utente” paga in bolletta debba essere inclusa la remunerazione del capitale investito, fissata per legge al 7%.
La “remunerazione” comprende sia gli interessi di eventuali prestiti chiesti a banche o istituzioni pubbliche sia il guadagno d’impresa.
Lo straordinario successo popolare dei referendum non può essere spiegato solo con la campagna di propaganda e di raccolta dei consensi. C’è dell’altro, se si vuole riflettere su quelle esaltanti giornate, e comprenderne il significato. “Fukushima” da una parte, l’antipatia per i ministri dall’altra, hanno contribuito al successo elettorale nel referendum sull’acqua. Se ben ricordo, il pubblico votante e le persone che prima ancora avevano fatto campagna per raccogliere i voti, erano spinti anche dalla preoccupazione nucleare – il caso della centrale giapponese colpita dallo tsunami – che era un argomento decisivo contro quel modello energetico troppo dispotico – e qui c’era l’occasione puntuale per respingere il pericolo. La possibilità di mettere sotto accusa i ministri – Berlusconi e i suoi – poco stimati o invisi a sinistra e più in generale nella popolazione, era di nuovo un modo franco e aperto per dire “Basta!” mediante una legge per di più popolare, e fare così giustizia di tutti gli abusi e la corruzione, oltretutto cogliendo un’occasione irripetibile. La questione politica centrale: “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce“, aveva quindi la fortuna di trovare i milioni di voti, liberi voti, di coloro che preoccupati per il pericolo nucleare, indignati contro i privilegi e i soprusi dei politici si stavano muovendo insieme. Diciamola tutta: per l’acqua soltanto non sarebbero andati in così tanti – a metà giugno! – a votare.
Il 12-13 giugno va al voto il 57 per cento degli aventi diritto, compresi gli “oriundi“, chiamando così gli italiani con residenza all’estero, cioè quelli che avrebbero dovuto o potuto votare all’estero. Il 95% dei votanti è per il sì, con poche differenze da un referendum all’altro. Viene in mente Marco Pannella, che per decenni ha sostenuto l’opportunità di proporre un buon numero di referendum in contemporanea, cercando di spiegare i vantaggi di tale condotta: sostenere un referendum con vari altri e raggiungere così il risultato per tutti; con il rischio però di perdere tutto per l’antagonismo organizzato nei confronti di uno soltanto (tipo referendum sulla caccia che nel giugno 1990 urtando qualche intransigenza particolare non ottennero il quorum, sprecando il 92% dei sì ottenuti). In altre parole, in altro contesto, una forza politica che volesse assumere democraticamente i poteri, non potrebbe limitarsi a un’unica proposta, per dirompente che fosse, ma dovrebbe preferire di presentarne un complesso per consentire al pubblico di vedere, di sperare in un grande cambiamento; di farsi un’idea della politica complessiva dei ”nuovi”. In effetti il movimento 5stelle, scelse, a fianco o dietro la prima stella – l’acqua per tutti – altre quattro stelle che coprivano altri decisivi spazi della politica (ambiente, trasporti, connettività, sviluppo). E raccolse molti voti.
La delusione seguita all’esito vittorioso del referendum è stata grande; Se il referendum fosse colato a picco ci si sarebbe fatta una ragione. Il principio “l’acqua è di tutti; l’acqua non è una merce” è stato invece subito disatteso dalle autorità che avrebbero dovuto rispettarlo e farlo rispettare. Il risultato vero è stato che alcune grandi società semipubbliche, cresciute in lunghi anni per gestire l’acqua nelle città e nei comuni minori, si sono ancora ingrandite, fondendosi e scalandosi tra di loro e hanno fatto giochi finanziari di ogni tipo, appoggiandosi alle città maggiori e facendosi sponsorizzare in fine da esse , con amministrazioni ansiose di avere denaro da spartire e spendere per quadrare i bilanci e premiare funzionari fedeli e di ricavarle dalla Borsa, utilizzando (o trascurando) l’esito del referendum. L’idea era di guadagnare con l’acqua e ancora di più con le azioni da vendere al pubblico, garantendo un dividendo azionario più ancora di una graditissima sicurezza idrica. Prevalse così una concezione diversa, opposta, del significato sociale e politico dell’acqua, al di là delle semplici questioni ambientali. Le società vincenti hanno ripetuto: l’acqua costa e noi ci impegniamo a darla a tutti, ciò che è assai complicato; va pagata al giusto prezzo e il giusto prezzo lo stabiliamo noi che siamo ingegneri e amministratori. Certo, c’è la povera gente e noi ne teniamo conto. Chi non ha di che pagare – al di là dei sotterfugi e degli inganni che scopriremo – avrà il necessario per sopravvivere a carico della cassa generale. E ancora: non è vero che l’acqua è di tutti, questa è una frase fatta che serve a far sognare i bambini. Noi che siamo gente capace, sappiamo che in verità l’acqua è di nessuno (res nullius, come dicevano gli antichi) e l’usa chi se la prende, la tratta, la paga in qualche forma, la valorizza, la distribuisce e dopo di fatto ne fa quello che vuole – forse la sanifica, forse no – con il limite di non costringere nessuno alla sete.
La delusione è stata grande. Anche fuori d’Italia. La nostra Italia era il primo grande paese che risolveva il problema idrico con un modello democratico di soluzione. Tutti gli altri paesi, ricchi e meno ricchi, avrebbero studiato, imitato, combattuto per l’acqua all’italiana, cercato di copiare; erano pronti a farlo. L’Italia era capace di cambiare, di ridare l’acqua al popolo, di farne una ricchezza abile, sicura, generosa. La decisione, referendaria, con un così formidabile consenso, spingeva tutti gli altri popoli, ricchi e meno ricchi che fossero, a provare anche loro. Da più parti ci si aspettava di imparare qualcosa dall’esperienza italiana. Dal risultato del referendum sarebbe uscito un progetto innovativo, buone politiche per tutte le borse, per tutte le latitudini…. Il risultato trionfale, così atteso, si trasformò ben presto nel suo contrario: a darsi da fare per fare lo stesso furono in un numero ridotto di movimenti e popoli assetati. Si disse che al solito le grandi compagnie multinazionali dell’acqua avevano stretto i freni. Avevano dettato i comportamenti per tutti. Esse erano più forti di noi; a maggior ragione più forti di tutti. Così il caso del nostro referendum, di cui eravamo tanto orgogliosi, apparve ben presto come uno scherzo, una recita da parte di quei soliti commedianti degli italiani…
Non finisce qui
[segue]
Luci di carità in tempi di pandemìa
Fratelli tutti e Laudato si’: strumenti per la costruzione di un mondo migliore.
Riflessioni su alcune tematiche “laiche” così come trattate dalle due encicliche: IL LAVORO, POLITICA ed ECONOMIA, BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA*
di Franco Meloni
PREMESSA
L’enciclica “Fratelli tutti. Sulla fraternità e l’amicizia sociale” ci fa sentire partecipi della grande famiglia umana, abitanti della Terra, casa comune, che Papa Francesco ha ben descritto nella precedente enciclica Laudato si’. I due documenti si integrano e si completano, fornendoci strumenti per la costruzione di un mondo migliore. Ma non cerchiamo in essi ricette preconfezionate: le scelte in definitiva competono a noi, come singoli, come membri di aggregazioni comunitarie, e, per quanti lo sono, come rappresentanti istituzionali.
Veniamo al tema, la fraternità: è un valore assoluto, di cui disponiamo tutti, almeno in teoria, senza averla in nessun modo conquistata e meritata. Per i credenti “la nostra volontà non c’entra: siamo fratelli non perché lo vogliamo, ma perché siamo figli di Dio che è, di tutti noi, padre” (1). Anche i non credenti, almeno molti tra loro, pur senza coinvolgere Dio, ci credono! (2) Tanto è che la fraternità costituisce il terzo grande valore della triade della Rivoluzione francese «Libertà, uguaglianza e fraternità», bandiera del pensiero laico (3).
Se siamo fratelli e sorelle, come siamo, spetta a ciascuno di noi comportarci di conseguenza, per godere effettivamente di questo status naturale. Ma il mondo non va esattamente in tale giusta direzione. A moltissime persone su questa Terra non è riconosciuto il diritto alla fraternità. Un virtuoso programma mondiale dovrebbe tendere a renderlo effettivo, rimuovendo tutte le cause che lo impediscono.
E, invece… Addirittura nel tempo, soprattutto nel nostro tempo, la fraternità è stata quasi dimenticata. Perché? “Forse la causa sarà stata una confusione – errata confusione – tra fraternità e uguaglianza sociale. E dunque, fallite le forme di realizzazione storicamente date di tale uguaglianza (fallito cioè il cosiddetto socialismo reale), si è preferito non pensarci più. Qualunque sia la causa, resta il fatto che si è trattato – e si tratta – di una disattenzione imperdonabile” (1bis).
In sostanza così pensa anche il Papa che nella sua enciclica esalta la fraternità, sostenendone l’importanza fino a capovolgere la gerarchia tra i tre valori, dando alla fraternità la funzione di dare senso agli altri due (4): “La fraternità non è solo il risultato di condizioni di rispetto per le libertà individuali, e nemmeno di una certa regolata equità. (…) ha qualcosa di positivo da offrire alla libertà e all’uguaglianza. Che cosa accade senza la fraternità consapevolmente coltivata, senza una volontà politica di fraternità, tradotta in un’educazione alla fraternità, al dialogo, alla scoperta della reciprocità e del mutuo arricchimento come valori? Succede che la libertà si restringe, risultando così piuttosto una condizione di solitudine, di pura autonomia per appartenere a qualcuno o a qualcosa, o solo per possedere e godere. Questo non esaurisce affatto la ricchezza della libertà, che è orientata soprattutto all’amore. Neppure l’uguaglianza si ottiene definendo in astratto che «tutti gli esseri umani sono uguali», bensì è il risultato della coltivazione consapevole e pedagogica della fraternità” [FT 103, 104]. La fraternità dimenticata da tutti? Sì, ma per fortuna non dai poeti – ricordate la poesia Fratelli di Giuseppe Ungaretti? (5) – e dagli artisti in generale. Un esempio lo fornisce lo stesso Papa quando nell’enciclica cita un verso della canzone Samba delle Benedizioni di Vinicius de Moraes [FT 215], che rende magnificamente l’invito a far crescere una cultura dell’incontro, laddove si pratica la fraternità: «La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita». E prosegue il Papa nella proposizione di un “modello di riferimento di società aperta ed inclusiva” ben rappresentato dalla figura geometrica del poliedro “che ha molte facce, moltissimi lati, ma tutti compongono un’unità ricca di sfumature, perché «il tutto è superiore alla parte». Il poliedro rappresenta una società in cui le differenze convivono integrandosi, arricchendosi e illuminandosi a vicenda (…). Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno è superfluo” [FT 215 e LS 237] (6).
Tornando alla fraternità: dunque è un dono e personalmente ne sento l’afflato consolatorio nella sua pratica negli ambienti comunitari, ma ho la consapevolezza che si tratti di un privilegio, considerato che molta parte dell’umanità non ne può godere i benefici, in tutta la loro possibile estensione, a causa della difficile, per tanti drammatica, situazione in cui versa il nostro Pianeta, sia sul versante ambientale, sia su quello sociale ad esso strettamente connesso. Non esiste benessere della Terra senza che sussista contemporaneamente quello dei suoi abitanti, nell’accezione di “ecologia integrale”, concetto profondo dell’enciclica Laudato si’, che, come mi piace rimarcare, trova una “corrispondenza laica” nell’Agenda Onu 2030 (7).
Rifletto sul quadro che l’enciclica Laudato si’ mostra con crudo realismo: 1) il Pianeta è in pericolo, ma comunque sopravvivrà; chi rischia l’estinzione è l’umanità intera con gli altri esseri viventi, travolta da sconvolgimenti ambientali che non si vogliono adeguatamente contrastare; 2) nonostante la pandemia, purtroppo ancora in atto, continuano le guerre in tutto il mondo, una «terza guerra mondiale a pezzi», mentre crescono dappertutto le diseguaglianze e le povertà in un contesto mondiale “dominato dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllato dagli interessi economici miopi”.
E cerco allora possibili vie d’uscita, non solamente sul piano dell’impegno intellettuale, ma concretamente sulla modifica dei comportamenti (la “conversione ecologica”) perché mi sento pienamente coinvolto e perfino in qualche misura responsabile dell’attuale situazione, anche con riferimento alle realtà di impegno civile in cui sono inserito.
Nessuno deve tirarsi indietro per piccolo possa essere il contributo di ciascuno.
Ci aiutano in questa impresa proprio le due ultime encicliche di Papa Francesco.
Individuo alcune connessioni tra le stesse che mi aiutino a comprendere la situazione e che m’illuminino rispetto al “che fare?”. E’ un percorso che mi/ci impegna come cattolici, ma che può coinvolgere tutti. Proprio secondo gli intendimenti del Papa: [FT 6] “Consegno questa Enciclica sociale come un umile apporto alla riflessione affinché (…) siamo in grado di reagire con un nuovo sogno di fraternità e di amicizia sociale che non si limiti alle parole. Pur avendola scritta a partire dalle mie convinzioni cristiane, che mi animano e mi nutrono, ho cercato di farlo in modo che la riflessione si apra al dialogo con tutte le persone di buona volontà”. Intendimenti ormai nella consuetudine dei Papi, da Giovanni XXIII (Pacem in terris, 1963) in poi.
L’enciclica “Fratelli tutti” richiama esplicitamente la “Laudato si’” in 23 note, sulle quali opero un’arbitraria selezione, riconducendo i contenuti a tre grandi tematiche, che schematizzo nei titoli seguenti: IL LAVORO, POLITICA ed ECONOMIA, BENI COMUNI e PROPRIETA’ PRIVATA.
IL LAVORO
Alla questione il Papa dà molta enfasi, situandola nel solco tradizionale della Dottrina sociale della Chiesa, evitando di portarsi avanti nel dibattito sul rapporto tra lavoro e reddito, che pur aveva trattato in un precedente sorprendente intervento (8)
Dice il Papa [FT 162]: “Il grande tema è il lavoro. Ciò che è veramente popolare – perché promuove il bene del popolo – è assicurare a tutti la possibilità di far germogliare i semi che Dio ha posto in ciascuno, le sue capacità, la sua iniziativa, le sue forze. Questo è il miglior aiuto per un povero, la via migliore verso un’esistenza dignitosa. Perciò insisto sul fatto che «aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte a delle emergenze”. Ecco il passaggio in cui il Papa non insiste sulle teorie del «reddito universale di base» se non nel proporlo per le fasi emergenziali. Sostiene infatti che “Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro. Per quanto cambino i sistemi di produzione, la politica non può rinunciare all’obiettivo di ottenere che l’organizzazione di una società assicuri ad ogni persona un modo di contribuire con le proprie capacità e il proprio impegno. Infatti, non esiste peggiore povertà di quella che priva del lavoro e della dignità del lavoro». In una società realmente progredita, il lavoro è una dimensione irrinunciabile della vita sociale, perché non solo è un modo di guadagnarsi il pane, ma anche un mezzo per la crescita personale, per stabilire relazioni sane, per esprimere sé stessi, per condividere doni, per sentirsi corresponsabili nel miglioramento del mondo e, in definitiva, per vivere come popolo“. Riprende pertanto quanto scritto nella LS [128]: “Siamo chiamati al lavoro fin dalla nostra creazione. Non si deve cercare di sostituire sempre più il lavoro umano con il progresso tecnologico: così facendo l’umanità danneggerebbe sé stessa. Il lavoro è una necessità, è parte del senso della vita su questa terra, via di maturazione, di sviluppo umano e di realizzazione personale.(…) Il vero obiettivo dovrebbe sempre essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro”. Il Papa ha ben presente le radicali trasformazioni del lavoro e mette in guardia da pericolose derive, nel momento in cui “l’orientamento dell’economia ha favorito un tipo di progresso tecnologico finalizzato a ridurre i costi di produzione in ragione della diminuzione dei posti di lavoro, che vengono sostituiti dalle macchine. È un ulteriore modo in cui l’azione dell’essere umano può volgersi contro sé stesso. La riduzione dei posti di lavoro «ha anche un impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del «capitale sociale», ossia di quell’insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile. In definitiva «i costi umani sono sempre anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani». Rinunciare ad investire sulle persone per ottenere un maggior profitto immediato è un pessimo affare per la società”.
Ancora sulla FT [168]: “ Il mercato da solo non risolve tutto, benché a volte vogliano farci credere questo dogma di fede neoliberale. Si tratta di un pensiero povero, ripetitivo, che propone sempre le stesse ricette di fronte a qualunque sfida si presenti. Il neoliberismo riproduce sé stesso tale e quale, ricorrendo alla magica teoria del «traboccamento» o del «gocciolamento» – senza nominarla – come unica via per risolvere i problemi sociali (9). Non ci si accorge che il presunto traboccamento non risolve l’inequità, la quale è fonte di nuove forme di violenza che minacciano il tessuto sociale. Da una parte è indispensabile una politica economica attiva, orientata a «promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale», perché sia possibile aumentare i posti di lavoro invece di ridurli. La speculazione finanziaria con il guadagno facile come scopo fondamentale continua a fare strage. D’altra parte, «senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia che è venuta a mancare». La fine della storia non è stata tale, e le ricette dogmatiche della teoria economica imperante hanno dimostrato di non essere infallibili. La fragilità dei sistemi mondiali di fronte alla pandemia ha evidenziato che non tutto si risolve con la libertà di mercato e che, oltre a riabilitare una politica sana non sottomessa al dettato della finanza, «dobbiamo rimettere la dignità umana al centro e su quel pilastro vanno costruite le strutture sociali alternative di cui abbiamo bisogno»“.
Riprendendo la LS [129]: “ Perché continui ad essere possibile offrire occupazione, è indispensabile promuovere un’economia che favorisca la diversificazione produttiva e la creatività imprenditoriale. Per esempio, vi è una grande varietà di sistemi alimentari agricoli e di piccola scala che continua a nutrire la maggior parte della popolazione mondiale, utilizzando una porzione ridotta del territorio e dell’acqua e producendo meno rifiuti, sia in piccoli appezzamenti agricoli e orti, sia nella caccia e nella raccolta di prodotti boschivi, sia nella pesca artigianale. Le economie di scala, specialmente nel settore agricolo, finiscono per costringere i piccoli agricoltori a vendere le loro terre o ad abbandonare le loro coltivazioni tradizionali. I tentativi di alcuni di essi di sviluppare altre forme di produzione, più diversificate, risultano inutili a causa della difficoltà di accedere ai mercati regionali e globali o perché l’infrastruttura di vendita e di trasporto è al servizio delle grandi imprese. Le autorità hanno il diritto e la responsabilità di adottare misure di chiaro e fermo appoggio ai piccoli produttori e alla diversificazione della produzione. Perché vi sia una libertà economica della quale tutti effettivamente beneficino, a volte può essere necessario porre limiti a coloro che detengono più grandi risorse e potere finanziario. La semplice proclamazione della libertà economica, quando però le condizioni reali impediscono che molti possano accedervi realmente, e quando si riduce l’accesso al lavoro, diventa un discorso contraddittorio che disonora la politica. L’attività imprenditoriale, che è una nobile vocazione orientata a produrre ricchezza e a migliorare il mondo per tutti, può essere un modo molto fecondo per promuovere la regione in cui colloca le sue attività, soprattutto se comprende che la creazione di posti di lavoro è parte imprescindibile del suo servizio al bene comune”.
Da quanto messo in evidenza, risulta esplicita la critica del Papa (ripetuta in molte occasioni) alle teorie economiche dominanti, quelle di stampo neoliberista, che mettono al centro la realizzazione del profitto, piuttosto che del benessere delle persone, generando privilegi e ricchezze per pochi, forti diseguaglianze e povertà per molti. Per converso il Papa incoraggia lo studio e la pratica di economie diverse, quali quelle cosiddette circolari o che si rifanno ai principi dell’economia civile. Afferma Papa Francesco in altra circostanza (10): “l’economia, nel suo senso umanistico di “legge della casa del mondo”, è un campo privilegiato per il suo stretto legame con le situazioni reali e concrete di ogni uomo e di ogni donna. Essa può diventare espressione di “cura”, che non esclude ma include, non mortifica ma vivifica, non sacrifica la dignità dell’uomo agli idoli della finanza, non genera violenza e disuguaglianza, non usa il denaro per dominare ma per servire (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 53-60)”.
[segue]
Per una Costituzione della Terra
di Luigi Ferrajoli, su CRS.
L’umanità si trova oggi di fronte ad emergenze e a sfide globali che mettono in pericolo la sua stessa sopravvivenza: le devastazioni ambientali e il rischio di una prossima inabitabilità del pianeta, la minaccia nucleare generata da migliaia di testate atomiche, la crescita della povertà e la morte per fame o per malattie non curate di milioni di esseri umani, le ondate migratorie di masse crescenti di persone che fuggono dalla miseria, dagli sconvolgimenti climatici, dalle guerre civili e dalle persecuzioni politiche. Tutto questo è ormai da molti anni sotto gli occhi di tutti. Anche di quanti ne sono responsabili, dai governanti ai grandi attori dell’economia mondiale. Eppure continuiamo tutti a comportarci come se fossimo le ultime generazioni che vivono sulla Terra.
Non basta quindi denunciare. Al pessimismo paralizzante delle diagnosi è necessario opporre una risposta politica e istituzionale all’altezza delle sfide globali. Questa risposta non può che consistere nell’imposizione di limiti e vincoli ai poteri dei mercati globali e degli Stati sovrani. Per porre fine all’azione devastatrice della natura e garantire la pace, la dignità, i beni vitali e i diritti fondamentali di tutti gli esseri umani.
Da qui la proposta avanzata nell’appello del 27 dicembre 2019, poi ripresa dalla Scuola “Costituente Terra” che inaugurammo a Roma il 21 febbraio 2020 di un patto costituzionale tra tutti i popoli del mondo, in grado di garantire la loro convivenza pacifica e, prima ancora, le condizioni della vita sul nostro pianeta. Non si tratta di un progetto irrealistico. Al contrario è la sola risposta razionale e realistica alle terribili emergenze che ci minacciano. Come la pandemia del Covid-19 ha mostrato i diritti fondamentali e i principi della pace e tutela dell’ambiente sono assicurati, in un mondo interdipendente, solo dall’introduzione di garanzie di carattere pubblico e globale.
Il progetto di costituzionalismo sovranazionale offre un concreto obiettivo strategico alle lotte sociali contro le tante emergenze in atto. Tanto più necessario, quanto più siamo consapevoli delle difficoltà di realizzare risultati adeguati. Una Costituzione della Terra è il programma politico in grado di unificare le lotte di migliaia di associazioni in tutto il mondo: dalle battaglie civili in difesa dell’ambiente a quelle a sostegno della garanzia universale dell’acqua potabile, dai movimenti pacifisti per il disarmo nucleare alle mobilitazioni per l’uguale garanzia del diritto alla salute di tutti gli esseri umani, da quelle contro la povertà e la fame nel mondo fino alle lotte a sostegno dei diritti alla sopravvivenza oggi negati ai migranti.
Ci è sembrato opportuno, nei mesi di inerzia imposta dal Covid, scrivere una bozza di costituzione per facilitare il dibattito, gli emendamenti e le integrazioni sulle questioni normative più rilevanti. Su invito del Comitato esecutivo della Scuola “Costituente Terra” ho elaborato un testo di cento articoli, divisi in due parti: la prima formata dai principi di giustizia sostanziale, ovvero i fini e la ragion d’essere della Costituzione della Terra; la seconda dedicata all’organizzazione di istituzioni globali, previste dalla Costituzione quali strumenti idonei per la realizzazione delle finalità stabilite.
Una Costituzione della Terra è assai diversa da tutte le carte vigenti, per i problemi globali a cui deve rispondere, del tutto sconosciuti ad altre epoche, e per la tutela di nuovi diritti e nuovi beni vitali contro nuove aggressioni che richiedono sistemi di garanzie, ben più incisivi e complessi di quelli tramandati dalla nostra tradizione giuridica. Non mi nascondo il carattere all’apparenza utopistico di molte proposte. Ma lo scopo di questo progetto è di disegnare un modello-limite, quanto più possibile idoneo a garantire effettivamente i principi di giustizia proclamati nelle tante carte dei diritti che affollano i nostri ordinamenti.
Dopo una premessa nella quale viene parafrasato l’incipit della Carta delle Nazioni Unite, vi sono quattro titoli su: principi supremi, diritti fondamentali, beni fondamentali e beni illeciti. I principi supremi sono la ragion d’essere della Costituzione della Terra, i diritti fondamentali sono i diritti universali scritti nelle carte costituzionali avanzate: i diritti di libertà, i diritti sociali, i diritti politici e i diritti civili. I beni fondamentali e i beni illeciti sono le due novità di questa Costituzione, riguardando le sfide e le emergenze globali – umanitarie, ecologiche e nucleari – che il linguaggio individualistico dei diritti non sempre è in grado di affrontare.
I beni fondamentali sono beni vitali sottratti al mercato: i beni personalissimi, quali l’integrità del corpo umano e l’identità delle persone; i beni sociali, che includono tutti i farmaci salva-vita e i vaccini, la cui garanzia universale prevede l’esclusione della loro brevettabilità e, comunque, la possibilità, già prevista dall’articolo 31 dell’Accordo sui diritti di proprietà intellettuale (TRIPS), del loro uso, in caso di emergenza, senza il consenso dei loro titolari; i beni comuni – l’aria, l’acqua potabile, i grandi ghiacciai e le grandi foreste – garantiti da molteplici tutele, a cominciare dalla loro qualificazione come beni appartenenti a un demanio planetario. I beni illeciti sono i beni micidiali, che minacciano la vita delle persone e di popoli interi e dei quali, perciò, viene pattuito il divieto della produzione e/o del commercio e/o della detenzione: le armi atomiche, le armi da fuoco, i rifiuti tossici o comunque pericolosi, le energie non rinnovabili con le connesse emissioni di gas serra.
Anche la seconda parte è divisa in quattro titoli. Il primo definisce ruolo e competenze della Federazione della Terra quale istituzione aperta all’adesione di tutti gli Stati. Il secondo è dedicato alle istituzioni e alle funzioni globali di governo, già previste dalla Carta delle Nazioni Unite: l’Assemblea generale, il Consiglio di sicurezza, il Consiglio economico e sociale e il Segretariato. Ne è stipulata la democratizzazione politica, con il compito di dar vita alle istituzioni globali di garanzia e le funzioni di pubblica sicurezza internazionale e di governo sovranazionale dell’economia. A parte queste funzioni di carattere globale, è bene che le funzioni di governo restino prevalentemente in capo agli Stati nazionali, poiché la loro legittimità dipende dalla loro rappresentatività politica.
Ma per la costruzione di una sfera pubblica mondiale è decisivo creare istituzioni e funzioni globali di garanzia, legittimate a livello globale, anche in forma contro-maggioritaria, al fine di garantire l’ effettiva uguaglianza nei diritti, la tutela e l’accesso ai beni fondamentali, la protezione dai beni illeciti. Sono indicate nelle due sezioni del titolo terzo, la prima dedicata alle istituzioni e funzioni di garanzia primaria dei principi sanciti dalla Costituzione – pace, salute, alimentazione di base, istruzione, ambiente lavoro; la seconda dedicata alle istituzioni e funzioni di garanzia secondaria, ovvero di accertamento e riparazione giurisdizionale delle violazioni, per commissione o per omissione e, insieme, alla soluzione delle controversie internazionali.
Per un verso si prevede il rafforzamento di istituzioni esistenti, quali l’Oms, la Fao, l’Unesco e l’Organizzazione internazionale del lavoro, cosicché possa realizzarsi effettivamente la garanzia universale dei diritti sopra indicati. Vengono inoltre introdotte, o riformate, altre istituzioni di garanzia primaria in riferimento all’attuazione, ai principi e ai diritti inseriti nella Costituzione. È previsto un Consiglio internazionale per i diritti umani, che coordini l’organizzazione delle attività delle diverse istituzioni e distribuisca tra loro le risorse necessarie. Le istituzioni introdotte sono l’Agenzia dell’ambiente, con un demanio planetario dei beni naturali identificati come vitali, e il controllo dei divieti dei gas serra e dei rifiuti tossici e micidiali; l’Organizzazione delle prestazioni sociali, per la sussistenza delle persone; l’Agenzia dell’acqua, per l’accesso all’acqua potabile; e il Comitato delle comunicazioni digitali, a garanzia dei diritti umani che possano esserne lesi. È infine prevista a garanzia della pace, la stipula di patti per la messa al bando delle armi e per lo scioglimento – auspicato da Immanuel Kant – degli eserciti nazionali.
Quanto alle istituzioni di garanzia secondaria, sono estese le competenze della Corte internazionale di giustizia ad altre controversie nelle quali siano coinvolti gli Stati, ed è resa obbligatoria la sua giurisdizione; anche la giurisdizione della Corte penale internazionale è estesa alle gravi lesioni dei diritti di libertà da parte di regimi dispotici, alla produzione e al commercio illeciti di armi e alle violenze dirette a impedire l’esercizio dei diritti fondamentali, incluso il diritto di emigrare.
Le due nuove giurisdizioni sono ancora più importanti. La prima è la Corte costituzionale globale, il cui ruolo di controllo sull’invalidità di qualsiasi fonte normativa in contrasto con la Costituzione della Terra pone tali norme al vertice del sistema delle fonti, conferendole la rigidità, che è tratto distintivo del garantismo costituzionale.
La seconda è la Corte per “i crimini di sistema”, chiamata ad accertare le cause e a far cessare violazioni gravissime di diritti o di beni fondamentali, che non sono riconducibili alla responsabilità penale di persone determinate, ma dovute all’irresponsabilità, irrazionale, del sistema politico ed economico: quali le devastazioni ambientali, i rischi di conflitti nucleari, la crescita della fame e della povertà nelle periferie del mondo.
Il titolo quarto della parte seconda è dedicato alle istituzioni economiche e finanziarie. Si tratta di istituzioni già esistenti: la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale, istituiti nel 1945 a seguito degli accordi di Bretton Woods, e l’Organizzazione mondiale del Commercio, istituita nel 1995. Sono riformati i criteri di formazione dei loro organi dirigenti, il cui controllo da parte dei paesi più ricchi, ha reso inefficace, o ha addirittura capovolto, la finalità, prevista dai loro statuti, di promozione dello sviluppo dei paesi poveri e di riduzione degli squilibri economici. Vengono inoltre previsti un bilancio planetario e un fisco globale, con indicazioni dettagliate, onde renderle effettivamente vincolanti, sia delle quote di bilancio che delle aliquote fiscali. Il fisco globale si compone di svariate tassazioni di attività globali, a cominciare dall’uso fino ad oggi gratuito di beni comuni, e di un’imposizione fiscale fortemente progressiva sulle grandi ricchezze e sugli altissimi redditi. Il bilancio planetario consiste nell’assegnazione alle diverse istituzioni globali, e soprattutto a quelle di garanzia primaria, di quote minime delle entrate fiscali dirette a finanziarne le attività.
Riprendo, in conclusione di questa illustrazione della Costituzione della Terra, ne riporto l’incipit che ne riassume lo spirito e l’ispirazione di fondo.
Costituzione della Terra
Noi, abitanti della Terra, che nel corso delle ultime generazioni abbiamo accumulato armi micidiali in grado di distruggere più volte l’umanità, abbiamo devastato l’ambiente naturale e messo in pericolo, con le nostre attività produttive, l’abitabilità del nostro pianeta;
consapevoli della catastrofe ecologica che incombe sulla Terra, del nesso che lega la sopravvivenza dell’umanità e la salvaguardia del pianeta e del rischio che, per la prima volta nella storia, il genere umano, a causa delle nostre aggressioni alla natura, possa avviarsi all’estinzione;
decisi a salvare la Terra e le generazioni future dai flagelli dello sviluppo insostenibile, delle guerre, dei dispotismi, della crescita della povertà e della fame, che hanno già provocato devastazioni irreversibili al nostro ambiente naturale, milioni di morti ogni anno, lesioni gravissime della dignità delle persone e un’infinità di indicibili privazioni e sofferenze;
decisi a vivere insieme, nessuno escluso, in pace, senza armi mortali, senza fame e senza muri ostili, a garantire un futuro alla specie umana e alle altre specie viventi, a realizzare l’uguaglianza nei diritti fondamentali e la solidarietà tra tutti gli esseri umani e ad assicurare loro le garanzie della vita, della dignità, delle libertà, della salute, dell’istruzione e dei minimi vitali, promuoviamo un processo costituente della Federazione della Terra, aperto all’adesione di tutti gli Stati esistenti e finalizzato alla stipulazione di questo patto di convivenza pacifica e di solidarietà.
Che succede in Israele e in Palestina? Tutto cambierà? Come?
di Romana Rubeo
CRS. Internazionale, Temi, Interventi. Pubblicato il 18 Maggio 2021
La Palestina è in fiamme. Dal cielo di Gaza, ormai da nove giorni, piovono bombe che devastano interi quartieri, strade, grattacieli, campi profughi. Gerusalemme grida di dolore, tra la sacralità violata di Al-Aqsa e della Spianata delle Moschee, alle famiglie di Sheikh Jarrah, costrette a denunciare un’ingiustizia cristallizzata in sistema normativo, che le vede spogliate di ogni diritto, anche quello di proprietà sulle loro abitazioni. Dalla West Bank in rivolta, dove giovani, adolescenti, anziani, donne, figli e madri sembrano non avere paura di riversarsi nelle strade e ai checkpoint, e di affrontare i militari israeliani armati fino ai denti, volto concreto di un regime di occupazione che li attanaglia ormai da decenni; fino ad arrivare alle città a maggioranza araba della Palestina storica, attualmente parte di Israele, che in modo inedito fanno sentire la loro voce contro le politiche di segregazione e discriminazione a cui sono sottoposte nel silenzio generale, avvolte anzi da una cappa di finta normalità.
Difficile stabilire quale sia stata la miccia che ha innescato un incendio ora apparentemente indomabile, che Israele e il governo di Benjamin Netanyahu stanno tentando di reprimere con la prassi consueta: bombardamenti indiscriminati, assalti feroci e truppe pronte a sparare ad altezza d’uomo. Possiamo tuttavia cercare di capire chi avesse maggiore interesse a scatenare una crisi che, con ogni probabilità, non si immaginava di tali dimensioni. Tutti gli indizi sembrano condurre a un’unica pista.
Già all’indomani delle elezioni del 23 marzo scorso, che arrivavano dopo tre appuntamenti elettorali nel giro di un anno e che non hanno dato un esito certo – continuando a riflettere la profonda polarizzazione in atto nelle istituzioni e nella società israeliana – l’attuale capo dell’opposizione, Yair Lapid, aveva prefigurato la possibilità che Netanyahu scegliesse la strada della violenza e dello scontro per generare una situazione di emergenza e uscire dallo stallo. “Se Netanyahu sente il governo sfuggirgli dalle mani, cercherà di creare un problema di sicurezza. A Gaza o al confine settentrionale. Se dovesse ritenere che questo è l’unico modo per salvarsi, non esiterebbe neanche un istante”, aveva detto Lapid all’attuale Ministro della Difesa Benny Gantz, secondo il commentatore di Haaretz, Yossi Verter.
Akiva Eldar, invece, dalle pagine di Al Jazeera, svela che Avigdor Lieberman, presidente del partito Yisrael Beitenu, ex ministro dei governi Netanyahu e ora suo acerrimo nemico, avrebbe correlato direttamente l’esplosione della violenza di questi giorni alla decisione del Presidente Reuven Rivlin di affidare il mandato esplorativo per la formazione di un governo a Lapid. “L’obiettivo strategico dell’operazione militare è aumentare la propria popolarità agli occhi dell’opinione pubblica. Netanyahu cercherà di prolungare questa operazione finché durerà il mandato esplorativo di Lapid”, avrebbe sostenuto Lieberman.
D’altro canto, questa tattica non rappresenta certo una novità nel panorama politico israeliano. Negli anni, Netanyahu ha sempre usato questo stratagemma per restituire un’immagine di forza a una società che, innegabilmente, è sempre più schiacciata su posizioni di assoluto estremismo. Evocare a gran voce, e abbozzare nei fatti, una sorta di “soluzione finale” nei confronti dei palestinesi serve ad acquisire popolarità in una fetta consistente dell’elettorato, e particolarmente presso la popolazione dei coloni che ormai sembrano orientare, con i loro numeri e la loro forza, le politiche israeliane. Quegli stessi coloni che sono stati usati come una sorta di forza paramilitare e come ulteriore braccio armato delle autorità israeliane per le strade di Gerusalemme, nei giorni e nelle settimane che hanno preceduto l’escalation finale.
Ciò che probabilmente non era prevedibile, tuttavia, era la risposta del popolo palestinese. Un popolo che, prima di ogni cosa, sembra aver ritrovato una perduta unità.
Raccontare il processo di frammentazione a cui sono stati sottoposti i palestinesi nel corso degli anni e dei decenni non è semplice. Oltre che dal principio del divide et impera – che ispira da sempre l’azione politica del progetto sionista – l’unità del popolo palestinese aveva ricevuto un colpo decisivo, almeno in apparenza, con gli Accordi di Oslo e ciò che avevano rappresentato.
Il presunto “processo di pace”, infatti, sembrava più teso a sopire la volontà di resistenza dei palestinesi e a “normalizzare” l’occupazione militare che a garantire l’effettiva creazione di uno spazio in cui potessero esercitare una sovranità e vivere in modo dignitoso. Nella fase post-Oslo, il territorio si è ulteriormente parcellizzato. Al contempo, l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), unico organismo rappresentativo di un popolo senza Stato, è stata di fatto esautorata dall’Autorità Nazionale Palestinese. Questo ha creato un vuoto di rappresentanza, vista la coincidenza pressoché assoluta tra l’ANP e il partito di Fatah, protagonista della fase degli accordi, ormai svuotato da quella spinta rivoluzionaria che aveva caratterizzato l’azione del suo fondatore Yasser Arafat, e appiattito sulle posizioni decisamente più morbide di Abu Mazen.
Abu Mazen, infatti, verrà probabilmente ricordato dalla storia come colui che, soffocando definitivamente la Seconda Intifada e la reazione spontanea contro un accordo che penalizzava in modo assoluto i palestinesi, ha ricercato l’approvazione e il placet della comunità internazionale, fino a normalizzare, di fatto, l’occupazione attraverso il cosiddetto “coordinamento per la sicurezza”, ovvero un apparato di forze di polizia e intelligence che collabora direttamente con la forza occupante.
Abu Mazen rimane alla guida dell’ANP nonostante le elezioni del 2006 e la vittoria, mai riconosciuta, di Hamas; nonostante la conseguente spaccatura con la Striscia di Gaza, che da quel momento è governata dal Movimento di Resistenza Islamico e che, per questo, è soggetta a un brutale embargo. Rimane alla guida dell’ANP anche dopo la scadenza del suo mandato elettorale, proclamando, di tanto in tanto, la possibilità di elezioni che servono più a compiacere i suoi partner a livello internazionale che a ricercare quel momento di democrazia e legittimazione popolare di cui è ormai completamente privo.
Questa volta, poi, le elezioni sembravano una possibilità concreta. Le date erano state fissate da un decreto presidenziale di gennaio, frutto di una serie di incontri tra i diversi movimenti che animano la politica palestinese. Abu Mazen, però, non aveva calcolato la spaccatura interna al suo partito, la formazione di una lista alternativa guidata da Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat, e da Fadwa Barghouti, moglie del prigioniero politico palestinese e leader della resistenza, Marwan; una spaccatura che avrebbe probabilmente determinato una cocente sconfitta per Fatah alle elezioni legislative e la destituzione di Abu Mazen in favore dello stesso Marwan, deciso a correre per le elezioni presidenziali dal carcere israeliano in cui è rinchiuso e favorito in tutti i sondaggi.
La decisione di rimandare, per l’ennesima volta, l’appuntamento, è stata giustificata dalla impossibilità, per i palestinesi gerosolimitani, di votare, per le restrizioni imposte dalle autorità occupanti israeliane. In effetti, in Palestina, il tema della rappresentanza e, conseguentemente, delle elezioni come momento fondante del processo democratico, non può prescindere da un “vizio d’origine”: le elezioni democratiche, idealmente, si svolgono in una nazione che abbia una reale sovranità sul suo territorio, in cui tutto il popolo possa davvero essere rappresentato.
Nel caso della Palestina, questo non può avvenire, perché quanto ipotizzato dalla Risoluzione ONU del 1947, il cosiddetto “piano di partizione” – che, pur nei suoi aberranti limiti, prevedeva la nascita di due Stati – nei fatti, non si è mai concretizzato. Pertanto uno Stato palestinese, nei fatti, non ha mai visto la luce, per esplicita volontà di Israele, che ha agito sin dagli albori come una potenza coloniale, interessata alla acquisizione di tutto il territorio e alla cancellazione della popolazione nativa, mosso dal mito infondato della terra nullius.
Tuttavia, il popolo palestinese si è sentito tradito dalla resa, l’ennesima, dell’ANP che, anziché lottare per conquistare anche il diritto al voto di Gerusalemme, ha preferito usare l’occupazione come scusa per sopire il dibattito interno a Fatah. Un popolo che si è visto, negli anni, già privato di ogni diritto, isolato come non mai, arrestato, in alcuni casi, anche da quelli che dovevano essere i suoi rappresentanti; un popolo bombardato, umiliato, emarginato anche da alcuni Paesi arabi (che non hanno esitato a “normalizzare i rapporti” con l’entità sionista). Un popolo forzatamente diviso, sottoposto a un regime di apartheid imposto da Israele e che oggi viene riconosciuto anche da varie organizzazioni per i diritti umani, come Human Rights Watch o la stessa, israeliana, B’Tselem.
In questo scenario, un primo, fortissimo, squarcio si apre con la Grande Marcia del Ritorno, avviata nel 2018, che parte da Gaza, si estende ai Territori Palestinesi Occupati e segna in modo inequivocabile una mai sopita volontà, da parte del popolo palestinese, di partecipare a un processo ampio di resistenza popolare. Un popolo che, oggi, scende in piazza, affronta apertamente l’occupazione e, nei fatti, supera e destituisce sul campo i suoi presunti rappresentanti.
L’impressione è che questa nuova fase, apertasi nelle ultime settimane, determinerà anche un cambiamento radicale nello scenario politico palestinese e costituirà un punto di non ritorno. Anche il silenzio assordante di Abu Mazen, per svariati giorni dopo l’inizio dell’attuale escalation, la dice lunga sulla afonia di questa classe dirigente e sulla sua incapacità di rappresentare le istanze del suo popolo. Una conferma di questo profondo cambiamento, che costituisce un punto di non ritorno, è data anche dalla decisione delle Brigate dei Martiri di Al-Aqsa, gruppo combattente legato a Fatah, di tornare tra le strade della Cisgiordania per la prima volta dopo sedici anni, prima nelle città di Nablus e Jenin, poi con la marcia a Ramallah in preparazione dello sciopero generale indetto dai palestinesi per il 18 maggio.
“Questa”, scrive l’analista palestinese Ramzy Baroud, “è un’Intifada senza precedenti nella storia della lotta di liberazione palestinese. […] Questa unità è ben più rilevante di un qualsiasi accordo tra fazioni palestinesi. Va a eclissare Fatah, Hamas e gli altri perché, senza un popolo unito, non può esserci una resistenza efficace, non c’è prospettiva di liberazione né lotta per la giustizia”.
Sicuramente, chi riuscirà a interpretare meglio questa fase risulterà la guida naturale di un processo che sembra ormai inarrestabile, ma nessun esito sembra scontato. Certamente, Hamas si è fatto trovare più pronto, anche per il radicamento sul fronte della resistenza a Gaza, una resistenza che, vale la pena ricordarlo, agisce in comunione con altri gruppi, tra cui anche le forze di matrice socialista del PFLP.
Ridurre, tuttavia, i fatti odierni a uno “scontro” tra Israele e Hamas è non solo falso, ma decisamente riduttivo. L’impressione, infatti, è che a fronteggiarsi siano due forze diverse.
Da una parte, uno Stato ormai impigliato nelle stesse trame della sua vocazione coloniale, guidato da un leader stanco e logoro, protagonista di vicende giudiziarie importanti e apparentemente deciso a trascinare con sé nel fango un’intera nazione. Dall’altra, una nuova generazione di palestinesi, non più condizionati dai tentativi di normalizzazione di Oslo, che parlano una stessa lingua a Khan Younes come ad al-Lud, a Ramallah come ai confini con Giordania e Libano. Un nuovo popolo deciso a superare le divisioni e i balbettii della sua classe dirigente, e che non sembra più disposto a trattare sulla propria dignità e sul raggiungimento della giustizia, premessa necessaria e indispensabile alla pace.
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Qui il PDF
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Approfondimenti
Elezioni in Palestina, un enigma in un clima di frammentazione politica. Intervista a Romana Rubeo
- Parte I.
- Parte II.
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[Su il manifesto] Apartheid in Israele, ultimo baluardo del colonialismo territoriale
La guerra promessa. Il controllo israeliano sulla narrazione internazionale fa sì che il terrorismo di Stato sia sottaciuto insieme al rifiuto opposto negli ultimi 15 anni alle mosse diplomatiche di Hamas
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(…) Sulla base dei precedenti storici a partire dal 1945, si può legittimamente pensare che la parte che vince la guerra della legittimità, alla fine controllerà il risultato politico, anche se è più debole militarmente e diplomaticamente. L’esito dell’apartheid in Sudafrica rafforza questa ricalibratura dell’equilibrio delle forze nella lotta palestinese.
Il regime razzista di Pretoria, malgrado avesse, almeno in apparenza, un controllo efficace e stabile della maggioranza nera della popolazione, grazie a brutali strutture di apartheid, implose sotto il peso combinato della resistenza interna e della solidarietà internazionale. Le pressioni esterne comprendevano una campagna Bds (boicottaggio, disinvestimenti, sanzioni) ampiamente diffusa e che godeva dell’appoggio delle Nazioni Unite. Israele non è il Sudafrica in una serie di aspetti chiave, ma la combinazione fra resistenza e solidarietà è aumentata in modo evidente nella settimana scorsa.
È forse opportuno ricordare la celebre osservazione di M.K. Gandhi: «Prima ti ignorano, poi ti insultano, poi ti combattono, poi vinci».
L’ambiente siamo (anche) noi
Ecosostenibilità e lavoro
di Roberto Paracchini
Oggi si inizia a parlare, finalmente, di ecosostenibilità; le riflessioni che seguono riprendono il problema con un taglio orientato ad avanzare alcune ipotesi esplicative su che cosa significherebbe se la si applicasse, l’ecosostenibilità, in specifico anche agli esseri umani.
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“Un pianeta migliore è un sogno che inizia a realizzarsi quando ognuno di noi decide di migliorare sé stesso”. Questa frase, attribuita a Gandhi, è ricca di suggestioni. Una di queste racconta di un rapporto strettissimo tra noi e il pianeta. Come dire che noi non solo viviamo in questo pianeta ma ne siamo parte e insieme agli altri esseri viventi ne siamo costruiti e lo costruiamo. E ancora: se il nostro diventare esseri migliori aiuta il pianeta allora, non solo possiamo, ma dobbiamo diventare migliori perché dal nostro star bene dipende anche il benessere del mondo in cui viviamo. Più terra terra: se io sto male, stai male anche tu e viceversa. E se tu stai bene, sto bene anch’io e viceversa.
Proviamo a pensare un attimo a una persona a noi cara: se sta bene, in qualche modo ci sentiamo meglio anche noi. A questo punto proviamo a vederci come di fatto siamo, persone che hanno – chi più, chi meno – parenti, familiari, colleghi, amici, conoscenti e altro ancora. E ora proviamo un esperimento mentale in cui ognuna di queste persone con cui abbiamo alcuni dei rapporti accennati, ne abbia a sua volta altrettanti, di rapporti. Il risultato sarà una rete, una rete quasi infinita di relazioni e collegamenti. Ma non c’è collegamento alcuno senza il trasferimento dall’uno all’altro di un qualcosa in un circolo di dare-avere e avere-dare: fosse anche solo un sorriso, uno sguardo, una smorfia, una chiacchiera, un saluto, un pettegolezzo, una sensazione, un’intesa e via di seguito. In pratica avremmo un numero enorme di persone che si trasferiscono l’un l’altro lo star bene o lo star male nelle infinite gradazioni e sfumature che una vita può rendere possibile. Dalla storia alla psicologia, dalla fisica alle neuroscienze, dalla sociologia alla chimica, dall’antropologia all’archeologia, dalla letteratura alla filosofia non esiste ormai settore del sapere che non sottolinei l’inscindibile interrelazione che lega tra loro gli esseri viventi, e non solo, che vivono e dimorano su questa Terra.
A questo punto viene spontaneo chiedersi se esiste un qualcosa o un modus vivendi che potrebbe far sì che questo reciproco trasferirsi qualcosa, ovvero il risultato di qualsiasi interrelazione, aiuti tutti gli esseri viventi a stare meglio.
Detto questo, e tornando alla frase di Gandhi, si aprono i due problemi su cui stiamo riflettendo: il primo riguarda l’ambiente e l’ecosostenibilità, il secondo il lavoro. Due ambiti apparentemente distanti, in realtà inscindibilmente connessi. Vediamo.
Gli scienziati affermano che i cambiamenti climatici hanno visto il susseguirsi di diverse fasi; sottolineano anche che oggi questo cambiamento è fortemente accelerato dall’opera degli esseri umani, dal modo aggressivo di intendere il rapporto con l’ambiente, che viene visto come una entità non solo e non tanto da conoscere, ma soprattutto da controllare, pianificare e dominare, consumando senza criterio le sue risorse.
A monte di questo modo di rapportarsi con l’ambiente, che tanti danni sta facendo e continua a fare, c’è un’idea, su che cosa sia quel qualcosa che chiamiamo ambiente, decisamente datata ed errata.
Per molto tempo con il termine “ambiente” si è indicato il risultato di una serie di processi essenzialmente legati ad una ipotetica idea di natura, pre-intervento umano, considerata all’origine di tutto ciò che è, e che si trova attorno agli esseri umani, come se noi potessimo esserne fuori. Anche l’origine etimologica della parola indica questo “vizio” d’origine. Il termine “ambiente” deriva infatti dal latino ambiens, che significa circondare. Lo stesso prefisso amb (in greco amphi) indica “intorno, da ambo i lati”. In questa prospettiva – che possiamo chiamare dualistica – l’essere umano non è considerato parte integrante della biosfera (o ecosfera), ma come entità che, pur ponendosi al centro del mondo, ne risulta in realtà esterno in quanto l’ambiente è ciò che sta intorno, mentre lui resta al centro. Un passaggio importante, non solo perché propulsore di atteggiamenti antropocentrici, ma anche in quanto inserisce le basi di quel dualismo accennato che ha posto l’essere umano come un qualcosa di qualitativamente differente e, in quanto tale, concettualmente al centro di comando; di contro, ha messo l’ambiente e/o la realtà esterna dall’altro, di lato, ai margini si potrebbe dire, quindi come altro da sé. Questa impostazione ha caratterizzato gran parte del pensiero occidentale.
Considerare l’ambiente altro da sé ha contribuito a far ignorare che gli esseri umani sono essi stessi un prodotto dell’ambiente, a pieno diritto e umilmente in tutto e per tutto interni alla biosfera, ovvero a quella parte della terra in cui si riscontrano le condizioni per la vita animale e vegetale; e che comprende la parte bassa dell’atmosfera, tutta l’idrosfera e la parte superficiale della litosfera fino a due chilometri di profondità. In parallelo questa visione dualistica (proveniente anche da Cartesio: res cogitans, gli esseri umani; e res extensa, tutto il resto) ha spianato la strada alla trasformazione della conoscenza da curiosità e necessità, per rapportarsi meglio con l’ambiente, a controllo sempre più pianificante, sino a diventare dominio incondizionato. Il che non significa affatto, sia chiaro, che le scienze abbiamo perso il loro valore conoscitivo; tutt’altro, ma che alcuni suoi aspetti sono stati strumentalizzati in alcune applicazioni pratiche. Un quadro che ha condotto, pian piano, anche a uno sviluppo economico fuori controllo e spesso subordinato agli interessi più rapaci del capitalismo contemporaneo, compreso quello più recente, detto della sorveglianza, ovvero un sistema di potere fondato sulla “schedatura dei movimenti” delle persone all’interno della rete (Amazon, Facebook e Google per citare le corporation più grandi).
Uno sviluppo fuori controllo, si è detto, che ha determinato una rapina sconsiderata delle risorse naturali col rischio reale di una catastrofe ecologica in quanto ha compromesso l’equilibrio di autoregolazione che interessa i vari attori del teatro della biosfera. Il tutto, schematizzando, è stato implicitamente (e interessatamente) considerato come un’evoluzione eticamente accettabile in quanto l’essere umano è pensante, animato (dal latino animus, soffio vitale), mentre l’altro da sé, l’ambiente, la res extensa, no, è non pensante, senza soffio vitale; quindi senz’anima. In pratica è materia bruta, dominabile e sfruttabile senza vincolo e limite alcuno. E i disastri ambientali, di cui il riscaldamento globale è l’effetto più macroscopico, si cominciano a vedere in qualunque parte del mondo.
Negli ultimi decenni, però, grazie alla crescita della ricerca scientifica, alle parallele sollecitazioni dei movimenti ambientalisti e alla spinta dei giovani stimolati da Greta Thunberg, si sta sempre più consolidando la consapevolezza che la vita su questo pianeta, e soprattutto quella degli esseri umani, è e sarà sempre più strettamente legata alla salute dell’ambiente, ovvero all’ecosostenibilità delle nostre azioni.
Un concetto, quest’ultimo determinante. Eco-sostenibilità: eco, dal greco òikos, dimora e, modernamente, ambiente ove si vive; e sostenibilità, da compatibile, termine oggi usato per indicare qualcosa che si concilia con qualcos’altro ma che, a mio parere, deve richiamare soprattutto l’importante significato originario di compassione e cura, dal greco symphateia, patire insieme, provare emozioni con, quindi sentirsi parte dell’altro, del mondo in questo caso e di conseguenza averne cura. Tutti, quindi, siamo chiamati alla responsabilità delle nostre scelte perché ogni nostra scelta, direttamente o indirettamente, comporta un’azione che agisce sull’ambiente e, di conseguenza, anche su di noi. Ed ecco che si torna, spontaneamente, al discorso iniziale dell’interrelazione e interdipendenza che, coinvolgendo tutti e tutto (l’animato e l’inanimato), riscatta il concetto di ambiente rendendolo centro e dimora dinamica dell’esistente. Il che significa che ogni essere vivente sin dai primi microrganismi (comparsi circa 3,5 miliardi di anni fa) concorre a formare l’ambiente e viceversa da questo è co-formato. Ma se è così, come migliaia di evidenze scientifiche sembrano dimostrare, allora deve essere salvaguardato e valorizzato ogni luogo-ambiente in cui l’evoluzione biologica ha posto i differenti esseri viventi nel movimento e nella dialettica continua dell’ecosistema, pena un effetto domino tragico ed esponenziale di cui già intravediamo i segnali negativi.
In questo quadro si situa l’altro problema accennato all’inizio di queste brevi e schematiche riflessioni, il lavoro o, meglio, la sua centralità, logica conseguenza di un discorso coerente sull’ecosostenibilità. Vediamo.
Salvaguardare l’ecosostenibilità significa agire per la valorizzazione di tutti gli ambienti specifici in cui abitano gli esseri viventi, vegetali compresi, in modo da permettere che le loro caratteristiche non vengano alterate e si promuova la dialettica della biodiversità. Condizione indispensabile per l’equilibrio dinamico della biosfera, che contribuisce anche a governare i cicli biogeochimici e a stabilizzare il clima, situazione che sta già incontrando tante crepe. E visto anche che ognuno di quegli ambienti specifici, come già detto e come anche la scienza ecologica insegna, è strettamente interconnesso con gli altri ambienti, sarebbe fortemente negativo lasciar fuori la specie esseri umani dal discorso dell’ecosostenibilità.
Sia chiaro: riportare gli esseri umani in una dimensione ecosostenibile non significa affatto bypassare scienza e tecnica; semmai utilizzare la ricerca scientifica per sviluppare meglio le energie alternative e affinare le modalità di salvaguardia ambientale a tutti i livelli con più raffinati modelli di vita. Rimodulare i consumi energetici significa anche considerare adeguatamente i singoli ambienti in cui gli esseri viventi abitano e le caratteristiche specifiche che permettono loro di vivere e non di estinguersi. Prendiamo, ad esempio, i gorilla: ve ne sono diversi tipi, ma tutti vivono in gruppi, per lo più nelle foreste umide tropicali e sub tropicali africane e si nutrono in prevalenza di vegetali. Permettere loro di vivere significa salvaguardare il loro habitat, quindi il loro modus vivendi specifico. Oppure consideriamo le api, la cui funzione è sotto gli occhi di tutti: continuando ad immettere nell’ambiente le sostanze inquinanti che le disorientano si impedisce loro, ad esempio, di esprimersi con le danze particolari utilizzate per comunicare, provocando i danni già lamentati da apicoltori e scienziati. Per non parlare delle piante, che sono per noi vitali, che, oltre ai fiori, hanno “inventato” sistemi sofisticatissimi di comunicazione tra loro e gli altri esseri viventi. Ma gli esempi potrebbero continuare per sottolineare come ogni piccolo essere vivente abbia il suo indispensabile ruolo.
Lo stesso vale per gli esseri umani e per le caratteristiche che li contraddistinguono, tante certamente, come le neuroscienze disvelano in continuazione. Ma si vogliono qui affrontare solo alcuni aspetti socio-antropologici degli esseri umani su cui c’è un assenso di massima in quanto tutti ne riconoscono l’importanza nella caratterizzazione dell’Homo sapiens: le specifiche capacità linguistiche, la propensione alla socialità e lo sviluppo della cultura. Aspetti, questi, fortemente intrecciati tra loro, come la storia, sin dalla preistoria, permette di ricostruire. E che a nostro parere presentano anche un minimo comun denominatore, quello del lavoro, appunto. E qui torniamo ai due punti iniziali, l’ambiente declinato in termini di ecosostenibilità per gli esseri umani e il lavoro.
Secondo l’Enciclopedia Treccani per lavoro si intende “l’applicazione delle facoltà fisiche e intellettuali dell’uomo rivolta direttamente e coscientemente alla produzione di un bene, di una ricchezza, o comunque a ottenere un prodotto di utilità individuale o generale”. Nell’Oxford Dictionary la definizione è più concisa ed essenziale: “Activity involving mental or physical effort done in order to achieve a purpose or result”. Si tratta di sintesi-concettuali che accolgono la civiltà giuridica dei diritti della persona lasciandosi alle spalle l’idea del lavoro sintetizzata nel termine latino labor (sforzo, fatica, sofferenza fisica). In entrambe le definizioni citate è invece evidente l’importanza del fare qualcosa in rapporto ad altri, quindi della socialità; del porsi un progetto (per ottenere un risultato), quindi della cultura; e del linguaggio, quindi della comunicazione simbolica.
Secondo Colin Renfrew (membro della British Academy e professore emerito all’Università di Cambridge, uno dei più autorevoli archeologi contemporanei) la forte valorizzazione di queste tre caratteristiche ha determinato il punto di svolta o, se si preferisce, il salto cognitivo dell’Homo sapiens. E che permette anche di spiegare quello che molti archeologici hanno chiamato il “paradosso preistorico”: salti cognitivi non spiegabili con cambiamenti neurobiologici vista la sostanziale identità del nostro genoma almeno da duecentomila anni a questa parte. Esplosioni creative che si sono sviluppate in diversi periodi temporali e geografici testimoniati dalla presenza di sofisticati manufatti e stili di vita, non spiegabili nemmeno da quella che altri studiosi hanno chiamato “rivoluzione umana”, con riferimento alla comparsa dell’Homo sapiens visto anche che queste “esplosioni” si sono verificate a macchia di leopardo, geografica e temporale. Per Renfrew questi sviluppi creativi si sono avuti soprattutto nei momenti in cui vi è stato un aumento “esponenziale della varietà dell’impegno relazionale fra gli uomini e il mondo materiale, mediato dall’impiego di simboli”. Una svolta prodotta soprattutto “con l’affermarsi della sedentarizzazione”, la formazione di comunità residenziali, ma presente anche in altri momenti.
Considerazioni che permettono di affermare, come ipotesi esplicativa ovviamente, che l’aspetto relazionale, simbolico e culturale, siano caratteristiche fondanti dell’Homo sapiens. E che, a ben guardare, siano anche le caratteristiche che contraddistinguono il nucleo centrale del concetto di lavoro inteso nel senso moderno (delle due definizioni accennate) come creatore di senso e dignità. Un fatto possibile proprio perché in questa prospettiva il lavoro diventa produttore di relazioni reciproche con l’ambiente di cui si fa parte, quindi non unidirezionali e di dominio. Già Karl Marx, circa un secolo e mezzo fa, pose le relazioni umane, nella produzione, come prioritarie rispetto ai mezzi. Oggi il mondo è cambiato, ugualmente i modi di produzione, ma la ricchezza concettuale di un lavoro non alienato e per tutti resta.
In queste schematiche riflessioni, infine, quel che si è ritenuto importante sottolineare è lo stretto legame che sussiste tra ecosostenibilità e lavoro umano: due concetti che possono e sempre dovrebbero, viaggiare insieme valorizzandosi a vicenda.
Roberto Paracchini
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Nell’immagine, scelta discrezionalmente dalla Direzione: Lucas Cranach il Vecchio, (1472-1553), Adamo ed Eva, 1526, The Courtauld, Londra.