Editoriali
Il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte: un confronto necessario
Lunedì 4 ottobre 2021 alla Fondazione di Sardegna in Via Salvatore da Horta 2 a Cagliari si è svolto un confronto pubblico dal titolo “il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte” organizzato dagli Amici sardi della cittadella di Assisi, dall’associazione Comunità la Collina e dalla Fondazione Anna Ruggiu Onlus in collaborazione con l’Assotziu Consumadoris Sardigna e con i tre media partner Aladin Pensiero, Giornalia e il manifesto sardo. Un confronto sull’opportunità dell’Eutanasia Legale coordinato dalla giornalista Susi Ronchi e con la partecipazione di Don Ettore Cannavera e Gianni Loy. Con il consenso dell’autore e in accordo con le tre testate giornalistiche online,“media partner” dell’iniziativa, Aladinpensiero, Giornalia, il manifesto sardo, pubblichiamo di seguito la prima relazione introduttiva al tema.
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Riflessioni sulla “buona morte”.
di Gianni Loy
Il significato dell’espressione, sia nella lingua originaria che in quella italiana, per quanto riguarda l’aspetto teleologico, è chiaro e inequivocabile: indica le azioni volte a porre fine alla vita di una persona allo scopo di evitargli sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia.
Non altrettanto condivisa è la classificazione delle condotte che vengono considerate eutanasia. Si parla di eutanasia attiva quando la morte è diretta conseguenza dall’azione di un terzo, come la somministrazione di un farmaco da parte del medico, e di eutanasia passiva quando la morte costituisce l’effetto indiretto di un’azione o di un’omissione, come nel caso della sospensione di trattamento sanitario o dell’alimentazione artificiale.
Fattispecie a sé, sarebbe costituita dal suicidio assistito, (l’aiuto o l’assistenza al suicidio) nel quale è la persona che desidera morire a compiere l’atto che produce la morte grazie all’aiuto di una terza persona. Il caso classico è quello del medico, o di un familiare che, su richiesta dell’aspirante suicida, gli fornisce un farmaco idoneo a procurargli la morte, che sarà però il richiedente ad assumere.
Quanto alla classificazione delle condotte non vi è consenso neppure all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica che, chiamato a pronunciarsi sulla questione dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, si è limitato a dar conto dell’esistenza di diverse opinioni al suo interno: alcuni hanno sostenuto che la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito sarebbe speciosa, data la sostanziale equivalenza tra il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di essere autore della morte di questa persona; altri hanno ritenuto che, sia sotto il profilo filosofico che simbolico, consentire a una persona di darsi la morte non è identico a dare la morte a qualcuno a seguito della sua richiesta.
Il suicidio, da un punto di vista giuridico, non è oggetto di divieto da parte della legge. Tuttavia, – secondo interpretazione dello stesso Comitato di bioetica, non si ritiene esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma viene inteso come una semplice facoltà̀ o un mero esercizio di una libertà di fatto. Lo sfavore dell’ordinamento si ricaverebbe, tra l’altro, dal fatto che la legge sanziona penalmente sia le condotte che incitano al suicidio, sia quelle che provocano, materialmente, la morte di una persona che chieda di porre fine alla propria vita.
L’art. 579 del codice penale punisce (con reclusione tra i 6 e i 15 anni) chi cagioni la morte di una persona con il consenso di lui ed un’altra norma (art. 580) punisce con pene variabili tra 1 e 12 anni chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito, ovvero ne agevola, in qualsiasi modo, l’esecuzione.
Si tratta, per la verità, di norme estranee all’impianto costituzionale, introdotte dal Codice penale del 1930 precedentemente all’entrata in vigore della Carta Costituzionale. Norme, peraltro, già dichiarate parzialmente incostituzionali. La Corte costituzionale , (Sent. n. 242 del 22 novembre 2019), ha dichiarato incostituzionale l’art. 579 del c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi con le modalità di cui alla legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) o con modalità equivalenti, agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio che si sia autonomamente e liberamente formato, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La norma, è ritenuta in contrasto con gli art. 2, 13 e 32 Cost. che riconoscono i diritti inviolabili dell’individuo, la libertà personale ed il diritto alla salute.
Sulla base dei ragionamenti del Giudice costituzionale si può sospettare che anche l’art. 580, (oggetto del quesito referendario) potrebbe non superare un eventuale vaglio di costituzionalità ove la Corte venisse chiamata a pronunciarsi. La distinzione tra fornire il prodotto che procura la morte e somministrarlo, quanto a finalità ed effetti, è assai labile, almeno fuori dai confini di Bisanzio, posto che, in ogni caso si produce la morte della persona che, nel rispetto delle condizioni indicate dal Giudice costituzionale, lo richieda.
Del fatto che il suicidio costituisca una semplice facoltà e non un diritto, o una libertà di fatto, si può dubitare. Nel diritto alla vita, al pari di altri diritti costituzionalmente garantiti, è implicito anche il diritto a rinunciare all’esercizio di tale diritto. Il diritto ad iscriversi ad un sindacato, ad esempio, comprende in sé anche il diritto a non iscriversi. Il diritto alla riservatezza non proibisce di comunicare ad altri i dati che si ha diritto a mantenere riservati. Analogamente, il diritto alla vita non impone alla persona l’obbligo di restare in vita. Non le impedisce, in altri termini, di decidere di non esercitare quel diritto. Se così non fosse, dovremmo concepire non solo un diritto alla vita, ma, accanto ad esso, anche un obbligo a restare in vita. Ma possiamo davvero ipotizzare che l’ordinamento, in presenza dell’esplicita e consapevole volontà di una persona di rinunciare al proprio diritto alla vita, possa in qualche modo costringerlo a vivere?
L’art. 32 della Costituzione consente, ove sia la legge a disporlo, l’obbligo di sottoporre le persone a determinati trattamenti sanitari, anche contro la loro volontà; precisa, tuttavia, che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Personalmente, non credo che imporre di continuare a vivere ad un uomo o ad una donna che con piena coscienza e consapevolezza abbiano deciso di lasciarsi andare nelle braccia della loro “sorella morte” – tanto più se si tratta di una scelta dettata dall’urgenza di fuggire da un insopportabile dolore fisico e psichico – sia rispettoso della dignità umana. Un’interpretazione che ritenesse il contrario, sarebbe in contrasto, con quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione in quanto andrebbe oltre i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Sia ben chiaro, nel nostro ordinamento, nella nostra cultura giuridica, non esiste alcun “diritto al suicidio”. La Repubblica, al contrario, è chiamata a promuovere e proteggere il diritto alla vita, e sono molti gli strumenti che può mettere in cmapo, a partire dal promuovere il benessere generale della società, garantire un’assistenza sanitaria generale e gratuita, ridurre gli incidenti sul lavoro, soccorrere i naufraghi, predisporre misure di tempestiva ed efficace terapia del dolore, offrire il sostegno psicologico alle persone che si trovino in grave difficoltò, garantire un’adeguata riabilitazione e rieducazione …
In Europa, secondo dati Eurostat, oltre un milione di persone muoiono ogni anno delle deficienza del sistema sanitario pubblico diverse migliaia a causa di errori della diagnosi e della cura. Per fortuna, in queste speciali classifiche, l’Italia risulta tra i paesi più virtuosi o, sarebbe meglio dire, meno deficitari.
Il fatto che l’ordinamento, in generale, non guardi con favore alla scelta di rinunciare alla propria vita non significa, tuttavia, né che possano adottarsi misure coercitive che impediscano alla persona di disporre della propria esistenza, e neppure che nelle ipotesi di patologie incurabili in presenza di sofferenze insopportabili, in ossequio al rispetto dei diritti fondamentali della persona, il sistema sanitario non possa prevedere forme di assistenza medica alla buona morte.
Concludo questi brevi riferimenti – di carattere prevalentemente giuridico – con riferimento al suicidio, perché dal punto di vista teleologico, anche quanto alle implicazioni di carattere morale, non vi è differenza tra le diverse modalità che provochino la morte di chi abbia deciso di togliersi la vita. Ciò che conta sono il desiderio e la cosciente volontà di porre fine alla propria vita. In definitiva, sotto il profilo etico, non fa differenza se tale finalità viene perseguita mediante la rinuncia alle cure, il suicidio o la buona morte medicalmente assistita. Altrettanto potrebbe dirsi per la persona che cooperi alla realizzazione dell’intento: sotto il profilo etico, poco importa se provoca la morte di una persona a seguito di un’omissione o di una condotta attiva. Ciò che conta è il rapporto tra la condotta e l’effetto desiderato. Sotto il profilo legale, invece, il mero aiuto al suicidio, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non costituisce più reato, mentre continua ad esserlo, in attesa dell’esito del referendum abrogativo, la condotta di chi provochi direttamene la morte, ad esempio con la somministrazione di un farmaco.
Vorrei far riferimento ad un recente avvenimento. Qualche settimana fa, in Spagna, una donna gravemente ammalata si è tolta la vita in una stanza d’albergo assumendo una dose di veleno. La donna era affetta, da anni, da una patologia cronica osteomuscolare incurabile, aggravata dall’intolleranza agli oppiacei. Ultimamente era sopravvenuto un cancro alla vescica “invasivo e di grado elevato”, secondo il referto medico. La donna, che auspicava una dolce morte, non appena entrata in vigore la legge che, in quel paese, consente la morte medicalmente assistita, aveva chiesto di poter essere ammessa. La richiesta era stata sottoposta alla struttura competente, ma non era andata a buon fine, inizialmente in quanto il medico incaricato si era dichiarato obiettore di coscienza.
Ma non è questo che interessa, piuttosto l’esito e le ragioni della donna che, qualche settimana prima accompagnata dal medico curante e dall’amica più cara, aveva rilasciato un’intervista a “El Pais” dichiarando quanto segue:
“La decisione l’ho già presa. Non credo di poter attendere che mi venga applicata la legge. Ho sempre affermato che non voglio vivere se non sono in grado di poter decidere sulla mia vita. Non sono in grado di cucire, non posso leggere. Non c’è niente che possa darmi speranza. Non si tratta di un capriccio. Il fatto è che tutta la mia vita consiste esclusivamente nel cercare di soffrire il meno possibile. E nonostante tale sforzo la mia sofferenza è intollerabile. Per questo penso che, al massimo, riuscirò a resistere sino ad ottobre, ma forse neppure riuscirò ad arrivarci”.
Il giornalista le chiede: “E nel caso non riuscisse ad essere ammessa al trattamento previsto dalla legge, ha cercato qualche alternativa per darsi la morte?*
“Si ho qualche alternativa, non piacevole, ma ce l’ho. Solo che, dal punto di vista psicologico, si tratta di una alternativa terribilmente violenta. È violento pensare Mi sto suicidando”. Io non lo voglio questo. Voglio solo che mi aiutino a smettere di soffrire. Niente di più”.
Cito questo, episodio, uno come tantissimi altri, tra i pochi che superano il riserbo e diventano di dominio pubblico, perché consente, di comprendere come il tema, l’unico tema in discussione, sia quello della vita, della morte e del diritto di decidere della propria esistenza: il resto riguarda gli aspetti tecnici, le modalità di esecuzione dell’intento, che possono andare dalla rinuncia alle cure ed all’alimentazione sino al suicidio.
Ho voluto introdurre nel discorso un caso concreto, anche perché risulti chiaro che la vita, la morte, le sofferenze, non esistono. Nella storia, nella realtà esistono uomini e donne che vivono, che soffrono, che muoiono. Le espressioni astratte che utilizziamo sono comprensibili e concepibili soltanto perché si verificano tali evenienze.
Come, proprio in questi giorni ci ha ricordato Björn Larsson, siamo in grado di intendere il “senso” attribuito alle parole ed alle espressioni, ma per sapere se esistono veramente dobbiamo rivolgerci alla scienza. La vita è sacra, inviolabile, è un valore supremo. Il principio lo intendiamo, riscuote consenso. Ma, nella realtà, davvero la vita è sacra protetta, rispettata? Ed in che modo?
Arriviamo al nodo. La decisione circa le regole che potrebbero disciplinare – se, quando e come – pratiche di buona morte, ha evidenti implicazioni etiche che interrogano la coscienza di ciascuno e quella collettiva.
Il fondamentale interrogativo, sul piano etico, consiste nel cercare una risposta, non ambigua, ad una elementare domanda: consentire la buona morte, è un bene o un male? Ciò, non significa, nonostante ogni apparenza, pronunciarsi su principi astratti, quali la sacralità della vita.
Il quesito, al quale il Parlamento italiano non ha voluto rispondere, nonostante il pressante invito della Corte Costituzionale, è un altro: se la comunità nella quale oggi storicamente viviamo ritenga eticamente accettabile consentire l’assistenza medica, la buona morte, alle persone gravemente sofferenti, senza speranza di guarigione delle quali sia stata accertata la cosciente e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze.
Ciò, non sulla base di precetti morali fondati su costruzioni metafisiche o di credo religiosi, ma alla luce di valori fondanti e condivisi, logicamente giustificati, di una comunità, laica. Quali il benessere collettivo, la ricerca della felicità, la solidarietà. Che tenga conto, evidentemente, degli effetti che le scelte personali possano provocare sul sistema di convivenza dell’intera comunità. L’etica laica, in ogni caso deve necessariamente trovare nell’immanenza, e non nel trascendente, la risposta ai propri interrogativi.
Non dobbiamo chiederci se la buona morte, astrattamente considerata, sia un bene o un male, ma se operi bene o male, per se stesso e per la comunità, la persona che decida di praticarla. Si tratta, conseguentemente, di un giudizio sulla persona che aiuta il richiedente a porre fine alle proprie sofferenze.
L’etica di cui parliamo, peraltro, è opinabile, in quanto ispirata a diverse concezioni filosofiche; ad esempio all’imperativo categorico kantiano che ipotizza una sorta di deontologia nel comportamento umano; oppure alle teorie utilitaristiche, secondo le quali le nostre azioni dovrebbero mirare alla massima felicità per il maggior numero di persone. In ogni caso, l’etica di cui parliamo non coincide con i precetti morali dettati da ideologie o religioni. Beninteso, è frequente che i valori “laici” e quelli derivanti dai precetti morali delle religioni possano coincidere, Ma non sempre. Alcune pratiche imposte da talune religioni, ad esempio, sono incompatibili con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti.
In ogni caso non vi è alcun antagonismo tra l’etica laica che dovrà ispirare le scelte del legislatore in materia di buona morte ed i precetti morali delle religioni cristiane in materia di buona morte – peraltro non condivisi da tutte le professioni religiose – . Precetti morali che, anche quando non coincidenti con l’etica “laica” del legislatore, potranno sempre orientare liberamente le condotte dei propri adepti. Non solo, a quanti eventualmente professino un credo distinto da quello dell’etica “laica”, in casi come questo, viene di norma riconosciuto il diritto di non uniformarsi al precetto civile, cioè di astenersi dalle pratiche che non condividono, attraverso lo strumento dell’obiezione di coscienza, come opportunamente richiamato anche dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.
Nel caso concreto, – perché non si dimentichi, neppure per un momento, che non è della morte che ragioniamo, bensì delle persone che, in determinate circostanze, desiderano la propria morte o si danno la morte – si può aggiungere che a tutte le professioni religiose, vien in ogni caso garantita – ci mancherebbe altro – ogni assistenza spirituale volta ad aiutare il credente a non cedere alla tentazione di porre fine anticipatamente alla propria vita e ad affrontare con spirito orientato al trascendente le proprie sofferenze. Ma se un credente, uomo o donna, esercitando il libero arbitrio, continuasse a manifestare il proposito di porre fine alla sua vita, troverei paradossale che il suo desiderio non possa poi essere accolto perché il precetto morale della confessione religiosa che il proprio adepto non intende rispettare venisse recepito e fatto proprio dall’ordinamento giuridico dello Stato.
Aver certezze è bene, risulta sicuramente rassicurante, rassicurante. Ma coltivare dubbi è non meno salutare e utile, soprattutto in questo caso, visto che la vita e la morte, per tutti, possono essere segnate da svolgimenti imprevedibili e misteriosi.
Spesso siamo convinti, molti di noi- e lo proclamiamo con sicumera -, che in presenza di un determinato evento ci comporteremo in una determinata maniera. Ma è soltanto un’idea, un’astrazione. Finché resta un’idea … Tra quanti oggi giurerebbero che mai, in nessuna circostanza, ricorrerebbero alla buona morte, non pochi, di fronte ad una situazione non più immaginaria ma reale, sicuramente, potrebbero comportarsi in maniera differente. Ma è vero anche il contrario, cioè che tra quanti dichiarano che, in circostanze analoghe, sceglierebbero di anticipare la morte, molti, alla prova dei fatti opererebbero una diversa scelta rinunciando a tale proposito.
Vita e morte, disincrostate dell’astrazione, altro non sono che i nostri percorsi quotidiani Così terribili da considerare funesto persino il giorno della nascita – secondo il pastore errante di Leopardi – o così assurdi da potere essere paragonati – secondo Camus – alla fatica di Sisifo? O, per altro verso, esaltante esperienza di conoscenza e di appagamento, o alternarsi di gioia e di dolore? Una miriade interpretazioni che sfugge alla nostra conoscenza ed alla nostra esperienza futura. Cosa ne sappiamo, esercitando sana umiltà, del sentimento di chi, ormai sul ciglio del baratro, in presenza di insopportabili sofferenze, chiede di lasciarsi andare dolcemente? Abbiamo sufficienti motivi per giudicarlo e per impedirglielo? Senza contare che, il più delle volte, ciò significa semplicemente che lo costringiamo a realizzare lo stesso proposito in clandestinità o con maggiore sofferenza.
Non abbiamo ricette. Camus immagina che possa essere felice persino chi è destinato a spingere sassi lungo il pendio per tutta dal vita, senza alcuna speranza di fuggire dal supplizio. Umberto Eco afferma “Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”, e tanti altri, ciascuno secondo i propri principi.
Prendiamo atto di trovarci di fronte all’irrisolto mistero della vita e della morte. E visto che la vita, in un modo o nell’altro, la sperimentiamo, il mistero si concentra sulla nostra. La morte costituisce il nostro ultimo dubbio.
Il mistero. Io, ad esempio, in questo momento, immagino che se mi trovassi in condizioni di estrema ed insopportabile sofferenza, non solo chiederei di anticipare la fine con una buona morte, ma mi fingo persino che nel momento in cui mi comunicassero che all’indomani un medico mi accompagnerebbe dolcemente alla morte, proverei un grande senso di serenità, anzi di felicità.
Allo stesso tempo, sono certo e consapevole che, di fronte ad una situazione del genere, ne ho esperienza, potrei decidere diversamente, cioè scegliere di attendere, anche nel dolore, con altro spirito, la fine dei miei giorni.
Insomma, sappiamo così poco della vita da non poter essere certi neppure delle nostre azioni. Figuriamoci se possiamo dettare il comportamento di altre persone. Spero che né a me né ad altri venga confiscato il libero arbitrio.
Insomma chi siamo noi per giudicare? Impedire, per legge, una scelta altrui che non condividiamo è assai più di un giudizio.
Gianni Loy
Costituente Terra
una Terra
un popolo
una costituzione
una scuola
Newsletter n. 47 del 28 settembre 2021
Se il papa annuncia il Vangelo
Care Amiche ed Amici,
un singolare carteggio polemico si è scambiato in questi giorni tra due rabbini in rappresentanza dell’ebraismo mondiale e il cardinale Kurt Koch, presidente della Commissione vaticana per i rapporti religiosi con l’ebraismo. Materia del contendere è stata la catechesi sulla lettera di san Paolo ai Galati che papa Francesco sta tenendo ai fedeli nelle udienze generali del mercoledì. Per i cristiani la lettera ai Galati non è archeologia: come scrive il gesuita padre Giancarlo Pani nel presentarne un’edizione, “si tratta della prima riflessione sulla fede per la salvezza”, scritta prima ancora dei Vangeli, e in quanto chiarisce “in che cosa consista la salvezza donata da Cristo” “è fondamentale anche per noi, per i cristiani di ogni generazione e di tutti i tempi”. In particolare quella a cui i rabbini hanno reagito è la catechesi papale dell’11 agosto scorso sul tema del rapporto tra Legge e Vangelo che è al centro del messaggio paolino: i Galati, spinti da missionari rigidi e fondamentalisti stavano perdendo la libertà arrecata dal Vangelo per ricadere nel formalismo ipocrita dell’osservanza della Legge e Paolo, come fa Francesco con i fedeli di oggi, li esorta nella sua lettera a non tornare indietro per non finire di nuovo sotto le vecchie schiavitù. I due rabbini sono Rasson Arussi, che a nome del Gran Rabbinato di Israele a Gerusalemme presiede la Commissione per il dialogo con la Santa Sede, e il rabbino David Sandmel che presiede il Comitato Ebraico per le Consultazioni Interreligiose a New York; i due rabbini hanno scritto una vibrata lettera al cardinale Koch riscontrando nelle affermazioni del papa sulla liberazione dalla Legge di Mosè operata da Gesù “un insegnamento sprezzante verso gli ebrei e verso l’ebraismo”. Papa Francesco aveva fatto riferimento all’immagine paolina della Torah come “pedagogo” per giungere a Gesù, immagine non certo denigratoria, ma i rabbini hanno ritenuto che in tal modo il Papa non solo avesse presentato la fede cristiana come un superamento della Torah (che secondo Paolo Cristo aveva portata a compimento nello Spirito Santo secondo il comandamento dell’amore) ma avesse sostenuto che quest’ultima non dà la vita, il che implica che la pratica religiosa ebraica nell’era attuale è obsoleta.
Questa protesta ufficiale dell’ebraismo è giunta come un fulmine a ciel sereno e del tutto imprevedibile perché mai come con papa Francesco i rapporti del cristianesimo con le altre religioni sono state presentate in modo più accogliente e meno esclusivo, mentre uno straordinario amore il papa ha manifestato in tutti i modi proprio nei riguardi degli ebrei. Degli stessi Comandamenti il papa non aveva affatto detto che non si dovessero osservare ma che anzi bisogna camminare sulla loro strada, senza però cadere nel fondamentalismo che distoglie dall’incontro con Gesù e quindi con il Padre. Né si può dire che Francesco avesse detto qualcosa di nuovo riguardo ai rapporti con l’ebraismo o vi avesse aggiunto qualcosa di suo; lui stesso ha espresso meraviglia per l’accusa che gli era stata rivolta quando in una successiva catechesi, quella del 1 settembre, senza arretrare dal suo insegnamento, ha detto che la sua spiegazione della Lettera di San Paolo ai Galati “non è una cosa nuova, una cosa mia; è quello che dice San Paolo, in un conflitto molto serio, ai Galati. Ed è anche Parola di Dio, perché è entrata nella Bibbia. Non sono cose che qualcuno si inventa, no. È una cosa che è successa in quel tempo e che può ripetersi”. Perché dunque i rabbini se l’erano presa?
Una risposta articolata è stata poi fornita ai due interlocutori in una lettera del cardinale Koch, scritta dopo aver sentito il papa stesso. In essa si dice che “la convinzione cristiana costante è che Gesù Cristo è la nuova via di salvezza. Tuttavia questo non significa che la Torah sia sminuita o non più riconosciuta come la ‘via di salvezza per gli ebrei’”. Come il Papa aveva detto in un discorso fatto in Vaticano nel 2015 al Consiglio internazionale dei cristiani e degli ebrei, che il cardinale richiama e conferma, “le confessioni cristiane trovano la loro unità in Cristo; il giudaismo trova la sua unità nella Torah. I cristiani credono che Gesù Cristo è la Parola di Dio fatta carne nel mondo; per gli ebrei la Parola di Dio è presente soprattutto nella Torah. Entrambe le tradizioni di fede trovano il loro fondamento nel Dio unico, il Dio dell’Alleanza, che si rivela attraverso la sua Parola”.
Questa controversia che si è accesa tra il papa e gli ebrei è sorprendente perché non ha altra causa che la predicazione del Vangelo, come se essa stessa fosse causa di offesa per gli ebrei; ma se così fosse sarebbe il Vangelo stesso a dover essere taciuto, non ci sarebbe rimedio all’inimicizia e tutti gli sforzi fatti per stabilire una vera comunione con gli ebrei dopo il Concilio sarebbero vani. La pietra dello scandalo sarebbe la teologia di Paolo che più di ogni altro ha presentato la novità cristiana come una liberazione dalla legge mosaica. In effetti Paolo è sempre stato considerato un nemico dagli ebrei, che gli imputano di aver teorizzato il trasferimento dell’elezione divina da Israele alla Chiesa. Ma non tutti gli ebrei pensano così e qui va ricordata la rilettura di Paolo fatta dal grande intellettuale ebreo Jacob Taubes che nel suo seminario tenuto poco prima di morire a Heidelberg nel 1987 su “La teologia politica di san Paolo” , ha sostenuto che Paolo non è un “convertito” dall’ebraismo, non di questo si sarebbe trattato nel famoso episodio di Damasco; si trattò invece di una chiamata, di una vocazione, come quella di un altro grande profeta ebreo, Geremia, che, prima ancora di nascere era stato “stabilito profeta delle nazioni” (Ger. 1,5); è lo stesso Paolo, osservava Taubes, che si presenta come “chiamato” ad un compito, prescelto per vocazione ad essere apostolo (infatti non lo era, come gli altri dodici), “inviato dagli ebrei ai pagani”, restando, pertanto, ebreo. Né Paolo ha tradito l’ebraismo perché tutt’altro che affermare una revoca delle promesse di Dio al popolo eletto, ha sostenuto che la promessa di Dio al popolo d’Israele è irrevocabile; non si trattava per lui di trasferire l’elezione da un popolo a un altro, sia pure più grande, ma di estendere l’elezione a tutti i popoli in forza non più di un’obbedienza alla legge ma di una “obbedienza alla fede”; e la dialettica interna di questa posizione è quella espressa nel cap. 9 della lettera ai Romani, secondo cui si trattava di volgere gli stranieri alla fede per “ingelosire” Israele; e quando a causa dell’ “indurimento” di una parte d’Israele fosse entrata la totalità delle nazioni, allora tutto Israele (pás Israel) sarebbe stato salvato, come dice al cap. 11 la lettera ai Romani. Questa è la tesi di Taubes che fa di Paolo il grande profeta ebreo chiamato da Dio a passare il testimone dagli ebrei ai pagani, e perciò a tutti gli uomini, senza peraltro sottrarlo ai primi.
Che interesse ha ricordare questa interpretazione ebraica della figura di Paolo (che si può trovare in un capitolo del libro di Raniero La Valle “Prima che l’amore finisca”, e si può leggere ora nella terza sala – l’unità umana – del sito http://labibliotecadialessandria.costituenteterra.it/)? La sua attualità sta nel fatto che se i rabbini che hanno protestato col papa per la sua catechesi su Paolo l’avessero tenuta presente non avrebbero scritto la loro protesta; ma soprattutto è utile perché ristabilire attraverso lo stesso Paolo una continuità dell’economia salvifica divina tra l’ebraismo e il cristianesimo sarebbe un grande contributo alla costruzione dell’unità umana oggi così necessaria, non solo per le sorti politiche del mondo ma per la sua stessa continuità e sopravvivenza.
Una cronaca della crisi intervenuta tra Vaticano e ebrei si può trovare nella sezione “Dicono i fatti” del sito Chiesadituttichiesadeipoveri.
Con i più cordiali saluti
http://www.costituenteterra.it/
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L’Islam non avanza con la spada
Lettera aperta ad Al-Baghdadi
Giovedì 24 Settembre 2014, 126 tra i maggiori sapienti e accademici dell’Islam di tutto il mondo hanno pubblicato una lettera aperta nella quale vengono confutate le argomentazioni religiose sostenute dal gruppo definito “Stato Islamico” (IS) (anche noto come DA’ISH, ISIS, e ISIL). La lettera, costituita da 22 pagine, è stata originariamente redatta in lingua araba e poggia saldamente sulle citazioni dal Corano e sugli Hadith, in modo tale da confutare in principio il complesso di convinzioni e azioni violente di questo gruppo. Sebbene questa non sia la prima volta che l’IS venga condannato dai sapienti musulmani, si tratta di certo della prima dichiarazione approfondita ed esauriente, basata proprio sulle fonti che lo stesso IS dichiara di prendere come modello, che viene pubblicata dai sapienti sunniti così da mostrare i motivi per i quali l’IS è in errore. La lettera si presenta nel modo tradizionalmente educato di dare consigli.
Sintesi
1. Nell’Islam è vietato emettere una fatwa [sentenza giuridica, n.d.t.], senza le necessarie qualificazioni di studio. E anche qualora questo venga rispettato, le fatwa devono conformarsi alla teoria legale islamica così come è definita nei testi classici. E’ anche vietato citare i versetti coranici, o parte di essi, da cui estrapolare un norma, senza fare riferimento a quanto il Corano e gli Hadith insegnano sul quel particolare argomento. In altre parole, vi sono requisiti rigorosi, sia soggettivi che oggettivi, per emettere sentenze giuridiche e nessuno può prendere a piacere parti del testo Coranico da cui trarre argomentazioni legali senza tener conto dell’interezza del Corano e degli Hadith.
2. Nell’Islam è vietato pubblicare sentenze legali a qualsiasi riguardo se non si ha una completa padronanza della lingua sacra dell’Arabo.
3. Nell’Islam è vietato semplificare eccessivamente le regole della Sharia ignorando le consolidate scienze religiose dell’Islam.
4. Nell’Islam è concesso (agli studiosi) di non essere concordi su determinati punti, tranne sui principi fondamentali della religione che devono essere parte basilare delle conoscenze di ogni musulmano.
5. Nell’Islam è vietato non tener conto della realtà del contesto contemporaneo quando vengono
espresse sentenze giuridiche.
6. Nell’Islam è vietato uccidere gli innocenti.
7. Nell’Islam è vietato uccidere emissari, ambasciatori e diplomatici, così come uccidere i giornalisti e i loro assistenti.
8. Il Jihad nell’Islam è una guerra a scopo difensivo. Non è lecito condurla senza una giusta causa, per uno scopo retto e senza precise regole di condotta.
1 Il testo in italiano è a cura della CO.RE.IS. (Comunità Religiosa Islamica) Italiana, tradotto dall’edizione inglese della lettera, pubblicata a Washington dal Direttore del Consiglio per i rapporti americano-islamici (CAIR), Nihad Awad, accompagnato da dieci altri rappresentanti religiosi musulmani americani e leader nel campo dei diritti civili.
9. Nell’Islam è vietato affermare che qualcuno non è musulmano a meno che questa persona non abbia dichiarato apertamente la sua miscredenza.
10. Nell’Islam è vietato maltrattare o ferire in qualsiasi modo i Cristiani e le “Genti della Libro”.
11. E’ obbligatorio ritenere gli Yazidi “Genti del Libro”.
12. Nell’Islam la reintroduzione della schiavitù è vietata, ed è stata abolita all’unanimità.
13. Nell’Islam è vietato forzare le persone alla conversione.
14. Nell’Islam è vietato privare le donne dei loro diritti.
15. Nell’Islam è vietato privare i bambini dei loro diritti.
16. Nell’Islam è vietato promulgare pene legali (hudud) se non si seguono le corrette procedure
che mirano a garantire congiuntamente giustizia e indulgenza.
17. Nell’Islam è vietato torturare le persone.
18. Nell’Islam è vietato sfigurare i morti.
19. Nell’Islam è vietato attribuire a Dio azioni malvage.
20. Nell’Islam è vietato distruggere le tombe e le reliquie dei Profeti e dei Compagni.
21. Nell’Islam è vietata l’insurrezione armata fuorché nei casi in cui il sovrano manifesti
chiaramente la sua miscredenza e impedisca di compiere la preghiera.
22. Nell’Islam è vietato dichiarare un califfato senza il consenso unanime di tutti i musulmani.
23. Nell’Islam è permesso provare amore verso la propria patria.
24. Dopo la morte del Profeta a nessun musulmano è richiesto di emigrare.
In nome di Dio, Misericordioso nella trascendenza e nell’immanenza,
sia lode a Dio il Signore dei Mondi,
e la Pace e le Benedizioni siano sul Sigillo dei Profeti e degli Inviati.
“Per il giorno che declina! In verità l’Uomo è in decadenza, Eccetto coloro che credono e
compiono le opere pure, e si esortano vicendevolmente alla verità, e si esortano
vicendevolmente alla pazienza” (Al-‘Asr, 103:1-3)
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Pandemia e scenario sanitario internazionale
17-09-2021 – di: Nicoletta Dentico su Volerelaluna*
A quasi due anni dall’inizio del contagio che piega il mondo, e delle inequivocabili pedagogie che assimilano l’emergenza umana all’emergenza sanitaria del pianeta, la salute domina la scena come scacchiera di una partita geopolitica aspra e confusa. L’annunciato nuovo coronavirus – che oramai tanto nuovo non è più – non avrebbe mai dovuto diventare una pandemia. Lo ha dichiarato senza fronzoli il rapporto del Panel Indipendente della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms): la comunità internazionale aveva tutte le competenze tecniche e le regole operative vincolanti per serrare i confini del primo focolaio virale e farne una epidemia circoscritta geograficamente. Non lo ha fatto. La catastrofe sanitaria in cui ci troviamo ancora, con la fame acuita e la crisi socio-economica che fanno da corollario pandemico, è il frutto avvelenato della incapacità dei governi di aderire alle norme del diritto internazionale e di cooperare, come pur accadeva in passato durante la guerra fredda, sul terreno della salute.
Forse sulla scia di questa responsabilità storica non propriamente interiorizzata, la comunità internazionale continua a incontrarsi – non si sono mai visti tanti appuntamenti multilaterali sulla salute globale come nel 2021 – ma nella totale incapacità di andare oltre le formule di circostanza, che sono il metronomo della nostra vita pubblica. Il sostanziale rigetto di un impulso universalistico, sotto l’egida delle istituzioni internazionali deputate a governarlo, si è infilato come un virus nella Babele di iniziative individuali e di strutture che germinano come schegge di un multilateralismo in frantumi.
Qualche esempio? L’Europa ha avviato a gennaio una demarche a favore di un trattato pandemico in seno all’Oms; a maggio la Svizzera ha lanciato il suo BioHub e la Germania il suo l’Hub globale per la intelligence pandemica ed epidemica. A giugno il consigliere scientifico della Casa Bianca, Eric Lander, è partito con l’idea che un vaccino debba essere pronto in 100 giorni dallo scoppio della prossima pandemia e solo qualche giorno fa il presidente Joe Biden, assai poco propenso all’idea di negoziare un trattato, ha proposto un summit internazionale sul Covid-19 e sulle vaccinazioni in concomitanza con la Assemblea dell’ONU a New York. È notizia recente anche il piano di USA ed Europa di resuscitare l’esplosivo Transatlantic Trade and Investment Partnership (notorio come TTIP), dissotterrando il negoziato seppellito nel 2016 per ripescare l’alleanza atlantica in versione anti-Cina. La posta in palio della nuova rotta bilaterale, annunciata prima del G7, non punterà più solo a specifici settori dell’industria, ma all’intelligenza artificiale, alla governance dei dati, agli standard industriali tout court. Il primo incontro del Trade and Tech Council fra Bruxelles e Washington è previsto a Pittsburgh il 29 settembre .
La pandemia insomma ha ridisegnato i contorni dell’ordine internazionale, non solo sanitario, con impreviste forme di protagonismo e pigli di potere debitamente mascherati dalla retorica della interdipendenza, della cooperazione. La comunità internazionale si proietta in un futuro pandemico come fosse un destino a cui non può più sottrarsi. Vero: altre pandemie prosperano silenziose – ad esempio la antibiotico-resistenza, per cui l’Italia vanta il record di casi nel contesto europeo; incombe il pericolo di nuovi salti di specie dei virus, in linea di continuità con le incalzanti zoonosi che hanno marchiato l’inizio del millennio – visto che nessuno sembra intenzionato a mettere in discussione il conflitto irriducibile fra capitalismo e sostenibilità ecologica.
Ma la costruzione di uno scenario di “preparazione e risposta alle pandemie” (pandemic preparedness and response), al posto di una loro futura prevenzione, serve eccome a riconfigurare gli assetti della governance sanitaria mondiale. È una prospettiva munifica di benefici per quanti indirizzano la salute verso pratiche sempre più securitarie e personalizzate grazie a soluzioni tecnologiche non più obiettabili, perché considerate la strada più economica e affidabile per intercettare ogni avvisaglia futura. I cantori di questa strategia, tutt’altro che neutrale, apparecchiano danni ambientali non trascurabili ma soprattutto non trascurabili profitti per l’industria digitale che nessuno controlla, men che meno in tempo di pandemia.
Dal canto loro, è chiaro che le aziende che producono vaccini non hanno alcun interesse ad eradicare la pandemia, casomai puntano a endemizzarla, così da prolungare al massimo la grande abbuffata che Covid-19 ha servito su un piatto d’argento. Uno tsunami di investimenti pubblici e zero rischi d’impresa: in un anno la pandemia ha generato 8 nuovi miliardari farmaceutici, 5 dei quali afferiscono alla start up americana Moderna. L’idea di un Global Health Threats Board and Fund per gestire le emergenze sanitarie, avanzata dal Panel indipendente dell’Oms e dal G20 con la benedizione della amministrazione americana, va dritta in questa direzione: l’ennesimo dispositivo multi-stakeholder per una nuova immuno-politica farmaco-digitale. Con lauti finanziamenti pubblici, l’industria farmaceutica terrà ben stretto il coltello dalla parte del manico per sfornare le tecnologie bioinformatiche e le soluzioni biomediche per future pandemie.
Nell’aprile 2020, la creazione dell’Access to Covid-19 Tool Accelerator (ACT-A) per la ricerca e distribuzione globale dei rimedi contro il Covid – proposto dalla Fondazione Gates con l’estatica accoglienza della Commissione Europea e della presidenza francese, e l’imprimatur della Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) – ha decretato la scelta della comunità internazionale di affidare a partnership pubblico-private la gestione internazionale della prima crisi di salute planetaria. Sono entità di diritto privato e densamente popolate da Big Pharma come Global Alliance for Vaccine Immunization (GAVI) e Coalition for Epidemic Preparedness and Innovation (CEPI), che detengono la conduzione operativa della emergenza su scala globale, finanziata dai governi. Con inspiegabile euforia, l’analista brasiliano Carlos Federico Pereira da Silva Gama scrive che il pilastro vaccinale di ACT-A, COVAX, è il trampolino di lancio della nuova governance della salute globale dopo la pandemia. Peccato che COVAX sia «una sorta di banca d’affari che usa capitali pubblici per conformare l’industria della preparazione dei vaccini e il mercato dei consumatori nel Sud del mondo», con grave vulnus per la cooperazione multilaterale, secondo l’ex diplomatico Harris Gleckman.
Nella retrocessione e deformazione del ruolo dello Stato, i governi dei paesi più influenti non risultano quasi più distinguibili dal settore privato, ingabbiati come sono in politiche che generano iniquità, ma condite di parole positive che vengono di volta in volta profanate, sfigurate: People, Planet, Prosperity, Peace and Partnership. L’adesione governativa alle classiche istituzioni sanitarie multilaterali si è friabilizzata con la progressiva istituzionalizzazione degli interessi privati degli ultimi venti anni.
Oggi la surreale incapacità di un impegno governativo adeguato alla razionale pedagogia di Covid-19 non risparmia nessuno. Ne è un recente esempio la sessione ministeriale del G20 salute tenutasi a Roma il 5 e 6 settembre con il banner ufficiale “Together Today for a Healthier Tomorrow” (“Insieme oggi per un domani in miglior salute”). Questa si è conclusa con il cosiddetto “Patto di Roma”, un documento di undici pagine infarcite di aspirazioni altisonanti sistematicamente smentite dalla realtà di apartheid sanitario nella gestione della pandemia. Il ministro Roberto Speranza ha dichiarato che il Patto di Roma «manda un messaggio fortissimo al mondo: che il globo è unito». Ma le fonti raccolte alla vigilia dell’incontro, e il suo svolgimento seguito in diretta dai colleghi del G-20, raccontano di tensioni insanabili all’interno. Soprattutto, ma non solo, fra Stati Uniti e Cina. Tali per cui non si va oltre i luoghi comuni e la vaghezza operativa.
Così, nel secondo anno pandemico, la salute resta terreno di un confronto aspro. D’altronde, la disuguaglianza nella distribuzione e somministrazione globale dei vaccini restituisce una realtà molto netta: la solidarietà resta un miraggio, impigliata com’è nei fili spezzati di un multilateralismo di facciata. L’IMF-WHO COVID-19 Supply Tracker, il dispositivo che fornisce i dati aggiornati sulle linee di approvvigionamento certe o attese di vaccini in rapporto alla popolazione, spiega come Canada, Australia, Nuova Zelanda, Gran Bretagna e Stati Uniti si siano assicurati dosi per una copertura stimata tra 200 e 400% della loro popolazione. Ursula von der Leyen ha annunciato il 70% di copertura in Europa a fine agosto. Ma le 5,3 miliardi di dosi somministrate finora hanno raggiunto solo l’1,6% della popolazione del Sud del mondo, con la prima iniezione. E così 3,5 miliardi di persone attendono la prima vaccinazione, in uno scenario tecnicamente complicato da vaccini Covid inadatti ai paesi con scarse strutture sanitarie – si pensi alla improbabile catena del freddo, o alla necessità della doppia dose in assenza di registri vaccinali centralizzati.
Si contano 4,6 milioni di decessi a causa di Covid-19, ma il numero reale potrebbe essere almeno il doppio, visto che la pandemia è sempre più concentrata nei paesi del Sud globale. Così, mentre COVAX rivede al ribasso le proiezioni di fine anno per la distribuzione dei vaccini, lo iato tra accaparramento vaccinale dei paesi ricchi – oggi concentrati sulla terza dose – e la radicale penuria di vaccini nei paesi impoveriti si aggrava, soprattutto in Africa.
Si stima che la popolazione africana raggiungerà il 60% di copertura vaccinale solo nella metà del 2023 – con una perdita di PIL calcolata in ragione di 2,3 miliardi di miliardi di dollari tra il 2022 e il 2025. Nella sola Italia a presidenza G20 (60,36 milioni di abitanti) sono stati somministrati più vaccini di quanto non siano stati iniettati in tutto il continente africano (1,3 miliardi di persone). Come all’inizio, questa condizione spiana la strada alla cinetica del virus, più ostica in forza delle nuove varianti. E infatti i casi, le ospedalizzazioni, le morti stanno in risalita in molte parti del pianeta. Israele, la nazione apripista per le spregiudicate strategie vaccinali dell’inizio 2021, si ritrova in piena ripresa del contagio con la variante Delta dominante e la Mu che emerge sulla scena: 1.000 casi su 1 milione di abitanti, il numero più elevato al mondo.
Ma il G20 salute non demorde. Neppure il rutilante Patto di Roma, in cui i paesi del G20 si impegnano a fare di tutto, si azzarda a osare un minimo accenno alla concreta misura politica, prevista dal diritto internazionale, che riguarda la sospensione temporanea dei diritti di proprietà intellettuale (TRIPS Waiver). Fra i suoi Stati membri, il G20 annovera India e Sudafrica promotori della proposta: in febbrile discussione mentre scriviamo al Consiglio dei TRIPS, al WTO. Non basta l’insistenza di diversi governi del G20 in favore del waiver per trovarne un riferimento nel documento della ministeriale: la stucchevole retorica sul vaccino bene comune si incaglia per la seconda volta, dopo il summit sulla salute globale del G20 del 21 maggio, nel silenzio tombale su questa ipotesi di lavoro sostenuta da oltre cento paesi dell’Organizzazione Mondiale del Commercio e da molte istituzioni internazionali.
La sospensione dei diritti di proprietà intellettuale forzerebbe una transizione verso la logica di cooperazione tra Stati, spesso del tutto inconsapevoli dei meccanismi che regolano l’industria farmaceutica. Indicherebbe una possibilità di nuove rotte per immunizzare la comunità internazionale dal feudalismo della economia della conoscenza. Ma no: questo waiver non s’ha da fare, secondo il G20. Né ora né mai.
Anzi, la politica è in piena fase regressiva su questa materia. Covid ha dato alla UE il pretesto per rivedere il Piano di Azione sulla proprietà intellettuale a sostegno della strategia di Ripresa e Resilienza, per indirizzarlo al sconcertante rafforzamento della proprietà intellettuale e alla promozione sperticata delle licenze volontarie come «la via maestra per la condivisione della conoscenza». La stessa cosa sta facendo in Italia il MISE con il piano di riforma della proprietà industriale. Non deve dunque sorprendere la sindrome da rimozione del G20 e del Patto di Roma. Il documento cita sì la necessità di diversificare e rafforzare le produzioni medicali nel Sud del mondo, abbattendo però solo gli ostacoli commerciali e doganali. Il G20 prevede un complesso meccanismo di spinta pubblica alle aziende farmaceutiche perché trasferiscano le loro tecnologie con licenze volontarie che lasciano intatti i monopoli della scienza medica. Uno scenario che si sta dinamizzando da qualche mese, ma anche con vicende paradossali. Alla vigilia del G20 Salute, Ursula von der Leyen ha accettato alla fine di rimandare in Africa milioni di dosi di vaccini anti-Covid prodotti dalla joint venture di Johnson & Johnson e la sudafricana Aspen Pharmacare: erano stati esportati in Europa!
Intanto le decisioni del G20 che contano sulla salute saranno forse prese nella sessione congiunta salute-finanze di fine ottobre. Il sito del ministero della Salute lo annuncia: sarà la sede «per affrontare in particolare la questione fondamentale di come migliorare l’architettura globale della sanità». Spetta dunque alle logiche finanziarie sancire le priorità sanitarie da sostenere, in uno schema di gioco che rischia di ripetere quanto già visto dagli anni ’90 in poi con Banca Mondiale e FMI. Non c’è di che stare tranquilli: uno studio della Initiative for Policy Dialogue della Columbia University segnala uno tsunami di politiche di austerity in arrivo. Le analisi delle proiezioni fiscali del Fondo Monetario Internazionale (FMI) indicano che nuove misure di austerity sono attese in 154 paesi nel 2021 e in 159 paesi entro il 2022 – una pandemia finanziaria che si abbatte su 6,6 miliardi di persone, l’85% della popolazione mondiale, e con una tendenza patologica destinata a durare fino al 2025.
David Quammen ha scritto che non eravamo preparati alla pandemia per mancanza di immaginazione. Forse è questo il vero virus che uccide molto più di Covid.
*L’articolo, tratto dal sito di Sbilanciamoci!, è ripubblicato da Volerelaluna, con cui è in atto un accordo di collaborazione.
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Il Servizio sanitario nazionale è arrivato impreparato all’appuntamento con il COVID-19, penalizzato da anni di de-finanziamento, di tagli dei posti letto e del personale e da politiche che hanno inciso negativamente sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione. Ha mostrato le sue debolezze e fragilità. Rapidamente si è sviluppato un generale consenso politico sulla necessità di rafforzare il servizio sanitario nazionale. Ma passata la fase acuta della pandemia, la sanità è ben presto tornata a occupare la parte bassa della classifica delle priorità̀ del paese.
La conferma che non fosse in vista alcun rafforzamento del SSN è arrivata già lo scorso aprile quando il Governo ha reso note le previsioni di andamento della spesa sanitaria pubblica. Se dal 2017 al 2020 questa percentuale era rimasta ferma al 6,6% del PIL (tra le più̀ basse in Europa), impennandosi al 7,3% nel 2021 a causa delle spese COVID, la tendenza programmata negli anni successivi mira decisamente al ribasso: 6,7% nel 2022; 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024.
Un pessimo segnale che indica il ritorno allo scenario che, a partire dal 2011, ha penalizzato il SSN, riducendo risorse umane e strutturali, tagliando l’offerta pubblica di servizi, provocando lo scandaloso allungamento delle liste d’attesa e favorendo l’espansione dell’offerta privata, trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative aziendali. La lezione della pandemia non è servita.
Diversi indizi stanno anzi a indicare che è sempre più attuale il disegno di privatizzare la sanità italiana, iniettandovi generose dosi di mercato.
Primo indizio: il personale del SSN al palo
Mentre si registra un grande attivismo per garantire ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del SSN che nell’ultimo decennio ha subito una drastica riduzione. E non c’è alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Infatti le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Ed è anche necessario un maggior impegno affinché le Università adeguino la loro offerta formativa alle esigenze della popolazione.
Nel frattempo continua la fuga all’estero del nostro personale sanitario. Nell’ultimo decennio sono 10mila i medici italiani migrati all’estero, che arrivano a rappresentare il 50% dei medici stranieri presenti in Europa. Questa è la priorità assoluta: formare ed assumere alcune migliaia di medici e infermieri nei servizi pubblici.
Secondo indizio: la lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria
Durante la pandemia gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie fatica ora a vedersi, e i pazienti si stanno abituando a evitare le strutture pubbliche, per lo più in ristrutturazione e riorganizzazione. Si ricorre quindi al privato che al contrario, avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali, non ha bisogno di grandi ricostruzioni. Il rischio è che i 500 milioni messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché a rinforzare la ripresa delle attività nel SSN, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato di molti soggetti privati. Così come, i fondi del PNRR per l’assistenza domiciliare integrata rischiano di essere destinati a erogatori privati anziché a rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici.
Terzo indizio: concorrenza sleale
Nel marzo del 2021, l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri con la sua annuale Segnalazione di Proposte di riforma concorrenziale ha sollecitato: “… una maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate grazie a … una più intensa integrazione fra pubblico e privato volta ad incentivare la libera scelta di medici, assistiti e terzo pagante”. Vi è anche l’invito a eliminare “… il vincolo della verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari, prevedendo che l’accesso dei privati all’esercizio di attività̀ sanitarie non convenzionate con il SSN sia svincolato dalla verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari”.
Ci auguriamo che il Governo respinga – come accaduto nel passato – una raccomandazione pericolosa che assimila gli ospedali alle imprese. Certamente si tratterebbe di concorrenza sleale il comportamento di un Governo che da una parte apre i rubinetti della concorrenza tra pubblico e privato e dall’altra lega le gambe al competitore pubblico.
Quarto indizio: il modello lombardo è OK
La lezione della pandemia avrebbe dovuto produrre profonde correzioni a un modello di sistema sanitario (dimostratosi fallimentare nella lotta al Covid) che aveva cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private, e instaurato in campo ospedaliero una concorrenza tra settore pubblico e settore privato, fortemente squilibrata a favore del secondo. Tale modello era il frutto di riforme avviate fin dal 1995 dalla presidenza Formigoni e proseguite con la riforma Maroni del 2015. Tale riforma aveva carattere sperimentale e soggetta, dopo 5 anni, alla valutazione da parte del Ministero della salute, che ha deciso di delegare tale funzione all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Con una stringata lettera del 30 luglio scorso Agenas da il suo OK preventivo alla riforma, dopo che ne sono state annunciate minime, cosmetiche correzioni.
Alla vigilia della predisposizione della legge di bilancio 2022 e della annunciata legge sulla concorrenza, è indispensabile correggere questi indizi e la nostra Associazione presenterà un documento più dettagliato di analisi e proposte per intraprendere la strada giusta che permetta di rafforzare il sistema sanitario pubblico.
14 settembre 2021.
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Il documento presentato in conferenza stampa dall’associazione Salute Diritto fondamentale. Per maggiori informazioni potete utilizzare il sito: https://salutedirittofondamentale.it/.
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In homepage l’immagine “E guarirai da tutte le malattie… ed io, avrò cura di te” (Dio smaterializza la struttura molecolare del Coronavirus COVID-19 sull’Italia e sul mondo per porre fine alla pandemia del 2019-2020), china su graphia, opera dell’artista Giovanni Guida, 2020, tratta da Wikimedia Commons
Difendiamo la Salute
Il Servizio sanitario nazionale è arrivato impreparato all’appuntamento con il COVID-19, penalizzato da anni di de-finanziamento, di tagli dei posti letto e del personale e da politiche che hanno inciso negativamente sulla tenuta dei servizi territoriali e di prevenzione. Ha mostrato le sue debolezze e fragilità. Rapidamente si è sviluppato un generale consenso politico sulla necessità di rafforzare il servizio sanitario nazionale. Ma passata la fase acuta della pandemia, la sanità è ben presto tornata a occupare la parte bassa della classifica delle priorità̀ del paese.
La conferma che non fosse in vista alcun rafforzamento del SSN è arrivata già lo scorso aprile quando il Governo ha reso note le previsioni di andamento della spesa sanitaria pubblica. Se dal 2017 al 2020 questa percentuale era rimasta ferma al 6,6% del PIL (tra le più̀ basse in Europa), impennandosi al 7,3% nel 2021 a causa delle spese COVID, la tendenza programmata negli anni successivi mira decisamente al ribasso: 6,7% nel 2022; 6,6% nel 2023 e addirittura 6,3% nel 2024.
Un pessimo segnale che indica il ritorno allo scenario che, a partire dal 2011, ha penalizzato il SSN, riducendo risorse umane e strutturali, tagliando l’offerta pubblica di servizi, provocando lo scandaloso allungamento delle liste d’attesa e favorendo l’espansione dell’offerta privata, trainata anche dalla diffusione di varie forme di assicurazioni integrative aziendali. La lezione della pandemia non è servita.
Diversi indizi stanno anzi a indicare che è sempre più attuale il disegno di privatizzare la sanità italiana, iniettandovi generose dosi di mercato.
Primo indizio: il personale del SSN al palo
Mentre si registra un grande attivismo per garantire ai soggetti privati l’accesso ai finanziamenti europei nessuna buona notizia arriva dal fronte del personale del SSN che nell’ultimo decennio ha subito una drastica riduzione. E non c’è alcun segnale di inversione di tendenza dati i limiti previsti nella spesa corrente e la mancata rimozione dei vincoli che limitano le assunzioni stabili. Infatti le assunzioni di medici e infermieri, effettuate in emergenza Covid, sono state tutte a tempo determinato. Ed è anche necessario un maggior impegno affinché le Università adeguino la loro offerta formativa alle esigenze della popolazione.
Nel frattempo continua la fuga all’estero del nostro personale sanitario. Nell’ultimo decennio sono 10mila i medici italiani migrati all’estero, che arrivano a rappresentare il 50% dei medici stranieri presenti in Europa. Questa è la priorità assoluta: formare ed assumere alcune migliaia di medici e infermieri nei servizi pubblici.
Secondo indizio: la lentezza nella ripresa dell’attività ordinaria
Durante la pandemia gran parte dei servizi sono stati ridotti o addirittura sospesi, con ricadute negative sulla salute delle persone. La ripresa delle attività ordinarie fatica ora a vedersi, e i pazienti si stanno abituando a evitare le strutture pubbliche, per lo più in ristrutturazione e riorganizzazione. Si ricorre quindi al privato che al contrario, avendo partecipato solo marginalmente alle attività emergenziali, non ha bisogno di grandi ricostruzioni. Il rischio è che i 500 milioni messi a disposizione per smaltire le liste di attesa siano destinati tutti al privato, anziché a rinforzare la ripresa delle attività nel SSN, indebolendo ulteriormente l’offerta pubblica e aumentando il potere di mercato di molti soggetti privati. Così come, i fondi del PNRR per l’assistenza domiciliare integrata rischiano di essere destinati a erogatori privati anziché a rafforzare la presa in carico globale e integrata da parte dei servizi pubblici.
Terzo indizio: concorrenza sleale
Nel marzo del 2021, l’Autorità̀ Garante della Concorrenza e del Mercato rivolgendosi al Presidente del Consiglio dei Ministri con la sua annuale Segnalazione di Proposte di riforma concorrenziale ha sollecitato: “… una maggiore apertura all’accesso delle strutture private all’esercizio di attività sanitarie non convenzionate grazie a … una più intensa integrazione fra pubblico e privato volta ad incentivare la libera scelta di medici, assistiti e terzo pagante”. Vi è anche l’invito a eliminare “… il vincolo della verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari, prevedendo che l’accesso dei privati all’esercizio di attività̀ sanitarie non convenzionate con il SSN sia svincolato dalla verifica del fabbisogno regionale di servizi sanitari”.
Ci auguriamo che il Governo respinga – come accaduto nel passato – una raccomandazione pericolosa che assimila gli ospedali alle imprese. Certamente si tratterebbe di concorrenza sleale il comportamento di un Governo che da una parte apre i rubinetti della concorrenza tra pubblico e privato e dall’altra lega le gambe al competitore pubblico.
Quarto indizio: il modello lombardo è OK
La lezione della pandemia avrebbe dovuto produrre profonde correzioni a un modello di sistema sanitario (dimostratosi fallimentare nella lotta al Covid) che aveva cancellato la rete dei servizi territoriali pubblici, affidando l’erogazione delle prestazioni domiciliari ad agenzie private, e instaurato in campo ospedaliero una concorrenza tra settore pubblico e settore privato, fortemente squilibrata a favore del secondo. Tale modello era il frutto di riforme avviate fin dal 1995 dalla presidenza Formigoni e proseguite con la riforma Maroni del 2015. Tale riforma aveva carattere sperimentale e soggetta, dopo 5 anni, alla valutazione da parte del Ministero della salute, che ha deciso di delegare tale funzione all’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali. Con una stringata lettera del 30 luglio scorso Agenas da il suo OK preventivo alla riforma, dopo che ne sono state annunciate minime, cosmetiche correzioni.
Alla vigilia della predisposizione della legge di bilancio 2022 e della annunciata legge sulla concorrenza, è indispensabile correggere questi indizi e la nostra Associazione presenterà un documento più dettagliato di analisi e proposte per intraprendere la strada giusta che permetta di rafforzare il sistema sanitario pubblico.
14 settembre 2021.
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Il documento presentato in conferenza stampa dall’associazione Salute Diritto fondamentale. Per maggiori informazioni potete utilizzare il sito: https://salutedirittofondamentale.it/.
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RIMBALZI
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Eros e Agape si fondono in Beatrice
da Il Sole 24 Ore – 12 settembre 2021 – Ripubblicato su Il Cortile dei Gentili.
di Gianfranco Ravasi.
Continuano le celebrazioni per l’anniversario dantesco, e in questo articolo il Cardinale Gianfranco Ravasi narra come nella donna di Dante avvenga il transito dal fascino erotico all’amore spirituale che la rende un simbolo della Chiesa.
Nella notte tra il 13 e il 14 settembre di settecento anni fa si spegneva a 56 anni e pochi mesi a Ravenna Dante Alighieri. Colui che aveva celebrato i massimi teologi del suo tempo come Tommaso d’Aquino, Bonaventura o Bernardo e che rivelava nei suoi versi una straordinaria attrezzatura filosofico-teologica, non poteva non stimolare anche i maggiori teologi del Novecento. Così Romano Guardini (1885-1968) componeva una serie di Studi su Dante che la Morcelliana traduceva già nel 1967. Curioso era il suo rimando autobiografico che coinvolgeva uno dei critici eminenti di allora, l’autore della celebre Mimesis: «Un giorno mi si parlò del libro di Erich Auerbach. Già il titolo era eccitante: Dante poeta del mondo terreno. Ma il suo contenuto fu ancora superiore all’aspettativa. Dante vi era designato come il poeta cristiano nel senso più profondo». E il famoso teologo tedesco lo spiegava sulla base del tema centrale cristologico dell’Incarnazione, prendendo spunto dal «laico» Auerbach.
Nel settimo centenario dantesco che stiamo celebrando la Jaca Book ha pensato di riportare sulla ribalta un altro gigante della teologia novecentesca, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1988). Lo ha fatto stralciando dall’imponente cattedrale sistematica del suo capolavoro, i sette tomi di Gloria. Per un’estetica teologica (1961-69), un saggio intitolato Dante e la Divina Commedia, appartenente al terzo volume («Stili laicali») purtroppo con uno svarione nella quarta di copertina ove si assegna a san Bonaventura l’inno orante finale alla Vergine Madre che in realtà è intonato da san Bernardo. È, comunque, arduo riassumere il percorso proposto dal teologo di Lucerna e «il lungo studio e ’l grande amore» – per usare l’espressione che il poeta indirizzava a Virgilio (Inferno I, 83) – da lui dedicato non solo alla Commedia, ma anche al Convivio e alla Vita Nuova.
Egli identifica innanzitutto le «vie vergini» (che, con un’altra gaffe clamorosa dell’editore diventano «le mie vergini» nei titoletti del capitolo!) intraprese dal poeta con scelte originali. Infatti, «al centro dell’opera di Dante sta la sua personalità, in estrema antitesi a Tommaso d’Aquino dove la personalità è fatta intenzionalmente del tutto scomparire… È il primato dell’esistenza personale concreta sulla considerazione essenzialistica del mondo che era propria della Scolastica». Tra queste vie nuove aperte dal poeta, von Balthasar assegna un rilievo all’eros e all’agape che hanno in Beatrice il loro vessillo ma con una precisazione: in lei si compie il transito dal fascino erotico alla trasfigurazione dell’amore spirituale che la rende simbolo della Chiesa.
Non per nulla il saggio è suggellato dall’«eterno femminino», ove «la bellezza è forma espressiva del vero e del bene», la triade teologica suprema. Per questo, «l’intera Commedia è costruita organicamente, come sopra il suo perno, sull’incontro di Dante e di Beatrice in vetta al Purgatorio». E il teologo procede proprio da questo snodo ispiratore per ascendere al Paradiso: «Beatrice guarda Dio, Dante guarda Beatrice e verifica nel suo purissimo specchio il cenno di Dio». Giunto nelle nove sfere paradisiache con Beatrice, von Balthasar offre una suggestiva comparazione tra il cosmo classico-antico e quello cristiano, integrati da Dante in una unità che il teologo cerca di decifrare in pagine piuttosto complesse, mentre l’Inferno gli permette un altro parallelo di indole temporale, «tra epoche diverse».
[segue]
Verso il BIL, il Benessere Interno Lordo
Dal PIL al BIL, il Benessere Interno Lordo
Giulio Marcon
Sbilanciamoci! 3 Settembre 2021 | Sezione: Apertura, Italie
Misura la qualità sociale e ambientale del paese, si chiama BIL ed è il nuovo indicatore statistico di benessere che verrà presentato il 14 settembre a Napoli, insieme al Rapporto frutto della collaborazione tra l’Università Parthenope e Sbilanciamoci!
Il prossimo 14 settembre a Napoli verrà presentato il Rapporto sul Benessere Interno Lordo (BIL): frutto di un progetto promosso dall’Università degli Studi di Napoli “Parthenope”, in collaborazione con la Campagna Sbilanciamoci!, che ha visto per un anno la partecipazione di economisti, statistici, esponenti delle associazioni e della società civile.
La novità del BIL rispetto alle iniziative promosse fino ad oggi sugli indicatori “alternativi”, sociali e ambientali (tra tutti quelli del BES – Benessere Equo e sostenibile, realizzato dall’ISTAT) è di offrire – utilizzando le metodologie esistenti – un indicatore sintetico, come lo è il PIL, per misurare la qualità sociale e ambientale del paese.
Si tratta di una novità importante. Il successo del PIL è la sua semplicità e la sua riducibilità ad un “numero”. L’idea del BIL è di seguire una strada analoga, quella della semplicità e della sintesi, offrendo una chiave di lettura altrettanto chiara e comprensibile, naturalmente offrendo nel contempo gli strumenti per comprendere come stia andando il paese nei diversi ambiti: l’ambiente, i diritti sociali e civili, la parità di genere, i servizi, ecc.
Ora, il problema è non semplicemente di carattere scientifico, accademico, ecc., ma politico, come si sarebbe detto una volta. Per orientare e decidere le politiche pubbliche, bisogna farsi guidare non solo da astratti indicatori macroeconomici (la crescita di per sè significa poco), ma anche da concreti indicatori di benessere sociale e ambientale, di sostenibilità. Gli indicatori servono non solo e non tanto per dare risposta a quesiti scientifici e metodologici, ma per orientare le politiche pubbliche.
Nel 2016 sono stati inseriti nella riforma della legge di bilancio gli indicatori di benessere, ma il loro utilizzo è ancora parziale e poco efficace. Così come esistono dei vincoli – a livello europeo, nazionale e locale – per gli indicatori macroeconomici (come nei patti di stabilità europei e locali, e non solo in quelli), dovrebbero esistere dei vincoli stringenti, e non solo indicativi o programmatici (che prevedano conseguenze in mancato di non raggiungimento), anche per gli indicatori di benessere sociale ed ambientale: ad esempio, la percentuale minima di donne nel mercato del lavoro, la riduzione della dispersione scolastica, la riduzione delle emissioni di CO2, eccetera.
Il 14 settembre ne discuteremo con tanti importanti ospiti: Chiara Saraceno, Pierluigi Stefanini, Linda Laura Sabbadini, Mario Pianta, Filomena Maggino, Giuseppe Pisauro, Mauro Gallegati, Francesco Boccia, Edoardo Zanchini, Alessandro Sapio, Adriano Giannola, Anna Lisa Mandorino (qui il programma completo). L’obiettivo è quello di leggere in modo diverso la realtà che c’è intorno e soprattutto cambiare le politiche, costruire un modello di sviluppo fondato sulla sostenibilità, la qualità sociale, i diritti.
Ecco perché avere uno strumento come il BIL è fondamentale per le istituzioni, per le sue scelte e – come dice la campagna di Sbilanciamoci! – per un’Italia capace di futuro.
*La partecipazione all’evento è gratuita, sia in presenza che da remoto. È ancora possibile iscriversi tramite questo formulario online per ricevere la conferma di riserva del posto o il link per seguire la diretta streaming sul canale YouTube dell’Università Parthenope, oltre che per leggere il Rapporto in anteprima. Il Rapporto BIL sarà poi disponibile per il download gratuito a partire dal 14 settembre sul sito www.indicatoridibenessere.it.
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Obiettivi del progetto
Il tema della necessità di un nuovo modello di sviluppo è sempre più dibattuto, a partire dall’urgenza di orientare le produzioni e i consumi verso un’economia rispettosa del pianeta e capace al contempo di rispondere ai bisogni dei cittadini.
Si rende, dunque, necessario ripensare il modo in cui il benessere e il valore vengono misurati, prodotti e distribuiti all’interno del sistema economico, in cui lo Stato innovatore dovrebbe riacquisire un ruolo centrale, al fine di individuare le politiche pubbliche volte a favorire una transizione energetica in accordo con gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile e che contribuisca ad eradicare le disuguaglianze personali, funzionali e territoriali.
L’importanza di considerare e sviluppare indicatori di benessere alternativi al PIL, attraverso cui valutare il progresso della società, non solo dal punto di vista economico, ma anche sotto l’aspetto sociale e ambientale, sta già riscuotendo una crescente attenzione nella letteratura di ricerca economica e sta diventando una priorità anche per le politiche pubbliche: la riforma della Legge di Bilancio del 2016 ha introdotto l’utilizzo degli indicatori del BES-Benessere Equo e Sostenibile (sia nella Legge di Bilancio sia nel Documento di Economia e Finanza) come strumento di valutazione e orientamento delle scelte di spesa pubblica.
Il Bil – Benessere Interno Lordo
Uno degli obiettivi del progetto è proprio la realizzazione di un nuovo indicatore, alternativo al PIL, per la misurazione del benessere in Italia: il cosiddetto “BIL – Benessere Interno Lordo”.
Ispirandosi all’esperienza del Benessere Equo e Sostenibile (BES) di Istat e Cnel, il nuovo indicatore rappresenta uno strumento in grado di stimolare il dibattito pubblico e costituisce un ulteriore mezzo di analisi per i policy maker.
Da oltre 60 anni economisti, ricercatori, esperti ed esponenti del mondo di associazioni, di reti e campagne contribuiscono al dibattito per andare oltre al PIL come unica misura del progresso e del benessere di un Paese. Il BIL si inserisce in questo crescente filone con l’obiettivo di integrare indicatori di carattere sociale e ambientale a quelli economici, tenendo in considerazione la multidimensionalità di un fenomeno complesso come quello del benessere.
Il BIL rappresenta un altro tassello che si inserisce nella prospettiva di un rovesciamento radicale del modo di intendere gli obiettivi delle politiche economiche e di misurare i risultati in termini di progresso e di benessere. Come tale il BIL non risponde solo all’esigenza scientifica di una conoscenza più appropriata del benessere, ma soprattutto a quella di essere uno strumento di supporto, per orientare le politiche pubbliche.
I Giovani e il nuovo modello di sviluppo
In questo contesto, decisivo è il lavoro di divulgazione e sensibilizzazione delle conoscenze esistenti e dei risultati della nuova ricerca, soprattutto tra i giovani e nel mondo dell’università e della scuola.
L’obiettivo è quello di rendere più consapevoli le giovani generazioni sull’importanza che queste tematiche rivestono per il futuro del pianeta, anche al fine di orientarne gli stili di vita, le scelte universitarie e l’attenzione verso l’attività di ricerca. È fondamentale inoltre stimolare l’impegno dei giovani attraverso la diffusione e la condivisione di una cultura della sostenibilità e di un nuovo modello di sviluppo, in modo da imprimere la svolta per realizzare le scelte necessarie a livello politico, economico, sociale e culturale.
Per questo scopo, l’utilizzo dell’educazione non formale per convogliare le informazioni che verranno sviluppate nel corso dell’intero progetto è di grande supporto. Gli studenti universitari e gli studenti degli ultimi due anni delle scuole superiori di secondo grado saranno beneficiari delle attività di disseminazione dei risultati, sia all’interno delle sedi universitarie e scolastiche, sia nei luoghi di aggregazione culturale e sociale (associazioni, organizzazioni non profit, reti studentesche) in cui i giovani sono maggiormente impegnati e coinvolti.
Il gruppo di lavoro
Il Progetto di ricerca e sensibilizzazione sui temi del benessere vede coinvolta l’Università degli Studi di Napoli “Parthenope, e nello specifico il suo Dipartimento di Studi Aziendali ed Economici (DiSAE), il quale ospita regolarmente docenti e ricercatori esperti nell’analisi delle politiche economiche in relazione agli obiettivi di sostenibilità ambientale. Il Dipartimento ha, inoltre, recentemente ottenuto finanziamenti nell’ambito del programma PON-AIM (Attraction and International Mobility) per lo svolgimento di ricerche in linea con la strategia nazionale per lo sviluppo intelligente, in particolare sull’impatto economico del cambiamento climatico.
Per realizzare questo progetto di ricerca, l’Università Parthenope si è avvalsa anche dell’esperienza di ricercatori ed esperti attivi all’interno della Campagna Sbilanciamoci!, una rete che riunisce 49 organizzazioni della società civile italiana, impegnate sui temi della spesa pubblica e delle alternative di politica economica.
L’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” contribuisce al raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile attraverso le attività didattiche, di ricerca e di terza missione, tra le quali rientra anche il progetto per la ricerca del nuovo indicatore di BIL.
Inoltre, l’Università Parthenope ha ricevuto, in occasione del centenario della sua fondazione, il riconoscimento internazionale della Cattedra UNESCO in “Ambiente, Risorse e Sviluppo Sostenibile” – connessa all’omonimo Dottorato di Ricerca Internazionale del Dipartimento di Scienze e Tecnologie – il cui obiettivo è proprio quello di costituire un centro di eccellenza internazionale nei settori delle scienze ambientali, dell’ecologia e dello sviluppo sostenibile.Infine, come Ateneo ha aderito alla Rete delle Università per lo Sviluppo Sostenibile (RUS) promossa dalla CRUI, nell’ambito della quale è impegnato nella definizione di un programma di buone pratiche per la riduzione dell’impatto ambientale e la gestione sostenibile delle attività universitarie, anche attraverso la sensibilizzazione del personale e degli studenti sui temi della sostenibilità.
Alessandro Sapio (project coordinator) È professore ordinario di politica economica all’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” e membro del collegio dei docenti, Dottorato di ricerca in Governance, Economics and Management, Università degli Studi di Napoli Parthenope (dal 2012). Ha lavorato sulla dinamica delle imprese e sulla valutazione degli effetti del cambiamento climatico in progetti europei quali FP7 IMPRESSIONS – Impacts and risks from high-end scenarios: strategies for innovative solutions, FP6 DIME – Dynamics of Institutions and Markets in Europe. È componente dell’advisory board del progetto H2020 ASSET – A holistic and scalable solution for research and education in energy transition. Rappresenta l’Ateneo Parthenope nel tavolo sull’economia circolare istituito dalla Regione Campania. Ha tenuto insegnamenti rilevanti per il progetto (Politica Economica delle Risorse Rinnovabili, Economia del Lavoro in corsi di laurea, Green Economy in un master, Economia del cambiamento climatico nel dottorato). È co-editore dello Handbook of Energy Economics and Policy, Elsevier con Michelle Hallack, Massimo La Scala e Alessandro Rubino
Giulio Marcon (ricercatore) ha insegnato nelle Università di Urbino e Cosenza e ha svolto attività di ricercatore con la Scuola Normale Superiore e con l’Università Parthenope. È stato deputato nella XVII legislatura, facendo parte della Commissione Bilancio. Ha fondato la campagna Sbilanciamoci!, di cui oggi ne è portavoce, ed è stato Direttore scientifico della Scuola del Sociale della Provincia di Roma. Ha fatto parte del comitato scientifico del BES (Benessere Equo e Sostenibile), ha fatto parte della Commissione Bilancio della Camera dei Deputati e primo firmatario della legge sugli indicatori di benessere assorbita dalla riforma della legge di bilancio del 2016.
Lorenzo Germani (ricercatore) è dottorando presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università Sapienza di Roma. Attualmente svolge attività di ricerca presso il Dipartimento di Studi Aziendali ed Economici dell’Università degli Studi di Napoli “Parthenope” dove si occupa della costruzione del nuovo indicatore di benessere BIL (Benessere Interno Lordo) e della stesura del rapporto. Collabora con la campagna Sbilanciamoci! per il lavoro di analisi delle politiche economiche e finanziarie.
Matteo Deleidi (ricercatore)
Marco Amendola (ricercatore) laureato in Scienze Economiche presso l’Università di Roma Tre, ha successivamente conseguito un dottorato di ricerca in Economia e Finanza presso l’Università La Sapienza di Roma, con una tesi volta ad analizzare gli effetti macroeconomici di interventi discrezionali di politica fiscale. Attualmente è assegnista di ricerca presso il dipartimento di Studi Aziendali ed Economici dell’Università Parthenope di Napoli, dove svolge ricerca sul legame tra intervento pubblico e crescita sostenibile.
Ettore Ismael Borghetto (formatore) è impegnato da 9 anni nel campo dell’animazione giovanile. Da 5 anni collabora con l’associazione Lunaria e Sbilanciamoci! nell’ideazione, gestione e valutazione di attività di educazione non formale a livello nazionale e europeo.
Mara Petrocelli (communication strategist) specializzata in campagne di comunicazione strategiche e creative, ha esperienza di comunicazione politica, turistico-museale e nell’organizzazione di eventi. Ha curato la comunicazione del Festival Internazionale di Cinema sulle Malattie Rare e da diversi anni collabora con Lunaria APS e Sbilanciamoci! nella gestione della comunicazione interna ed esterna.
Sonia Rainone (segretaria amministrativa DiSAE)
Al progetto di ricerca collaborano anche un gruppo di esperti, che tuttavia non rappresentano le istituzioni di appartenenza: Tommaso Rondinella (Banca Popolare Etica), Elisabetta Segre (Istat), Anna Villa (Università La Sapienza), Elena Tosetto (OCSE), Mauro Napoletano (Université Côte d’Azur), Vincenzo Lombardo (UniParthenope).
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Ferrovia e Trasporti. Che fare in Sardegna?
Quando è stata resa pubblica la ripartizione fra le regioni dei primi fondi destinati a trasporti e mobilità, del Piano Nazionale Ripresa e Resilienza (Pnrr), il presidente Solinas e il suo mega staff hanno capito che alla Sardegna sarebbero spettate soltanto le briciole del finanziamento e, come da consolidata tradizione, hanno cominciato a protestare contro il governo che non concedeva all’isola finanziamenti adeguati ai bisogni e alle necessità. Sulla stessa lunghezza d’onda si sono levate le proteste, stavolta unitarie, dei parlamentari sardi, anch’essi convinti della discriminazione subita dalla Sardegna nella ripartizione dei fondi europei.
Le nuove ferrovie italiane che saranno ristrutturate con i fondi del Pnrr vedranno ridursi il tempo medio di viaggio in treno del 17%, aumentare il passaggio dal trasporto su gomma a quello ferroviario, aumentare i passeggeri trasportati dal 6 al 10% e le merci dall’11 al 16%.
Tutto ciò però non riguarderà per niente la Sardegna. Nell’isola arriveranno soltanto 300 milioni per due vecchi progetti appena avviati e assimilati ai progetti Pnrr: un primo step del raddoppio della Decimomannu-Villamassargia e il collegamento dell’aeroporto di Olbia con la rete ferroviaria. La Sardegna si è fatta cogliere ancora una volta impreparata, non aveva progetti pronti da far finanziare con gli investimenti europei.
Soltanto nel 2015 ha cominciato a circolare nell’isola l’ipotesi di predisporre alcuni interventi per connettere aeroporti e stazioni con la rete ferroviaria. Idee, soltanto idee che non si sono mai concretizzate in progetti.
Il presidente Solinas si è reso conto di quel che stava per accadere quando i tempi per intervenire erano ormai ridotti al minimo. Ha tentato di rimediare inventandosi la penosa bugia dei 305 progetti inviati al Governo per inserirli nel piano nazionale del Pnrr accompagnati da una richiesta di finanziamenti per circa 7 miliardi. Progetti che, per la cronaca, nessuno ha mai visto e dei quali non risultava traccia neppure presso l’ufficio di protocollo della regione Sardegna e nelle segreterie dei ministeri. Probabilmente una raccolta di idee e proponimenti, ben altro rispetto ai progetti concreti e realizzabili che sarebbero stati utili e necessari.
Appare evidente quindi che alla base di quanto accade relativamente al sistema trasporti, sta l’inadeguatezza programmatoria delle giunte regionali del passato e di quella in carica che hanno condannato l’Isola alla non partecipazione alle azioni del Pnrr.
Non ci sono stati finanziamenti del Pnrr perché non c’erano e non ci sono adeguati progetti. Con le sole idee, generiche e senza un’ipotesi strategica di sviluppo, non si ”canta messa” e ci si lega sempre più al sottosviluppo, alla marginalizzazione e all’assistenzialismo degli eventuali interventi statali.
Nessun complotto quindi, nessuna discriminazione contro l’Isola. La regione Sardegna, negli ultimi 25 anni non ha mostrato la ben che minima capacità di progettazione di opere e progetti infrastrutturali che potessero rientrare nelle indicazioni specifiche predisposte dall’Unione Europea per la presentazione dei progetti e l’erogazione dei fondi.
Certamente il problema dei trasporti è e resta strategico per lo sviluppo della Sardegna ma il Pnrr non può rappresentare la risoluzione dei problemi in assenza di una progettualità e di strategie di sviluppo in sintonia con le indicazioni del Recovery Plein e delle altre politiche di sviluppo nazionali e comunitarie.
Tutte le forze politiche presenti in regione sembrano concordare sull’importanza di realizzare nuove ferrovie. Il problema è che a tutt’oggi nessuno si sta preoccupando di progettarle e poco e niente è stato fatto per rafforzare la capacità progettuale e di spesa della regione. La conseguenza fin troppo facilmente prevedibile è che i miliardi del Pnrr che saranno indirizzati verso le altre regioni non faranno altro che allargare il divario esistente tra la rete ferroviaria sarda e quella nazionale.
Occorre un radicale cambio di mentalità, violare radicati tabù, battere la rassegnazione e il pessimismo cronico. E’ assolutamente necessario, direi imprescindibile, ricostruire la rete ferroviaria sarda secondo criteri e modalità adeguati ai tempi e alle necessità, con buona pace del compianto ing Benjamin Piercy che nell’ottocento realizzò l’attuale rete ferroviaria isolana, un’opera apprezzabile per quei tempi e per larga parte ancora non modificata. Lo stesso ingegnere Piercy, se fosse ancora tra noi, sarebbe il primo a dirci che il binario unico, i tratti ferroviari a scartamento ridotto, i percorsi inadeguati per incrementare la velocità dei nuovi treni, la mancata elettrificazione delle linee ferroviarie, non sono più compatibili con le necessità attuali della regione. Ci si deve convincere che la riforma dei trasporti è assolutamente necessaria e che la si può e la si deve realizzare. Purtroppo non la si potrà realizzare con la prima quota di finanziamenti europei erogati in queste settimane che , come è noto, dovranno avere attuazione entro il 2026. Abbiamo perso “il treno” e altri ne perderemo se non cambierà la capacità propositiva dell’attuale Giunta.
Occorre osare di più, fare un investimento strutturale per rifare la rete ferroviaria come intervento prioritario per avviare un nuovo sviluppo del sistema Sardegna.
Vediamo intanto che si può fare dopo aver preso atto che non si potrà fare affidamento sulla prima quota di finanziamenti del Pnrr. Il Governo Draghi, per bocca del ministro delle Infrastrutture, Enrico Giovannini, assicura che altre consistenti risorse saranno disponibili per finanziare progetti in Sardegna. Il Pnrr e il Fondo complementare non sono l’unica fonte finanziaria disponibile. Ci sono anche il Fondo Sviluppo e Coesione, gli 80 miliardi dei fondi europei 2021-2027 destinati all’Italia e i fondi pluriennali per gli investimenti. Il tema, quindi, non è ciò che al momento non si potrà fare il Pnrr, ma come si può usare al meglio il quadro finanziario complessivo disponibile.
Per tale motivo il governo proporrà ai presidenti di regione l’apertura di tavoli territoriali e regionali per affrontare in modo sistemico la programmazione delle infrastrutture e dei trasporti dei prossimi anni. Naturalmente una parte dei fondi sarà decisa dalle Regioni, una parte dallo Stato ma resta di vitale importanza che ci sia una progettualità coordinata e complementare in modo da rafforzare gli interventi.
Sarà pure necessario avviare una seria riflessione sugli indirizzi programmatici da privilegiare compiendo scelte oculate. Per esempio, ha ancora senso pensare alla elettrificazione delle linee ferroviarie se, dietro l’angolo, si affaccia la prospettiva dei treni alimentati a idrogeno? Non c’è il rischio di spendere quasi inutilmente delle risorse per l’elettrificazione pur sapendo che tale pratica sarà presto desueta per l’arrivo dei treni alimentati con l’idrogeno? Per questo il presidente Draghi, nel colloquio dei giorni scorsi col presidente Solinas, ha posto l’accento sull’attenzione che il governo riserverà per la Sardegna.
Il tema delle ferrovie è certamente rilevante, ma lo è anche quello della manutenzione delle strade. Per questo entro settembre si procederà al commissariamento di 10 interventi sulla rete stradale della Sardegna per complessivi 1,8 miliardi di euro. Il commissario straordinario sarà probabilmente lo stesso presidente Solinas. Personalmente considererei tale eventualità abbastanza discutibile. Non si può mettere la volpe a fare la guardia al pollaio.
Per dieci opere di particolare importanza e urgenza per i trasporti stradale è previsto un percorso istruttorio super rapido che passa dal Consiglio superiore dei lavori pubblici in cui siederanno i rappresentanti dei vari ministeri per dare tutte le autorizzazioni richieste. La velocizzazione riguarderà tutte le fasi della realizzazione e tra queste la capacità delle Regioni e dei Comuni di procedere, ad esempio, alla preparazione dei bandi. Ciò che è accaduto finora nella predisposizione dei progetti non dovrà ripetersi in futuro.
La carenza di risorse umane competenti è spesso indicata come una delle cause dei ritardi. Negli accordi sottoscritti a luglio e agosto, in sede di conferenza Stato-Regioni sono stati già ripartiti 9 miliardi del Pnrr e soprattutto del fondo complementare. Ad agosto sono stati firmati i vari decreti e ora il concreto utilizzo delle risorse spetta di competenza alle Regioni e ai Comuni. Il governo monitorerà il processo e curerà, con concorsi già banditi, l’assunzione di personale qualificato da assegnare alle amministrazioni territoriali. Questo modo innovativo di procedere rappresenta una rivoluzione rispetto al passato che non riguarda solo il Governo, ma dovrà estendersi tutte le pubbliche amministrazioni.
Ma il problema principale, giova ripeterlo, resta comunque la capacità di progettazione della Regione che finora ha clamorosamente mancato gli obiettivi in termini di visione prospettica dello sviluppo e in termini di progettazione. Ora serve un’azione politica ben definita e immediata. Lo Stato deve riconoscere subito il gap infrastrutturale della Sardegna e deve fare diventare una priorità la progettazione di una nuova rete ferroviaria per l’isola. L’esempio del ponte Morandi ha dimostrato che anche l’Italia, quando si creano le condizioni necessarie sa essere efficiente e rapida nella progettazione ed esecuzione delle grandi opere. L’emergenza trasporti della Sardegna non è inferiore a quella della ricostruzione del ponte Morandi. Perché senza una rete moderna ed ecologica di trasporti l’isola è destinata a rimanere ai margini dei programmi di sviluppo.
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Per correlazione.
Nel riportare il quadro fosco della situazione dei trasporti in Sardegna, con particolare riferimento alle Ferrovie, confermando il vuoto di progettualità che marca il governo regionale, particolarmente grave nella circostanza dell’opportunità dei finanziamenti PNRR (inesorabilmente perduta?), ci sembra importante dare rilievo a una significativa eccezione costituita dal progetto del “Comitato spontaneo Trenitalia nuorese”, supportato dal docente universitario Gianfranco Fancello, ben sintetizzato nell’articolo de La Nuova Sardegna del 14 agosto 2021, che sotto segnaliamo. Sconsolatamente constatiamo che nel Pnrr non c’è nemmeno un euro stanziato neppure per questo progetto rivoluzionario. Con una buona dose di pessimismo lasciamo tuttavia uno spazietto all’ottimismo del prof. Gianfranco Fancello: «Siamo ancora in tempo. Serve una forte mobilitazione di natura politica e delle parti sociali. Questo è un progetto che va sostenuto perché rilancia globalmente il sistema sardo e mette le coste occidentale e orientale in collegamento tra loro, ed entra nelle zone interne dando una possibilità di sviluppo».
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Nuoro-Olbia: la scheda c’è, i soldi no.
Su La Nuova Sardegna del 14 agosto 2021.
Che succede?
EUROPA AL BIVIO: AUTONOMIA STRATEGICA O IRRILEVANZA
24 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Mattia Feltri, “Incantatori e incantati” (La Stampa). Claudio Cerasa, “Per un Draghi al Quirinale” (Foglio). Guido Neppi Modona, “Troppe resistenze. Rendiamo obbligatorio il vaccino per legge” (Il Riformista). Luigi Manconi, “E adesso lavoriamo per Zaki” (La Stampa). “Myanmar, si aggrava il conflitto civile. Appello della Chiesa” (Fides). AFGHANISTAN: Giuliano Battiston, “Giorni contati” (Manifesto). Franco Venturini, “L’Europa al bivio: autonomia strategica o irrilevanza” (Corriere della sera). Gen. Vincenzo Camporini, “Dopo Kabul la Nato è superata. Adesso serve un esercito europeo” (intervista a Qn). Federico Fubini, “Borrell rilancia: forze armate europee” (Corriere). Adriana Cerretelli, “Risuona anche per l’Europa l’allarme di Kabul” (Sole 24 ore). Lucio Caracciolo, “Le due urgenze: trattare con i talebani e accogliere gli esuli” (intervista a Il Riformista). Giampiero Massolo, “Nato e G7, vi spiego la svolta di Kabul” (intervista a Formiche.net). Federico Rampini, “Il ritiro divide l’America. Ora Biden deve scegliere: militari o diplomazia” (Repubblica). Cecilia Sala, “L’America in Afghanistan ha scelto di perdere. Due esperti raccontano perché” (Foglio). Andrea Nicastro, “Chi finanzia le casse dei talebani” (Corriere). Agnese Moro, “Si deve trattare con i malvagi?” (La Stampa). David Miliband, “Pensiamo a chi rimane” (intervista al Corriere). INOLTRE: Maria Antonietta Calabrò, “Francesco potrebbe promulgare una norma sullo status di papa emerito” (Huffpost). Andrea Pugiotto, “Quesito sul fine vita. Ecco perché Flick sbaglia” (Il Riformista). Angelo Picariello, “Sanità. Inserire in Costituzione la Conferenza delle Regioni” (Avvenire). Leonardo Becchetti, “Suggerimenti anti-delocalizzazioni” (Avvenire). Carlo Fusi, “Ma fra Pd e M5s è flirt obbligato?” (Il Quotidiano). Massimo Adinolfi, “Pd-5stelle, i limiti al dialogo serrato” (Mattino).
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Nebbia sulla transizione ecologica, governo e imprese tentati dal rinvio delle scelte
Alfiero Grandi
23 Agosto 2021
Gli scienziati dell’ONU hanno stilato un documento impressionante sulla crisi climatica del nostro pianeta, approvato dai rappresentanti di 195 paesi, dopo avere studiato un numero incredibile di documenti e di dati. Questa forte denuncia arriva in tempo per il vertice sul clima che verrà presieduto a novembre dall’Italia e dal Regno Unito e pretende decisioni coraggiose sulle politiche per il clima, anzitutto da parte dell’Unione Europea, che ha presentato un pacchetto di proposte sotto il titolo Fit for 55 che premono l’acceleratore sulle misure per l’ambiente.
Il clima sta cambiando in modo impressionante sotto i nostri occhi. Ne stiamo vedendo gli effetti ogni giorno. La pioggia in Groenlandia, caduta dove cadeva neve, ne è un episodio impressionante. Se non verrà fermata la deriva clima-alterante provocata dall’aumento della CO2 e da altre cause concorrenti come l’aumento del metano in atmosfera, la situazione – già grave – peggiorerà drasticamente. Non occorre esagerare dipingendo un futuro apocalittico, il rischio concreto è che la vita degli esseri viventi, a partire dagli umani, sulla terra cambi in modo irreversibile e il pianeta diventi sempre più inospitale. Per questo occorre il coraggio di prendere le iniziative necessarie in tempi rapidi per bloccare l’alterazione del clima, a partire dalla temperatura.
Per raggiungere questi risultati occorrono scadenze precise e impegni concreti.
Invece, malgrado l’allarme sia forte e chiaro, le reazioni alle recenti proposte di interventi ulteriori della Commissione europea sono preoccupanti. Partendo da una preoccupazione di facciata per i costi sociali degli interventi si vogliono nascondere i costi enormi, non solo economici, senza forti interventi correttivi. Esponenti importanti del mondo delle imprese e del governo pur partendo da un omaggio formale agli obiettivi contenuti nel PNRR in realtà hanno l’obiettivo di usare le risorse del PNRR ma di rinviare il più possibile le innovazioni a cui quei finanziamenti dovrebbero essere legati, con il rischio concreto che l’Italia non rispetti i target previsti. Nelle settimane trascorse il partito del rinvio si è manifestato con chiarezza. Economisti, imprenditori – anche di aziende partecipate dallo Stato -, ministri del governo Draghi hanno messo piombo nelle ali dell’innovazione e della transizione ecologica, ad esempio sulla produzione energetica, sulla mobilità sostenibile.
È chiaro che occorre cambiare profondamente il modello di sviluppo economico attuale, altrimenti il clima arriverà ad un punto di non ritorno. È chiaro che per realizzare gli obiettivi occorre che i soggetti più sensibili e convinti si debbono impegnare fortemente per superare le resistenze evidenti all’innovazione. Questo non vuol dire che non ci siano problemi da affrontare. Ad esempio sono necessarie politiche di occupazione che accompagnino il passaggio dal sistema economico oggi prevalente a quello futuro. Un conto è prepararsi al cambiamento e pretendere le innovazioni conseguenti, altro è cercare di frenare, pur sapendo che il tempo stringe, senza lasciare spazio a rinvii. C’è perfino chi si appresta a sostenere che occorre rinviare la scadenza del 2025 per chiudere le centrali a carbone. Il PNRR ha cercato di declinare le novità della transizione ecologica sotto forma di bandi e finanziamenti, ma le resistenze al cambiamento sono forti e possono essere vinte solo con una chiara e forte battaglia di scelte politiche indicate con chiarezza per innovare lavoro, investimenti, ricerca, istruzione, welfare.
Questa chiarezza non c’è e lascia spazio all’emergere delle resistenze conservatrici, alla politica dei rinvii, a quelli che del PNRR vogliono i quattrini senza impegnarsi ai cambiamenti imposti dalla crisi climatica. Il ministro Cingolani è sembrato sensibile alle resistenze e all’invito a rallentare, quasi fossimo già su un treno ad alta velocità, mentre in realtà siamo ancora in attesa di decidere l’inizio del viaggio. Il ministro Giorgetti dipinge scenari a tinte fosche che sembrano avere l’unico obiettivo di rallentare le innovazioni, di cui per ora si parla soltanto. Né il governo chiede a Stellantis quali scelte intende compiere per radicare il cambiamento e prepararsi al superamento della mobilità fondata sui motori tradizionali. Naturalmente tutti i frenatori dichiarano di essere preoccupati per le conseguenze occupazionali e sociali. Fanno bene ad essere preoccupati, ma potrebbero iniziare dall’autocritica sul frettoloso sblocco dei licenziamenti e soprattutto studiare con i sindacati come minimizzare i rischi e chiedere le innovazioni necessarie di accompagnamento al cambiamento.
Colpisce che nessuno proponga di avere in Italia un nucleo forte di innovazione, in grado di essere esempio per altri paesi. I confronti internazionali servono solo per giustificare rinvii e ritardi. Il governo sembra in difficoltà. Certo ha ottenuto un primo finanziamento europeo sul conto PNRR. Questo va bene, ma ora occorre entrare nel merito delle scelte e iniziare ad attuarle, altrimenti anche i finanziamenti si fermeranno, altrimenti la cabina di regia del PNRR a cosa serve? L’energia è un primo decisivo banco di prova. Se ascoltiamo Eni non arriveremo mai a una scelta di fondo sulle rinnovabili. Basta dire che con questo ritmo ci metteremo tutto il secolo ad avere l’energia necessaria prodotta dalle rinnovabili, mentre nel 2035 dobbiamo avere un abbattimento di CO2 del 55% e nel 2050 non produrne più. Eni continua a fare contratti per forniture di gas, non si impegna nelle rinnovabili e si fa pubblicità sulle maree come fonte di produzione energetica, che sembra un parlare di altro. Occorre un piano organico, per fotovoltaico, eolico in particolare off shore, per altre fonti rinnovabili, per l’uso dell’idroelettrico per stabilizzare la rete elettrica con i pompaggi, senza trascurare possibili miglioramenti produttivi. Senza un progetto con date e quantità e soldi anche le dichiarazioni altisonanti sono solo tigri di carta. Invece abbiamo in concreto le aste del capacity market, promosse da Terna, un bengodi per le aziende energetiche partecipanti, pagate dalle bollette dei cittadini, per produrre poco ma con il rinvio inevitabile del raggiungimento degli obiettivi di riduzione della CO2, visto che anche il gas ne produce. Meno del carbone, ma ne produce.
Qual è la vera politica del Governo? Cosa propone alle aziende a partecipazione pubblica per garantirsi il loro contributo nella realizzazione degli obiettivi?
Ora l’assetto di guida del PNRR sulla transizione ecologica – bene o male – è definito, le risorse sono ingenti, manca un chiarimento politico del governo e in particolare del presidente del Consiglio che ha il compito di guidare la squadra. Le risorse del PNRR servono a cambiare o a richiamare in vita il gattopardo che come è noto in Italia ha quasi sempre prevalso? Qual è il progetto-paese? Altrimenti le risorse ingenti a disposizione faranno la fine dell’acqua sulla sabbia e i poteri che non vogliono cambiare prevarranno. Per una volta che la Commissione europea ha avuto coraggio, sarebbe bene che anziché svolgere un compito di conservazione l’Italia mettesse le sue energie migliori sul versante dell’innovazione e del coraggio e questo nelle condizioni attuali è un compito che tocca anzitutto al governo e a chi lo guida: sono stati chiesti poteri e risorse, ora li hanno, se la transizione fallirà il governo non potrà chiamarsi fuori.
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Sinodo e cammini sinodali.
Che succede? C3dem.
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Sinodo e cammini sinodali
Vigilia di un atteso e pur inaspettato cammino sinodale
di Giampiero Forcesi.
23 Agosto 2021 by Vittorio Sammarco | su C3dem.
La decisione, infine, è stata presa. I vescovi italiani lo hanno annunciato nella loro assemblea generale dello scorso maggio. Il sinodo italiano si farà. Per una qualche cautela, dopo tanta incertezza e tanti timori, si è deciso di chiamarlo non “sinodo” ma “cammino sinodale”. Le forme di questo cammino debbono ancora essere pensate; vi stanno lavorando alcune persone incaricate dalla Cei), ma saranno comunque impostate strada facendo. Alcune cose, però, già si sanno; i vescovi le hanno dette. Intanto la durata: sarà un percorso di quasi cinque anni; e avrà inizio entro la fine dell’anno. Poi il fatto che tale cammino sinodale avverrà nel mentre che la chiesa italiana sarà impegnata in un analogo cammino, ma a dimensione universale, quello del sinodo dei vescovi, che inizierà nel mese di ottobre e si concluderà nell’ottobre del 2023: un sinodo che papa Francesco – sulla base delle esperienze della duplice assemblea sinodale sulla famiglia, del sinodo sui giovani e di quello sull’Amazzonia – ha voluto si svolgesse in modo da consentire il massimo possibile di partecipazione “dal basso” (diocesi per diocesi, parrocchia per parrocchia), e che avrà per tema proprio la riflessione sulla nozione e sulla pratica della sinodalità (“Per una Chiesa sinodale: comunione, partecipazione e missione”).
Oltre alla durata e alla necessaria armonizzazione con il sinodo dei vescovi, altri elementi sono emersi dall’assemblea della Cei di maggio: sia dalla relazione e del card. Bassetti sia dalla cosiddetta “Carta di intenti” presentata ai vescovi da mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara. La “Carta d’intenti” è un documento di appena quattro pagine (solo una “traccia” come l’ha chiamata mons. Brambilla), che i vescovi avevano deciso di stendere già lo scorso febbraio dopo aver ricevuto, in gennaio, l’ennesimo rimprovero da papa Francesco per la loro mancata risposta al suo invito di cinque anni prima, a Firenze, a “mettersi in cammino sinodale”, e che gli avevano mostrato prima dell’assemblea di maggio per averne un parere. In questo documento si dice che “l’itinerario del ‘cammino sinodale’ comporta la necessità di passare dal modello pastorale in cui le Chiese in Italia erano chiamate a recepire gli Orientamenti Cei a un modello pastorale che introduce un percorso sinodale, con cui la Chiesa italiana si mette in ascolto e in ricerca per individuare proposte e azioni pastorali comuni”. Si tratta – si legge ancora – “di passare da un modo di procedere deduttivo e applicativo a un metodo di ricerca e di sperimentazione che costruisce l’agire pastorale dal basso e in ascolto dei territori”. Tre, dunque, le parole chiave suggerite: “ascolto”, “ricerca” e “proposta”. Tre passaggi da avviare e costruire, allo scopo di leggere la situazione attuale, immaginare un percorso futuro e “smuovere il corpo ecclesiale e la sua presenza nella società”. Dunque, si tratta di “ripensare il presente e il futuro della fede e della Chiesa in Italia”. E farlo sulla base delle indicazioni sia della magna charta di papa Francesco, l’Evangelii gaudium, del 2013, che contiene in nuce già i temi sviluppati nelle successive encicliche Laudato si’ e Fratelli tutti, sia del discorso da lui tenuto al convegno ecclesiale di Firenze del 2015 in cui aveva ribadito: “Mi piace una Chiesa italiana inquieta, sempre più vicina agli abbandonati, ai dimenticati, agli imperfetti”; una Chiesa – aveva detto, richiamando il tema scelto dalla Cei per il convegno fiorentino “In Gesù Cristo il nuovo umanesimo” – che faccia suoi i tratti dell’umanesimo di Gesù: umiltà, disinteresse e beatitudine; una chiesa che affermi radicalmente la dignità di ogni persona e stabilisca tra ogni essere umano una fondamentale fraternità, e che insegni ad abitare il creato come casa comune. Un Chiesa creativa, che sappia innovare con libertà.
Papa Francesco, allo stile della sinodalità, del camminare insieme pastori e fedeli, crede molto. Sempre in quel 2015, in ottobre, un mese prima di parlare alla Chiesa italiana riunita a Firenze, aveva commemorato il 50° anniversario dell’istituzione, voluta da Paolo VI, del Sinodo dei vescovi. Aveva detto che riteneva il Sinodo una delle eredità più preziose del Vaticano II, perché dava sostanza alla collegialità pastorale, e aveva affermato di ritenere che “proprio il cammino della sinodalità è il cammino che Dio si aspetta dalla Chiesa del terzo millennio”. Sinodalità nella collegialità dei vescovi cum Petro e sub Petro, ma anche collegialità, camminare insieme, di tutto il popolo di Dio. “Sarebbe inadeguato – aveva detto nell’Evangelii gaudium – pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del Popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni”. E nel discorso sul 50° dell’istituzione del Sinodo dei vescovi aveva ripreso un tema a lui caro: il sensus fidei del santo popolo di Dio. “Il sensus fidei – aveva detto – impedisce di separare rigidamente tra Ecclesia docens e Ecclesia discens, giacché il Gregge possiede un proprio ‘fiuto’ per discernere le nuove strade che il Signore dischiude alla Chiesa”.
Certo, Francesco è anche consapevole (e lo ha detto in quel discorso dell’ottobre 2015) che “camminare insieme – laici, pastori, e vescovo di Roma – è un concetto facile da esprimere a parole, ma non così facile da mettere in pratica”. Si dice che il “Cammino sinodale” (con la “c” maiuscola, in quanto si riferisce all’evento che andrà dal 2012 al 2025) “ha bisogno di condividere uno stile ecclesiale, un metodo sinodale e alcuni strumenti di lavoro”. Lo stile ecclesiale, la Carta ne conviene, “rappresenta la sfida decisiva”. E viene così tratteggiato: “dovrà essere attento al primato delle persone sulle strutture, alla promozione dell’incontro e del confronto tra le generazioni, alla corresponsabilità di tutti i soggetti, alla valorizzazione delle realtà esistenti, al coraggio di ‘osare con libertà’, alla capacità di tagliare i rami secchi”. Inoltre, “tutti siamo chiamati a risvegliare quel sensus ecclesiae, che lo stile sinodale è chiamato a far crescere”. Sul metodo, la Carta ripropone i tre momenti di cui si è detto: ascolto, ricerca, proposta; un metodo, cioè, che “si impegna ad ‘ascoltare’ la situazione, attraverso un’attenta verifica del presente, vuole ‘cercare’ quali linee di impegno evangelico sono immaginabili e praticabili, intende ‘proporre’ scelte concrete che ciascuna Chiesa locale può recepire per il suo cammino ecclesiale”. Per gli strumenti di lavoro, poi, ancora non è ben chiaro a che cosa si pensi; saranno comunque instrumenta laboris che avranno il compito – si dice – “di indicare prospettive comuni su cui orientare l’ascolto dal basso” (questione delicata, questa, perché orientare l’ascolto può significare anche condurlo in una direzione invece che in un’altra, e comunque non lasciare che dal basso emerga ciò che sta più a cuore ai fedeli). Si dice ancora che sarà la Segreteria generale della Cei con i suoi uffici ad accompagnare il percorso e a proporsi come “luogo di sintesi di quanto giungerà dalle Chiese locali” (anche questo è un elemento delicato; viene da chiedersi se la Cei non farebbe bene a dotarsi di un gruppo di laici e anche di parroci esperti per questo compito di accompagnamento del percorso e, ancor più, per il compito di fare sintesi di ciò che emerge). La Carta si sofferma infine anche sui possibili contenuti del cammino sinodale, avanzando la proposta di mettere al centro i temi su cui già la Cei aveva riflettuto nell’impostare i futuri Orientamenti per gli anni Venti (cosa anche qui assai delicata, forse un po’ discutibile, perché rischia di limitare la libertà di scelta e di proposta “dal basso”). I temi indicati dalla Cei ruotano attorno a tre grandi nodi – Vangelo, fraternità, mondo –, e vengono così identificati: la “forma di Chiesa” per il prossimo futuro, l’eucaristia domenicale al centro della vita ecclesiale, l’accompagnamento delle famiglie, la presenza dei giovani nella chiesa, l’attenzione verso i poveri e alcuni campi di impegno sociale e culturale (cattolicesimo popolare, cultura, cittadinanza, casa comune).
Tanti gli interrogativi, gli spunti di discussione, che nascono attorno a questo snodo della Chiesa italiana che potrebbe essere davvero momento di svolta, di maturazione, di recupero di corresponsabilità. Qui mi soffermo brevemente soltanto sulla questione dell’ascolto, primo passo di un cammino sinodale autentico. Ascolto di chi? Ascolto come? E chi è il soggetto che ascolta? Una cosa mi sembra evidente: nelle nostre parrocchie, in linea di massima, non c’è l’abitudine all’ascolto, non c’è quasi neppure l’idea che ci si debba ascoltare vicendevolmente, scambiare opinioni e suggerimenti, confrontarsi per decidere insieme qualcosa. Lo faceva, e certamente ancora lo fa, ma in una dimensione più ristretta, e spesso a latere delle comunità parrocchiali, la benemerita Azione cattolica. E dunque io credo che, se si vuole provare a partire davvero dal basso (e direi anche da fuori, cioè da chi a messa ci andava ma ora non ci va più, e però se invitato a dire perché e a suggerire qualcosa forse lo farebbe), la prima cosa da fare (da parte della Cei e dei singoli vescovi) sia riunire, territorio per territorio, i parroci e offrire loro l’opportunità di interrogarsi, guidati da persone adatte allo scopo, su perché e come debbano svolgere il compito di suscitare il confronto tra i fedeli (compresi gli allontanatisi), di porsi in ascolto delle persone e di ciò che emerge nel dare loro la parola, di entrare in dialogo con loro, e di trarre da questo libero confronto (aiutati da alcuni laici e religiosi) stimoli, suggerimenti, proposte, e anche timori, perplessità, dubbi. E, soprattutto, convincersi che “camminare insieme” non è solo l’esercizio richiesto da un sinodo ma è parte essenziale dell’essere Chiesa.
Papa Francesco si sofferma molto sul sensus fidei di quello che ama chiamare “il santo popolo di Dio”, che è santo, egli dice, in funzione del battesimo “che lo rende infallibile ‘in credendo’”. “In tutti i battezzato, dal primo all’ultimo – scrive nella Evangelii gaudium n. 119 –, opera la forza santificatrice dello Spirito che spinge ad evangelizzare”; e quella che chiamiamo nuova evangelizzazione “deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati” (n. 120). Nel fare riferimento al sensus fidei dei fedeli, papa Francesco ha in mente, per lo più, la pietà popolare, così ancora largamente presente nel contesto latino-americano; ma non più, o molto meno, in Italia, dove l’ascolto va fatto in seno a un popolo di Dio che soltanto in parte partecipa all’eucaristia domenicale, e spesso vi partecipa con molta passività, che è composto per lo più da persone che si sono perse per strada, che hanno abbandonato, che sono in crisi, che sono critiche, insofferenti, talvolta forse perché fa comodo dare al proprio scetticismo l’alibi della delusione, ma più spesso perché davvero sono rimaste deluse da un esser chiesa che non coinvolge e non appassiona. Ascoltare questo popolo di Dio non è cosa semplice, giunti al punto in cui siamo giunti. Bisogna che i parroci (con alcuni collaboratori scelti tra i fedeli più assidui e tra quelli meno assidui, tra i vicini e i lontani) chiamino a raccolta, pezzo per pezzo, le diverse componenti di questo popolo, diano loro la parola, con assoluta libertà, raccolgano ciò che emerge, vi riflettano poi sopra insieme a tutti coloro che hanno in qualche modo partecipato, e di quello che è emerso ne facciano il canovaccio del cammino da compiere nel tempo a venire, non solo così partecipando al Cammino sinodale dei prossimi quattro anni (per il compimento del quale dovranno inviare alle diocesi quanto ascoltato e raccolto, senza purgarlo), ma anche e soprattutto cercando per questa via (ascolto, poi ricerca cioè sperimentazione, e infine proposta: i tre passi suggeriti dalla Carta d’intenti della Cei) la concreta possibilità di una rigenerazione della propria parrocchia.
Un’ultima annotazione. Nel suo discorso a Firenze nel 2015 papa Francesco indicò alla Chiesa italiana, oltre alla necessità di fare sinodo, due grandi ambiti di impegno: l’inclusione sociale dei poveri e la capacità di dialogo e di incontro con tutti. Parlando della capacità di dialogo (che – ha ricordato – include anche il conflitto), ebbe a dire: “Ricordatevi inoltre che il modo migliore per dialogare non è quello di parlare e discutere, ma quello di fare qualcosa insieme, di costruire insieme, di fare progetti, non da soli tra cattolici, ma insieme a tutti coloro che hanno buona volontà”. Qui sta anche un aspetto non secondario per la rigenerazione della Chiesa e di ciascuna singola parrocchia. Il suggerimento di Francesco vale sia per il cammino sinodale, per la rigenerazione “ad intra” della Chiesa e di ciascuna parrocchia (dove comunque il parlare e discutere è necessario, prima di provare a fare insieme dei progetti), sia per l’azione della Chiesa nel mondo, in ciascun territorio e Paese, per la Chiesa “ad extra”. Perché la Chiesa è veramente Chiesa di Cristo se “esce”, se dialoga con tutti, e ancor più se lo fa collaborando per tratti di strada con tutte le persone di buona volontà; e non se resta trincerata nelle sue strutture.
Giampiero Forcesi
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CHE SUCCEDE?
L’APARTHEID DEI VACCINI. AFGHANISTAN, QUANDO FINISCE LA PAX AMERICANA
23 Agosto 2021 su C3dem.
La forte denuncia di Eugenia Tognotti: “Il virus, i vaccino e l’apartheid” (La Stampa). Mauro Calise, “Il peso di Draghi e i partiti senza voce” (Mattino). Montesquieu, “Se Mattarella resta al centro della partita” (la Stampa). AFGHANISTAN: Franco Monaco, “Afghanistan, un promemoria” (Settimana news). Nathalie Tocci spiega cosa accade “Quando finisce la pax americana” (la Stampa). Donatella Stasio racconta cosa è stato l’impegno italiano per il sistema della giustizia in Afghanistan: “I diritti umani e la sharia” (La Stampa). L’intervista di Bernard-Henri Levy a Ahmad Massud: “La mia sfida ai talebani” (Repubblica). Antonio Giustozzi, “La mappa della resistenza” (Repubblica). Sabino Cassese, “La democrazia e i diritti sono un valore universale” (Corriere della sera). Giorgia Serughetti, “Non bastano i corridoi umanitari per proteggere le donne” (Domani). Il generale Claudio Graziano intervistato da Repubblica sul ruolo inconsistente della Nato: “Questa sconfitta mostra la necessità di un’Europa autonoma nelle missioni”. Ezio Mauro, “Il vuoto dell’Europa” (Repubblica. Alessandro Barbano, “Il precipizio della sinistra che nega l’esportabilità della democrazia” (Huff post). Antonio Preiti, “La democrazia non si esporta, ma se non c’è non si possono difendere i diritti umani” (linkiesta).
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L’IO PERDUTO, A RIMINI. VERSO LE AMMINISTRATIVE. CASO DURIGON. SCUOLA. G20 DELLE DONNE
23 Agosto 2021 su C3dem
Paolo Viana sul Meeting di Rimini: “Alla ricerca dell’io perduto per vincere l’individualismo” (Avvenire). AMMINISTRATIVE: Ettore Colombo, “Guida al voto delle amministrative /1. Ben tornato bipolarismo, e centrosinistra in clamoroso vantaggio” (blog). Emanuele Felice, “Lo strano caso dei liberali italiani che preferiscono stare con i sovranisti” (Domani). Franco Monaco, “L’eterna, vana, suggestione centrista” (Huffpost). Goffredo Bettini, “L’alleanza tra il Pd e Conte resta l’unica possibilità per competere con la destra” (intervista al Corriere). GOVERNO: Dario Di Vico critico sulle scelte del ministro Orlando: “Multinazionali: multe o incentivi? L’Italia bifronte” (Corriere). VOCI: Antonio Socci, “Tam tam in Vaticano: tira aria di conclave” (Libero). CASO DURIGON: Luigi Ciotti, “Draghi cacci Durigon per far pulizia nel governo” (intervista a Il Fatto). Gian Carlo Caselli, “Non lasci la palla ai partiti, lo Stato deve intervenire” (Il Fatto). SCUOLA: Claudio Tucci, “Il rientro a scuola in 20 punti chiave” (Sole 24 ore). Agostino Miozzo, “Regole poco chiare. Così la scuola rischia ancora la Dad” (intervista al Corriere). INOLTRE: Elena Bonetti, “Il G20 delle donne in Italia lancerà un segnale a tutto il mondo” (intervista al Messaggero). Claudio Cerasa, “La globalizzazione è l’altro vaccino che ci sta proteggendo” (Foglio). Francesco Olivo, “Lgbt, fine vita, ius soli: l’autunno dei diritti” (La Stampa). Marcello Palmieri, “Referendum eutanasia. La denuncia di Flick rilancia la legge” (Avvenire). Gianpiero Della Zuanna, “Leggi sulla cittadinanza: un doppio paradosso. Una proposta semplice” (Corriere della sera). Carmen Baffi, “Lo scandalo dei senza dimora nella capitale d’Italia” (Domani).
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AFGHANISTAN, COSA PUO’ FARE L’OCCIDENTE (E L’EUROPA IN PARTICOLARE)?
22 Agosto 2021 su C3dem
L’analisi (iperrealista) di Romano Prodi: “La strada obbligata del dialogo con i talebani” (Messaggero). L’editoriale realista ma anche coraggioso di Agostino Giovagnoli: “Cosa può fare l’Occidente” (Avvenire). L’editoriale, forse un po’ retorico, di Massimo Giannini: “L’Occidente tra ipocrisia e apocalisse” (La Stampa). Quello impegnato di Maurizio Molinari: “Dalla parte delle donne afghane” (Repubblica). L’analisi obiettiva di Sergio Fabbrini: “A Kabul in scena errori americani e debolezze europee più che non il declino dell’Occidente” (Sole 24 ore). L’analisi liberale di Angelo Panebianco: “L’imputato occidentale e le pulsioni antiamericane” (Corriere della sera). Dice bene Andrea Bonanni: “L’Europa di fronte al dramma di Kabul. E’ il tempo delle verità scomode” (Repubblica). Sulla stessa linea Gilles Kepel: “L’Occidente non fa più paura. Ora è necessario costruire una difesa comune europea” (intervista a La Stampa). Ma Marta Ottaviani annota: “Quei muri di Erdogan e Atene: un’altra vergogna per l’Europa” (Avvenire). Viviana Mazza riferisce le critiche negli Usa a Biden: “La ‘dottrina’ Biden: un’idea ristretta e pragmatica di interesse nazionale” (Corriere). Nadia Urbinati analizza gli intenti della Cina in Afghanistan: “La Cina riempie il vuoto americano, negando i diritti umani universali” (Domani). Un’analisi di Roberto Bongiorno sul Sole 24 ore sulle risorse dei talebani: “Oppio, racket, miniere e talco: le ricchezze dei talebani”. E ancora: Linda Laura Sabbadini, “Diritti delle donne: mobilitiamoci tutti” (La Stampa) e Paolo Branca, “Le fatwe e la sharia, cosa cambia per le donne” (intervista al Corriere).
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Che succede?
MATTARELLA (MEETING DI RIMINI) E DRAGHI (AFGHANISTAN E G20): I PILASTRI DELL’ITALIA
21 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
I due temi forti del discorso di Sergio Mattarella al Meeting di Cl a Rimini: Marzio Breda, “Mattarella sull’Europa: basta ottusità e ipocrisia” (Corriere della sera) e Marco Conti, “La scossa di Mattarella: un dovere vaccinarsi” (Messaggero). Il commento di Corrado Augias al tema del Meeting (che è “Il coraggio di dire: io”): “La prevalenza del ‘noi’” (Repubblica). Il messaggio di papa Francesco al Meeting (vatican news). Il punto di vista di Dario Di Vico sugli umori del Meeting: “La società civile adesso teme l’autunno caldo dei partiti” (Corriere della sera). AFGHANISTAN/CRONACA: Francesco Semprini, “Portateci in salvo” (la Stampa). Lorenzo Cremonesi, “Caccia all’uomo casa per casa” (Corriere della sera). Antonio Giustozzi, “I nuovi padroni puntano a rifare l’Emirato islamico” (Repubblica). AFGHANISTAN/INIZIATIVE/COMMENTI: Valerio Valentini, “Un asse da Merkel a Putin. Così Draghi prepara la via al G20 straordinario per l’Afghanistan” (Foglio). Alessandro Barbera, “Draghi a Biden: un piano per l’Afghanistan” (La Stampa). Marta Dassù, “A questa America serve l’Europa” (Repubblica). Tonia Mastrobuoni, “Merkel chiede a Putin di fare da mediatore nella crisi” (Repubblica). Piero Fassino, “Andare a Kabul è stato giusto. Adesso non lasciamo soli gli Afghani” (Foglio). Francesco Saverio Regasto, “Afghanistan. Come aiutarli? Si dà asilo, lo dice la Carta” (Il Fatto). Alberto Cairo, “Diario da Kabul. Il coraggio della solidarietà” (Repubblica). Giuliano Ferrara, “Joe Biden ha avuto fretta, ma ora faccia come i grandi presidenti” (Foglio). Daniele Raineri, “Biden sapeva, ma ha scelto la via più rischiosa” (Foglio). Dacia Maraini, “Cosa ci insegna il coraggio di quelle piazze” (Corriere della sera). Giovanni Sartori (da alcuni suoi scritti), “La democrazia è esportabile (non sempre e dovunque)” (Corriere). La nota di Marcello Sorgi: “Gli esteri, grave lacuna di Conte” (La Stampa).
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“COME SI COMBATTE IL TERRORISMO SE NON SI COSTRUISCE UNA NAZIONE?”
20 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Hela Ouardi, “Capisco quei genitori che alzano quei bambini. I talebani cancellano l’idea stessa di infanzia” (intervista al Corriere della sera). Melania Mazzucco, “Quei bambini verso l’unico futuro” (Repubblica). Marina Corradi, “Per guardare ancora i figli” (Avvenire). Francesca Paci, “Il terrore di Fariba, chiusa in cantina: ‘Nessuno mi aiuta’” (La Stampa). Michele Ainis, “Il diritto delle genti” (Repubblica). Gianni Cuperlo, “Accogliamoli tutti per salvare l’anima delle nostre democrazie” (Domani). ANALISI GEOPOLITICHE: Timothy Garton Ash, “Che cosa succede se l’America non è più leader” (Repubblica); Lucio Caracciolo, “Il Grande Gioco della nuova Asia” Repubblica); Ian Bremmer, “Gli errori americani e i nuovi disastri da evitare” (Corriere della sera). Stefano Silvestri, “La tragedia afghana colpa del caos politico in Occidente” (intervista a Il Riformista). UN PO’ DI STORIA: Andrea Nicastro, “Dalla ‘guerra giusta’ al ritiro: vent’anni cancellati in dieci giorni” (Corriere). E ADESSO? Olivier Roy, “Cosa faranno adesso i talebani” (internazionale.it). Filippo Grandi, commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati: “Servono aiuti per sostenere quelli che restano”, e interviene su un nodo discusso (vedi più avanti), criticando Biden: “Come si combatte il terrorismo se non si costruisce una nazione?” (intervista al Corriere della sera). Marco Bresolin, “Borrell sconfessa l’America: ‘La linea Biden è discutibile” (la Stampa). Josep Borrell, “L’Unione europea obbligata a dialogare” (La Stampa). Emanuele Giordana, “Dopo lo sfascio della guerra ci vuole la politica” (Manifesto). Andrea Nicastro, “La resistenza nel Panshir e gli appelli inascoltati di Massoud jr all’Occidente” (Corriere della sera). Alessandro Barbera, “I Sette Grandi al talebani: ‘Garanzie sui diritti umani o non avrete più soldi” (La Stampa). NATION BUILDING, O NO? E COME? Tania Groppi, “Il dramma dell’Afghanistan. E’ fallita l’esportazione della democrazia o il sistema internazionale dei diritti umani?” (giustizia insieme.it). Ernesto Galli Della Loggia, “Guerra e diritti, quanta ipocrisia” (Corriere della sera). Roberta De Monticelli, “I diritti umani sono universali e non un’imposizione dell’Occidente” (Domani). Filippo Andreatta, “Esportare la democrazia con le baionette non funziona” (colloquio con il Foglio). Luca Diotallevi, “La democrazia si può esportare solo costruendo consenso e libertà” (Messaggero). Paolo Mastrolilli, “Ecco il rapporto che accusa gli Usa: ‘Non abbiamo capito l’Afghanistan’” (La Stampa). Paolo Cacciari, “Cari guerrafondai, chiedete almeno scusa” (Manifesto). Poi i “duri”: Barbara Spinelli, “La guerra oscena dei soldi mischiata a valori e sangue” (Il Fatto); Gad Lerner, “Afghanistan, piovono lacrime di coccodrillo” (Il Fatto). L’ITALIA: Marcello Sorgi, “Per l’Italia di Draghi il test internazionale” (La Stampa). Carlo Fusi, “Se Draghi prende le redini dell’Europa” (Il Quotidiano). Claudio Cerasa, “Importare l’ipocrisia? Il caso di Salvini e Meloni” (Foglio). Gianandrea Gaiani, “Perché l’ambasciata italiana deve restare aperta” (Mattino).
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ACCOGLIERE I RIFUGIATI AFGHANI. IL PIANETA TALEBANI. FINE VITA, VERSO IL REFERENDUM
18 Agosto 2021 su C3dem.
Paolo Gentiloni, “Accogliere i rifugiati o l’Europa rischia arrivi fuori controllo” (intervista al Messaggero). Barbara Fiammeri, “La crisi afghana riaccende lo scontro sui migranti” (Sole 24 ore). Stefano Feltri, “E adesso accogliamo tutti, è un obbligo morale” (Domani). Luigi Manconi, “Ma io vi prego, accogliamoli” (La Stampa). Mario Giro, “Una preghiera per chi muore lentamente nella storia” (Domani). Marco Impagliazzo, “Tre proposte per chi chiede protezione” (Avvenire). Uski Audino, “Merkel: ‘Vent’anni di sforzi senza successo. E ora l’Unione teme un’ondata di migranti” (La Stampa). Carmelo Caruso, “Draghi annuncia un asse con Merkel per l’Afghanistan” (Foglio). CHI SONO E CHE FARANNO I TALEBANI? Francesco Cremonesi, “Pianeta talebani. Chi sono e cosa vogliono” (Corriere della sera). Francesca Manenti, “Non sono più i talebani di 20 anni fa, ma il fondamentalismo resta lo stesso” (intervista a Avvenire). Micol Flammini, “La doppiezza talebana” Foglio). Mario Giro, “Nazionalisti ma non jihadisti. Come pensano i nuovi talebani” (Domani). Roberto Saviano, “Eroina, miliardi e geopolitica. I talebani sono i nuovi narcos” (Corriere della sera). FINE VITA: Francesca Schianchi, “Fine vita: 500mila firme, e adesso il referendum” (La Stampa). Francesco Ognibene, “Eutanasia, verso il referendum” (Avvenire). Marco Cappato, “Che svolta le 500mila firme di giovani e cattolici per l’eutanasia” (intervista a Repubblica). Federico Capurso, “Eutanasia, Vaticano in allarme” (La Stampa). Elisa Calessi, “Il Vaticano boccia l’eutanasia per legge” (Libero). Lucetta Scaraffia, “Non lasciamo solo chi chiede il fine vita” (La Stampa). MEETING DI RIMINI: Giorgio Vittadini, “Al Meeting di Rimini è di scena l’io collettivo” (intervista a Qn) e “Interpretare il lavoro come percorso: la sfida per il futuro” (Sole 24 ore). INOLTRE: Sabino Cassese, “Tutti i poteri del presidente” (Foglio). Franco Monaco, “L’anomalia di Berlusconi ha minato il possibile bipolarismo” (Il Fatto). Giorgia Serughetti, “Ammettere l’incertezza sui vaccini può ricomporre la sfiducia degli scettici” (Domani). Guido Maria Brera, “Globalizzazione, il ritardo è un vantaggio” (La Stampa).
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IL DISCORSO DI BIDEN CHE GELA L’EUROPA. LA DEMOCRAZIA NON E’ POSSIBILE IN AFGHANISTAN?
18 Agosto 2021 su C3dem
Francesco Semprini, “Biden difende la ritirata: non era compito nostro costruire una nazione” e “La politica estera Usa: il passo indietro di Biden” (La Stampa). Charles Kupchan, “Perché Biden ha scelto il ritiro” (Repubblica). Paolo Garimberti, “Un’anatra zoppa alla casa Bianca” (Repubblica). Lia Quartapelle, “Il discorso di Biden cambia il modo in cui guardiamo il mondo” (intervista a Linkiesta). Claudio Cerasa, “La teoria del vuoto afghano e l’Europa” (Foglio). Ezio Mauro, “Il dilemma della democrazia” (Repubblica). Pasquale Annicchino, “La caduta dell’Afghanistan è il trionfo di un Occidente che non ha ideali universali” (Domani). ESPORTARE LA DEMOCRAZIA? Enrico Letta, “La democrazia non si può esportare con la guerra” (intervista a Repubblica); e la replica (dura) di Giuliano Ferrara, “Esportare la democrazia non è mai stato un errore” (Foglio). Gianfranco Pasquino, “L’occupazione ha anche fatto emergere una società civile” (Domani). Enaiatollah Akbari, “Il mio paese sognava la vera democrazia” (La Stampa). Olivier Roy, “La resistenza dei giovani afghani ai mujaddhin sarà pacifica e culturale” (intervista a Il Fatto). Michael Walzer, “La guerra fu giusta. L’occupazione piena di errori e di ignoranza” (intervista al Corriere della sera). Nino Sergi (Intersos), “Alle radici del fallimento: inascoltata la società civile” (Avvenire). Gen. Vincenzo Camporini, “Questa guerra si poteva vincere. Washington si è mossa da sola. Ora l’Europa torni protagonista” (intervista al Messaggero). NUOVI SCENARI GEOPOLITICI: Danilo Taino, “C’è anche il rischio Pakistan” (Corriere della sera). Ugo Tramballi, “Il tramonto dell’impegno americano in Medio Oriente e la silenziosa avanzata cinese” (Sole 24 ore). Gianpiero Massolo, “L’Italia, l’Europa e la real politik” (Repubblica). Lucio Caracciolo, “America, Nato e altri disastri” (La Stampa). Renzo Guolo, “A chi parlano i talebani” (Repubblica). Emma Bonino, “Aveva detto ‘America is back’. Kabul è una tegola per Biden” (intervista al Riformista). Michele Marchi, “L’Occidente impreparato alle sfide del XXI secolo” (Il Quotidiano).
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L’AMORE CIVILE E POLITICO. LA SINODALITA’. IL POST PANDEMIA
16 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Fabrizio Mandreoli, “Appunti e prospettive sull’amore civile e politico” (Settimana news). Gigi Maistrello, “Gli attori nella comunità del futuro” (Settimana news). Jesus Martinez Gordo, “L’infarto teologico della sinodalità” (Baptises.fr., trad. it. finesettimana.org). CREDENTI E POST-PANDEMIA: Mons. Erio Castellucci, “Prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza” (intervista a Avvenire). Nando Pagnoncelli, “I credenti possono fare la differenza” (intervista a Avvenire). DOPO LA RISPOSTA DI FRANCESCO A M. MAGGIANI: Marco Menduni, “Il mondo degli scrittori si ribella: ha ragione papa Francesco, ora basta con i lavoratori-schiavi” (La Stampa). Carlo Petrini, “Il papa, il lavoro e gli sfruttati” (La Stampa). Mario Tronti, “Sono grato al santo padre: la sinistra si deve occupare di questi orizzonti cruciali” (intervista a La Stampa). INOLTRE: Andrea Grillo, “Il sacro è immutabile? Il presunto principio che R. Sarah ha imparato da J. Ratzinger” (come se non). Vescovi della Calabria, “La Calabria chiede una vita buona” (Settimana news). Marco Grieco,”Negando la DAD il Vaticano ha escluso le donne dalla formazione teologica” (Domani). Vincenzo Passerini, “Valori umani, non solo medaglie d’oro” (Itlodeo). Raniero La Valle, “Le risorse in campo” (chiesadeipoveri).
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Afghanistan, il fallimento della guerra
Giulio Marcon
Sbilanciamoci! 18 Agosto 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
In questi giorni molti parlano del fallimento in Afghanistan. 20 anni in cui sono morti 170mila civili (a cui vanno aggiunti le migliaia di militari e combattenti uccisi) e sono stati spesi 5,4 mila miliardi di euro che, se utilizzati a fin di bene, avrebbero potuto debellare la povertà più estrema nel mondo.
[segue]
Che succede?
ACCOGLIERE I RIFUGIATI AFGHANI. IL PIANETA TALEBANI. FINE VITA, VERSO IL REFERENDUM
18 Agosto 2021 su C3dem.
Paolo Gentiloni, “Accogliere i rifugiati o l’Europa rischia arrivi fuori controllo” (intervista al Messaggero). Barbara Fiammeri, “La crisi afghana riaccende lo scontro sui migranti” (Sole 24 ore). Stefano Feltri, “E adesso accogliamo tutti, è un obbligo morale” (Domani). Luigi Manconi, “Ma io vi prego, accogliamoli” (La Stampa). Mario Giro, “Una preghiera per chi muore lentamente nella storia” (Domani). Marco Impagliazzo, “Tre proposte per chi chiede protezione” (Avvenire). Uski Audino, “Merkel: ‘Vent’anni di sforzi senza successo. E ora l’Unione teme un’ondata di migranti” (La Stampa). Carmelo Caruso, “Draghi annuncia un asse con Merkel per l’Afghanistan” (Foglio). CHI SONO E CHE FARANNO I TALEBANI? Francesco Cremonesi, “Pianeta talebani. Chi sono e cosa vogliono” (Corriere della sera). Francesca Manenti, “Non sono più i talebani di 20 anni fa, ma il fondamentalismo resta lo stesso” (intervista a Avvenire). Micol Flammini, “La doppiezza talebana” Foglio). Mario Giro, “Nazionalisti ma non jihadisti. Come pensano i nuovi talebani” (Domani). Roberto Saviano, “Eroina, miliardi e geopolitica. I talebani sono i nuovi narcos” (Corriere della sera). FINE VITA: Francesca Schianchi, “Fine vita: 500mila firme, e adesso il referendum” (La Stampa). Francesco Ognibene, “Eutanasia, verso il referendum” (Avvenire). Marco Cappato, “Che svolta le 500mila firme di giovani e cattolici per l’eutanasia” (intervista a Repubblica). Federico Capurso, “Eutanasia, Vaticano in allarme” (La Stampa). Elisa Calessi, “Il Vaticano boccia l’eutanasia per legge” (Libero). Lucetta Scaraffia, “Non lasciamo solo chi chiede il fine vita” (La Stampa). MEETING DI RIMINI: Giorgio Vittadini, “Al Meeting di Rimini è di scena l’io collettivo” (intervista a Qn) e “Interpretare il lavoro come percorso: la sfida per il futuro” (Sole 24 ore). INOLTRE: Sabino Cassese, “Tutti i poteri del presidente” (Foglio). Franco Monaco, “L’anomalia di Berlusconi ha minato il possibile bipolarismo” (Il Fatto). Giorgia Serughetti, “Ammettere l’incertezza sui vaccini può ricomporre la sfiducia degli scettici” (Domani). Guido Maria Brera, “Globalizzazione, il ritardo è un vantaggio” (La Stampa).
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IL DISCORSO DI BIDEN CHE GELA L’EUROPA. LA DEMOCRAZIA NON E’ POSSIBILE IN AFGHANISTAN?
18 Agosto 2021 su C3dem
Francesco Semprini, “Biden difende la ritirata: non era compito nostro costruire una nazione” e “La politica estera Usa: il passo indietro di Biden” (La Stampa). Charles Kupchan, “Perché Biden ha scelto il ritiro” (Repubblica). Paolo Garimberti, “Un’anatra zoppa alla casa Bianca” (Repubblica). Lia Quartapelle, “Il discorso di Biden cambia il modo in cui guardiamo il mondo” (intervista a Linkiesta). Claudio Cerasa, “La teoria del vuoto afghano e l’Europa” (Foglio). Ezio Mauro, “Il dilemma della democrazia” (Repubblica). Pasquale Annicchino, “La caduta dell’Afghanistan è il trionfo di un Occidente che non ha ideali universali” (Domani). ESPORTARE LA DEMOCRAZIA? Enrico Letta, “La democrazia non si può esportare con la guerra” (intervista a Repubblica); e la replica (dura) di Giuliano Ferrara, “Esportare la democrazia non è mai stato un errore” (Foglio). Gianfranco Pasquino, “L’occupazione ha anche fatto emergere una società civile” (Domani). Enaiatollah Akbari, “Il mio paese sognava la vera democrazia” (La Stampa). Olivier Roy, “La resistenza dei giovani afghani ai mujaddhin sarà pacifica e culturale” (intervista a Il Fatto). Michael Walzer, “La guerra fu giusta. L’occupazione piena di errori e di ignoranza” (intervista al Corriere della sera). Nino Sergi (Intersos), “Alle radici del fallimento: inascoltata la società civile” (Avvenire). Gen. Vincenzo Camporini, “Questa guerra si poteva vincere. Washington si è mossa da sola. Ora l’Europa torni protagonista” (intervista al Messaggero). NUOVI SCENARI GEOPOLITICI: Danilo Taino, “C’è anche il rischio Pakistan” (Corriere della sera). Ugo Tramballi, “Il tramonto dell’impegno americano in Medio Oriente e la silenziosa avanzata cinese” (Sole 24 ore). Gianpiero Massolo, “L’Italia, l’Europa e la real politik” (Repubblica). Lucio Caracciolo, “America, Nato e altri disastri” (La Stampa). Renzo Guolo, “A chi parlano i talebani” (Repubblica). Emma Bonino, “Aveva detto ‘America is back’. Kabul è una tegola per Biden” (intervista al Riformista). Michele Marchi, “L’Occidente impreparato alle sfide del XXI secolo” (Il Quotidiano).
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L’AMORE CIVILE E POLITICO. LA SINODALITA’. IL POST PANDEMIA
16 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Fabrizio Mandreoli, “Appunti e prospettive sull’amore civile e politico” (Settimana news). Gigi Maistrello, “Gli attori nella comunità del futuro” (Settimana news). Jesus Martinez Gordo, “L’infarto teologico della sinodalità” (Baptises.fr., trad. it. finesettimana.org). CREDENTI E POST-PANDEMIA: Mons. Erio Castellucci, “Prioritario non perdere il buono nato con l’emergenza” (intervista a Avvenire). Nando Pagnoncelli, “I credenti possono fare la differenza” (intervista a Avvenire). DOPO LA RISPOSTA DI FRANCESCO A M. MAGGIANI: Marco Menduni, “Il mondo degli scrittori si ribella: ha ragione papa Francesco, ora basta con i lavoratori-schiavi” (La Stampa). Carlo Petrini, “Il papa, il lavoro e gli sfruttati” (La Stampa). Mario Tronti, “Sono grato al santo padre: la sinistra si deve occupare di questi orizzonti cruciali” (intervista a La Stampa). INOLTRE: Andrea Grillo, “Il sacro è immutabile? Il presunto principio che R. Sarah ha imparato da J. Ratzinger” (come se non). Vescovi della Calabria, “La Calabria chiede una vita buona” (Settimana news). Marco Grieco,”Negando la DAD il Vaticano ha escluso le donne dalla formazione teologica” (Domani). Vincenzo Passerini, “Valori umani, non solo medaglie d’oro” (Itlodeo). Raniero La Valle, “Le risorse in campo” (chiesadeipoveri).
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Afghanistan, il fallimento della guerra
Giulio Marcon
Sbilanciamoci! 18 Agosto 2021 | Sezione: Editoriale, Politica
In questi giorni molti parlano del fallimento in Afghanistan. 20 anni in cui sono morti 170mila civili (a cui vanno aggiunti le migliaia di militari e combattenti uccisi) e sono stati spesi 5,4 mila miliardi di euro che, se utilizzati a fin di bene, avrebbero potuto debellare la povertà più estrema nel mondo.
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Afganistan
La missione italiana in Afghanistan. Considerazioni a margine di un fallimento
16-08-2021 – di: Monica Quirico
In questa estate semi-apocalittica – tra alluvioni, incendi e rigurgiti neo-oscurantisti – la morte di Gino Strada, concomitante alla definitiva rivincita talebana, chiude simbolicamente il cerchio di quel capolavoro al contrario che sono state le missioni internazionali in Afghanistan dal 2001 a oggi. Chi adesso celebra il fondatore di Emergency come una sorta di santo laico (!) lo liquidava con fastidio quando, vent’anni fa, disarticolando la retorica “umanitaria” dell’intervento occidentale, profetizzava che esso avrebbe solo esasperato la situazione.
Le 160.000 vittime afghane (di cui tra i 35.000 e i 43.000 civili) e i 54 morti tra i soldati italiani (32 dei quali in seguito ad atti ostili), le une e gli altri rimossi dal dibattito pubblico, sollecitano qualche riflessione sul modo in cui nella fragile democrazia italiana è stata rappresentata la più rilevante operazione militare del dopoguerra, con un’attenzione particolare per il rapporto tra lutto e politica, in una prospettiva di genere.
Il 9 ottobre 2001 il Parlamento italiano approvava quattro risoluzioni (bipartisan) che impegnavano l’Italia a onorare i suoi obblighi di membro della Nato, dando il suo sostegno all’operazione Enduring Freedom, scattata due giorni prima come ritorsione agli attentati dell’11 settembre. Un mese dopo, le Camere votavano a larghissima maggioranza a favore dell’intervento militare, che prendeva il via il 18 novembre. Per la prima volta nel dopoguerra, alle truppe italiane si applicava in modo esplicito il codice militare di guerra (introdotto nel 1941). Negli anni, in un gioco di rimpalli tra Onu e Nato, cambiavano i nomi delle missioni ma restava, anzi aumentava, la presenza occidentale.
Dell’attività delle truppe italiane (che nel 2010 superavano le 4.000 unità) e in particolare della Task Force 45, creata dal governo Prodi II, si sapeva (e tuttora si sa) poco o nulla: di fatto era una missione di combattimento, che sfruttava le ambiguità delle autorizzazioni parlamentari. Beninteso, i Governi italiani che si succedevano dal 2001 in poi, fossero di centrodestra o di centrosinistra, si guardavano bene dal menzionare la parola “guerra”, preferendole espressioni come: intervento umanitario; azione di contrasto al terrorismo; operazione di polizia internazionale. Il topos “Italiani, brava gente”, esteso anche all’esercito, è sempre spendibile e trovava infatti la sua consacrazione in una mostra patrocinata nel 2012 dalla presidenza della Repubblica (all’epoca retta da Giorgio Napolitano), che, dopo l’inaugurazione al Vittoriano, veniva riproposta in diverse città italiane. Intitolata “I volti dei militari italiani. I valori della patria in un’immagine”, l’allestimento mescolava sapientemente stralci di mail inviate a parenti e amici dai militari italiani in missione all’estero (non solo in Afghanistan) a scatti che li ritraevano in atteggiamenti cordiali nei confronti della popolazione locale. L’esposizione era strutturata come un vero e proprio catalogo delle virtù delle forze armate, nell’ordine: Solidarietà, Dedizione, Onore, Dignità, Lealtà, Altruismo, Coraggio, Fedeltà, Disciplina, Umanità, in una mescolanza di valori guerreschi tradizionali e attualizzazioni consone alla retorica umanitaria che pervadeva la narrazione delle missioni. In tal senso, il clou era rappresentato dalle immagini di donne soldato (immancabilmente sorridenti) che assistevano anziani, donne e bambini, in una sorta di incontro transnazionale fra soggetti minoritari e tuttavia tutelati, con la soldata che presumibilmente doveva fungere da modello di emancipazione per le ragazzine locali.
Mentre la protezione delle donne afghane era invocata come una delle motivazioni decisive alla base dell’intervento militare, ad altre donne – le madri e le mogli dei militari italiani – era richiesto di fare la loro parte: quella di sempre, accettare la morte dei loro cari come compimento di un destino, il sacrificio per la patria. Già, perché, in una narrazione che legittimava l’intervento militare in nome della pace e dei diritti umani, quando tornavano in Italia le salme dei “caduti” (termine che suggerisce una fatalità del tutto fuori luogo) evidentemente i valori universalistici non bastavano a dare un senso al dolore – o almeno così pensavano le istituzioni. Si rispolverava allora il repertorio classico, quello della mater dolorosa, punto di intersezione tra culto mariano (Maria spettatrice affranta ma composta della Passione) e pratiche penitenziali pagane (l’eruzione del dolore); un’icona che ha incontrato larga fortuna nel discorso nazionale forgiato a partire dal Risorgimento e la cui chiave di volta è l’attribuzione del dovere di onorare la patria tanto agli uomini in armi quanto alle donne che, a casa, sublimano la perdita nella celebrazione del valore trascendente del gesto eroico.
Le commemorazioni dei “caduti” italiani in Afghanistan ricalcavano questa divisione di genere dei ruoli, pur con qualche incrinatura: il dolore non è mai interamente addomesticabile. La continuità enfatizzata dai media e dalle liturgie funebri tra il lutto della singola famiglia biologica, quello della più ampia famiglia militare e infine quello della comunità nazionale mirava a ricordare a tutti che, di fronte all’enormità del sacrificio che il militare deceduto così come la sua famiglia avevano compiuto per il bene della nazione, le distinzioni sociali e politiche dovevano passare in secondo piano. Anche nel caso dell’intervento in Afghanistan, l’appello all’unità fondato su un sentimento universale come il lutto ha costituito infatti un potentissimo strumento di neutralizzazione del dissenso, delegittimando il confronto razionale, oltre che etico, sull’opportunità di portare avanti la missione. Indimenticabili le parole di Matteo Renzi, all’epoca presidente del consiglio, in visita a Herat nel 2015: «Non siamo qui per un motivo logistico ma per un ideale»; poi rincarava: «Possa il loro sangue [dei caduti] servire ed aiutare anche qui in Afghanistan nuove generazioni a conoscere bellezza, libertà e pace».
Non è stato così, come ben vediamo oggi, scandalizzandoci dai nostri comodi divani per la sorte che attende le donne afghane; vano chiedersi se qualcuno tra i molti politici che hanno sostenuto le varie missioni avrebbe il coraggio di incontrare i parenti dei militari morti e ammettere che il loro “sacrificio” è stato totalmente destituito di senso. È tuttavia proprio la logica dell’eroismo (e del suo brodo di coltura: il nazionalismo) a dover essere cacciata nel pattume della storia: è vero, parliamo di eserciti professionali, ma ciò non attenua lo sgomento per il paradosso che Judith Butler ha così riassunto: «Da un lato, dunque, questi soldati sono ritenuti “indispensabili” alla difesa della patria. Dall’altro, essi fanno parte della popolazione dispensabile. E anche se la loro morte è a volte oggetto di glorificazione, essi sono e restano dispensabili: persone sacrificate in nome del popolo. […] Così, in nome della difesa del popolo, la nazione spinge qualcuno sull’orlo del precipizio. E quel corpo strumentalizzato per motivi di “difesa” è reso dispensabile proprio dall’obiettivo di garantire quella stessa “difesa”».
Se la vulnerabilità è un dato ontologico, perché comune a tutti i viventi, essa è nondimeno sperimentata in modo differenziato a seconda della classe sociale, della nazionalità, del genere e di altre variabili socialmente costruite. L’attuale distribuzione del lutto pubblico nella popolazione mondiale, con la gerarchia tra le vite degne di essere piante (quelle dei cittadini USA, ad esempio) e le vite che non meritano le lacrime dell’opinione pubblica (quelle degli afghani o dei palestinesi), non può che alimentare la spirale della violenza e del militarismo. Come scriveva Gino Strada nel 2003, «questa è la vera guerra mai dichiarata: la guerra ai poveri del mondo, agli emarginati, agli sfruttati, ai deboli, ai diversi, la guerra a tutti gli “spendibili”, vittime designate dei nostri consumi».
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Afghanistan, gli allarmi inascoltati dell’intelligence e la fretta di passare all’incasso elettorale: perché il disastro Usa è la Saigon di Biden Su Il fatto quotidiano..
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IN PRIMO PIANO
Per le donne afghane
17-08-2021 – di: Magistratura democratica
Su Volerelaluna.
Così scriveva Jane Austen nell’incipit di Orgoglio e pregiudizio, nell’anno 1813, parlando della condizione della donna in quel tempo, nella occidentalissima Inghilterra: «È una verità universalmente riconosciuta che uno scapolo provvisto di un ingente patrimonio debba essere in cerca di moglie. Per quanto al suo primo apparire nel vicinato si sappia ben poco dei sentimenti e delle opinioni di quest’uomo, tale verità è così radicata nella mente delle famiglie dei dintorni, da considerarlo legittima proprietà dell’una o dell’altra delle loro figlie».
Così scriveva, ancora, Azar Nafisi in Leggere Lolita a Teheran (p. 292), parlando della condizione femminile nell’Iran di Khomeini e commentando il libro della Austen: «All’inizio della rivoluzione avevo sposato un uomo che amavo. […] Quando nacque mia figlia, cinque anni dopo, eravamo già tornati ai tempi di mia nonna: la prima legge a essere abrogata […] fu quella che proteggeva la famiglia e garantiva i diritti della donna a casa e sul lavoro. L’età minima per il matrimonio venne di nuovo abbassata a nove anni – o meglio, otto e mezzo lunari, ci dissero. L’adulterio e la prostituzione dovevano essere puniti con la lapidazione. E, infine, le donne per legge valevano esattamente la metà di un uomo». Erano i tempi della rivoluzione che portò l’ayatollah al potere e che condusse con sé questo tipo di decisioni. Le uniche donne nel regime più liberale diventate personaggio pubblico, sulla scorta delle loro conoscenze e capacità, subirono l’esilio (ove già fuggite all’estero) o la pena di morte.
C’è da domandarsi cosa scriverà la letteratura di domani quando registrerà il regresso delle condizioni umane, specie delle donne, a causa dell’ingresso dei Talebani a Kabul e se in quella letteratura resterà traccia della impotenza dell’Occidente tutto.
Lungi dal proporre l’occidentalizzazione dei costumi come panacea di ogni male, Magistratura democratica resta convinta che ogni regime autoritario che passi dall’oscurantismo della condizione della donna debba essere approfondito oggetto di una campagna internazionale di mobilitazione delle coscienze e di sostegno umanitario. Consapevoli della complessità della questione e della difficoltà di soluzioni che non passino da iniziative politiche militari, Magistratura democratica, nel plaudire a tutte quelle associazioni umanitarie, nazionali e non, che si pongono a sostegno delle condizioni delle donne afghane, auspica che tutti i Governi e gli organismi internazionali mettano al centro dei loro programmi il dovuto ausilio alla popolazione afghana e attivino ogni necessario meccanismo di protezione internazionale per le donne e i profughi di questo Paese.
Omaggio a Gino Strada
Un santo, laico.
di Gianfranco Fancello, su fb.
Per descrivere la grandezza di Gino Strada non servono grandi discorsi, ma sono sufficienti due parole: santo laico.
Perché non può che essere definito così chi, come lui, ha letteralmente salvato dalla morte migliaia di vite umane mettendo, ogni volta, a repentaglio la propria. Lo ha fatto sotto le bombe, in mezzo al mare, fra le mine antiuomo. Lo ha fatto perché, da ateo (quale si professava), aveva un altissimo concetto di sacralità dell’uomo che, in quanto tale, in quanto persona, in quanto essere vivente, doveva essere sempre protetto e tutelato, indipendentemente dal colore della pelle, dal credo religioso, dall’etnia, dalla condizione economica. Sempre protetto, accolto, difeso. Sempre. A costo, anche della vita, la propria.
Dove c’era bisogno di soccorso, lui c’era. Dove c’era bisogno di aiuto, lui c’era. Dove c’era bisogno di medici, di ospedali, di chirurghi, lui c’era. Un santo, appunto.
Mi sono spesso interrogato sul suo ateismo che, lo confesso, un po’ mi sorprendeva. In realtà l’ho sempre considerato (è così continuo a farlo) un ateismo militante: infatti ho sempre visto Gino Strada molto più vicino a Dio di tanti “falsi” credenti, che si dichiarano tali per convenienza, per abitudine, o, peggio ancora (e gli esempi non mancano) per spudorato interesse personale: questi in realtà, basano il proprio credo sull’egoismo, sull’arroganza, sulla centralità della persona, la propria. Esattamente il contrario di Gino Strada, che, da ateo, ci ha mostrato una strada (ops… ma guarda un po’…) di fratellanza, di solidarietà, di amore per il prossimo, per il diverso, per il debole, per il ferito, molto spirituale e di forte impronta morale.
Forse il suo ateismo era frutto delle sue tante vite, passate negli angoli sperduti del mondo, a curare le ferite di cristiani, mussulmani, induisti, buddisti, pagani, non credenti; con ognuno di loro entrava in empatia, ad ognuno di loro apriva il suo cuore, soprattutto per sanare le cicatrici dell’anima. Con ognuno di loro parlava lo stesso linguaggio, quello della pace, del rifiuto della guerra, della concordia, linguaggio trasversale fra le religioni e quindi universalmente valido. Ateismo quindi non come rifiuto, ma come somma di pluralità, come incapacità di scelta di un credo a scapito degli altri.
Cosa ci lascia in eredità? Tante cose: un’associazione umanitaria fra le più grandi al mondo, diversi ospedali localizzati in zone difficili e dì frontiera, tanti medici, infermieri ed operatori che si spendono in prima persona in condizioni di difficoltà e di disagio.
Ma soprattutto un grande insegnamento morale, quello della solidarietà a prescindere, di lotta alla discriminazione, di amore e fratellanza per il diverso. Tutti insegnamenti degni di un santo. Laico, ma sempre santo.
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Gino Strada, laico ma sempre santo. E titolare della “cattedra dei non credenti”.
Nel condividere le riflessioni di Gianfranco Fancello sulla figura di Gino Strada, per il quale propone l’attribuzione della qualità di “santo laico” scopro che nella sostanza poco differirebbe dalla qualità di “santo religioso” secondo quanto prevede la Chiesa cattolica, prescindendo per un momento da quanto differenzia i credenti dai non credenti. Leggo su Wikipedia alla voce “santo”:
“Per i cattolici, il santo è colui che pienamente risponde alla chiamata di Dio a essere così come Egli lo ha pensato e creato, frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità. La fede cattolica insegna che Dio ha per ogni persona un’idea particolare, e assegna a ognuno un posto preciso nella comunità dei credenti. Non esistono dunque caratteristiche univoche di santità, ma nella teologia cattolica, ognuno ha una santità particolare da scoprire e porre in atto. Santo, per la fede cattolica, può e deve essere chiunque, senza la necessità di particolari doni o capacità. (…) Il santo viene proposto come modello a tutti i fedeli e agli uomini di buona volontà non tanto per quanto ha fatto o detto, ma poiché si è messo in ascolto e a disposizione di Dio accettando, nella fede, che fosse Lui a dirigere attraverso l’opera dello Spirito Santo la sua vita. Per la Chiesa cattolica, dunque, a dover essere imitato è soprattutto l’atteggiamento di obbedienza a Dio e l’amore per il prossimo che ogni santo ha reso reale nei modi più diversi”. La vita di Gino Strada corrisponde proprio alla chiamata di Dio perché si ponesse a totale servizio dell’umanità (frammento nel quotidiano del suo amore per l’umanità), come davvero ha fatto. Certo Gino non credeva che questa sua missione provenisse da una chiamata divina. Ma, all’atto pratico, che ci importa? Avessimo tanti Gino Strada credenti o non credenti, o diversamente credenti!
Un’altra riflessione. Per connessione pensando a Gino Strada mi è venuta in mente l’esperienza della “Cattedra dei non credenti” inventata e praticata dal card. Carlo Maria Martini negli anni 1987-2002 durante il suo episcopato nella Diocesi di Milano, che sarebbe bene riproporre, aggiornata in metodi e contenuti ma mantenendo motivazioni e impostazione (ne riparleremo). Si trattava di una proposta insolita “non solo ascoltare i non credenti o dialogare con loro, ma metterli ‘in cattedra’, per farsi interrogare da loro e dalla dinamica generata dal confronto”. Di questa cattedra sicuramente Gino ne sarebbe stato uno dei degni titolari. E nel tempo che verrà, se come auspichiamo l’iniziativa verrà riproposta, lo sarà, attraverso le testimonianze che ci ha lasciato (scritti, video) e con la presenza dei suoi continuatori della missione di Emergency.
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Riportiamo di seguito l’intervista che Gino Strada rilasciò nel 2019 al Corriere della Sera, che ci sembra utile segnalare, soprattutto in alcuni passaggi, anche in relazione alle riflessioni che precedono di Gianfranco Fancello e Franco Meloni.
Gino Strada: intervista al Corriere [2019]
Venerdì 13 agosto, è scomparso Gino Strada. Aveva 73 anni. Medico, filantropo, attivista, nel 1994, insieme alla moglie Teresa Sarti, Strada ha fondato la ong umanitaria Emergency. Riproponiamo qui l’intervista che ha concesso al Corriere nel 2019, in occasione del 25esimo anniversario della fondazione di Emergency.
Emergency fa 25 anni. Che cosa si regala?
«Un ospedale in Uganda, disegnato gratis da Renzo Piano. Costruito con terra di scavo. Poi andremo a farne uno in Yemen».
Altro bel posto complicato…
«Il peggio è la Somalia. Ci ho provato per dieci anni: con gli Shabaab non si parla. Idem in Cecenia, rien à faire. Tirano su il muro. A un certo punto, devi rassegnarti».
Ma come fa, Gino Strada, a entrare in questi posti?
«Non ho ricette. In Sudan, ci chiese d’intervenire il governo. In Iraq, andammo alla ventura con tre macchine da Milano. Prima di partire si parla con tutte le parti: guardate che non c’entriamo con la vostra guerra… Mai avuto un morto, facendo le corna. Ma la gestione della sicurezza dev’essere precisa».
Come fu la prima riunione, nel 1994?
«A casa mia a Milano, fino a ore tarde. Carlo Garbagnati, una ventina d’amici, non tanti medici (erano scettici). E la mia adorata Teresa, che sarebbe diventata insostituibile. Ci fu una cena al Tempio d’Oro, in viale Monza. Raccogliemmo 12 milioni di lire, ma volevamo cominciare dal genocidio in Ruanda e non bastavano. Ne servivano 250. Io dissi: beh, ragazzi, firmiamo 10 milioni di cambiali a testa… Per fortuna venni invitato da Costanzo e, puf, la tv è questa cosa qui: in un paio di mesi, arrivarono 850 milioni. Gente che mi suonava al campanello di casa, ricordo una busta con dentro duemila lire spillate».
È vero che litigò con la Croce rossa?
«Quella italiana non esiste. Ma della Croce rossa di Ginevra ho gran stima. Avevo girato per loro, dall’Etiopia al Perù. Solo che a un certo punto s’erano disimpegnati dalla chirurgia di guerra. Che è difficile, costosa, rischiosa».
E il nome?
«Lo scelsi io. Era l’aggettivo all’inizio d’Emergency-Life Support for Civilian War Victims. Troppo lungo: l’aggettivo diventò sostantivo».
Settantanove progetti in sette Paesi, 120 dipendenti, 9 milioni di persone curate. Questa nuova sede vicino a Sant’Eustorgio…
«È la chiesa più antica di Milano, sa che non ho ancora avuto il tempo di visitarla? Nessuno pensava a dimensioni simili. Anni lunghi, faticosi. Siamo cresciuti con la solidarietà della gente. Anche ora che le Ong sono criminalizzate. Quel procuratore di Catania, Zuccaro, ci ha provato e non è uscito niente. Quando ammetterà che era tutta una balla?».
Volevano la tassa sulla bontà per colpire chi s’arricchisce…
«Anche noi avevamo una nave per salvare i migranti, ma costava troppo: 150mila euro al mese. È verosimile che certi meccanismi lascino spazio a comportamenti illegali. Ma non cambi la tassazione delle Ong solo perché tre sono poco chiare: indaghi su quelle tre!».
Vi sentite danneggiati?
«Han creato sfiducia nella gente. Dal 2011 abbiamo raddoppiato il budget, ma i progetti sono tanti. Un ospedale è un debito continuo, ogni anno i ricoveri aumentano del 30%. In Afghanistan, il sistema sanitario siamo noi».
Un caso che non dimentica?
«Un ragazzino, Soran, operato in Iraq. Aveva una gamba amputata da una mina. Qualche anno fa è venuto a trovarmi. Fa l’avvocato».
Il giorno più duro?
«Quando rapirono i nostri in Afghanistan e in Sudan. Anche nel caso Mastrogiacomo rischiai. Mi chiedevo: ha senso mediare? Sì, perché c’era un uomo che rischiava più di me».
Ha lavorato con Christiaan Barnard…
«Elegantissimo, con la sua Mercedes, ma ormai operava poco per l’artrosi alle mani. I miei modelli furono Staudacher e Parenzan».
E la chirurgia di guerra chi gliela insegnò?
«Era un’attività di nicchia. La faceva la Croce rossa. E i militari, che però erano proprio un altro mondo. Nel ’91, guerra del Golfo, i militari chiesero a Ginevra d’andare in Bahrein. Avevano allestito un ospedale da 5mila posti letto. Vuoto. Mandammo 101 chirurghi inglesi. Ma fecero un solo intervento: a un mignolo».
Il mondo umanitario a volte è pura rivalità. In Sierra Leone, i medici olandesi e francesi di Msf nemmeno si parlavano…
«C’è anche molto dilettantismo, favorito dai grandi donatori. In Kurdistan, vidi un palazzo per la posta aerea pagato dall’Ue. Gli aeroplanini dipinti, la scritta Air Mail. Inutile, costava un’enormità. Lo usavano come hotel».
Libia, Palestina… Perché state alla larga?
«I libici sono tosti, chiudemmo perché non arrivavano feriti di guerra, solo delinquenti locali. E ci pigliavano a sassate. Coi palestinesi ci ho provato, un ospedale a Ramallah. Andai dal ministro. Mi disse: “Ma voi avete 5 milioni da spendere? Sa, un posto letto vale 100mila dollari”. Arrivederci… Ho sempre pensato che una parte d’aiuti alla Palestina finisca altrove».
Paesi nel cuore?
«L’Afghanistan. E il Sudan: non ci credeva nessuno che si potesse fare cardiochirurgia in uno Stato canaglia. C’era una rivista di sinistra, Aprile, con un solone della Cooperazione che mi spiegava di che cosa c’era davvero bisogno in Sudan… Perché? Gli africani non hanno bisogno d’essere operati al cuore? La salute non è solo un diritto degli europei. Qui hai la tac e la risonanza magnetica, lì due aspirine e vai? L’eguaglianza dev’essere nei contenuti, non solo nelle idee».
Trattate col dittatore Bashir…
«Se un regime è oppressivo, la gente sta male. E noi ci andiamo. Quelli che noi chiamiamo dittatori, in Africa sono presidenti. E loro come dovrebbero chiamare i nostri “presidenti” Orbàn o Erdogan?».
Quando pecunia olet?
«Quando arriva dal crimine. E chi dona, pretende di decidere chi devi operare e chi no».
Le amicizie d’una vita?
«De André, Eco, Chomsky. Adesso, Renzo Piano. Quando morì Teresa, mi scrisse una lettera splendida. Gli telefonai a Parigi per ringraziarlo. Ci siamo chiamati per quattro anni senza vederci. Amicissimi, ma non sapevo nemmeno che faccia avesse».
Dio?
«Non ne sento alcun bisogno. Penso che il significato delle cose stia nelle cose stesse, non al di fuori o al di sopra. Questo non m’ha precluso l’amicizia con don Gallo, Alex Zanotelli, don Ciotti, a parte qualche bestemmia che ogni tanto mi scappava. Mi piacerebbe incontrare Papa Bergoglio, parlare dell’abolizione della guerra. Una volta era un tema, oggi è dimenticato».
Dicono che lei sia un pacifista utopista…
«Utopista va bene: secoli fa, era utopia abolire la schiavitù. Pacifista, no: lo sono anche i parlamentari che poi votano per le guerre».
Sergio Romano scrisse: Emergency fa del bene, ma non è neutrale.
«Nessuno può essere neutrale. Non puoi esserlo, su un treno in corsa. Come fai a esserlo in Iraq? Però non siamo neanche di sinistra: scegliamo la vita, la giustizia, l’uguaglianza».
Aveva simpatie per Ingroia, per Tsipras…
«Quelle sono cose che ti appiccicano addosso. Certo, trovo Prodi una persona ragionevole, anche se polemizzammo sull’Afghanistan (credo che oggi saremmo più in sintonia). E trovo Salvini razzista. Io poi sono di Sesto San Giovanni e ieri ho firmato una petizione perché apre Casa Pound. Quest’idea imbecille d’una società violenta e rancorosa, che ti spinge a trovare chi sta peggio di te e a dargli la colpa dei tuoi guai. Mai uno di loro che punti il dito su quelli che stanno meglio, eh?».
In Italia, avete 13 progetti.
«Un’Italia sconosciuta. Castel Volturno, Polistena, questi bei posticini. Povertà, degrado, schiavismo, situazioni che non ho mai visto neanche in Sudan. Quando abbiamo aperto a Marghera, pensavamo d’essere nel ricco Nord Est e d’avere solo stranieri. Invece il primo paziente fu uno di Mestre, un bell’uomo. Era stato un campione italiano alle Olimpiadi. Ma poi aveva perso il lavoro e i denti, mangiava male. E non poteva pagarsi una protesi».
Se i grillini l’avessero candidata al Quirinale, come volevano, sarebbe diventato il capo delle Forze armate. Che cosa avrebbe fatto?
«Ritiro dalle missioni all’estero. Smantellamento degli arsenali stranieri in Italia. Riduzione degli armamenti. Ma era una boutade, non ci ho pensato neanche un momento».
L’hanno candidata al Nobel per la pace…
«Accade ogni anno. Ci sono delle regole, il candidato non sa mai chi lo candida. Accettarlo? Mah, l’hanno talmente svilito: Obama l’ebbe per un semplice discorso, Kissinger con tutti i golpe che ha organizzato, l’Ue che tira su muri e nei Balcani fece una guerra tra le più sanguinose del secolo…».
Sua figlia Cecilia tornerà in Emergency?
«Non lo so. Non discutiamo più delle vicende che l’hanno spinta ad andarsene. Ma abbiamo ancora un buon rapporto».
Che padre è stato? Cecilia raccontò una volta che all’asilo le mandava le cartoline dal mondo, da adolescente lei le vietava la discoteca, da adulta ha imparato la sua ironia…
«L’ironia e la discoteca, è vero. Ma non le mandavo solo cartoline dal mondo. C’inventavamo giochi, letture. All’asilo, sono andato anche a fare il buffone».
Si sente stanco?
«Purtroppo ho 70 anni e sono afflitto da una malattia inguaribile, la vecchiaia. Non so come faccia Renzo Piano, 12 ore d’aereo e subito altre otto in cantiere. Forse la vita del chirurgo è molto usurante e ha ragione Woody Allen: non conta l’età, conta il chilometraggio. In alcuni posti ho lasciato la salute. L’anno in Sierra Leone è stato devastante, perché ebola non è diverso dalla guerra: il nemico non lo vedi, ma ogni passo che fai potrebbe essere l’ultimo».
Hanno dato il suo nome a un asteroide, il 248908 Gino Strada…
«Una volta ho fatto i conti sulla superficie: potrebbe venirci fuori un bilocale. Un buon rifugio per il weekend. Però è a otto milioni di anni luce, un po’ lunga: ho ancora troppo da fare, qui».
Gino Strada
«Frequento luoghi di guerra»
13-08-2021 – di: Gino Strada
Su Volerelaluna
È morto Gino Strada, medico, fondatore di Emergency, da sempre impegnato, in Italia e nel mondo, sui temi dei diritti, della salute, dell’accoglienza e contro ogni guerra e uso delle armi. Molti anni fa gli chiesi un contributo per l’agenda di Magistratura democratica del 2006, dedicata al tema della legalità. Mi mandò uno scritto molto intenso per spiegare la sua difficoltà a parlare di diritto e di diritti in un contesto di conflitti e di guerre. La situazione, da allora, non è mutata, e credo che ripubblicare oggi le sue parole sia il modo migliore non solo per ricordarlo ma anche per tener dritta la barra contro chi ogni giorno parla di legalità e di diritti e, contemporaneamente, promuove guerre e discriminazione (l.p.)
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Frequento luoghi di guerra, e parlare di diritto in contesti di guerra mi pare, sinceramente, un ossimoro.
Non l’ho pensato da sempre. Appartiene alla mia preistoria una non breve stagione di collaborazioni con il Comitato Internazionale della Croce Rossa e per dovere d’ufficio, non foss’altro, mi sono trovato in qualche contiguità – non dirò confidenza – con le Convenzioni di Ginevra, con il «diritto umanitario». Seguo anche – con minor coinvolgimento, confesso – il gioco del calcio. E mi sono fatto l’idea che il rispetto delle regole non avvenga per qualche slancio di civiltà, sia pure una «civiltà del gioco». Il calciatore rispetta regolamenti e arbitri per la ragione che dopo questa partita ne seguirà un’altra; che fuori dal campo ci sono altri scopi e fini (anche molto materiali) desiderabili, che violando le regole si metterebbero a rischio. Ecco, questo mi pare d’aver capito: che la guerra mette in gioco tutto; talmente tutto che in gioco sono la vita e la morte; talmente tutto da non consentire nessuna certezza sulla disponibilità di un «dopo-partita» e di un «fuori campo».
Vengono meno, così, in guerra, gli spazi e i tempi nei quali trova ragione e fondamento il rispetto delle regole. E un comportamento basato esclusivamente sulla dedizione alla lealtà verso un valore, non sono cinico abbastanza da escluderlo a priori. Potrà darsene il caso, e ne avremmo qualche figura esemplare sotto il profilo estetico e morale. Se m’interrogo con sincerità, tuttavia, non riesco a pensare che quella totale, gratuita, disinteressata dedizione ai valori possa costituire l’universalità dei casi, una motivazione diffusa e generalizzata di comportamenti diffusi e generalizzati. Un domani, un «oltre» in guerra non ha nessuna certezza, nessuna solidità. Non ha perciò un ragionevole fondamento l’aspettativa di un sistematico rispetto delle regole. Temo che le vecchie, care Convenzioni di Ginevra possano essere, al più, un fondamento della punizione: una punizione iniqua se destinata, com’è spesso e prevedibilmente, a raggiungere soltanto gli sconfitti. Temo che l’efficacia di queste norme nel regolare – diciamo almeno nel moderare ‒ i comportamenti sia più nulla che scarsa.
Ho pensato un tempo che chi è certo della vittoria è anche certo di avere a disposizione quel «poi» e quell’«altrove» cui mi sono riferito. Ho dunque immaginato qualche corrispondenza ai fatti della colpevolezza sistematicamente riscontrata nei soccombenti, essi soli, nelle guerre degli ultimi decenni, privi della prospettiva di un «oltre» che fornisca un motivo al rispetto delle regole. Essi soli, dunque, portati all’infrazione. Ho tentato, insomma, di chiedermi se non ci fosse qualche frammento di verità nel riscontrare colpe soprattutto nei soccombenti. Ho abbandonato questa lettura dei fatti, che a suo modo aspirava ad essere comprensiva, se non generosa, verso i «trionfanti», che d’istinto non amo. Guantanamo e Abu Ghraib sono il nome di questo abbandono. Anche i vincitori certi a priori infrangono le regole. Dall’essere vincitori certi a priori traggono motivo, pare, per rivendicare la facoltà di infrangerle.
Ho chiacchierato – potrebbe mancare il latino? – solamente di ius in bello. Il resto – lo ius ad bellum ‒ no, è davvero troppo. Certo per la mia incompetenza. Ma non solo. Avete mai provato a chiudere gli occhi – se gli occhi fanno parte di quel che ne resta – a un bambino, a una donna, a un vecchio… a qualcuno distrutto da un’esplosione? Per me «la guerra» è questo. E il «diritto a far guerra» si traduce, senza ipocrite omissioni, nel diritto a produrre questi effetti che mille volte ho conosciuto. Questi ricordi non possono convivere con le distinzioni tra «guerra giusta», «guerra legittima», guerra non so che altro.
Non riesco a seguire e capire parole che per me sistematicamente, univocamente significano corpi distrutti, esseri umani cancellati, esistenze che potrebbero essermi contemporanee e sono invece passate. Il mio mestiere mi fa conoscere anche la sofferenza e la morte: sono frequentazioni inevitabili. Ma possono avere dentro di sé ‒ la sofferenza e la morte ‒ qualche umana intensità, forse anche qualche “dolcezza”, quando sono accompagnate da uno sgomento e da un sentimento di sconfitta che accomuna chi resta, che riguarda l’umanità tutta, la percezione di una condivisa, tragica «fatica di vivere». Ma in guerra un corpo inerte, un soggetto diventato «cosa» non è una riprova dolorosa della condizione umana: è l’equivalente di un trofeo, il successo raggiunto nell’applicazione di un «diritto internazionale»…
Non so bene che cosa sia questo diritto, sono però certo che mi è estraneo, che mi rifiuto di capirlo. Se si tratta di ciò che a me pare, spero che i miei simili tutti lo trovino, come me, ripugnante.
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— Su Avvenire.
“Right Livelihood Award”. Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
Gino Strada martedì 1 dicembre 2015
Gino Strada: aboliamo insieme la guerra
L’articolo di questa pagina, affidato in esclusiva ad “Avvenire” nella sua versione integrale, è il discorso pronunciato ieri dal fondatore di “Emergency”, Gino Strada, ricevendo al Parlamento svedese il “Right Livelihood Award”, considerato il premio per la pace alternativo al Nobel. Il premio è stato conferito a Strada, 67 anni, chirurgo, nato a Sesto San Giovanni, «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Il “Rla” mira a «onorare e sostenere coloro che offrono risposte pratiche ed esemplari alle maggiori sfide del nostro tempo», ed è la prima volta che viene dato a un italiano. Emergency è un’associazione fondata nel 1994 per offrire cure medico-chirurgiche gratuite e di qualità alle vittime di guerre, mine antiuomo e povertà. Dalla sua nascita ha curato oltre 6 milioni di persone in 16 Paesi.
[segue]
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Che succede?
FINE VITA. NO VAX. MAGGIANI E PAPA FRANCESCO. CRISTIANESIMO. IUS SOLI. REDDITO DI CITTADINANZA. MEDITERRANEO…
12 Agosto 2021 by Giampiero Forcesi | su C3dem.
Roberto Speranza, “Caro Mario, sostengo la tua battaglia. Le Asl garantiscano il suicidio assistito” (La Stampa). Mauro Magatti, “Serve un salto oltre le piccole logiche” (Avvenire). Paolo Pombeni, “Le lungaggini che rischiano di farci perdere il treno Ue” (Messaggero). Monica Guerzoni, “La partita del Quirinale e il fattore Recovery” (Corriere della sera). Piero Bevilacqua, “Senza l’economia agricola l’Italia va in fumo” (Manifesto). Antonio Preiti, “La guerra asimmetrica con i no vax” (Corriere). Claudio Cerasa, “La buona stella d’Europa” (Foglio). Stefano Ceccanti, “Anniversario con profezia (Zaccagnini e il Muro di Berlino)” (blog). Luca Diotallevi, “Il cristianesimo che cambia nella società occidentale” (Messaggero). Tommaso Montanari, “La Madonna prima marxista ante litteram” (Il Fatto). MAGGIANI E PAPA FRANCESCO: Maurizio Maggiani, “La bellezza e le catene possono stare insieme?” (Secolo XIX). Il papa risponde allo scrittore: Francesco, “No al lavoro schiavo, la cultura non si pieghi al dio mercato” (La Stampa). PD: Valerio Valentini, “Agora, e poi? Il cammino del Pd” (Foglio). Stefano Folli, “Bettini, la giustizia e il segnale al Pd” (Repubblica). AMBIENTE: Ursula von der Leyen, “Faremo dell’Europa il primo continente a emissioni zero” (intervista a Avvenire). Franco Prodi, “Contro il catastrofismo dell’Onu” (intervista al Foglio). IUS SOLI: Giovanni Moro, “Quei figli del paese multicolore” (Repubblica). Fabio Martini, “Letta: Salvini offende il paese. Lo ius soli è una legge urgente” (La Stampa). Elena Bonetti, “Una legge è possibile anche in questo parlamento. E il premier può mediare” (intervista a Repubblica). Nicola Molteni (Lega, sottosegretario agli Interni), “Iter più veloce per i 18enni, ma la legge attuale non va cambiata” (intervista al Corriere). MIGRANTI E MEDITERRANEO: Matteo Salvini, “Sbarchi, pochi rimpatri e tante vittime. Ecco perché Lamorgese ha fallito” (intervista a La Stampa). Renato Mannheimer, “L’azzardo di Salvini è un rischio calcolato” (Il Riformista). Ilario Lombardo, “Migranti. Draghi vuole una cabina di regia e blinda Lamorgese” (La Stampa). Michela Murgia, “Governo in fuga dal Mediterraneo” (La Stampa). Marco Minniti, “Mediterraneo. Ci sono mutamenti epocali. L’Europa deve agire subito” (intervista a La Stampa). Francesco Viviano, “L’unico modo di fermare i migranti è dare all’Africa pane e libertà” (Manifesto). REDDITO DI CITTADINANZA: Enzo Marro, “Reddito di cittadinanza: il 36% va a famiglie sopra la soglia di povertà” (Corriere della sera). Il Rapporto della Caritas italiana, “Lotta alla povertà. Imparare dall’esperienza, migliorare le risposte”. Carlo Borgomeo, “Il nuovo reddito con più buonsenso” (Mattino). Veronica De Romanis, “Posti non sussidi per una vera ripresa” (La Stampa). Mario Giro, “Alla politica i poveri danno molto fastidio” (Domani).
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Costituente Terra
Notiziario n. 45 del 9 settembre 2021
Dal fallimento al progetto
Cari Amici,
come abbiamo scritto nella nostra ultima newsletter del 30 agosto la caduta di Kabul e la rotta degli Stati Uniti e dei loro alleati dall’Afghanistan, è un evento che ha un valore simbolico epocale, paragonabile al crollo del muro di Berlino del 9 novembre 1989. Quell’evento segnò la fine di un’epoca, la fine del mondo bipolare, del confronto politico, strategico e militare fra le due superpotenze uscite vincitrici dalla seconda guerra mondiale, un conflitto. che aveva congelato le nazioni nella morsa della guerra fredda; l’abbandono dell’Afghanistan rappresenta per contro il fallimento della risposta dell’Occidente a quella crisi e segna la fine dell’ordine globale instaurato dopo la caduta del comunismo e dell’ordine bipolare. Ne esce sconfitta la pretesa dell’Occidente di sostituirsi al socialismo scomparso instaurando un unico dominio su un mondo ridotto alla propria misura e finisce il sogno degli Stati Uniti di dar corso a un nuovo secolo americano.
Questa analisi, poi ripresa da Domenico Gallo e largamente circolata sui social, suggerisce una lettura di largo respiro degli eventi in corso ai fini di non farne andare perduta la lezione. Un tentativo analogo di interpretazione del ferragosto afghano all’altezza della portata dell’evento è stato compiuto, in un’intervista all’agenzia RIA Novosti, da Mikail Gorbaciov, che era stato a suo tempo protagonista di un’analoga esperienza, avendo nel 1989 ordinato il ritiro delle truppe sovietiche dall’Afghanistan. L’autocritica di Gorbaciov sull’errore sovietico di voler trapiantare il comunismo in Afghanistan è diventata così la critica agli Stati Uniti e alla loro pretesa di volervi impiantare la democrazia: “era fin dall’inizio un’impresa fallita – ha detto il leder della perestroika – anche se nella prima fase la Russia l’ha sostenuta. Come molti progetti simili, si basava su un’esagerazione della minaccia e su concetti geopolitici poco chiari”, ciò a cui si erano aggiunti “tentativi irrealistici di democratizzare una società multi-tribale”.
Il giudizio di Gorbaciov è tanto più significativo perché la sua decisione di porre termine all’avventura sovietica in Afghanistan si inseriva allora in un grande progetto volto a instaurare con l’Occidente un nuovo ordine mondiale basato sulla rinuncia alle armi nucleari e sulla nonviolenza, progetto che aveva trovato espressione nella dichiarazione di Nuova Delhi che il capo dell’URSS aveva firmato il 26 novembre 1986 con il leader indiano Rajiv Gandhi, tre anni prima della rimozione del muro di Berlino. Si trattava, come recitava quel testo, di costruire un mondo fondato sul diritto, sulla coesistenza pacifica e sulla considerazione della “vita umana come valore supremo”, Quella proposta , avanzata a nome di un miliardo di persone, un quinto dell’umanità, tale essendo allora l’entità dei popoli dell’URSS e dell’India messi insieme, fu del tutto ignorata dall’Occidente che puntava invece alla sconfitta della Russia sovietica e a dar vita a quel bel mondo unipolare che poi è riuscito a costruire. Tuttavia la rilettura della dichiarazione di Nuova Delhi è quanto mai utile perché mostra che un mondo diverso può essere concepito. e perché il fallimento della politica di dominio di una grande Potenza – ieri l’Unione Sovietica, oggi gli Stati Uniti – invece che condurre a scelte ancora più nefaste può essere l’occasione, come fu sperato allora, per mettere in cantiere un ordine mondiale di pace, di giustizia economica e di salvaguardia e risanamento dell’ambiente, al fine di garantire la sopravvivenza dell’umanità: che è appunto ciò che oggi siamo chiamati a fare. Perciò la dichiarazione di Nuova Delhi, che fu pubblicata in Italia solo dalla rivista “Bozze 87”, si può considerare un precedente dell’attuale movimento per instaurare una Costituzione della Terra.
Una valutazione negativa delle politiche di ingerenza delle grandi Potenze in contesti politici e culturali diversi per imporvi i propri modelli è stata espressa anche dal papa nella sua intervista alla radio spagnola Cope, sulla scia di un giudizio formulato in un incontro a Mosca tra Angela Merkel e Vladimir Putin: “Bisogna porre fine alla politica irresponsabile di intervenire dall’esterno e costruire la democrazia in altri Paesi, ignorando le tradizioni dei popoli” ha detto il papa citando Putin e la Merkel. Questo vuol dire che la democrazia non può varcare i confini dei Paesi in cui è già istituita? Se così fosse nemmeno una Costituzione mondiale potrebbe essere pensata. Però la via è un’altra: occorre diffondere nel mondo la cultura della democrazia e renderla effettiva dove almeno formalmente esiste. La democrazia è infatti la condizione indispensabile per dar vita a istituzioni che realizzino e garantiscano i grandi valori costituzionali della pace, del diritto, della pari dignità di uomini e donne, della libertà di pensiero e di religione, della giustizia sociale: e proprio la tragedia che si sta consumando in Afghanistan nella transizione dagli occupanti pseudoliberali d’Occidente ai talebani integralisti delle scuole coraniche intransigenti ne rivela la necessità e l’urgenza. Nell’ “Angelus” del 5 settembre il papa ne ha indicato lo strumento, che è quello dell’educazione, che è anche educazione alla democrazia, a cominciare dai giovani: “Possano i giovani afghani – ha detto Francesco – ricevere l’istruzione, bene essenziale per lo sviluppo umano. E possano tutti gli afghani, sia in patria, sia in transito, sia nei Paesi di accoglienza vivere con dignità, in pace e fraternità coi loro vicini”.
Dalle armi alla cultura, dal dominio all’educazione reciproca, all’ascolto e al dialogo: non è questa la grande rivoluzione da fare?
Nel sito potete trovare l’articolo di Domenico Gallo e un’opinione di Paula Guerra Cáceres sull’arroganza della cultura dell’Occidente sia riguardo a ciò che accade in Afghanistan che riguardo alle culture e alle storie “altre”; nel sito “Biblioteca di Alessandria” potete trovare la dichiarazione di nuova Delhi del 1986, richiamata in questa lettera.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
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Il pensiero che aprì il Muro
LA DICHIARAZIONE DI NUOVA DELHI DEL 27 NOVEMBRE 1986
Tre anni prima della rimozione del muro di Berlino Mikhail Gorbaciov e Rajiv Gandhi a nome dell’URSS e dell’India, un quinto dell’umanità, chiedevano un totale rovesciamento della politica di dominio e di guerra e proponevano di costruire un mondo libero dalle armi nucleari e non violento in cui la vita umana fosse considerata il valore supremo. Il messaggio fu del tutto ignorato in Occidente
Il testo del documento firmato a Nuova Delhi dai leaders sovietico e indiano
L’umanità si trova oggi ad una decisiva fase di svolta della propria storia. L’arma nucleare minaccia di distruggere non solo quanto l’uomo ha realizzato nei secoli, ma anche lo stesso genere umano e persino la vita sulla Terra. Nell’era nucleare gli uomini debbono elaborare una nuova mentalità politica, una nuova concezione della pace, che sia una garanzia certa di sopravvivenza dell’umanità. La gente vuole vivere in un mondo più sicuro e più giusto. L’umanità merita un destino migliore, non deve essere ostaggio del terrore nucleare e della disperazione. Occorre cambiare la situazione internazionale venutasi a determinare e costruire un mondo libero dall’ordigno nucleare, libero dalla violenza e dall’odio, dal terrore e dal sospetto.
Il mondo che abbiamo ereditato appartiene alle generazioni presenti e future, il che impone di dare priorità ai valori universali. Occorre riconoscere il diritto di ogni popolo e di ogni persona alla vita, alla libertà, alla pace ed alla ricerca della felicità. E’ necessario rinunciare all’uso della forza e alla minaccia del suo impiego. Dev’essere rispettato il diritto di ogni popolo ad una scelta propria: sociale, politica e ideologica. Dev’essere respinta la politica volta ad affermare la supremazia di alcuni su altri. La crescita degli arsenali nucleari, la messa a punto delle armi spaziali minano la convinzione unanimemente riconosciuta, secondo cui la guerra nucleare non deve essere mai scatenata e non può essere vinta da nessuno.
A nome di oltre un miliardo di uomini, donne e bambini dei nostri due paesi amici, che insieme fanno un quinto dell’umanità intera, rivolgiamo ai popoli ed ai dirigenti di tutti i paesi l’appello ad intraprendere azioni immediate, che debbono portarci verso un mondo senz’armi di sterminio di massa, senza guerre.
Pienamente consapevoli della nostra comune responsabilità per le sorti dei nostri paesi e dell’umanità intera, noi proponiamo i seguenti princìpi per la costruzione di un mondo libero dagli armamenti nucleari e dalla violenza:
1. La coesistenza pacifica deve diventare una norma universale dei rapporti internazionali:
nell’era nucleare è indispensabile ristrutturare le relazioni internazionali, affinché il confronto sia soppiantato dalla cooperazione e le situazioni di conflitto siano risolte con mezzi politici pacifici e senza ricorrere alle armi.
2. La vita umana dev’essere considerata il valore supremo:
il progresso e lo sviluppo della civiltà umana possono essere assicurati in condizioni di pace e soltanto dal genio creativo dell’uomo.
3. La nonviolenza dev’essere alla base della vita della comunità umana:
la filosofia e la politica fondate sulla violenza e sull’intimidazione, sulla disuguaglianza e sull’oppressione, sulla discriminazione di razza, di fede religiosa o di colore della pelle sono immorali e inammissibili. Esse sprigionano uno spirito di intolleranza, sono deleterie per le nobili aspirazioni dell’uomo e negano tutti i valori umani.
4. La comprensione reciproca e la fiducia devono sostituire la paura e il sospetto:
la sfiducia, la paura e il sospetto fra i paesi e i popoli alterano la percezione del mondo reale. Generano tensione e, in ultima analisi, arrecano danno a tutta la comunità internazionale.
5. Deve essere riconosciuto e rispettato il diritto di ogni Stato all’indipendenza politica ed economica:
è necessario instaurare un nuovo ordine mondiale per garantire giustizia economica e uguale sicurezza politica per tutti gli Stati. La cessazione della corsa agli armamenti è il presupposto necessario per l’instaurazione di un simile ordine.
6. Le risorse impiegate per gli armamenti devono essere volte ad assicurare lo sviluppo sociale ed economico:
soltanto con il disarmo si possono disimpegnare ingenti risorse supplementari, necessarie alla lotta contro l’arretratezza economica e la miseria.
7. Devono essere garantite le condizioni necessarie per uno sviluppo armonioso della personalità:
tutti i paesi devono operare insieme per risolvere i problemi umanitari maturi e cooperare nel campo della cultura, dell’arte, della scienza, dell’istruzione e della medicina, per uno sviluppo completo della personalità. Un mondo senza armi nucleari e senza violenza aprirà grandiose prospettive a questo riguardo.
8. Il potenziale materiale e intellettuale dell’umanità deve essere utilizzato per risolvere i problemi globali:
è necessario trovare la soluzione di problemi globali quali il problema alimentare e quello demografico, la liquidazione dell’analfabetismo, la tutela dell’ambiente circostante attraverso un impiego razionale delle risorse della terra. Gli Oceani, il fondo marino e lo spazio cosmico sono patrimonio comune dell’umanità. La cessazione della corsa agli armamenti creerà le migliori condizioni per raggiungere tale obiettivo.
9. La sicurezza internazionale globale deve prendere il posto dell’«equilibrio del terrore»:
il mondo è uno e la sua sicurezza è indivisibile. Est e Ovest, Nord e Sud, indipendentemente dai sistemi sociali, dalle ideologie, dalle religioni e dalle razze, devono essere uniti nella fedeltà al disarmo e allo sviluppo;
la sicurezza internazionale può essere garantita con l’adozione di misure globali nel campo del disarmo nucleare, mediante tutti i mezzi accessibili e concordati di controllo, nonché con l’adozione di misure di fiducia e con una giusta composizione politica dei conflitti regionali attraverso trattative pacifiche e con la cooperazione nei campi politico, economico e umanitario.
10. Un mondo libero dalle armi nucleari e nonviolento richiede misure concrete e urgenti volte al disarmo:
Ci si può arrivare attraverso la stipulazione di accordi concernenti:
– la totale eliminazione degli arsenali nucleari entro la fine di questo secolo;
– l’inammissibilità della dislocazione di armi di qualsiasi tipo nello spazio, che è patrimonio comune dell’umanità;
– la totale interdizione degli esperimenti dell’arma nucleare;
– il divieto di creare nuovi tipi di armi di sterminio di massa;
– la messa al bando delle armi chimiche e l’eliminazione delle loro scorte;
– l’abbassamento dei livelli degli armamenti convenzionali e delle forze armate.
Finché le armi nucleari non saranno liquidate, l’Unione Sovietica e l’India propongono di stipulare immediatamente una convenzione internazionale che vieti l’uso delle armi nucleari o la minaccia di esso. Ciò rappresenterebbe un grosso passo concreto sulla via del disarmo nucleare totale.
La costruzione di un mondo libero dalle armi nucleari e nonviolento esige una trasformazione rivoluzionaria della mentalità degli uomini, l’educazione dei popoli nello spirito della pace, il rispetto reciproco e la tolleranza. Occorre vietare la propaganda della guerra, dell’odio e della violenza e rinunciare agli stereotipi della mentalità di chi vede un nemico in altri paesi e popoli.
La saggezza consiste nel non permettere che si accumulino e si aggravino i problemi globali, poiché evitare di risolverli oggi richiederà domani maggiori sacrifici.
Grande è il pericolo che incombe sull’umanità. Ma quest’ultima dispone di ingenti forze per scongiurare la catastrofe e aprire la strada che conduce ad una civiltà senza armi nucleari. La coalizione della pace, che sta accumulando le forze e che unisce gli sforzi del movimento dei non allineati, del gruppo dei «Sei», di tutti i paesi, partiti politici e organizzazioni sociali amanti della pace, ci dà motivo di speranza e di ottimismo. E’ arrivato il momento di azioni decisive e improrogabili.
Dalla rivista “Bozze 87”, gennaio/febbraio 1987, anno decimo, numero 1, pp. 17-21
Questa dichiarazione non fu pubblicata in Occidente.