Editoriali

Dibattito: CheFare?

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CHE FARE?
Il mutualismo politico come promessa e strategia di emancipazione
25-11-2021 – di: Leonard Mazzone su Volerelaluna.
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Come ha ricordato Riccardo Barbero su Volerelaluna (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/10/11/stare-nei-territori-ma-anche-ridefinire-un-progetto/), «il più grosso problema che da trent’anni non riusciamo ad affrontare è quello di costruire un progetto di società alternativa a quello presente, pur in presenza di una sua crisi profonda e radicale». È intorno a questo asse problematico che gravita una delle analisi più lucide sul realismo capitalista dei nostri giorni: secondo Mark Fisher la nostra epoca avrebbe reso inconcepibile – prima ancora che impraticabile – ogni possibile alternativa al capitalismo neoliberale (M. Fisher, Realismo capitalista, Nero, 2018). La sua messa al bando ha cessato da tempo di essere soltanto uno slogan recitato dai profeti della controrivoluzione neoliberale al compromesso fordista fra capitale e lavoro siglato nella seconda metà del Novecento. Quello che Alain Badiou ha ribattezzato “uso intimidatorio del reale” (A. Badiou, Alla ricerca del reale perduto, Mimesis, 2016) ha ormai colonizzato il senso comune: lo testimonia il fatto che persino la critica del capitalismo pare aver rinunciato, per citare la felice espressione di Marco Bersani, a sentire la «necessità di collocare ogni esperienza di lotta dentro la prospettiva di un altro modello sociale, economico, relazionale e antropologico» (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/10/06/costruire-la-societa-della-cura-2/).
A oltre vent’anni di distanza dalla fine del socialismo reale, l’apologia del capitalismo realmente esistente a livello globale è diventato il parametro di riferimento per misurare la ragionevolezza di qualsiasi posizione e di chiunque la esprima. Un banco di prova di questo mutato atteggiamento nei confronti del reale e delle sue possibili alternative risiede nel rapporto che intratteniamo con il tempo: mentre ogni rapporto con il passato viene sacrificato sull’altare di un presente risucchiato nel flusso immediato del “tempo reale” (F. Merlini e S. Tagliagambe, Catastrofi dell’immediatezza, Rosenberg & Sellier, 2016), persino la più futuristica delle emozioni – la speranza – è stata mercificata (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/11/11/il-futuro-come-merce-luciano-gallino-e-la-critica-del-finanzcapitalismo/).
Per delineare un’alternativa non basterà denunciare a gran voce l’irrealismo di una forma di vita incentrata sull’accumulazione illimitata dei profitti o la sua insostenibilità ecologica, economica, sociale e politica (almeno per le democrazie costituzionali). Se, a dispetto di tutte le sue crisi e contraddizioni epocali, il capitalismo neoliberale sembra farsi beffe di ogni potenziale tentativo di riforma radicale è anche e soprattutto perché è all’interno di questa forma di vita che siamo diventati quello che siamo. Ma questa ammissione auto-critica non intende in alcun modo celebrare l’onnipotenza dell’avversario, proprio mentre si crogiola melanconicamente nell’ammissione della propria impotenza. Al contrario, la messa in questione di sé può rappresentare una prima e irrinunciabile mossa per ovviare alla diffusa presunzione d’impotenza che pregiudica sul nascere la nostra capacità di immaginare, praticare e consolidare possibili alternative. Ritengo che l’esercizio effettivo di questa capacità dipenda dalla diffusa disponibilità a ripartire (o, per i più lungimiranti, a proseguire) da tre fronti che ritengo irrinunciabili.

1.
Il primo fronte riguarda i contenuti programmatici attorno a cui sviluppare rivendicazioni radicali e percorribili che vadano nella direzione di una nuova forma di ecosocialismo femminista e democratico (https://comunet.online/chi-siamo/regolamento-interno/). A differenza delle precedenti, la nostra è la prima generazione che rischia di assistere all’estinzione di intere specie viventi, alla scomparsa di terre emerse e – prima ancora – di sopravvivere alle successive per via dei rischi globali connessi al “capitalocene”, dal riscaldamento climatico al sovra-consumo delle risorse annualmente rinnovabili dal pianeta, passando attraverso impoverimento del suolo e sovrapproduzione di scarti (J. W. Moore, Antropocene o capitalocene? Scenari di ecologia mondo nella crisi planetaria, Ombre Corte, 2017). L’indebolimento progressivo del welfare pubblico rischia di condannare una porzione crescente della popolazione che resterà esclusa dal mondo del lavoro a spartirsi le briciole della ricchezza socialmente prodotta, se non sarà ripensato e rafforzato in sinergia con nuove forme di socializzazione dell’economia che passino anche attraverso la riscoperta della proprietà pubblica come strumento anziché come fine: il recupero cooperativistico d’impresa (https://impreserecuperate.it/) è solo un esempio (E. O. Wright, Per un nuovo socialismo e una reale democrazia. Come essere anticapitalisti nel XXI secolo, Edizioni Punto Rosso 2018). Nessuna riforma istituzionale promossa per riavvicinare i cittadini alla politica sarà esente dal rischio di derive ideologiche, se si ostinerà a fare astrazione dalle loro condizioni materiali di vita, che incidono concretamente sulla possibilità effettiva di prendere parte ai processi decisionali che pure li riguardano.
È per cogliere il senso e la portata di queste sfide che lo scorso ottobre è stato inaugurato il Festival Interazioni, in collaborazione con quei soggetti già attivi sul fronte della giustizia ambientale, del salario minimo, di un mutualismo intersezionalista e di una nuova agenda per il diritto all’abitare di tutti e tutte. Non intendo addentrarmi e soffermarmi su questo primo fronte di lavoro, data la mole e – soprattutto – la qualità delle proposte elaborate in questi ultimi anni da diversi soggetti su questi e altri ambiti programmatici. Piuttosto, vorrei richiamare l’attenzione sul metodo e, prima ancora, sullo spirito che potrebbe essere preliminarmente richiesto a chiunque volesse contribuire a sviluppare questo primo fronte programmatico: l’inevitabile dissenso con cui ci si dovrà cimentare quando si entrerà nel merito delle proposte programmatiche da rivendicare dovrebbe essere riconosciuto come un ingrediente fondamentale del loro ulteriore miglioramento, nella mite consapevolezza che la formazione politica che sta a monte di questo lavoro teorico è un processo plurale fondato sulla deliberazione e sullo scambio reciproco di argomenti e contro-argomentazioni per fare luce sulla coerenza interna di certe riforme radicali, sulle loro possibili implicazioni pratiche e sugli annessi rischi e opportunità.

2.
Onde evitare facili illusioni è bene soffermarsi su una delle direttrici di lavoro indicate da Livio Pepino nella lucida analisi che ha aperto questo confronto (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/09/22/volere-la-luna-che-fare-un-confronto-aperto/). Non dalla sola critica delle contraddizioni del capitalismo neoliberale o dalla coerenza interna, dalla radicalità e dalla realizzabilità di certe proposte programmatiche dipende la loro desiderabilità sociale.
Quando a essere messa in questione è un’intera forma di vita, conta non soltanto il contenuto dell’alternativa proposta ma anche e soprattutto la credibilità di chi la propone. Prima ancora che da grafiche accattivanti, slogan geniali e campagne social preparate nei minimi dettagli da professionisti della comunicazione, il consenso in favore di certe proposte dipenderà dal grado di autorevolezza acquisito da coloro che se ne faranno promotori. Il progetto di “cooperazione e mutualismo in rete” su cui abbiamo deciso collettivamente di scommettere da qualche anno a Torino e, più precisamente, nel quartiere di Barriera di Milano si fonda su questo e su un ulteriore presupposto, che andrà verificato sperimentalmente sul campo nei prossimi anni: la credibilità di un soggetto politico dipende sia dalla prospettiva situata da cui scruta il mondo che vorrebbe trasformare, sia dalla capacità di coinvolgere attivamente tutti i soggetti oppressi con cui si schiera.
Il secondo fronte su cui occorrerà (continuare a) lavorare è, allora, quello del radicamento territoriale all’insegna del mutualismo politico: grazie, cioè, alla capacità di rispondere ai bisogni diffusi su un territorio grazie alla condivisione di tempo, capacità e risorse di chi si batte in nome dei valori della cooperazione e della solidarietà. La sfida implicita in questa scelta strategica è anzitutto quella di “far parlare le pratiche”, senza per questo mai sottovalutare il potere demiurgico dei linguaggi e delle parole che usiamo ogni giorno; all’eloquenza delle pratiche non può non accompagnarsi l’attenzione ai linguaggi che usiamo per nominare il mondo che vogliamo trasformare. A questo proposito, conviene sgombrare fin da subito il campo dalla ricorrente confusione fra reciprocità e la presunta orizzontalità delle pratiche mutualistiche: piaccia o meno ammetterlo, si darà sempre asimmetria fra chi eroga una prestazione a favore di qualcuno e chi ne beneficia. La differenza tra reciprocità mutualistica e le derive potenzialmente autocompiaiute della carità o quelle impersonali che spesso si accompagnano alla burocratizzazione delle pratiche assistenzialistiche risiede altrove: il mutualismo consiste in un circuito di pratiche di reciproco aiuto che consentono di soddisfare i bisogni immediati di chi vi prende parte. Proprio come avviene in ogni forma di dono, è questa asimmetria iniziale a innescare la reciprocità mutualistica: chi beneficia di una prestazione soddisferà, sotto altra forma, i bisogni di un’altra persona inclusa nel circuito. Per poter accedere al circuito le persone devono versare una quota che consenta di riconoscere eguali diritti di partecipazione democratica a ogni socio e a ogni socia. Tuttavia, le prestazioni mutualistiche non sono direttamente mediate dallo scambio di un equivalente astratto come il denaro: a essere scambiate sono anzitutto capacità diverse (non soltanto beni, come accade nel baratto), a fronte di un’analoga condivisione del proprio tempo. A differenza degli scambi commerciali, inoltre, la reciprocità asimmetrica che contraddistingue il mutualismo è multilaterale: la condivisione di diverse capacità individuali a fronte di un’analoga condivisione del tempo non avviene fra i medesimi soggetti.
Ora, se il mutualismo designa un insieme di pratiche di reciproco aiuto che consentono di soddisfare i bisogni di soci e socie grazie alla condivisione di diverse capacità e risorse, siano esse immateriali (disponibilità di tempo) o materiali (denaro), perché tali conclusioni dovrebbero risultare insufficienti? E perché sostenere che occorra rimediare a tale insufficienza connotando politicamente il mutualismo?
A queste due domande, strettamente intrecciate fra loro, risponderò sulla base di tre argomenti.

2.1. Pur avendo evitato il peggio, le recenti elezioni comunali possono essere difficilmente salutate come un successo da chiunque abbia ancora il coraggio di definirsi di sinistra, a meno di non trasformare l’astensionismo di massa – soprattutto quello delle periferie urbane – in un nuovo, inconfessabile alleato. Condivido in toto il giudizio perentorio di Andrea Morniroli (https://volerelaluna.it/che-fare/2021/11/02/parlare-a-chi-oggi-si-sente-solo/) circa la triste miopia di quanti, a sinistra, hanno salutato con sollievo l’astensionismo delle periferie, consentendo al centro-sinistra di tornare al governo di una città come Torino. Dolersi pubblicamente e, al tempo stesso, rallegrarsi privatamente per l’astensionismo delle periferie è una forma di cinismo mascherato che, al di qua di ogni giudizio moralistico, mi pare anti-politico per definizione: anzitutto perché celebra la propria resa nei confronti di determinati contesti e territori dove aumenta il peso della solitudine connesso alle sfide a cui una certa sinistra sostiene di voler offrire risposte. In secondo luogo, perché non saranno i preamboli e le parole di rammarico ostentate pubblicamente dalle minoranze mobilitate in queste ultime scadenze elettorali a scalfire lo “sciopero del voto” a cui ha preso parte la maggioranza degli aventi diritto. Se si continueranno a disertare fisicamente certi luoghi, ad avere il sopravvento saranno i discorsi capaci di convertire le radici socio-economiche del malessere nelle passioni tristi del panico, del risentimento e della vigliaccheria organizzata dalle destre. A scanso di equivoci: prendere atto – peraltro per l’ennesima volta – della premeditata diserzione delle sinistre di certi territori urbani non significa in alcun modo avallare la narrazione secondo cui, invece, le destre vi si sarebbero radicate. Organizzare strategicamente la solidarietà è sempre stato più oneroso rispetto al dirottamento tattico della sofferenza sociale contro chi sta peggio. Temo che la prima opzione rischi di diventare una missione addirittura impossibile se, a sinistra, si continuerà a “navigare a vista”, accontentandosi di un’analisi di fase permanente che si condanna alla completa subalternità rispetto all’agenda setting mediatico-governativa o, nel migliore dei casi, se si continuerà soltanto a puntare sulla speranza di nuove fusioni o alleanze per ricomporre il settarismo identitario di organizzazioni nostalgicamente ancorate al passato e di nuovi leader soli al comando di partiti liquidi che hanno fieramente rinunciato a darsi obiettivi emancipativi.
A fronte di questo quadro sconfortante, il mutualismo si configura come una vera e propria strategia politica, anzitutto perché potrebbe evitare sul nascere le derive autoreferenziali connesse alla democrazia delle bolle esemplarmente descritta da Damiano Palano (Bubble Democracy, Morcelliana, 2020). Puntare su questa strategia significa ribellarsi all’obsolescenza programmata dell’impegno politico, risalente a forme di attivismo dal fiato corto tarate su scadenze ravvicinate di tipo elettorale e, in senso più ampio, progettuali. Scadenti sono diventate le nostre vite dopo che la parola “progetto”, da categoria cruciale dell’esistenzialismo per condurre autenticamente la propria vita, è diventato uno dei principali dispositivi neoliberali capaci di scaricare sugli individui il peso di contraddizioni sistemiche del nostro tempo. Le dinamiche scadenti che scandiscono le nostre vite sono l’altra faccia di questo colonialismo progettuale: anche chi ha la fortuna relativa di non avere un contratto a progetto lavora a progetto, con la conseguenza che il confine fra vita professionale e vita personale sfuma a vantaggio della valorizzazione capitalistica delle capacità e delle emozioni individuali. Scadenti sono diventate anche le relazioni extra-professionali: come potrebbe essere altrimenti, se il tempo a disposizione per viverle è sistematicamente conteso da obiettivi professionali che ci sono stati assegnati e che non ammettono altre attività al di fuori di quelle necessarie a conseguirli? Last but not least: se la politica è percepita come scadente, forse, è anche perché è stata sempre più subordinata alle scadenze elettorali. Così facendo, si è condannato l’impegno che le precede a diventare materiale di scarto, nel migliore dei casi riciclabile in vista della scadenza successiva.
Facendo parlare le pratiche, il mutualismo può far valere un’autorevolezza che consente a certe parole di tornare ad assumere il peso e il valore che hanno progressivamente smarrito, a seguito dello sradicamento territoriale dei soggetti che hanno continuato a farvi pubblicamente ricorso mentre cessavano di praticarle su ampia scala.

2.2. Una volta distinta la politica dalla sola arte di governo che rischia di condannarla all’agonismo elettoralistico, dovremmo accettare che essa consista semplicemente nella capacità umana di agire di concerto (H. Arendt, Sulla violenza, Guanda, 2017, p. 61) o di costruire comunità all’altezza degli ideali ecosocialisti, femministi, antirazzisti e democratici professati?
Ritengo che queste ultime due risposte non siano meno fuorvianti dell’alternativa da cui vorrebbero prendere le distanze. Se viene intesa come una pratica emancipatrice, la politica è anche capacità collettiva di produrre decisioni pubblicamente vincolanti in direzione di certi valori. Se interpretata mutualisticamente, inoltre, questa capacità non può che essere collettivamente esercitata a partire dal radicamento su un territorio e dal coinvolgimento attivo di coloro che lo vivono all’interno di una comunità politica che risponda ai bisogni diffusi grazie alla condivisione di competenze professionali, disponibilità di tempo e risorse economiche.
Come farlo? Rinunciando una volta per tutte all’idea che chi vive condizioni di particolare vulnerabilità non abbia nulla da restituire sotto altra forma alla comunità che lo ha supportato. È questa la lezione scabrosa impartita dal più ignorante ed emancipatore dei maestri, cui Jacques Ranciere ha dedicato uno dei suoi saggi più illuminanti e disturbanti, almeno per chi ancora intravede nella pedagogia un possibile canale di emancipazione (J. Rancière, Il maestro ignorante, Mimesis, 2008). È questa la bussola che sta orientando l’attività politico-mutualistica degli sportelli, dell’animazione culturale e delle rivendicazioni politiche di Comunet-Officine Corsare.
Come evitare che, nel frattempo, il graduale lavoro di prossimità del mutualismo si traduca in un alibi per riprodurre la separazione fra lavoro “sociale” e “politico”? Sviluppando rivendicazioni – e alleanze funzionali – che possano essere prese in carico dalle istituzioni, in primis quelle locali, tenendo conto dei vincoli sistemici pendenti sui bilanci comunali (https://volerelaluna.it/territori/2021/11/08/il-debito-di-torino-se-39-miliardi-vi-sembran-pochi/). È soprattutto per evitare il rischio di neutralizzare le contraddizioni in atto, ad esempio accontentandoci di ereditare le medesime funzioni di chi ha la responsabilità istituzionale di distribuire più democraticamente il potere e le risorse socialmente prodotte, che non dovremmo rinunciare a connotare politicamente il mutualismo. All’indomani dello scoppio della sindemia, il mutualismo ha palesato un valore essenziale; al tempo stesso, come ha giustamente osservato Giso Amendola in un suo recente intervento presso il Festival del mutualismo promosso dalla Società di mutuo soccorso di Pinerolo (https://www.youtube.com/watch?v=yZg1B2TpQyQ&t=610s), ha smarrito il suo ruolo sussidiario, perché le strutture di welfare pubblico sono ormai venute meno alla loro funzione. In questo mutato contesto, il mutualismo è destinato a diventare un complice involontario della crisi del welfare pubblico, se non avrà il coraggio politico di sviluppare rivendicazioni che vadano nella direzione del rafforzamento delle strutture pubbliche di welfare, a cominciare da quelle sanitarie (https://www.sostenibilitaesalute.org/appello-della-rete-sostenibilita-e-salute-i-fondi-sanitari-integrativi-e-sostitutivi-minacciano-la-salute-del-servizio-sanitario-nazionale/). Occorre, in altri termini, rivendicare con forza che ciò che oggi viene erogato sotto forma di “servizio” o di “prestazione” – dal mercato o dai soggetti del privato sociale – diventi un diritto universale pubblicamente riconosciuto.
Come? Pretendendo, ad esempio, che vengano contrattualizzati e assunti dal settore pubblico i lavoratori e le lavoratrici precarizzati/e che lavorano nelle cooperative e nelle associazioni che gestiscono gran parte dei servizi fondamentali. Si dovrebbe chiedere dunque al mutualismo di agire paradossalmente contro i propri interessi immediati? Non girerò intorno alla questione: la risposta è sì e il paradosso che essa reca con sé è il motore propulsore della politicità del mutualismo.

2.3. Se la funzione politica del mutualismo consiste anzitutto nel coinvolgere attivamente chi beneficia di certe pratiche di muto aiuto a sostegno di proposte che aspirano a modificare alla radice certe condizioni materiali di vita, occorre porsi la questione di come evitare che le quote associative che vincolano l’accesso alla comunità finiscano per respingere anziché includere le persone a cui essa si rivolge.
A questa domanda Comunet-Officine Corsare ha dato due risposte singolari. È il fondo mutualistico composto dalle quote associative di chi può versarle annualmente a coprire i costi del tesseramento di chi non può permetterselo. Tuttavia, il peso politico delle condizioni materiali di vita di ogni potenziale attivista non si fa sentire soltanto in entrata. La stessa quantità di tempo dedicata alle pratiche mutualistiche assume un peso diverso, a seconda delle diverse condizioni materiali di chi le mette a disposizione: le 48 ore di impegno volontario di una lavoratrice straniera con un contratto di lavoro precario, in affitto, con figli a carico non hanno lo stesso peso delle 48 ore messe a disposizione di un maschio bianco che può contare sullo status di cittadino, su una casa di proprietà, su un lavoro a tempo indeterminato e su risparmi in grado di infondere un minimo di sicurezza economica. È per tenere conto anche di queste differenze che non ci si dovrebbe limitare a chiedere un monte ore minimo di impegno a ogni attivista per dare continuità alle pratiche mutualistiche: le quote del tesseramento possono essere diversificate non soltanto in funzione del numero o della tipologia degli sportelli a cui il socio o la socia intende accedere, ma in base alle loro condizioni materiali di vita. Questa esigenza era pressoché assente nelle più antiche società di mutuo soccorso, che erano animate anzitutto da lavoratori e lavoratrici che condividevano analoghe situazioni professionali e condizioni materiali.
La politicità di una simile opzione assume tanto più valore se si sceglie di imparare e tradurre politicamente la lezione dell’intersezionalismo: a incidere sulle condizioni materiali di vita delle persone, infatti, è non soltanto l’estrazione di classe dei soggetti, ma sono anche discriminazioni basate sull’identità di genere, sulla provenienza geografica, sull’orientamento sessuale dei soggetti e su altre differenze. Prendere politicamente sul serio – non solo a parole – questi diversi ma potenzialmente convergenti assi della subordinazione significa modulare le quote associative proporzionalmente alle condizioni materiali di vita delle persone. Certo, queste novità organizzative non consentiranno mai alle comunità che le praticheranno di diventare ricche. Se non altro – e, di questi tempi, non è poco – si assicureranno una certa autonomia politico-finanziaria dalle derive scadenti che si accompagnano a quelle forme di attivismo che devono subordinare sistematicamente obiettivi emancipativi all’ideazione, stesura, presentazione e rendicontazione di progetti capaci di aggiudicarsi le risorse messe a disposizione dai bandi più eterogenei.

3.
Vengo infine al terzo e ultimo fronte. Non sarà il mutualismo di una sola comunità o la molteplicità irrelata di comunità autorevoli a fare la differenza nel prossimo futuro. La sfida, oggi, è fare mutualismo tra chi fa mutualismo e aumentare, anche grazie a questa reciprocità fra soggetti organizzati, il peso politico a sostegno di comuni rivendicazioni politiche, capaci di trasformare alla radice certe condizioni di dominio.
A latitare, oggi più che mai, non sono certo le passioni e l’intelligenza mobilitate in una miriade di organizzazioni, comitati, associazioni e movimenti. A far sentire la propria mancanza mi sembra essere la disponibilità diffusa a re-immaginare e praticare nuove forme organizzative, capaci di moltiplicare queste passioni critiche grazie alla loro messa in rete a livello locale, nazionale e sovranazionale. Mettere a tema questa assenza ingombrante significa, inutile negarlo, denunciare la presenza di un diffuso narcisismo organizzativo. Il superamento di questo scoglio dipenderà non soltanto dalla disponibilità a collaborare dei singoli nodi collettivi, ma anche e soprattutto dal tipo di “rete” che si vorrà mettere in campo e dalle sue regole di ingaggio. Occorrono ambizioni più elevate della semplice condivisione della propria identità collettiva, se si vuole davvero generare una rete capace di incidere sui rapporti di forza esistenti: non basterà, dunque, mettere in rete l’esistente ma immaginare e praticare assieme percorsi e rivendicazioni che continuerebbero a restare inconcepibili, prima ancora che impraticabili, se fossero elaborati all’interno di ogni singola organizzazione.

Postilla

I tre fronti di lavoro presentano gradi di complessità crescente.
Penso ci siano ottime basi da cui partire e buone possibilità di avviare un confronto sul primo fronte.
Più difficile è convenire nella pratica (non solo a parole) sul secondo fronte: alle derive auto-compiaciute di un mutualismo che abdica alla sfida politica di trasformare alla radice certe condizioni materiali di vita anche grazie alla politica istituzionale rischia infatti di fare da contraltare la presunzione di chi, dall’alto delle istituzioni, vede nel mutualismo solo un insieme di “buone pratiche”.
Più arduo ancora sarà lavorare sul terzo fronte. Se vogliamo accettare la sfida, se vogliamo dare vita a una rete capace di connettere, valorizzare e rafforzare l’agibilità politica di ogni nodo già impegnato nel mutualismo occorre essere disposti a fare un passo indietro per farne avanti due assieme, riscoprendo nuove forme di rappresentanza e, quindi, di fiducia democratica fra e dentro i diversi nodi organizzativi.
A quest’ultima ipotesi di lavoro, peraltro appena abbozzata, non ho da offrire altro che uno spunto di riflessione ancor meno definito e, dunque, tanto più facilmente emendabile da chi vorrà esprimere il suo dissenso: ho la sensazione che non saranno il gigantismo post-ideologico delle grandi organizzazioni e neppure forme isolate di radicalismo a indicare la via, ma una rete strutturata fra soggetti radicati mutualisticamente nei territori e, prima ancora, la loro disponibilità a ripensare le regole di ingaggio e il protagonismo di ogni nodo sulla base della qualità del lavoro svolto nei singoli quartieri anziché del numero di tessere raccolte.
Sperando che lo scetticismo di queste conclusioni possa venire smentito dai fatti, vorrei restituire un elemento di analisi, non scontato, che ho avuto il piacere di verificare personalmente. Se si accetta la scommessa di diventare credibili alzando l’asticella dei valori e delle pratiche in nome dei quali si sceglie di fare politica in un’ottica emancipativa, si possono incontrare perfetti sconosciuti o re-incontrare persone disposte a dedicare una parte cospicua del loro tempo extra-lavorativo a una comunità che vuole vincere (non semplicemente combattere) certe battaglie per l’emancipazione. Non abbiamo tempo da perdere, gridavamo in piazza più di dieci anni fa in opposizione alla controriforma dell’Università. Ne abbiamo ancor meno oggi: tanto vale investirlo in un progetto politico-mutualistico capace di sincronizzare il cuore e la mente di chi, pur non scorgendo alcuna alternativa nelle pieghe del presente, non ha mai smesso di desiderarla.
———
Leonard Mazzone è assegnista di ricerca in Filosofia sociale presso il Dipartimento di Sociologia e ricerca sociale dell’Università di MIlano-Bicocca, dove sta conducendo un progetto intitolato “Mutualismi emergenti. Narrazioni e pratiche di reciprocità solidale ai tempi della sindemia”. Docente a contratto in Filosofia sociale (presso l’Università di Firenze) e in Filosofia della storia (presso l’Università di Torino), alla ricerca universitaria combina l’attivismo culturale e politico in Comunet-Officine Corsare (di cui è presidente). È autore di di diversi contributi apparsi su riviste italiane e internazionali, nonché delle seguenti monografie: “Una teoria negativa della giustizia” (Mimesis, 2014), “Il principio possibilità. Masse, potere e metamorfosi nell’opera di Elias Canetti” (Rosenberg & Sellier, 2017), di “Introduzione a Elias Canetti. La scrittura come professione” (Orthotes, 2017) e di “Ipocrisia. Storia e critica del più socievole dei vizi” (Orthotes, 2020). È presidente del Collettivo di ricerca sociale della Rete italiana imprese recuperate.

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“Il/la Presidente che vorremmo”

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“Il/la Presidente che vorremmo”
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22 Novembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem.

Istituzioni e associazioni che si ispirano alle culture politiche dei padri costituenti hanno sottoscritto un documento per indicare il profilo che deve avere il prossimo Capo dello Stato. Tra esse: Associazione Città dell’uomo (Milano), Agire Politicamente (Roma), Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi (Torino), Centro per la Riforma dello Stato (Roma), Centro Studi Giovanni Marcora (Inveruno – Milano), Circolo Carlo Rosselli (Milano), Comitati Dossetti per la Costituzione, Fondazione Achille Grandi (Roma), Fondazione Lelio e Lisli Basso (Roma), Fondazione Nilde Iotti (Roma), Istituto Alcide De Gasperi (Bologna), Istituto Nazionale Ferruccio Parri (Milano), Istituto Vittorio Bachelet (Roma), Movimento Europeo Italia (Roma), Rosa Bianca (Milano).
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Questo documento è sottoscritto da istituzioni e associazioni che si ispirano alle culture
politiche dei padri costituenti: Associazione Città dell’uomo, fondata da Giuseppe Lazzati
(Milano), Agire Politicamente (Roma), Centro di Ricerca e Documentazione Luigi Einaudi
(Torino), Centro per la Riforma dello Stato (Roma), Centro Studi Giovanni
Marcora (Inveruno – Milano), Circolo Carlo Rosselli (Milano), Comitati Dossetti per la
Costituzione, Fondazione Achille Grandi (Roma), Fondazione Lelio e Lisli Basso (Roma),
Fondazione Nilde Iotti (Roma), Istituto Alcide De Gasperi (Bologna), Istituto Nazionale
Ferruccio Parri (Milano), Istituto Vittorio Bachelet (Roma), Movimento Europeo Italia
(Roma), Rosa Bianca (Milano).
Obiettivo: ragionare sul profilo del/della Presidente della Repubblica, l’opposto dello
stucchevole chiacchiericcio sul toto nomi
.

Il/la Presidente che vorremmo
Abbiamo apprezzato e apprezziamo il Presidente Mattarella e auspichiamo che chi gli
succederà si situi nel solco dell’interpretazione dell’alto mandato da lui offerta. In un tempo
contrassegnato da esuberanti fantasie in tema di riforme costituzionali, noi invece ci
riconosciamo nel dettato della Carta circa natura e compiti del capo dello Stato, nonché
nella modalità della sua elezione affidata al Parlamento integrato con i rappresentanti delle
Regioni.
Ciò non ci impedisce, anzi, in certo modo, ci incoraggia ad auspicare che la discussione
circa non già la concreta persona, bensì il profilo del/della Presidente che a breve succederà
a Mattarella non sia esclusivo appannaggio del ceto politico-parlamentare, bensì divenga
oggetto di pubblico confronto. Questo, sia perché si tratta della figura istituzionale nella
quale sarebbe bene che il paese stesso si riconoscesse sia per il rilievo pratico crescente che
essa ha acquisito nel tempo. Una figura niente affatto notarile. Discuterne pubblicamente
anche per non rassegnarsi a “derubricare la pratica” consegnandola a logiche minori o
strumentali: le convenienze di parte, le ambizioni personali, i giochi di palazzo, le manovre
su un’eventuale anticipazione (auspicata o paventata) delle elezioni politiche.
Quali, dunque, il suo profilo e i suoi caratteri?
In estrema sintesi, diremmo così: una persona che fedelmente corrisponda alla
funzione assegnatale dalla Costituzione vigente. Non è scontato in una stagione nella quale
si evocano confusi modelli gollisti e si teorizza la fungibilità tra ruoli ai vertici dello Stato,
che vanno invece tenuti nitidamente distinti. Può succedere che vi siano personalità
adeguate a esercitare poteri di governo, ma anche, ovviamente in tempi diversi, compiti di
garanzia, purché non si appanni la consapevolezza della sostanziale differenza tra le
rispettive funzioni.
Proprio l’ancoraggio a ciò che prescrive la Costituzione – la sola Costituzione che vale,
quella scritta, contro la fuorviante distinzione tra cosiddetta Costituzione formale e
indefinita Costituzione materiale – suggerisce due corollari: l’inopportuna previsione di un
secondo mandato al Presidente in scadenza e il rifiuto di malcelate suggestioni
presidenzialiste o semipresidenzialiste “di fatto” che, con sorprendente leggerezza, sono
state apertamente prospettate persino da esponenti del governo. Nella mens dei Costituenti,
che pure non hanno formalmente stabilito il divieto di un secondo mandato, la sua durata
settennale, a scavalco dei cinque anni delle legislature, sottintende che la regola è quella di
un solo mandato. Essa è anche la ratio dell’istituto del semestre bianco. Al riguardo,
Mattarella, ribadendo una posizione più volte espressa, ha saggiamente posto fine a
pressioni e attese improprie. Né è ancora pensabile, come pure si è fatto, che si possa
eleggere un o una Presidente con scadenza di mandato preordinata o addirittura negoziata,
diversa dai sette anni stabiliti dalla Costituzione. Sarebbe una impropria menomazione
della sua figura e delle sue prerogative. In ogni caso, fosse anche in presenza di circostanze
straordinarie, non è buona norma fare eccezioni ritagliate sulla persona che pro tempore
incarna l’istituzione, con il rischio di alterare il profilo oggettivo di quell’alto organo di
garanzia che è la Presidenza della Repubblica.
Non è infondata la tesi condensata in un’abusata metafora: quella di un potere
presidenziale che, al modo della fisarmonica, si restringe o si dilata a seconda delle
circostanze e, segnatamente, del suo rapporto con gli altri poteri dello Stato. E tuttavia esso
conosce pur sempre limiti. Del resto, lo stesso Mattarella ebbe modo di rimarcarlo,
asserendo che tratto essenziale di uno Stato democratico di diritto è quello per il quale tutti
i poteri sono limitati. Compreso, egli ha aggiunto, quelli in capo al Quirinale.
Di qui il profilo del/della Presidente che vorremmo. Una severa, rigorosa figura di
garante della Costituzione, a cominciare dal principio della separazione, dell’equilibrio e
della leale collaborazione tra i poteri. Un/una presidente che si riconosca nel senso
pregnante del principio secondo il quale il lavoro è il fondamento della cittadinanza
politica. Un/una Presidente che assicuri la difesa del principio di legalità, nonché
l’indipendenza e l’autonomia della Magistratura, accompagnandola, in questa travagliata
fase, nel necessario e urgente processo teso alla sua rigenerazione e al suo riscatto, senza i
quali potrebbe lievitare una spinta al suo asservimento. Un/una Presidente custode e
interprete dell’unità e dell’integrità della nazione, che non misconosca le ragioni
dell’autonomia delle comunità territoriali, ma evitando contrapposizioni e scontri fra poteri
centrali e locali, che abbiamo talvolta scontato dentro il dramma della pandemia. Un/una
Presidente impegnato/a ad assicurare l’unità giuridica ed economica della nazione. Un/una
Presidente che si adoperi per correggere le derive da tempo abbondantemente in atto verso
un depotenziamento delle prerogative del Parlamento e che, di conseguenza, prima, per
esempio, di procedere a uno dei suoi atti più qualificanti, come il conferimento dell’incarico
per la formazione dei governi, dia corso a effettive consultazioni dei presidenti delle Camere,
nonché dei gruppi parlamentari. Un/una Presidente che si situi nel solco dello storico
europeismo del nostro paese, fondatore del processo d’integrazione europea, e dunque
impegnato ad assecondarne il percorso teso a coniugare sovranità nazionale e sovranità
europea nel quadro di «una unione sempre più stretta», in coerenza con un’interpretazione
evolutiva dell’art. 11 della Costituzione. Un/una Presidente che, a capo del Consiglio
superiore della difesa, in conformità al dettato del suddetto art. 11, garantisca il ripudio
della guerra e, positivamente, l’impegno per la giustizia e la pace tra le nazioni.
In una parola un/una Presidente non di parte, supremo arbitro della vita politica.
Semmai Politico/a con la maiuscola, inteso/a cioè come interprete e attivo/a garante dei
superiori interessi del paese. Una figura che unisca il paese anziché dividerlo e che lo
rappresenti al meglio presso la comunità internazionale.

Dovrebbe essere superfluo – ma non lo è – aggiungere una sorta di precondizione
fondamentale che attenga alla sua concreta persona: l’integrità personale attestata da una
biografia specchiata. Come si conviene a chi siamo soliti definire “primo/a cittadino/a”, da
cui tutti possano, con orgoglio, sentirsi rappresentati e, perché no?, trarre esempio.

17 novembre 2021
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Costituzione della Repubblica Italiana

Titolo II – Il Presidente della Repubblica
Art. 83.
Il Presidente della Repubblica è eletto dal Parlamento in seduta comune dei suoi membri.

All’elezione partecipano tre delegati per ogni Regione eletti dal Consiglio regionale in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze. La Valle d’Aosta ha un solo delegato.

L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi dell’assemblea. Dopo il terzo scrutinio è sufficiente la maggioranza assoluta.

Art. 84.
Può essere eletto Presidente della Repubblica ogni cittadino che abbia compiuto cinquanta anni d’età e goda dei diritti civili e politici.

L’ufficio di Presidente della Repubblica è incompatibile con qualsiasi altra carica.

L’assegno e la dotazione del Presidente sono determinati per legge.

Art. 85.
Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni.

Trenta giorni prima che scada il termine, il Presidente della Camera dei deputati convoca in seduta comune il Parlamento e i delegati regionali, per eleggere il nuovo Presidente della Repubblica.

Se le Camere sono sciolte, o manca meno di tre mesi alla loro cessazione, la elezione ha luogo entro quindici giorni dalla riunione delle Camere nuove. Nel frattempo sono prorogati i poteri del Presidente in carica.

Art. 86.

Le funzioni del Presidente della Repubblica, in ogni caso che egli non possa adempierle, sono esercitate dal Presidente del Senato.

In caso di impedimento permanente o di morte o di dimissioni del Presidente della Repubblica, il Presidente della Camera dei deputati indice la elezione del nuovo Presidente della Repubblica entro quindici giorni, salvo il maggior termine previsto se le Camere sono sciolte o manca meno di tre mesi alla loro cessazione.

Art. 87.

Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale.

Può inviare messaggi alle Camere.

Indice le elezioni delle nuove Camere e ne fissa la prima riunione.

Autorizza la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del Governo.

Promulga le leggi ed emana i decreti aventi valore di legge e i regolamenti.

Indice il referendum popolare nei casi previsti dalla Costituzione.

Nomina, nei casi indicati dalla legge, i funzionari dello Stato.

Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici, ratifica i trattati internazionali, previa, quando occorra, l’autorizzazione delle Camere.

Ha il comando delle Forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa costituito secondo la legge, dichiara lo stato di guerra deliberato dalle Camere.

Presiede il Consiglio superiore della magistratura.

Può concedere grazia e commutare le pene.

Conferisce le onorificenze della Repubblica.

Art. 88.
Il Presidente della Repubblica può, sentiti i loro Presidenti, sciogliere le Camere o anche una sola di esse.

Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura. [15]

Art. 89.

Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido se non è controfirmato dai ministri proponenti, che ne assumono la responsabilità.

Gli atti che hanno valore legislativo e gli altri indicati dalla legge sono controfirmati anche dal Presidente del Consiglio dei Ministri.

Art. 90.
Il Presidente della Repubblica non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per alto tradimento o per attentato alla Costituzione.

In tali casi è messo in stato di accusa dal Parlamento in seduta comune, a maggioranza assoluta dei suoi membri.

Art. 91.
Il Presidente della Repubblica, prima di assumere le sue funzioni, presta giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione dinanzi al Parlamento in seduta comune.

Note:

[15] (Nota all’art. 88, secondo comma).
Comma così sostituito dall’art.1 della legge costituzionale 4 novembre 1991, n. 1 (G.U. 8 novembre 1991, n. 262).
Nella formulazione anteriore, il secondo comma dell’art. 88 recitava: «Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato».

News Costituente Terra e Chiesadituttichiesadeipoveri

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Newsletter n. 54 del 17 novembre 2021

BUSSATE E VI COSTRUIREMO UN MURO

Care Amiche ed Amici,
“Bussate e vi sarà aperto”, il ben noto versetto del Vangelo di Luca nella cattolicissima Polonia viene interpretato a contrario: bussate quanto vi pare, mai vi sarà aperto. Anzi non solo non vi sarà aperto ma alzeremo un muro, proprio come è avvenuto a Berlino nell’agosto del 1961, per impedire a chiunque l’attraversamento della frontiera. E’ questo l’annuncio dato il 15 novembre dal premier polacco Mateusz Morawiecki, che ha precisato che la costruzione inizierà già nel mese di dicembre. Nella stessa giornata in un’intervista concessa all’Agenzia Pap, il premier polacco ha ventilato l’intervento della NATO: “Stiamo discutendo con la Lettonia ma soprattutto con la Lituania se non mettere in funzione l’articolo 4 della Nato; ci sembra che ne abbiamo sempre più bisogno (..) Ormai sappiamo che per fermare il regime bielorusso non bastano solo le parole”. L’art. 4 del Trattato Nato riguarda la difesa esterna.
Ormai è evidente che ci troviamo di fronte allo scatenarsi di una nuova guerra fredda, alla nascita di una nuova cortina di ferro, spostata un po’ più a est della precedente ma ugualmente contrassegnata da muri, distese di cavalli di frisia, eserciti che si confrontano, armi che si accumulano. C’è da chiedersi allora, dov’è il casus belli, qual è l’oggetto della controversia che ci ha fatto precipitare in una crisi così profonda e grave? Dove sono le truppe che minacciano la frontiera polacca e con quali armi?
E’ paradossale, ma l’armata che minaccia la Polonia ed i confini orientali dell’Unione Europea è uno sparuto nucleo di uomini, donne e bambini, accampati in un bosco al freddo e al gelo, armati solo dalla speranza di una vita migliore, sottratta agli insulti della violenza e della fame da cui sono fuggiti.
Certamente queste persone sono state portate alla frontiera nel quadro di una politica cinica che sfrutta la loro disperazione come merce di scambio politico o come rivalsa verso le sanzioni che la UE ha adottato nei confronti della Bielorussia, ma questo non cambia la sostanza del problema: il rifiuto di ogni forma di umana solidarietà e di accoglienza nei confronti dei profughi che percorre tutta l’Unione Europea ed assume caratteri di vera paranoia in Polonia e Ungheria.
Parlando del dramma dei migranti all’inaugurazione dell’anno accademico a Siena, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato: “E’ sconcertante quanto avviene ai confini dell’UE, c’è un divario con i principi proclamati (..) Sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione”.
Anche se non ne ha tratto le conclusioni politiche, Mattarella ha rotto il tabù dell’indifferenza qualificando i profughi accalcati alla frontiera, non come invasori, non come alieni, ma come “esseri umani”.
E’ proprio questo il punto, le politiche di respingimento dei flussi migratori adottate dall’Unione Europea sono sostenibili solo al prezzo di disumanizzare la folla dei profughi, di considerarli merce indesiderata da bloccare ai confini, ancor meglio prima che arrivino ai confini dell’UE.
C’è un divario sconcertante fra i grandi principi proclamati solennemente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Che senso ha dichiarare che la dignità umana è inviolabile (art.1), che ogni persona ha diritto alla vita (art. 2), che ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica (art. 3), se poi si lasciano morire di fame e di freddo le persone accampate alla frontiera, che senso ha riconoscere il diritto di asilo (art. 18) secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, se poi si impedisce ai profughi di presentarsi alla frontiera per richiedere asilo?
Persino Putin si è potuto permettere di bacchettare l’Unione Europea osservando che non rispetta i suoi stessi principi umanitari.
E’ veramente assurdo che si schieri un’armata in assetto di guerra per proteggere la frontiera dall’assalto di 4.000 persone disarmate che chiedono solo di poter vivere. Nell’Unione Europea vivono circa 400 milioni di persone; i profughi accampati alla frontiera polacca, percepiti come una minaccia dai leaders sovranisti, non rappresentano neppure lo 0,01% della popolazione europea. In Italia negli ultimi dieci anni sono sbarcate 876.000 persone giunte dal mare; una piccola parte sono state rimpatriate, tutti gli altri sono stati assorbili senza drammi dall’Italia e dagli altri Paesi europei. E’ singolare che il Consiglio dei Ministri degli esteri abbia varato nuove sanzioni contro la Bielorussia, senza muovere un dito per consentire che le persone accampate nella foresta potessero essere accolte da qualche Paese europeo.
E’ singolare che un continente in crisi demografica in cui cresce l’invecchiamento della popolazione, respinga i bambini accampati al freddo nella foresta, privandosi dei loro sogni, della loro gioia di vivere, della loro energia vitale, e si cinga di filo spinato alle frontiere.
E’ urgente una rivolta morale ed un’azione politica coerente: dobbiamo pretendere che siano salvati i profughi alla frontiera per salvare l’onore e l’anima dell’Europa.
Con i più cordiali saluti

www.costituenteterra.it (Domenico Gallo)

P.S. Si riunirà mercoledì 24 novembre alle ore 16 alla Biblioteca Vallicelliana in piazza della Chiesa Nuova 18 con la partecipazione di Paola Paesano Raul Mordenti e Luigi Narducci il gruppo di lavoro Costituente Terra/Scuola. A tema dell’incontro il progetto avviato con il liceo romano Keplero per una riflessione nella prospettiva di un costituzionalismo globale sui temi posti da Costituente Terra, quali il cambiamento climatico, l’ambiente, guerre e produzione delle armi, fame e diritto alla salute, migrazioni. Gli associati a Costituente Terra presenti a Roma che vi siano interessati, sono invitati a partecipare.

P.S. Un appello diffuso dalla “Società della cura” esprime perplessità e preoccupazione per l’ormai prossima assunzione italiana del comando della missione della Nato in Iraq lamentando che non vi sia stata un’adeguata discussione pubblica in proposito. La missione verrebbe ampliata da 500 a 4.000 uomini trasformandosi di fatto in missione di combattimento rispetto a quella che, almeno sulla carta, era solamente funzionale all’addestramento dell’esercito iracheno. La recente decisione di dotare le Forze Armate italiane di una flotta di Hero-30, i cosiddetti droni Kamikaze finalizzati all’utilizzo nel “mutato scenario operativo in Iraq”, come scritto nella relazione del Ministero della Difesa riportata dall’osservatorio Milex, non può che aggravare – dice l’appello – questa preoccupazione. L’Iraq è uno dei Paesi nel quale si combatte da tempo il conflitto che oppone Stati Uniti e Iran. Il rischio è che l’Italia rimanga invischiata nella lotta per il controllo dell’Iraq, per conto di potenze che, come si è visto in Afghanistan, non sono in grado di favorire lo sviluppo della democrazia e dei diritti umani; anche con la conseguenza di nuovi rischi più gravi per la sicurezza delle organizzazioni umanitarie italiane che operano in Iraq. Chi intende aderire a questo appello lo può fare scrivendo a societadellacura@gmail.com
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Chiesadituttichiesadeipoveri
Newsletter n. 239 del 17 novembre 2021

UNA GUERRA OCCULTA

Care Amiche ed Amici,
abbiamo il piacere di condividere la newsletter scritta da Domenico Gallo per i destinatari di “Costituente Terra”:

“Bussate e vi sarà aperto”, il ben noto versetto del Vangelo di Luca nella cattolicissima Polonia viene interpretato a contrario: bussate quanto vi pare, mai vi sarà aperto. Anzi non solo non vi sarà aperto ma alzeremo un muro, proprio come è avvenuto a Berlino nell’agosto del 1961, per impedire a chiunque l’attraversamento della frontiera. E’ questo l’annuncio dato il 15 novembre dal premier polacco Mateusz Morawiecki, che ha precisato che la costruzione inizierà già nel mese di dicembre. Nella stessa giornata in un’intervista concessa all’Agenzia Pap, il premier polacco ha ventilato l’intervento della NATO: “Stiamo discutendo con la Lettonia ma soprattutto con la Lituania se non mettere in funzione l’articolo 4 della Nato; ci sembra che ne abbiamo sempre più bisogno (..) Ormai sappiamo che per fermare il regime bielorusso non bastano solo le parole”. L’art. 4 del Trattato Nato riguarda la difesa esterna.
Ormai è evidente che ci troviamo di fronte allo scatenarsi di una nuova guerra fredda, una guerra occulta, alla nascita di una nuova cortina di ferro, spostata un po’ più a est della precedente ma ugualmente contrassegnata da muri, distese di cavalli di frisia, eserciti che si confrontano, armi che si accumulano. C’è da chiedersi allora, dov’è il casus belli, qual è l’oggetto della controversia che ci ha fatto precipitare in una crisi così profonda e grave? Dove sono le truppe che minacciano la frontiera polacca e con quali armi?
E’ paradossale, ma l’armata che minaccia la Polonia ed i confini orientali dell’Unione Europea è uno sparuto nucleo di uomini, donne e bambini, accampati in un bosco al freddo e al gelo, armati solo dalla speranza di una vita migliore, sottratta agli insulti della violenza e della fame da cui sono fuggiti.
Certamente queste persone sono state portate alla frontiera nel quadro di una politica cinica che sfrutta la loro disperazione come merce di scambio politico o come rivalsa verso le sanzioni che la UE ha adottato nei confronti della Bielorussia, ma questo non cambia la sostanza del problema: il rifiuto di ogni forma di umana solidarietà e di accoglienza nei confronti dei profughi che percorre tutta l’Unione Europea ed assume caratteri di vera paranoia in Polonia e Ungheria.
Parlando del dramma dei migranti all’inaugurazione dell’anno accademico a Siena, il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dichiarato: “E’ sconcertante quanto avviene ai confini dell’UE, c’è un divario con i principi proclamati (..) Sorprendente il divario tra i grandi principi proclamati e non tenere conto della fame e del freddo a cui sono esposti esseri umani ai confini dell’Unione”.
Anche se non ne ha tratto le conclusioni politiche, Mattarella ha rotto il tabù dell’indifferenza qualificando i profughi accalcati alla frontiera, non come invasori, non come alieni, ma come “esseri umani”.
E’ proprio questo il punto, le politiche di respingimento dei flussi migratori adottate dall’Unione Europea sono sostenibili solo al prezzo di disumanizzare la folla dei profughi, di considerarli merce indesiderata da bloccare ai confini, ancor meglio prima che arrivino ai confini dell’UE.
C’è un divario sconcertante fra i grandi principi proclamati solennemente nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e quello che sta accadendo sotto i nostri occhi. Che senso ha dichiarare che la dignità umana è inviolabile (art.1), che ogni persona ha diritto alla vita (art. 2), che ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica (art. 3), se poi si lasciano morire di fame e di freddo le persone accampate alla frontiera, che senso ha riconoscere il diritto di asilo (art. 18) secondo la Convenzione di Ginevra del 1951, se poi si impedisce ai profughi di presentarsi alla frontiera per richiedere asilo?
Persino Putin si è potuto permettere di bacchettare l’Unione Europea osservando che non rispetta i suoi stessi principi umanitari.
E’ veramente assurdo che si schieri un’armata in assetto di guerra per proteggere la frontiera dall’assalto di 4.000 persone disarmate che chiedono solo di poter vivere. Nell’Unione Europea vivono circa 400 milioni di persone; i profughi accampati alla frontiera polacca, percepiti come una minaccia dai leaders sovranisti, non rappresentano neppure lo 0,01% della popolazione europea. In Italia negli ultimi dieci anni sono sbarcate 876.000 persone giunte dal mare; una piccola parte sono state rimpatriate, tutti gli altri sono stati assorbili senza drammi dall’Italia e dagli altri Paesi europei. E’ singolare che il Consiglio dei Ministri degli esteri abbia varato nuove sanzioni contro la Bielorussia, senza muovere un dito per consentire che le persone accampate nella foresta potessero essere accolte da qualche Paese europeo.
E’ singolare che un continente in crisi demografica in cui cresce l’invecchiamento della popolazione, respinga i bambini accampati al freddo nella foresta, privandosi dei loro sogni, della loro gioia di vivere, della loro energia vitale, e si cinga di filo spinato alle frontiere.
E’ urgente una rivolta morale ed un’azione politica coerente: dobbiamo pretendere che siano salvati i profughi alla frontiera per salvare l’onore e l’anima dell’Europa.
Con i più cordiali saluti

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Reddito di cittadinanza

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Più risorse ma anche più equità ed efficienza
di Fiorella Frarinelli, su Rocca.

Ritocchi o riforma per il Reddito di Cittadinanza? Con la prossima legge di bilancio dovrebbero venire approvati, oltre a un sostanzioso incremento delle risorse dedicate, anche un pacchetto di modifiche che ne migliorino l’equità sociale e l’efficienza. Il Reddito è la più importante misura di welfare firmata dal governo giallo-verde. Quella che l’allora ministro delle politiche sociali Luigi Di Maio salutò, con pose ed entusiasmi da tribuno del popolo, come «l’abolizione della povertà». Pretendendo per ingenuità, incompetenza od entrambe, di combinarla con virtuose politiche di inserimento lavorativo dei beneficiari. Politiche «passive», insomma, fatte furbescamente passare come «attive».

non si è raggiunta la povertà estrema
I due obiettivi sono stati, dal 2018 ad oggi, largamente mancati. Il primo perché una parte delle persone interessate non è stata neppure intercettata (ad agosto 2021 avevano ricevuto un sostegno 1,37 milioni su 2 milioni di famiglie «povere totali», pochissimi gli homeless, i marginali, gli ex detenuti, la nuvola triste e sfilacciata di chi dorme sotto i ponti o vive di espedienti). La causa principale è l’inadeguatezza dei criteri di accesso e della «scala» di articolazione degli assegni. Ma anche l’aver voluto ignorare che la povertà estrema, quella di chi non è solo senza lavoro ma anche senza casa, senza salute, senza istruzione, senza relazioni, è contattabile e coinvolgibile solo dai servizi sociali dei Comuni, dagli operatori di strada, dai volontari delle associazioni e delle parrocchie, da chi può mettere in campo azioni integrate e convergenti, tutti invece esclusi come attori e supporti inutili dallo spiccato centralismo statalista della norma. Il secondo obiettivo si può invece definire, senza timore di esagerare, un clamoroso insuccesso. Perché solo una minima quota di coloro a cui i Centri per l’Impiego avrebbero dovuto nel giro di pochi mesi offrire un lavoro capace di farli uscire dall’indigenza l’ha effettivamente trovato. Ma i Centri, si doveva tenerne conto, funzionano male per tutti, anche per i non disperatamente indigenti (il 59% dei percettori del Reddito non lavora da anni o non ha mai lavorato, missione dunque difficilissima quella di procurarne l’inserimento lavorativo), e non è affatto sicuro, secondo uno studio della Caritas, che il contratto di lavoro regolare a cui pochissimi sono approdati sia stato frutto degli 11.600 «navigator» per lo più inesperti assunti per affiancare gli 8.000 operatori dei Centri, e non, invece, di una loro autonoma e fortunata iniziativa.

come correggere i limiti
Dietro alle contraddizioni e alle molte storture del provvedimento, ci sono difetti di ideazione e di funzionamento che richiederebbero una profonda revisione, ma le condizioni del Paese non permettono vuoti, discontinuità, tempi lunghi. Avanti, dunque, con i ritocchi, solo un restyling dice la diplomatica lingua dei tecnici. Il Dep, il documento di programmazione che fa da intelaiatura alla manovra economica 2022, dispone un finanziamento aggiuntivo di circa 1 miliardo, con cui si arriverebbe a 8,8 totali, la stessa cifra raggiunta nel 2021 quando i fondi sono stati ripetutamente incrementati per far fronte alle emergenze della pandemia. Ma se col nuovo finanziamento si conferma l’utilità e si estende il campo di intervento di una misura in grado se non di far svanire almeno di mitigare la povertà, in che direzione andranno le modifiche? Come si correggeranno i limiti del provvedimento del 2018, accertati da Banca d’Italia e denunciati da tante inchieste? L’approccio del governo Draghi è stato finora equilibrato e molto pragmatico. Ma non è un mistero che nella sua maggioranza ci siano orientamenti diversi. Alcuni, diffusi trasversalmente nella politica come nella pubblica opinione, sono generati dalla convinzione – un pregiudizio, spesso, ma non senza conferme fattuali – che il sussidio non solo non abbia favorito l’ingresso nel lavoro dei beneficiari o almeno di quel terzo di potenzialmente «occupabili» (due terzi dei 3.027.851 percettori del reddito sono fuori dal lavoro in quanto troppo anziani, deboli, malati, impediti da altre condizioni avverse), ma abbia piuttosto incoraggiato il contrario di quel che si dichiarava nelle intenzioni: la non ricerca del lavoro, il non lavoro, il lavoro in nero. In altre posizioni e opposizioni prevalgono, indipendentemente dal merito, ragioni politiche, ovvero di schieramento, collocazione, consenso elettorale, con una forte polarizzazione tra favorevoli e contrari. Matteo Renzi, per esempio, un occhio a Confindustria e tutti e due al centrodestra, minaccia un referendum abrogativo, peraltro tecnicamente poco fattibile prima del 2025. Mentre la numerosa pattuglia dei parlamentari Cinquestelle tende a difendere sempre e comunque la norma originaria perché il Reddito di Cittadinanza è per loro innanzitutto identità e bandiera. Quanto ai leghisti, tutto o quasi dipende dall’esito della strenua difesa della «loro» creatura, quella costosissima «Quota 100» simbolo, anche qui una bandiera, di inossidabile contrarietà alla legge Fornero sulle pensioni e al suo probabile prossimo ritorno. Non sarà facile, dunque, una soluzione che, salvando quello che c’è di buono nel provvedimento – non abbandonare i poveri a loro stessi – introduca correttivi di quello che proprio non va, e che rischia di produr- re ulteriori tensioni sociali. L’esecutivo, e chi più convintamente lo sostiene, sa bene che oltre al problema di una spesa corrente in deficit che continua a salire, c’è la necessità di sventare il rischio del risentimento dei tanti occupati a tempo pieno che percepiscono salari troppo bassi ma che non sono «abbastanza poveri» per accedere al soste pubblico. Inevitabile, quando, a fronte di salari per lavori a tempo pieno che talora non superano i 900 Euro, il valore massimo del sostegno per persona singola è 780 Euro. Si chiama guerra tra poveri, il peggio che possa succedere. Ma come se ne esce senza introdurre anche da noi quel «salario minimo» così malvisto dalle organizzazioni sindacali, e da parte del padronato?

evitare che vada a chi non ha diritto
Ci sono comunque delle priorità. La prima è evitare che il Reddito vada a chi non ne ha diritto. Sugli oltre 3 milioni di percettori dell’estate scorsa, a ben 123.697 è stato revocato l’assegno per dichiarazioni false, le più frequenti relative alla composizione del nucleo familiare, alla mancata dichiarazione sullo stato di detenzione in carcere, alla presenza di condanne di particolare gravità come l’associazione mafiosa. L’incrocio delle anagrafi nazionali informatizzate sarebbe la via maestra per un controllo preventivo a monte della regolarità delle domande, anche perché scovare i furbetti a cose fatte non basta a recuperare i soldi che sono andati alle persone sbagliate.

rivedere la scala delle assegnazioni
La seconda, molto più importante per l’equità sociale del Reddito, è rivedere la scala in base a cui si assegnano le risorse che pena- lizza le famiglie povere numerose e che non tiene conto delle differenze territoriali di costo della vita. C’è una vistosa iniquità sociale tra i 780 Euro assegnati ai single e i 1.080 assegnati a una famiglia con un figlio minore e, ancora di più, i 1.280 assegnati a chi di figli sotto i 10 anni ne ha 3. È qui, si sa, che la povertà è più terribile e pericolosa, e che bisogna a ogni costo evitare i suoi effetti negativi su istruzione, salute, alimentazione, i danni che generano i «poveri di domani». Tanto più se si considera che il contributo per l’affitto di 280 Euro, costitutivo dell’assegno, è eguale per tutti, mentre le esigenze abitative sono diversissime tra chi è solo e le famiglie di 3, 4, 5 componenti (col costo degli affitti che varia enormemente tra città e piccoli centri, e per aree territoriali). Sono inique anche le clausole ostative che escludono dall’accesso all’assegno una parte delle famiglie regolarmente residenti di provenienza straniera, in cui la povertà «totale» morde, secondo Istat, quasi tre volte di più che nelle famiglie italiane, il 25% contro il 9%.

cambiare le regole di avviamento al lavoro
E poi, sempre che i servizi per l’impiego riescano a diventare più efficienti – grazie al programma Gol sulle politiche attive finanziato con le risorse del Pnrr – sono da cambiare anche alcune delle regole stabilite dal Reddito di cittadinanza relative all’avvia- mento al lavoro. La legge dice che la condizione per percepire il reddito è firmare il «patto per il lavoro», con cui chi è abile a lavorare si impegna a mettersi a disposizione dei Centri, accettando e seguendo programmi di formazione e di ricerca attiva del lavoro e valutando le offerte di inserimento lavorativo. Questi patti, ad oggi, sono stati stipulati solo per il 31% degli inviati ai Centri, una percentuale davvero troppo bassa anche considerando che durante il lockdown furono sospesi gli obblighi di presentarsi ricorrentemente agli operatori. Non solo. In nessuna Regione, in quasi tre anni di attuazione, è mai stata applicata la condizionalità per cui se il lavoro offerto viene rifiutato per tre volte, il candidato al lavoro perde l’assegno. La legge attuale dice infatti che il lavoro si può rifiutare se l’offerta non è «congrua», e la congruità consiste in un contratto a tempo indeterminato che garantisca almeno 858 Euro al mese. Ora, al di là che, a differenza che in paesi come la Germania e la Francia, da noi i Centri per l’Impiego sono regionali mentre ad erogare gli assegni è l’istituto nazionale Inps (col risultato che quest’ultimo può ignorare se il percettore del reddito ha ricevuto o no una proposta «congrua», se ci sono stati rifiuti e quante volte), è evidente che la possibilità di rifiutare infinite volte un contratto regolare, ma a tempo determinato o a part time, non è quello che ci vuole per incoraggiare l’uscita dal sussidio e l’ingresso nel lavoro. Le politiche attive del lavoro sono tutt’altra cosa, impraticabili in Centri per l’Impiego così inefficienti e in assenza di obblighi a far decadere il reddito in caso di rifiuto del lavoro e di incentivi ad accettarlo. In altri paesi a fare la differenza sono, da un lato, i buoni servizi erogati dai Centri, in termini sia di tempestivi e non burocratizzati piani individualizzati di qualificazione professionale e di assistenza alla ricerca attiva del lavoro sia della possibilità per un certo periodo di continuare a percepire il reddito di cittadinanza, inizialmente per intero e poi a scalare, cumulandolo con il salario da lavoro, se inferiore ai minimi definiti dalla legge o dai contratti nazionali. Quanto agli incentivi per i datori di lavoro che accettino di assumere i percettori del reddito di cittadinanza, bisognerebbe sapere che quello che per le aziende serie conta davvero non sono le detrazioni fiscali ma la certezza che il lavoratore che si assume abbia sviluppato le competenze fondamentali per svolgere bene le prestazioni previste. Tutt’altra logica, insomma, da quella tipicamente assistenziale delineata dalla norma italiana.

si riuscirà a raddrizzare la barca?
Ci sarebbe quindi molto da cambiare, nella norma e nelle pratiche attuative, per restituire dignità e valore non solo al contrasto delle troppe povertà ma al mondo del lavoro e ai lavoratori. Non saranno le cronache dei giornali che denunciano ogni giorno furbetti, illegalità, cumuli irregolari tra assegni e lavoro nero a cambiare la situazione. Il sostegno alla povertà vera dev’essere rafforzato ed esteso all’intera platea delle persone e delle famiglie povere, ma le politiche attive del lavoro sono un’altra cosa. Riuscirà il governo Draghi a raddrizzare almeno un po’ una barca mal congegnata che fa acqua da tutte le parti? C’è da augurarselo. È anche da qui che si misura la civiltà di un Paese.
Fiorella Farinelli

ROCCA 15 NOVEMBRE 2021
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Astensionismo e disaffezione: la politica e i ceti popolari
5 Novembre 2021 by c3dem_admin | su C3dem.
Esiste un divario crescente, un vero solco, tra la politica e le classi popolari, e questa è una delle cause principali dell’assenteismo. I partiti di sinistra una volta erano partiti di lavoratori e si interessavano alla vita della gente; ora non più.
Qualche proposta concreta su come la politica possa tornare a coinvolgere la vita concreta delle persone

di Sandro Antoniazzi
Nelle recenti elezioni amministrative il tasso di assenteismo è stato particolarmente elevato; non è un fatto nuovo, perché ad ogni elezione si registra un progresso di questo indice negativo, che non si sa come affrontare. [segue]

Un mare di vergogna

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Newsletter n. 52 del 2 novembre 2021

IL G20 E IL MULTILATERALISMO

Cari Amici,
tra i buoni auspici scaturiti dall’incontro del G 20 che si è tenuto con grande sfoggio di occasioni turistiche a Roma, c’è quello di piantare in giro per il mondo un miliardo di alberi entro il 2030, per calmierare, in modo ben più efficace che mediante il risparmio energetico, l’invasione dell’anidride carbonica nell’atmosfera. Per il resto, a cominciare dalla prospettiva di ridurre il riscaldamento climatico a 1 grado e mezzo entro il 2050 (ma l’India ha già detto che lo farà per il 2070) gli auspici non sono stati resi molto credibili, tanto che il segretario generale dell’ONU, Gutierrez, ha espresso papale papale tutta la sua delusione per i risultati raggiunti. Perciò appare più realistico spostare il bilancio del vertice sul fronte dei sogni, come del resto ha fatto Draghi dicendo che è stato un successo anche solo il poter “ mantenere vivi i nostri sogni” in ciò interpretando puntualmente, ma un po’ troppo letteralmente, la profezia di Gioele: “i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni”.
Quello che è mancato al G 20, che del resto fu inventato nel 1999 a beneficio dei suoi primi 7 membri per dare ali alla finanza mondiale, è stato un progetto globale per il futuro del mondo e la visione dei mezzi atti a conseguirlo; il futuro infatti non è solo clima, ma una buona convivenza umana nell’armonia di culture, lingue e genti diverse, guerre dismesse e giustizia realizzata, universalità di diritti e istituzioni capaci di attuarle, sotto la sovranità riconosciuta di una Costituzione pensata e promulgata per tutta la terra. È vero che il presidente Draghi ha identificato nel multilateralismo lo strumento essenziale per stabilire regole adeguate a questo obiettivo, ma esso non può contrarsi a coinvolgere alcuni, anche se ricchi, e non tutti i Paesi, né può partire col piede sbagliato di una contrapposizione tra pretese egemonie, dando per scontata una conflittualità tra quello che fu l’Occidente e grandi Paesi come la Russia e la Cina, con un mondo “Terzo” a fare da spettatore o complice.
Questi sono i limiti della costruzione di un assetto globale, che rimbalzano da Roma a Glasgow, e questo è il cimento a cui la politica è chiamata a confrontarsi: sogni, visioni, ma anche decisioni responsabili e azioni effettive. A cominciare già oggi, non da ipotetiche date negoziate per il futuro.
In “Biblioteca di Alessandria” pubblichiamo un riassunto delle conclusioni del G20, il cui testo in Inglese si può trovare qui. Nel sito Costituente Terra una notizia sul respingimento dei migranti in Libia e un articolo su una nuova violazione israeliana dei diritti palestinesi.
Con i più cordiali saluti

www.costituenteterra

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Diritti umani, diritto disumano

di Luigi Ferrajoli

1.
La nostra civiltà giuridica e politica rischia di naufragare in un mare di vergogna. La vergogna consiste anzitutto nelle innumerevoli violazioni del diritto internazionale e dei diritti fondamentali stabiliti nella nostra Costituzione e nella Carta europea dei diritti in tema di libertà personale, di diritto d’asilo, di divieto di respingimenti collettivi e di dovere di soccorso in mare. Ma c’è un’altra vergogna, forse ancor più grave perché in grado di minare le basi sociali della nostra democrazia. Essa consiste nel discredito e nella squalificazione, fino alla criminalizzazione, dell’impegno civile, morale e politico di quanti salvano in mare la vita di migranti che tentano di raggiungere il nostro paese e di chi si batte in difesa dei loro diritti e della loro dignità di persone. Questa seconda vergogna della nostra vita pubblica è stata inaugurata, all’inizio di questa legislatura, dalle politiche dell’ex ministro Matteo Salvini, che hanno segnato un salto di qualità nelle forme del populismo. Il vecchio populismo penale faceva leva sulla paura per la criminalità di strada e di sussistenza, cioè per fatti enfatizzati ma pur sempre illegali, onde produrre paura e ottenere consenso a misure inutili e demagogiche ma pur sempre giuridicamente legittime, come gli inasprimenti delle pene decisi con i vari pacchetti di sicurezza. Il nuovo populismo punitivo, esattamente al contrario, fa leva sull’istigazione all’odio e sulla diffamazione di condotte non solo lecite ma virtuose, come il salvataggio di vite umane in mare, al fine di alimentare paure e razzismi e ottenere consenso a misure illegali, come la chiusura dei porti, la preordinata omissione di soccorso, le lesioni dei diritti umani e la trasformazione in irregolari di immigrati regolari.

Ebbene, un penoso contributo a questo nuovo populismo punitivo è venuto, nei giorni scorsi, dalla sentenza del Tribunale di Locri che ha condannato Mimmo Lucano a 13 anni e 2 mesi di reclusione e alla restituzione, lui nullatenente, di 702.410 euro da lui investiti nelle attività dell’accoglienza. È una sentenza assurda. Non si dica che essa è consistita nella severa applicazione della legge, o che dovremmo aspettarne la motivazione per pronunciarci sulla sua insensata crudeltà. Sappiamo benissimo che rientra nella discrezionalità dei giudici sia l’interpretazione delle leggi, sia l’accertamento e la valutazione dei fatti e delle prove, sia la determinazione della misura della pena. Era dunque ben possibile una pronuncia diversa, quanto meno nella durata della pena, che è stata quasi il doppio di quella – 7 anni e 11 mesi – già incredibilmente e scandalosamente alta richiesta dal pubblico ministero. La verità è che ci troviamo di fronte a un eccesso, a un surplus di volontà punitiva, che non si spiega se non con l’intento di pronunciare una sentenza esemplare diretta a penalizzare l’accoglienza dei migranti. Ciò che accomuna questa condanna crudele e il populismo crudele di Matteo Salvini, che da ministro promuoveva le omissioni di soccorso nei confronti dei naufraghi e il linciaggio di Carola Rackete per aver disobbedito ai suoi divieti, è la volontà di criminalizzare la solidarietà e il senso di umanità, quali si manifestano nei salvataggi delle vite in mare dei migranti e nelle politiche di accoglienza messe in atto a sostegno di questi disperati. Mimmo Lucano – è noto a tutti – è diventato un simbolo, a livello mondiale, di un modello di accoglienza dei migranti fondato sulla loro integrazione sociale e sul rispetto della loro dignità di persone. Ciò che si è voluto colpire con questa durezza è stato dunque questo modello. Ciò che con essa si è voluto difendere è tutto ciò che Lucano ha voluto combattere: l’intolleranza per i migranti, la loro diffamazione come terroristi o potenziali criminali, la loro oppressione e discriminazione razzista.

Il danno più grave di queste pratiche istituzionali – delle politiche contro gli immigrati di Matteo Salvini come della sentenza del Tribunale di Locri – è il crollo del senso morale a livello di massa provocato dall’istigazione all’intolleranza nei confronti dei deboli da esse veicolata. È un veleno distruttivo, immesso nella società italiana, che ha abbassato lo spirito pubblico e il senso morale nella cultura di massa, soprattutto dei ceti più deboli. Quando la disumanità e l’immoralità vengono esibite, ostentate a livello istituzionale, attraverso slogan come “prima gli italiani” o “la pacchia è finita” a sostegno dell’omissione di soccorso, oppure con la penalizzazione in eccesso dell’accoglienza e della solidarietà, esse contagiano la società e si trasformano in senso comune. Non sono soltanto legittimate, ma anche assecondate e alimentate. Non capiremmo, senza questo ruolo performativo del senso morale svolto dall’esibizione dell’immoralità al vertice dello Stato, il consenso di massa di cui godettero i totalitarismi del secolo scorso.

Queste politiche crudeli – questo il loro danno civile e politico – hanno avvelenato la società, in Italia e in Europa. Hanno seminato la paura e l’odio per i diversi, solo perché diversi. Hanno logorato i legami sociali. Hanno screditato, con la diffamazione di quanti salvano vite umane, la pratica elementare del soccorso di chi è in pericolo di vita. Hanno svalutato i normali sentimenti di umanità e solidarietà che formano il presupposto elementare della democrazia e, prima ancora, della convivenza civile. Hanno rifondato le basi ideologiche del razzismo, il quale consiste, essenzialmente, nell’idea che l’umanità è divisa tra chi ha il diritto di vivere e chi non è degno di sopravvivere a causa della sua diversa identità. Perseguire il consenso tramite l’esibizione dell’immoralità e dell’illegalità equivale sempre a deprimere la moralità corrente e ad alterare, nel senso comune, le basi del nostro Stato di diritto, che consistono anzitutto nella dignità della persona, di qualunque persona, nel valore della solidarietà e nella difesa dei diritti fondamentali, che sono tutti leggi dei più deboli in alternativa alla legge del più forte destinata a prevalere ove essi non siano garantiti bensì ignorati o violati.

2.
Se questo è vero, dobbiamo riconoscere che questo nuovo populismo crudele ha fatto della questione migranti la questione di fondo sulla quale si gioca il futuro della nostra civiltà: non solo dell’Italia, ma anche dell’Unione Europea – nata, non dimentichiamolo, contro i razzismi e i nazionalismi, contro i genocidi e i fili spinati, contro i campi di concentramento e contro le oppressioni e le discriminazioni razziali – i cui Paesi membri sono oggi tutti variamente impegnati nella limitazione della libertà di accesso e di circolazione dei migranti. Di più: sulla questione migranti l’intero Occidente rischia il crollo della sua identità morale e politica. Le politiche di esclusione dei migranti e le pratiche repressive della solidarietà ci pongono infatti davanti a una contraddizione scandalosa e a lungo andare insostenibile: la contraddizione tra i nostri conclamati valori – l’uguaglianza, la dignità della persona, l’universalismo dei diritti fondamentali di tutti – e la loro negazione da parte di quelle politiche e di quelle pratiche. È una contraddizione che, se non risolta, renderà impronunciabili gli stessi diritti fondamentali, i quali sono universali e indivisibili oppure, semplicemente, non sono. Sicché non potremo continuare a lungo a proclamarli decentemente come i “valori” dell’Occidente se continuerà questo gigantesco apartheid planetario da cui fuggono i migranti e che esclude dal loro godimento, in contrasto con le tante carte dei diritti che affollano il nostro diritto internazionale e con la nostra celebrata tradizione liberale, oltre un miliardo di persone che vivono in condizioni di povertà estrema e milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame e per mancanza di acqua potabile e di farmaci salva-vita.

Più in generale, la questione migranti si sta rivelando come una questione centrale per il futuro della democrazia e della pace a livello globale. Affermare la dignità dei migranti come persone equivale infatti ad affermare e a difendere la nostra dignità e, insieme, la dignità della nostra Repubblica. Rifiutare la parola d’ordine “prima gli italiani” equivale a rifiutare il razzismo e la svalutazione dei differenti che stanno dietro queste parole. Lottare contro il veleno razzista che sta diffondendosi nella società equivale a difendere l’identità democratica dei nostri ordinamenti. La questione migranti sta insomma diventando il banco di prova della credibilità dei princìpi di uguaglianza e dignità delle persone sui quali si fondano le nostre democrazie. Se prendiamo sul serio i diritti umani, non possiamo non rifiutare l’odierno paradosso in forza del quale nell’età della globalizzazione tutto, fuorché le persone, può liberamente circolare: comunicazioni e informazioni, merci e capitali alla ricerca dei luoghi nei quali si può massimamente sfruttare il lavoro, inquinare l’ambiente, non pagare le imposte e corrompere i governi. Non possiamo non riconoscere, in breve, che il diritto di emigrare fa parte del diritto vigente, che implica ovviamente il diritto di immigrare in qualche parte della Terra e va perciò garantito almeno quanto la libertà di circolazione delle merci e dei capitali.

C’è poi un’altra ragione della centralità politica della questione migranti. Le stragi nel Mediterraneo saranno ricordate come una colpa imperdonabile perché potevano e potrebbero essere evitate. I terribili effetti dell’attuale chiusura delle frontiere dei Paesi ricchi – le migliaia di persone che muoiono ogni anno nel tentativo di raggiungere le nostre coste; le decine di migliaia di persone cacciate dall’Algeria e lasciate vagare e morire nel deserto del Sahara; quelle rinchiuse in condizioni disumane nell’inferno delle carceri libiche e turche; le migliaia di migranti che si affollano ai nostri confini contro barriere e fili spinati, lasciati al freddo e alla fame; le crudeli espulsioni di immigrati irregolari che talora vivono da anni nei nostri Paesi – sono gli orrori dei nostri tempi che imporranno ai costituenti del futuro un nuovo “mai più”. Di questi crimini i nostri governanti e quanti li hanno votati e sostenuti dovranno un giorno vergognarsi. Non potranno dire: non sapevamo. Nell’età dell’informazione sappiamo tutto. Siamo perfettamente a conoscenza delle migliaia di morti provocati da quelle politiche; delle violenze, degli stupri e delle torture inflitte ai migranti sequestrati nei campi libici; delle forme di sfruttamento selvaggio cui sono sottoposti molti migranti una volta raggiunta l’Italia.
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È uno stralcio dalla relazione svolta dall’Autore al convegno di Magistratura democratica Un mare di vergogna, svoltosi a Reggio Calabria l’1-2 ottobre 2021 (che può leggersi integralmente in www.questionegiustizia: https://www.questionegiustizia.it/articolo/diritti-umani-diritto-disumano).
- Sintesi su Volerelaluna.
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Luigi Ferrajoli
Luigi Ferrajoli, professore emerito di Filosofia del diritto all’Università di Roma Tre, è stato allievo di Norberto Bobbio ed è tra i massimi filosofi del diritto viventi. Già magistrato, è stato, a fine anni Sessanta, tra i fondatori di Magistratura democratica. Tra le sue opere principali: “Manifesto per l’uguaglianza” (2018), “Principia Iuris. Teoria del diritto e della democrazia” (2007), “Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale” (1989), tutti pubblicati da Laterza.

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DOCUMENTO PER IL XVII CONGRESSO
NAZIONALE DELL’ANPI APPROVATO DAL
COMITATO NAZIONALE IL 7 MAGGIO 2021

Carla Nespolo ha tracciato una strada, quella del rapporto unitario, del confronto con le altre forze democratiche, della stretta relazione col mondo dell’associazionismo, che intendiamo continuare a perseguire a maggior ragione nella situazione di straordinaria emergenza in cui ci troviamo. Ma ciò che di più profondo ci ha consegnato è la propensione a guardare sempre oltre, a osservare con spirito critico e senso di responsabilità il mondo e il Paese che stanno cambiando, ad ascoltare le opinioni degli altri come un possibile contributo alle nostre, e – assieme – a tenere saldissime le radici dell’Anpi nella concreta esperienza storica della Resistenza e in quell’insieme di valori che sta a noi attualizzare in ogni momento di ogni presente.

CAMBIARE L’ITALIA

Siamo nel pieno di una tragedia mondiale a causa della pandemia e della gigantesca crisi economica e sociale da questa determinata. Da ciò derivano la gravità, l’eccezionalità, l’incertezza del tempo che viviamo. Ma proprio perché crescono la sfiducia, lo scoramento e perfino in tanti casi la disperazione, tanto più occorre promuovere un’idea di cambiamento e così diffondere un messaggio di speranza e di fiducia. Questo è il tempo di una visione del futuro, la visione di un Paese che ritrova le sue radici e dà vita ad una svolta storica.
In Italia, le emergenze attuali, della salute e del lavoro, si aggiungono a tanti ritardi e problemi antichi, di una economia in difficoltà da oltre dieci anni, di un Paese che produce meno ricchezza e poi la distribuisce in modo ineguale e ingiusto, in cui il potere pubblico è insidiato da poteri criminali, che troppi giovani abbandonano perché all’estero trovano migliori condizioni di lavoro e di prospettive personali. Se sono a rischio le condizioni economiche e sociali, è l’intero sistema che si trova in discussione, e si produce una situazione critica per la stessa tenuta della democrazia italiana. La crisi può nascere dalla prolungata difficoltà di reagire, di mantenere le promesse di uguaglianza e giustizia scritte nella Costituzione. Ecco perché vi è bisogno di una risposta straordinaria, che può venire solo, da una piena partecipazione democratica, da un impegno diretto delle forze migliori della società, costruendo una larga unità popolare, dando vita ad una vera e propria nuova fase della lotta democratica e antifascista.
Questo è il senso concreto ed attuale che l’Anpi attribuisce alla storia e tradizione antifascista che rappresenta e per queste ragioni l’Anpi ha avanzato la proposta di una grande alleanza per la persona, il lavoro, la società. La stagione congressuale dell’Anpi mette a tema ‒ in stretto dialogo con la società e la politica ‒ il Paese, la forza della democrazia, un ruolo ed un orizzonte nuovo dello Stato. La piena realizzazione della Costituzione, assumendo l’art. 3 come timone di tutta la rotta da percorrere, è la condizione culturale, ideale, politica nel senso più alto del termine, per il non breve impegno di ricostruzione del Paese su basi più avanzate e solidali. E’ un contributo all’unità del Paese, per superare ritardi storici e disuguaglianze accresciute, per ricostruire un clima di fiducia.
Il nostro Congresso ridisegna così la funzione dell’Anpi nel contesto di una nuova fase storica per l’Italia. L’Anpi delle partigiane e dei partigiani nata nel 1944 si è arricchita diventando, nel 2006, l’Anpi aperta agli antifascisti: oggi definisce la sua natura nazionale e popolare nel vivo del cambiamento indispensabile al Paese, guardando con impegno rinnovato alle giovani generazioni e delle donne, come forze portatrici di rinnovamento e in grado di suscitare nuove energie democratiche. Non una nuova Anpi, ma un’Anpi rinnovata, un’associazione che promuove impegno e nuove forze, che realizza uno spazio pubblico antifascista e repubblicano, parte fondamentale e determinante della più ampia area di associazioni resistenziali.
Da queste premesse deriva la necessità che tutta la fase congressuale sia intrecciata alla costruzione di una vasta rete di relazioni da parte di ogni struttura dell’Anpi che, nella sua autonomia, dialoga con l’associazionismo, il volontariato laico e di ispirazione religiosa, il mondo delle culture, dell’informazione, della scienza, del lavoro in generale, delle istituzioni e delle forze democratiche, oltre che – e in primo luogo – con le altre associazioni resistenziali.
Libertà, eguaglianza, democrazia, solidarietà, pace: sono questi i pilastri valoriali della Resistenza, successivamente incarnati nella Costituzione. E sono perciò anche gli ideali fondamentali dell’Anpi. Ideali che hanno una portata universale, in quanto forniti di uno straordinario carattere espansivo, ma che vanno storicamente declinati in luoghi e tempi determinati. La loro piena realizzazione infatti tende ad essere un orizzonte verso cui muoversi sempre, piuttosto che una realtà compiuta una volta per tutte. Si tratta, appunto, di idee la cui funzione è di essere guida permanente, di dare senso, significato e traguardo alle azioni che vengono condotte.
Tali valori e ideali sono oggi di fatto messi in discussione in modi diversi, e in Paesi e territori diversi. Le libertà spesso sono negate o ridotte: le “libertà di” (per esempio di opinione, di circolazione, di stampa), – peraltro spesso limitate e condizionate ‒ di rado si coniugano con le “libertà da” (per esempio dal bisogno, dallo sfruttamento, dalla fame); l’uguaglianza sembra una chimera, anche perché si accentuano le disuguaglianze; la democrazia viene esplicitamente conculcata, oppure dimezzata, oppure ancora ridotta al pur
necessario diritto di voto. E mentre si affievolisce la partecipazione popolare, in tanti regimi parlamentari la rappresentanza è sacrificata sull’altare di una astratta governabilità; la solidarietà viene incrinata o semplicemente negata, e si tenta di contrapporre situazioni di povertà a situazioni di maggiore povertà e disagio; alla volontà ‒ sempre sostenuta a parole ‒ di garantire una pace globale e duratura si sostituisce nei fatti una macabra normalità della guerra come presunta forma legittima di soluzione delle controversie internazionali.
Eppure nel mondo e nel nostro Paese esistono forze diffuse e operanti che difendono tali valori e ideali perché in essi si riconoscono, e perché sono consapevoli che nessuna prospettiva di cambiamento positivo è possibile a prescindere dalla loro attuazione. Sono forze eterogenee e variamente diffuse, organizzate e non, attente a temi diversi, che vanno dal lavoro alla pace, dalla difesa dell’ambiente alla lotta per la democrazia alla liberazione del proprio Paese.
Veniamo da una lunga storia, quella dell’antifascismo, della dignità e della emancipazione, iniziata durante il regime fascista, proseguita nella Resistenza, continuata nelle lotte per la democrazia e l’attuazione della Costituzione.
Per memoria attiva intendiamo appunto la capacità di trasferire tale eredità nell’azione civile e sociale, politica nell’accezione più larga ed alta della parola, in modo che essa non si limiti alla custodia del passato, ma diventi stella polare del presente e forza propulsiva per il futuro. Dalla memoria attiva della Resistenza, evento fondativo della Repubblica democratica, dobbiamo attingere l’energia e la determinazione necessarie a fronteggiare ogni circostanza sfavorevole, la fiducia nella possibilità di cambiare le cose attraverso l’unità e la partecipazione, lo stimolo alla politica perché riprenda appieno la missione indicata dalla Costituzione, cioè la capacità di progettare e governare il futuro del Paese.

PRIMA PARTE – IL MONDO VISTO DALL’ANPI

Ci sono almeno tre fattori di portata globale che non semplicemente incidono sulle singole situazioni nazionali ma cambiano il modo di pensare della politica, delle culture, delle società. Siamo nella situazione che viene definita di cambio del paradigma: la scala degli avvenimenti è di tale ampiezza, le scelte indispensabili sono di tale grandezza e complessità che il nostro modo di pensare al presente, al futuro, allo sviluppo dell’umanità deve cambiare radicalmente e basarsi su criteri e metodi del tutto nuovi.
Il primo fattore è il cambiamento climatico: il riscaldamento del pianeta procede in modo accelerato, produce devastanti fenomeni atmosferici, determina fenomeni enormi di desertificazione, di riduzione delle masse umide, di mutamento degli equilibri termici degli oceani, di scioglimento dei ghiacci polari e continentali, tanto da minacciare la scomparsa non solo di
aree costiere ma di grandi metropoli di rilievo planetario.
Il secondo fattore è la crisi degli strumenti ‒ che segue alla crisi delle volontà – di governo sovranazionale. L’ONU è da tempo bloccata in una difficoltà di azione, non presente in numerosi punti di tensione ed anche di conflitto armato in Africa, Medio oriente, Asia, in netto deficit di autorevolezza. Il confronto tra grandi potenze, Paesi e soggetti sovranazionali regionali avviene
al di fuori dell’Onu ed anche delle altre Agenzie sovranazionali.
Il terzo fattore è la rivoluzione tecnologica digitale, ampiamente in corso, che ha cambiato e cambierà modalità di lavoro, organizzazione sociale, abitudini, costumi; che incide profondamente sulla formazione del senso comune e lo farà in modo sempre più ampio; che condizionerà i rapporti globali per la stretta connessione con i temi della sicurezza, economica e militare.
Tre fattori estremamente diversi ma per i quali occorre un cambiamento netto di prospettiva, che ciascun Paese può e deve contribuire a determinare.
E il primo cambiamento deve essere la consapevolezza che nessuno si salva da solo: c’è bisogno di un impegno enorme, che richiede grandi sforzi e straordinarie risorse. Il cambiamento climatico ci dice che la politica non può intervenire sulla natura: che, al contrario, la natura decide come deve essere la politica e cosa essa deve fare. La pandemia ha amplificato ulteriormente questo profondo mutamento. Il modello di sviluppo che si è affermato sul pianeta, senza differenze di regime politico, è un modello dissipativo e distruttivo dell’equilibrio tra attività dell’uomo e natura. I rapporti tra i Paesi, in secondo luogo, non si “aggiustano” per forzature progressive ma solo tornando a determinare insieme nuovi strumenti e nuovi obiettivi di coesistenza ed anche competizione, comunque pacifica. E va ripreso con urgenza il tema del superamento degli armamenti nucleari, la cui esistenza si giustifica sempre meno. La rivoluzione digitale inciderà fortemente sullo sviluppo dei singoli Paesi, le cui economie sono attraversate da veloci e intensi processi di trasformazione: occorre operare affinché i dati siano considerati un bene comune, e perché il digitale diventi lo strumento per politiche industriali e sociali non dissipative e sostenibili.

Cambiare il Paese: dalla crisi alla rinascita
È in corso una depressione che colpisce la vita quotidiana dell’intera comunità nazionale, dall’industria ai servizi al commercio alle più disparate forme di lavoro dipendente e di lavoro autonomo, mentre cresce l’esercito degli invisibili e si allarga il differenziale fra nord e sud del Paese.
La crisi è piombata su di una penisola già fortemente segnata dalle iniquità sociali, dal divario economico, dagli squilibri territoriali e dalle contraddizioni insanabili generati da un modello di sviluppo che si è dimostrato incapace di garantire un progresso armonico perché si è fondato sulla abolizione di una ragionevole regolazione e controllo dello Stato sul mercato, sul dominio del privato sul pubblico, sull’esaltazione del concetto di individuo e sulla riduzione e penalizzazione del ruolo della cittadinanza.
Il fallimento di questo modello di sviluppo non riguarda perciò solo la dimensione economica, ma ogni aspetto della vita sociale e culturale del Paese. Da tempo assistiamo ad un progressivo affievolirsi della socialità, ad una caduta verticale della partecipazione popolare, al diffondersi di sentimenti di smarrimento, di paura e di rancore. Il dramma della pandemia ha fatto precipitare la situazione, aggravando la solitudine sociale e creando un’angoscia esistenziale causata dall’incertezza, se non dall’impossibilità di programmare in alcun modo il proprio futuro e persino il proprio presente.
In questo scenario la politica ha dimostrato tratti di larga inadeguatezza, aderendo in modo subalterno alla cultura del neoliberismo, spesso negando legittimazione a qualsiasi indirizzo alternativo di politica economico-sociale, abdicando alla sua vocazione di servizio e al compito di proporre progetti, orizzonti, visioni, ripiegando sulla amministrazione del quotidiano e spesso contaminandosi col malaffare e con l’illegalità. L’attuale sistema dei partiti ha progressivamente smarrito la sua funzione, propria dei primi decenni della repubblica, di cerniera fra società e Stato, rinunciando alla rappresentanza politica degli interessi sociali e arroccandosi nelle istituzioni. Le istituzioni stesse, svuotate della linfa vitale del sistema dei partiti, non più organicamente connesso alla società reale, hanno perso funzionalità, prestigio ed autorevolezza.
Entro questo quadro, in un periodo di tempo relativamente breve, sono cresciute e si sono spesso affermate spinte che chiamiamo populiste,
caratterizzate dal disprezzo delle istituzioni, del sistema dei partiti, dei corpi intermedi. Si è aperta così una falla nella diga democratica. Nel malfunzionamento generale del sistema-Paese sono cresciute spinte eterogenee, con forti propensioni demagogiche e autoritarie, che hanno prodotto un radicale cambiamento degli equilibri elettorali.
La crisi si manifesta anche nel sistema istituzionale. L’immagine del Parlamento è profondamente compromessa da un meccanismo elettorale per cui la gran parte dei parlamentari è nominata, e dunque scarsamente rappresentativa ma anche ‒ in alcuni casi ‒ di discutibile qualità, nonché dalla frequenza degli scandali che coinvolgono esponenti delle istituzioni, a ogni livello. Il taglio del numero dei parlamentari, che inciderà negativamente sull’attività delle Camere, è l’ennesima conferma di una deriva pericolosa, che può mettere in discussione le radici della repubblica.
La pandemia ha drammaticamente messo a nudo la debolezza e l’ambiguità della riforma del Titolo V della Costituzione, com’è dimostrato dalle
violentissime polemiche fra presidenti di Regioni e governo e fra gli stessi presidenti di Regione. Due grandi problemi sono emersi con tutta evidenza.
In primo luogo, l’incongruità di un sistema istituzionale in cui, mentre a livello nazionale vige, sia pur profondamente depauperato, il modello parlamentaristico, a livello regionale si è affermato di fatto un regime presidenziale, peraltro con ben pochi contrappesi. In secondo luogo, si è via via passati da una forma di regionalismo solidale ad una teoria del primato del più forte; l’autonomia appare sempre meno compatibile con il principio costituzionale della repubblica una e indivisibile, fondata sull’espansione della democrazia e della partecipazione dei cittadini, e sempre più un elemento di costante tensione, generata dall’egoismo localistico e dalla competizione
di mercato. A maggior ragione risulta improponibile qualsiasi proposta di autonomia differenziata: al di là di ogni buona intenzione, essa diventa un ulteriore fattore di separazione e ‒ per alcuni aspetti ‒ di frantumazione del Paese. In particolare, verrebbe ulteriormente drammatizzata la condizione del Mezzogiorno, già oggi per molti aspetti allo stremo.
La pandemia, con la conseguente crisi economica, è esplosa come una bomba su un tessuto già profondamente segnato e indebolito, facendo venire al pettine difficoltà e punti di crisi presenti da anni o addirittura da decenni.
Per citarne alcuni: il lavoro, declassato da tempo nella gerarchia dei valori sociali, con un gigantesco arretramento dei salari, dei diritti e della sicurezza dei lavoratori, a testimonianza di un vero e proprio travisamento dello spirito e della lettera della Costituzione a cominciare dal suo fondamento (art.1), e per effetto di un quadro legislativo caratterizzato dalle modifiche peggiorative apportate allo Statuto dei lavoratori e dalla simmetrica mancanza di aggiornamenti legati alle novità nell’organizzazione del lavoro, mentre giace da tre anni in parlamento la proposta di iniziativa popolare della CGIL per una nuova Carta dei diritti del lavoro. Il fenomeno migratorio, per il quale non c’è ancora una chiara politica di accoglienza, di solidarietà e soprattutto di integrazione, anche a causa dei ritardi e delle chiusure da parte dell’UE o di alcuni Paesi membri. La sanità, che, messa alla prova terribile dalla pandemia, ha rivelato i danni determinati dal progressivo ridimensionamento del Servizio sanitario nazionale a vantaggio di un modello privatistico che si è dimostrato fallimentare nel fronteggiare l’emergenza. La scuola, che vive una lunga, grave stagione di crisi perché ha perso gran parte del suo prestigio sociale (di cui fa le spese soprattutto il corpo docente), ha smarrito la sua missione fondamentale, che consiste nella formazione del cittadino. La giustizia, su cui pesano soprattutto i tempi lunghissimi dei processi e gli scandali che ne colpiscono profondamente la credibilità. La legalità, messa quotidianamente in discussione dalla criminalità organizzata e dalle organizzazioni mafiose che coprono oramai il territorio nazionale e che rivelano talvolta collegamenti perversi con la politica. L’informazione, la cui concentrazione in mano a editori “non puri” mette di fatto in discussione il pluralismo delle idee, ed esalta la faziosità. Il fisco, che da un lato non riesce a sanare la piaga dell’evasione e dell’elusione e dall’altro non ottempera più a criteri di progressività e di equa distribuzione degli oneri.
Questo groviglio di problemi si intreccia con problemi storici e permanenti: il persistere e l’aggravarsi della questione meridionale, tara storica che data dai tempi e dai modi dell’unità nazionale, e che si è accentuata da alcuni decenni a causa del costante aumento del differenziale produttivo, economico e sociale fra nord e sud del Paese; la diffusione di vecchie e nuove povertà e di
forme sempre più larghe di esclusione e marginalizzazione sociale, che hanno oramai posto all’ordine del giorno il tema dell’abbandono e del degrado di ogni periferia; una drammatica condizione delle nuove generazioni, private di diritti e di prospettive, di lavoro e di luoghi di socialità, costrette in gran parte a vivere alla giornata, alternando disoccupazione ad attività saltuarie, dequalificate, mal remunerate e spesso pericolose.
L’Italia versa perciò in uno stato di crisi organica, che si verifica allorché in un Paese un intero sistema sociale, politico e economico si trova in un stadio di instabilità così forte da mettere in discussione la sua tenuta e la credibilità stessa delle istituzioni. Quando il vecchio muore e il nuovo stenta a nascere insorgono pericoli di cesarismo, si profila cioè il rischio di regimi in cui un individuo assume il potere in modo autocratico, sostituendo la partecipazione democratica e la rappresentanza con la delega diretta e plebiscitaria.
Tutto ciò pone all’ordine del giorno la difesa, la tenuta e il rilancio della democrazia, anzi, propriamente, della democrazia costituzionale.
Si parla in generale, ed anche per il nostro Paese, di crisi delle democrazie liberali. In realtà tale definizione per l’Italia è riduttiva e per così dire propagandistica. La democrazia disegnata dalla Costituzione infatti è rappresentativa, perché il popolo elegge i suoi rappresentanti; parlamentare, perché ha al centro del sistema istituzionale il parlamento; partecipata, perché presuppone ed evoca, in forme diverse, la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica. Certo, la nostra democrazia ha tratti liberali, ma ‒ contestualmente ‒ anche imprescindibili tratti sociali, che nascono dagli ideali di libertà ed eguaglianza coltivati in molteplici forme nella Resistenza e sostenuti nei decenni successivi dalle lotte sociali che hanno contribuito in modo determinante al progresso economico, morale e culturale del nostro Paese. Da tempo questi ultimi tratti sono stati messi progressivamente in secondo piano, con la conseguente crescita di contraddizioni e squilibri e con l’aumento esponenziale del tasso di diseguaglianza. I punti di crisi della democrazia italiana corrispondono prevalentemente alla parziale realizzazione del carattere sociale della democrazia costituzionale.
In questi vuoti si innestano le propensioni e le azioni eversive dell’estrema destra italiana: neofascisti, neonazisti e razzisti intervengono sempre più spesso nelle ferite sociali, dalla povertà alle contraddizioni fra poveri e più poveri (acuite anche dal fenomeno migratorio), dal disagio giovanile al declassamento rapidissimo di ampie fasce di ceti medi e medio-bassi. Le iniziative, spesso di natura squadristica, della “galassia nera” sono peraltro alimentate dalla propaganda incessante delle centrali della paura e dell’odio che operano nella politica, nei media, nei social network, e che hanno dato vita a un diffuso senso comune popolare. L’esito è che, mentre negli anni ‘70 la base sociale delle forze di estrema destra si concentrava simbolicamente in piazza San Babila a Milano o ai Parioli a Roma, oggi si trova nelle periferie.
Alla caduta del secondo governo Conte, provocata dal disimpegno di una forza politica della sua stessa maggioranza, hanno fatto seguito una fase di grave incertezza e la nascita del nuovo governo, in un tumultuoso rimescolamento del sistema politico. Nello scenario del tutto inedito cui siamo di fronte, rimane fermo l’obiettivo dell’Anpi di rivendicare la piena attuazione della Costituzione e una chiara azione di sostegno ad ogni concreta iniziativa
giuridica di contrasto ai fascismi e ai razzismi, che sono l’ospite inquietante
della democrazia italiana in crisi e che vanno combattuti anche sul terreno
sociale e culturale.
Si tratta di una battaglia non certo facile, ma che può essere vinta grazie
alla presenza nel nostro Paese di una vastissima area democratica di popolo,
eterogenea, più o meno organizzata in formazioni sociali, di ispirazione laica
o con convincimenti religiosi, che esprime diverse opzioni politiche ma che si ritrova saldamente unita sui principi della democrazia e sugli ideali dell’antifascismo, e che negli ultimi anni si è attivata pubblicamente decine,
centinaia di volte, in modi diversi, ad attestare una presenza, una fiducia, una
speranza. A questa mobilitazione di massa si sono aggiunte le prese di posizione
di personalità del mondo della cultura, dello spettacolo, dell’informazione, del lavoro. L’elemento portante di questo movimento carsico ma costante di partecipazione democratica è stato l’associazionismo, sia nelle espressioni più
stabili e organizzate a livello nazionale (Arci, Acli, Libera, Cgil, Cisl, Uil), sia in forme nuove, come le Sardine, sia in una miriade di esperienze particolari e locali: un movimento che ha visto sempre la presenza attiva dell’Anpi e delle altre associazioni resistenziali. Un forte impulso a tale movimento è venuto dalle ultime encicliche e dal convegno economico di Assisi (Economy of Francesco). L’incontro fra una rinnovata concezione religiosa del mondo e della vita e la visione laica dell’associazionismo sta contribuendo in modo essenziale a dar forza all’obiettivo della costruzione di una società diversa, che abbia a fondamento la centralità della persona umana, cioè un nuovo
umanesimo. Che è poi, in ultima analisi, l’architrave della Costituzione.
Da questo punto di vista non si possono dimenticare due immagini di straordinaria potenza simbolica in piena pandemia: il Papa da solo in piazza
San Pietro il 28 marzo 2020, il Presidente della Repubblica da solo davanti al
Monumento al Milite Ignoto il 25 aprile 2020.

Noi Europei: per una più forte unità politica dell’UE
Il sistema istituzionale dell’Unione Europea non è un sistema pienamente
parlamentare, ed è parte di un complesso meccanismo che rende la
democrazia europea ancora incompiuta. Tale meccanismo merita di essere
profondamente rivisitato in direzione del conferimento di più ampi poteri al
parlamento. È auspicabile che la Conferenza sul futuro dell’Europa produca
il risultato di estendere la partecipazione dei cittadini e di rafforzare la loro reale rappresentanza all’interno delle istituzioni europee.
Com’è noto, un capitolo fondamentale nella storia dell’idea di Europa è stato scritto a Ventotene. L’Europa immaginata da Colorni, Spinelli, Rossi, Hirschmann, si ispirava ai principi di libertà, di democrazia, di eguaglianza
sociale (per mettere fine alle “colossali fortune di pochi” e alla “miseria delle grandi masse”), prima coltivati dagli antifascisti italiani nella clandestinità, poi sbocciati nella Resistenza; un’Europa dei popoli e della solidarietà. Ancora oggi, ottant’anni dopo, il manifesto di Ventotene è un potente antidoto contro i nazionalpopulismi e i sovranismi, e continua a indicarci la prospettiva di una unione continentale come avanzamento ‒ e, per alcuni aspetti, compimento ‒ della rivoluzione democratica che ha sconfitto il nazifascismo.
L’Europa è perciò il luogo dove oggi l’antifascismo può realizzare una delle
sue missioni fondamentali. Sapendo coniugare lo sviluppo con i diritti individuali e collettivi, l’Europa è stata nel dopoguerra la culla del Welfare, e può perciò proporsi come riferimento per altre aree del mondo. Eppure, a
causa della crisi delle democrazie occidentali, in tanti Paesi della UE germina e cresce il virus del nazionalismo, spesso mescolato al razzismo e al nazifascismo: lo stesso virus che portò il mondo alla catastrofe nel 900. Il populismo ha assunto specifici caratteri nazionali, violando, come nel caso della Polonia e dell’Ungheria, alcuni capisaldi del Trattato dell’Unione Europea: ci riferiamo alla tutela della dignità della persona, ai valori della libertà, della democrazia, dell’uguaglianza, allo Stato di diritto e al rispetto dei diritti umani.
Spinte centrifughe e revisioniste di varia natura, provenienti prevalentemente
da alcuni Paesi dell’est, hanno indebolito l’Unione e rischiano di mettere in discussione la sua matrice antifascista; basti pensare alla Risoluzione del Parlamento europeo del 19 settembre 2019 “sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa”, che ha riscritto la storia delle origini della
seconda guerra mondiale attribuendo una notevole responsabilità all’Unione
Sovietica e sminuendo di fatto le colpe del nazifascismo, peraltro in palese
contrasto con lo spirito della Risoluzione del Parlamento europeo del 25 ottobre 2018 “sull’aumento della violenza neofascista in Europa”.
Un’analoga distanza dai principi dello Stato di diritto si verifica in Paesi
europei non UE come l’Ucraina, profondamente inquinata da presenze filonaziste, e la Bielorussia, governata da un regime dispotico e violento.
L’UE, per di più, è da poco uscita da una lunga stagione di politica economica,
aperta dalla crisi del 2007-2008 e improntata alla cosiddetta austerità, che
ha avuto drammatiche conseguenze sociali in vari Paesi, compresa l’Italia, e
risultati catastrofici per la Grecia. Tale politica è stata una delle cause essenziali della caduta di fiducia nell’UE, della crisi della democrazia, del repentino affermarsi dei nazionalpopulismi.
Il cambio di rotta determinato dal dramma della pandemia ha segnato una
discontinuità profonda e positiva che può preludere ad un radicale cambio di
passo, come lasciano intravedere le opzioni relative alla green economy e, più in generale, la maggiore attenzione ai temi dell’ambiente. Eppure rimane
inconfutabile una strutturale debolezza politica e sociale dell’Unione,
dovuta alla mancanza di politiche comuni su temi fondamentali – politica
estera, emigrazione, fisco, lavoro – e all’indebolimento della fiducia dei
popoli nei confronti dell’organismo sovranazionale. Di converso la Brexit, se ha rappresentato traumaticamente un punto di crisi dell’Unione, ha altresì rafforzato la tenuta dell’Unione stessa davanti al pericolo della disgregazione.
In ogni caso l’UE non si mostra ancora pienamente all’altezza della sfida
globale, per la persistenza di piccoli e grandi egoismi nazionali, per i riflessi politici della teoria economica del neoliberismo (da tempo applicata di
fatto in modo esclusivo, seppure con diverse articolazioni, dall’insieme della
UE), per i condizionamenti postumi della Guerra fredda. Va segnalato in proposito il tormentato rapporto con la Russia. Alle giuste critiche per i limiti e le distorsioni del sistema politico di questo Paese e per l’opacità di eventi, situazioni ed episodi imputabili a decisioni del governo russo, si aggiunge spesso nei confronti della Russia un sovraccarico di polemiche e di scontri di carattere geopolitico, che innalzano la tensione in modo preoccupante. Il mondo che ci attende richiede un assetto multipolare, il superamento di ogni residuo di eurocentrismo e al contempo il rafforzamento dell’UE sotto tutti i punti di vista, affinché il vecchio continente, unito, regga la sfida delle grandi potenze politiche ed economiche in occidente e in oriente, a cominciare da Stati Uniti e Cina, senza per questo rinunciare alla cooperazione, al negoziato e a ogni altro strumento che garantisca la pacifica convivenza, il progresso economico e sociale, l’autodeterminazione dei popoli.
È bene che l’Europa abbia confermato il suo sistema di alleanze internazionali e i suoi rapporti transatlantici; ma tale sistema va collocato nel contesto del mondo attuale, in cui la mission difensiva della Nato nei confronti dei Paesi dell’est è venuta ovviamente meno, ma non è chiaro quale sia la nuova funzione ‒ e tantomeno il significato della natura esclusivamente difensiva ‒ dell’alleanza militare. Anche per questo deve essere messa all’ordine del giorno la costruzione di un autonomo sistema di sicurezza europeo.
Inquieta in questo scenario la proliferazione di gruppi e organizzazioni che si
richiamano al fascismo, al nazismo e al razzismo, e che interessa soprattutto
i Paesi dell’est. Sarebbe un gravissimo errore sottovalutare o tollerare questa
evidente realtà, che costituisce una minaccia permanente per la democrazia
e la libertà. Occorre perciò una piena riaffermazione dell’antifascismo come
architrave della costruzione europea e un profondo rafforzamento della
dimensione continentale dell’antifascismo organizzato.
L’Unione Europea, in conclusione, non è altro argomento, estraneo alla
situazione nazionale; essa rappresenta una dimensione decisiva della battaglia
politica, sociale e culturale, e deve diventare il teatro principale della nuova
fase della lotta democratica e antifascista nello spirito, nelle mutate condizioni storiche del nuovo secolo e del nuovo mondo, del Manifesto di Ventotene.

Il mondo in cui viviamo
L’Europa e l’Italia nel nuovo mondo. Ma è davvero nuovo? Lascia sconcertati
la vicenda dei vaccini, la cui ricerca è stata finanziata dai poteri pubblici, ma
la cui produzione e commercializzazione è stata affidata alle multinazionali
del farmaco, che hanno agito in base alle leggi del mercato e non in base al
bisogno sociale. Tutti sanno chi è il presidente degli Stati Uniti, della Russia,
della Cina, ma ben pochi sanno chi è l’amministratore delegato di Microsoft, Amazon, JPMorgan Chase. Eppure il giro d’affari di molte multinazionali sovente supera persino il PIL di tanti Paesi. In un mondo davvero nuovo dovrebbero essere messi a tema il controllo pubblico dell’economia e della finanza, un codice di vincoli e di regole per un sistema produttivo privato che opera al di fuori ed al di sopra di ogni legislazione nazionale. In sostanza, la politica deve tornare al posto di comando.
Certo, non c’è più l’inquietante figura del presidente Trump, ma l’onda lunga del “trumpismo” non si è esaurita e continua a ispirare nazionalismi e protezionismi: in America del Sud con l’incredibile presidenza di Bolsonaro, in Europa con una forte e articolata presenza nazionalpopulista, ed in Asia, per esempio col governo di Narendra Modi in India, mentre nel Myanmar l’opposizione al colpo di stato da parte di un larghissimo movimento popolare che chiede il ripristino della democrazia viene represso in modo sanguinoso.
Negli States è alla prova il nuovo presidente Biden, che propone una visione
del mondo senz’altro diversa da quella di Trump e che ha segnato già punti
a suo favore (a partire dal rientro del suo Paese negli accordi di Parigi per la
difesa dell’ambiente), ma che apre anche inquietanti interrogativi sul possibile
ricorso alla forza militare come mezzo di risoluzione delle controversie con
altri Paesi, come confermato dal raid in Siria del febbraio 2021. La sfida più
grande a cui Biden è atteso è quella della pace e della guerra: ci aspetta una
nuova guerra fredda o finalmente una coesistenza pacifica fondata sulla non ingerenza negli affari interni di altri Stati e sul diritto all’autodeterminazione dei popoli? Anche da questo punto di vista il Medio Oriente rimane una cartina di tornasole, perché chiama in causa le endemiche ingerenze politiche e militari dell’occidente, la condizione di popoli senza Stati come i palestinesi e i curdi, il ruolo di potenze regionali come Turchia, Israele, Arabia Saudita, Iran, Egitto. Si protrae il conflitto israelo-palestinese, la cui unica, equa e ragionevole composizione non può che consistere nella formula “due popoli due Stati”; dura la sanguinosa repressione del governo turco nei confronti del popolo curdo; crescono le tensioni fra Paesi a maggioranza sunnita e Paesi a maggioranza sciita; rimane il rebus libico, dopo che lo Stato è stato di fatto dissolto dall’aggressione militare della Nato del 2011, e si è aperto un calvario di guerre tribali che hanno trasformato la Libia in un teatro di scontri per procura di Stati terzi ingolositi soprattutto dalla ricchezza petrolifera del territorio, nel terreno di una complessa partita politica e diplomatica da cui l’Italia è stata finora sostanzialmente assente.
Da tempo in America Latina è in corso un confronto di dimensioni continentali fra una politica che si prefigge una effettiva indipendenza dagli Stati Uniti d’America, e una politica che si richiama alla dottrina Monroe, e dunque tende a imporre la supremazia degli Stati Uniti nel continente americano. Intanto permane l’embargo commerciale, economico e finanziario degli Stati Uniti contro Cuba, iniziato nel 1962 e ultimo retaggio della guerra fredda. È ora di cancellarlo. Le questioni legate al rispetto delle libertà, della democrazia e dei diritti umani nei Paesi dell’America Latina, alle volte reali, altre volte pretestuose, sovente sollevate per denunciare l’illegittimità di questo o quel governo, si possono affrontare esclusivamente a partire dal rispetto dell’autonomia nazionale e dell’autodeterminazione. La teoria dell’esportazione della democrazia ha già determinato catastrofici effetti in Medio Oriente, laddove, viceversa, nei confronti di regimi in cui libertà, democrazia e diritti umani sono parole vuote, come le petromonarchie, si resta inerti e si stabiliscono in qualche caso, come l’Arabia saudita, addirittura rapporti preferenziali. Seppur in ritardo, bene ha fatto il governo italiano a sospendere le commesse commerciali verso la monarchia saudita. Queste contraddizioni chiamano in causa il progressivo svuotamento di poteri e di legittimità dell’Onu e degli organismi internazionali che ne sono espressione.
Le Nazioni Unite devono recuperare il ruolo di garanti del diritto internazionale e del sistema di sicurezza collettiva, prevenendo o sanando i conflitti, tutelando il principio di non ingerenza, richiamando gli Stati membri al rispetto dei diritti umani.

In questo nuovo mondo c’è un generale indebolimento delle democrazie.
Questo vale per le democrazie cosiddette illiberali, in cui, pur in presenza di elezioni, si nega di fatto la divisione dei poteri e si tende ad asservire il potere legislativo e quello giudiziario all’esecutivo, a conculcare i diritti e
le libertà civili, ma vale anche, sia pur in modo diverso, per le democrazie
rappresentative, svuotate di effettiva partecipazione popolare e con una crisi dei partiti, in particolare dei partiti “storici”, sempre più marcata, sia pur in forme diverse a seconda degli Stati. Colpisce la pressoché totale
scomparsa dell’accezione di “democrazia sociale”, cioè di una democrazia che,
salvaguardando le conquiste del liberalismo, vada oltre, affinché le libertà e i diritti declamati siano effettivamente praticati.
In questo scenario si collocano i grandi temi della contemporaneità, a
cominciare dal fenomeno dell’ondata migratoria, che mostra la distanza
abissale fra le dichiarazioni e i comportamenti in materia di democrazia e
di diritti umani. A fronte di un evento di proporzioni eccezionali, prevale
un atteggiamento di ripulsa e di arroccamento, i cui effetti sono visibili dal
Messico al Mediterraneo alla rotta balcanica, con conseguenze catastrofiche
anche a causa della mancanza di un ordine internazionale e della debolezza e
contraddittorietà delle politiche dell’UE. Ma risposte parcellizzate, confuse e
dunque insufficienti vengono date anche ad altri problemi capitali della fase
attuale, dalla fame nel mondo alla catastrofe annunciata del riscaldamento
globale, dalla piaga del terrorismo islamico agli effetti globali della rivoluzione digitale. Per questo democrazia, nuovo umanesimo, sviluppo sostenibile, pace costituiscono le fondamenta della politica che l’umanità di oggi, e specialmente le nuove generazioni, chiedono a gran voce.

SECONDA PARTE – L’ANPI E LA SFIDA DEL PRESENTE

Noi
Come si colloca l’Anpi in questo mondo e in questo nostro Paese, l’uno e l’altro così cambiati? In primo luogo si colloca attivamente, perché l’Anpi non è la custode di un’antica reliquia, ma un soggetto che fa tesoro della memoria per intervenire nel presente e per disegnare il futuro. Non a caso lo Statuto recita fra l’altro, a proposito della missione dell’Associazione: “battersi affinché i princìpi informatori della Guerra di Liberazione divengano elementi
essenziali nella formazione delle giovani generazioni”; “concorrere alla piena
attuazione, nelle leggi e nel costume, della Costituzione Italiana, frutto della
Guerra di Liberazione, in assoluta fedeltà allo spirito che ne ha dettato gli
articoli”. In queste parole c’è la sostanza dell’idea di “memoria attiva” che
ispira l’associazione, e che consiste nel rendere vivo e operante il sistema di
valori incarnato nella Resistenza e dichiarato nella Costituzione.
L’idea di memoria attiva è la base del “fare politica” dell’Anpi, ossia di
un impegno civile e sociale che, oltre a essere un diritto, è un dovere di
cittadinanza. Chi fa coincidere con la sfera dei partiti il perimetro dei
soggetti di qualsiasi iniziativa che attenga alla politica, rivela una concezione profondamente antidemocratica e ignora la funzione essenziale della
partecipazione nell’impianto costituzionale della democrazia italiana.
L’Anpi, peraltro, ha nella sua storia momenti di forte presenza sul terreno
della politica: così fu nel 1953 nell’opposizione alla cosiddetta “legge truffa”, nel 1960 per impedire il congresso del Msi a Genova e per contrastare il governo Tambroni, negli anni 70 e 80 per fermare la strategia della tensione prima e il terrorismo poi. Recentemente ‒ nel 2006, nel 2016, nel 2020 ‒ l’Anpi ha fatto sentire le sua voce nei referendum costituzionali.
L’Associazione è perciò un attore del dibattito pubblico, pronto anche alla
mobilitazione di piazza laddove sussistano gravi pericoli per la democrazia e
il suo assetto costituzionale.
L’Anpi, in sostanza, come tutte le formazioni sociali, è un soggetto politico,
ma mentre tutti i partiti sono soggetti politici, non tutti i soggetti politici sono partiti. L’Anpi non era, non è e non sarà mai un partito, né può essere oggetto di alcuna speculazione partitica, perché la sua forza morale, ideale e pratica deriva dalla sua natura di “associazione che unisce”, che non è portatrice di una ideologia specifica, che è di parte sì, ma della parte della Costituzione.
Questo non vuol dire rifiutare i partiti o diffidarne pregiudizialmente; vuol dire invece avere a mente i diversi ruoli delle comunità organizzate che strutturano e danno anima al funzionamento della democrazia italiana.
Da tutto ciò deriva la legittimità ed anche l’urgenza, in questa fase drammatica, di una capacità di critica e di proposta, sempre in riferimento a grandi questioni di carattere costituzionale, istituzionale, politico, sociale.

L’impegno dell’Anpi oggi
La grande alleanza democratica e antifascista
Proprio perché portatrice di una visione laica e libera della cittadinanza
attiva, l’Anpi ha avanzato la proposta della grande alleanza democratica e
antifascista per la persona, il lavoro e la socialità, raccogliendo un’adesione
ampia di movimenti, associazioni, sindacati, forze politiche, ed in primo
luogo di associazioni partigiane. Il respiro di tale proposta infatti richiede
innanzitutto il concorso di tutte le associazioni nate dalla comune esperienza
della Resistenza. Tali associazioni si sono divise e articolate in ragione di uno scenario politico da tempo scomparso, e va perciò avviato un percorso che
prenda atto del superamento delle antiche divisioni nella prospettiva di una
sempre maggiore vicinanza e di una auspicabile ricomposizione.
La proposta è di un’alleanza che riproponga nel dramma presente la centralità
dei valori della solidarietà e della prossimità, due parole chiave, ma sappia
anche guardare al futuro, affinché nell’Italia del dopo Covid non si assista
alla restaurazione dei modelli economici e valoriali del recente passato, ma
si imbocchi la strada del cambiamento. O ci sarà una svolta vera, oppure il
domani riproporrà in forma ancora più grave il dramma della diseguaglianza.
Si tratta dunque di un’alleanza per la Costituzione.
Tale proposta nasce dalla estrema gravità della situazione del Paese, dall’urgenza di una risposta unitaria come unica risposta storicamente e logicamente possibile, dalla necessità di non giocare più soltanto di rimessa,
criticando o contestando questo o quel fenomeno di deriva della democrazia,
ma viceversa di andare all’attacco, svolgendo un ruolo positivo e propositivo.
In sostanza, questo è il momento di una piena assunzione di responsabilità
nazionale e generale, a maggior ragione di fronte alla mancanza di soggetti
partitici in grado di svolgere un’analoga funzione di “levatrice” di una nuova
fase della lotta democratica e antifascista.
Questa scelta dell’Anpi è pienamente coerente con le sue radici, anzi per qualche aspetto è dovuta, perché rinvia, in ultima analisi, alla logica unitaria del Cln e allo slancio di solidarietà del Paese nell’immediato dopoguerra, prima
dell’avvio della guerra fredda, cioè alla fase di ricostruzione dell’Italia distrutta da un regime dittatoriale e dalla guerra. Inoltre, esalta il carattere autonomo e unitario dell’Associazione. I due aggettivi non sono in contraddizione, perché il primo esclude qualsiasi rapporto di dipendenza, il secondo esclude qualsiasi propensione alla chiusura e all’autosufficienza. Oggi non c’è stata una guerra e la dittatura fascista è fuori dalla storia presente: ci sono però un Paese da ricostruire, una fiducia da suscitare, un futuro che deve essere nelle mani dei cittadini.
La proposta di grande alleanza serve in primo luogo a stabilire un clima nuovo, di dialogo, di partecipazione, di condivisione, di ascolto, fra forze politiche, forze sociali, istituzioni, ma anche fra persone, perché è vero, come ha affermato Papa Francesco, che “nessuno si salva da solo”. È inoltre un luogo ove esporre analisi e formulare proposte di indirizzo, opzioni di
priorità, gerarchie di valori condivisi. L’obiettivo dell’alleanza non è quello di sostituirsi al legislatore, ma di stimolarlo e di contribuire alla ricostruzione di un rapporto virtuoso fra la società e il sistema istituzionale. La modalità di tale alleanza non si può definire con un accordo a tavolino; l’alleanza deve manifestarsi in un costante processo unitario e realizzarsi attraverso le tante forme possibili che essa può assumere sull’intero territorio nazionale, in considerazione delle specifiche caratteristiche della storia locale. È dal territorio che possono nascere esperienze, proposte, iniziative. I territori sono le officine dell’alleanza.
Ma i territori sono anche per alcuni aspetti l’obiettivo dell’alleanza. A fronte
degli estesi ed evidenti fenomeni di disgregazione, occorre ricostruire i legami
sociali attraverso una crescente partecipazione, una mobilitazione generale
dei cittadini organizzati, per costruire una nuova cultura della cittadinanza.
Questo comporta per l’Anpi una vasta proiezione nella società civile, un
dialogo ed uno scambio continui con la molteplicità dei soggetti sociali.

La nostra anima e le radici
La nostra anima è la memoria delle radici. Essa si incarna in forma simbolica
e rituale nella mole delle celebrazioni, a cominciare dalla più grande e
significativa: il 25 aprile. Tale data viene ricordata con la dovuta solennità
nella grande maggioranza dei comuni italiani; ma c’è ancora una zona grigia in
cui, anche a causa delle scelte di diverse giunte di destra, non viene festeggiata la Liberazione. È compito di tutte le strutture Anpi impegnarsi affinché in ogni comune il 25 aprile venga degnamente commemorato. Ma assieme a
questa e ad altre date importanti (come il 2 giugno, festa della Repubblica),
l’Anpi è impegnata a coltivare la memoria delle radici in molte altre forme,
come l’onore alle lapidi o l’istallazione delle “pietre d’inciampo”. Per
converso, l’Anpi deve impegnarsi su tutto il territorio nazionale a contrastare
la pericolosissima deriva per cui in alcune realtà si erigono piccoli o grandi
monumenti a personalità del regime fascista o compromesse col fascismo.
Il fronte su cui si sta manifestando una vera e proprio offensiva dell’estrema
destra riguarda la toponomastica, con l’intitolazione di piazze, vie, giardini a fascisti scomparsi. A questa indecente opera di riabilitazione del fascismo
noi dobbiamo contrapporre la valorizzazione delle figure della Resistenza di
maggiore rilievo locale, con particolare riferimento alle centinaia e centinaia
di donne – partigiane, staffette o semplici donne del popolo – seviziate e
uccise dai nazifascisti, a cominciare da quelle insignite di Medaglia d’Oro.
In tale contesto va ricordato il prezioso lavoro, svolto per conto dell’Anpi
nazionale con la collaborazione di tanti comitati provinciali e di tante sezioni
e col sostegno dello Spi-Cgil, da Laura Gnocchi e Gad Lerner, che hanno
raccolto centinaia di video-interviste a partigiane e partigiani. Al volume «Noi
partigiani», pubblicato lo scorso anno, segue la costituzione di un “memoriale
virtuale” in cui sono raccolte tutte le testimonianze. Sarà poi utile un serio
contributo dell’ANPI anche all’approfondimento del tema che si potrebbe
definire “la Resistenza e il futuro”, per cogliere le attese, le speranze, gli intenti
e i progetti di quanti parteciparono in qualsiasi forma alla Resistenza. Tale
approfondimento potrà recare un contributo saliente anche a collegare talune
esperienze della Resistenza (per esempio, le Repubbliche partigiane) ai lavori
(ed ai risultati) della assemblea Costituente, per la formazione dell’attuale
Carta Costituzionale, recando un ulteriore contributo alla memoria, non
solo come conoscenza e ricordo, ma anche come riflessione e valorizzazione
dei contenuti, delle attese e delle speranze della Resistenza.
In ultima analisi la “memoria” dell’Anpi, e cioè la conoscenza, il ricordo,
la valorizzazione del passato e la sua elaborazione critica, a partire dalla
complessa esperienza della Resistenza e della Liberazione, dalla Consulta
nazionale istituita dopo la fine della guerra per portare il Paese alle elezioni
politiche, dai lavori dell’Assemblea Costituente ed infine dall’approvazione
della Costituzione, rappresenta un patrimonio irrinunciabile per affrontare
in modo critico, positivo e propositivo il presente ed il futuro. Siamo davanti
ad una dilagante e generalizzata riscrittura della storia, e a una vera e propria
delegittimazione della ricerca storica, da parte di centri di potere politico e
istituzionale della destra. È urgente perciò dar vita a una nuova narrazione
che faccia della verità storica uno strumento potente di impegno civile e di
cambiamento sociale.

L’antifascismo e l’antirazzismo oggi
Tutta la vigenza congressuale, dal 2016 ad oggi, è stata costellata di iniziative
antifasciste e antirazziste da parte dell’Anpi, nella maggioranza dei casi
unitamente ad altre forze sociali. Dobbiamo essere sempre in prima fila nella
denuncia dell’attività squadristica in ogni sua forma, dei tentativi revisionistici
che si sono moltiplicati negli ultimi anni con l’evidente disegno di ridare
legittimità storica e politica al ventennio, di ogni manifestazione di razzismo, di
discriminazione e di antisemitismo. L’antisemitismo è vivo e vegeto in Europa
e si manifesta con frequenza sempre più preoccupante. È essenziale avere a
mente che qualsiasi riferimento diretto o indiretto al fascismo è in conflitto
con lo spirito della Costituzione e con la natura democratica della repubblica.
Oggi la suggestione fascista non è più limitata ad un gruppo di nostalgici, ma
è condivisa da una parte significativa, pur se non maggioritaria, della pubblica
opinione, ed è assecondata dai gruppi dirigenti dei partiti più vicini al punto
di vista nazionalpopulista, che hanno in gran parte sdoganato il fascismo
legittimandone storia, teorie, idee, costumi, luoghi comuni. L’egemonia della
cultura antifascista passa in primo luogo dalla sconfitta di questi fenomeni.
Negli ultimi anni i punti più alti dell’impegno antifascista dell’Anpi sono
stati la grandiosa manifestazione “Mai più fascismi, mai più razzismi”, da noi
promossa insieme con un vasto arco di forze e tenutasi a Roma il 24 febbraio
2018; la raccolta unitaria di firme su scala nazionale per la messa fuorilegge
delle organizzazioni fasciste e razziste; l’esposto presentato alla Procura della
Repubblica di Roma contro Casa Pound; la lunga campagna di denuncia
della “Galassia nera” sul web lanciata da «Patria indipendente» e ripresa in
vari modi da istituzioni e media; la vasta attività di ricerca storico-giuridica
sulla legislazione antifascista e antirazzista compiuta dall’Anpi nazionale.
Analogamente, la battaglia antirazzista ha avuto carattere permanente e
continuativo su diversi fronti: i migranti, i rom, gli ebrei, gli afroamericani. Un
punto particolarmente alto di impegno è avvenuto a partire dal luglio 2020,
dopo l’omicidio negli States di George Floyd. Assieme, la critica al razzismo
si è realizzata con diverse riflessioni e approfondimenti, in particolare sulle
pagine di «Patria indipendente». È stato messo a fuoco il nesso strettissimo
fra contrasto a fascismi e razzismi e piena attuazione della Costituzione; il
carattere antifascista della Carta fondamentale non si riduce infatti alla pur
essenziale XII Disposizione finale, ma ispira ogni sua parte perché disegna uno
Stato, una società ed un insieme di regole esattamente opposti all’ideologia
fascista e razzista.
La memoria del passato avviene sempre nel presente. Da questo punto di
vista la Resistenza, la guerra, il dopoguerra, la Costituente, la Costituzione
sono temi straordinariamente attuali e oggetto di ricerca storica tutt’altro
che conclusa. L’Anpi ha dato in questi anni un importante contributo alla
conoscenza della Resistenza come fenomeno nazionale (valorizzando il
ruolo del Mezzogiorno e dei meridionali) e come laboratorio istituzionale (le
repubbliche partigiane). Eppure stiamo assistendo a un’offensiva revisionista
senza precedenti, tesa a screditare il movimento partigiano e l’intera lotta
di Liberazione; valga a esempio la ricorrente e stucchevole polemica sulle
foibe. Anche su questo terreno l’Anpi ha risposto non solo contestando un
presunto negazionismo, peraltro mai esistito, ma analizzando il drammatico
fenomeno nel più ampio contesto delle vicende del confine orientale, dal
fascismo di confine all’invasione della Jugoslavia. Questi fronti di ricerca
devono rimanere aperti, e devono essere approfonditi aspetti finora non
sufficientemente studiati: le atrocità commesse dai nazifascisti nei confronti
delle partigiane, delle staffette e in generale delle donne; il ruolo specifico dei ragazzi e dei ragazzini nella Resistenza; il suggestivo e inesplorato argomento del paesaggio partigiano; la “resistenza passiva” degli Internati Militari Italiani.
In ogni attività di ricerca sarà ovviamente necessario coinvolgere gli Istituti
Storici, con particolare riferimento all’Istituto Nazionale “Ferruccio Parri”.

La nostra lotta è la Costituzione
Negli ultimi anni la nostra Carta costituzionale è stata sottoposta a numerosi
tentativi di revisione da noi respinti, in particolare nel 2006 e nel 2016. Nostro compito è, come sempre, concorrere alla sua difesa ed alla sua attuazione. Ma non solo. L’Anpi da tempo è impegnata a favorire la conoscenza, non solo nella lettera ma nello spirito, della Costituzione, nella consapevolezza che essa contiene anche criteri di interpretazione di processi di lunga durata. La conoscenza della Carta fondamentale e la conseguente necessità di difenderla e di applicarne integralmente i princìpi sono da anni un aspetto centrale della nostra attività, a diversi livelli: dalla collaborazione con il Ministero dell’Istruzione, che va potenziata, all’impegno nei referendum costituzionali, all’approfondimento del versante culturale dell’antifascismo attraverso diverse pubblicazioni e seminari. Questo impegno deve incrementarsi e generalizzarsi sul territorio nazionale. Anche per questi aspetti sarà opportuno promuovere la massima collaborazione con le altre associazioni partigiane e resistenziali.

Una nuova statualità democratica e antifascista
La questione generale strategicamente più importante riguarda la natura, i compiti e le funzioni dello Stato italiano; è questa la ragione che porta l’Anpi a proporre alcune linee guida di riforma.
Il disastro della pandemia, il conseguente crollo di tante attività produttive,
commerciali e di servizio, lo scenario di crisi organica in cui versa il Paese
possono e devono essere affrontati dallo Stato, cioè dall’insieme delle
istituzioni che governano il territorio e rappresentano il popolo, all’altezza
delle contraddizioni del nostro tempo. Assistiamo all’anomalo sviluppo di poteri economici e finanziari svincolati da ogni controllo democratico, di fatto concorrenti con i poteri dello Stato, alle volte in grado persino di condizionare tali poteri. Oggi lo Stato italiano, in quanto ancora segnato dalle contraddizioni del passato, è sì parte della soluzione, ma anche del problema, e diviene perciò terreno di lotta politica finalizzata a un suo profondo cambiamento. È giunto il momento di manifestare un nuovo patriottismo
costituzionale, che postula una rigenerazione in senso pratico ed etico della politica.
Già nel 2016, il 22 marzo, il Presidente nazionale dell’Anpi, Carlo Smuraglia,
e la Presidente dell’Istituto Alcide Cervi, Albertina Soliani, consegnarono
al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, un ampio documento contenente proposte operative “Per uno Stato pienamente antifascista”.
Nel documento, assieme alla denuncia dei ritardi e dei limiti di uno Stato
che non si è ancora del tutto uniformato alla natura antifascista della
Costituzione e della Repubblica, si suggeriva una serie di provvedimenti in
materia di legislazione, giustizia, scuola, autonomie, e si affermava la necessità appunto di “un forte patriottismo costituzionale, come base di una corretta convivenza civile”.
In verità le istituzioni di questo Paese non sono mai diventate pienamente
“antifasciste”, come vorrebbe la Costituzione; e ciò perché non sono stati
fatti fino in fondo i conti col fascismo, non si è insegnato sul serio che cosa
è stato veramente il fascismo, si è tenuto un comportamento lassista nei
confronti di atteggiamenti e azioni inaccettabili e pericolosi, non solo nella
società, ma anche nelle istituzioni. Basti pensare ai fatti accaduti a Genova del luglio 2001 durante il G8 e ai comportamenti della polizia, qualificati dalla Corte Europea dei diritti come “ torture”.
Su quali temi si deve impegnare oggi l’Anpi? E per quali proposte? Senza
pretendere di dettare l’agenda del governo e del parlamento, e di surrogare
i partiti nella formulazione di un programma politico generale, ci limitiamo
di seguito a riassumere il punto di vista dell’Associazione su alcune questioni
che hanno particolare rilevanza nel discorso pubblico e che appaiono cruciali
per il futuro della democrazia repubblicana e del nostro Paese.
Anche a partire dalle richieste del documento del 2016, peraltro sostanzialmente
inevase, è opportuno mettere a punto un’idea di Stato che coniughi la sua
necessaria modernizzazione con l’attuazione del disposto costituzionale e con
un profondo arricchimento della natura della democrazia italiana, a partire
dal dettato del secondo comma dell’art. 3 della Costituzione: “E` compito
della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che,
limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Sono perciò i diritti incomprimibili a dover essere garantiti dal bilancio dello Stato, e non l’equilibrio di bilancio a condizionare la loro piena soddisfazione, come già osservato anche dalla Corte Costituzionale. Il principio del pareggio di bilancio (art.81 Cost. nuova formulazione) non può e non deve insomma pregiudicare la tutela dei diritti sociali, essi pure costituzionalmente garantiti.
Occorre, allora, riaffermare lo statuto costituzionale dei diritti sociali contro le tendenze alla loro decostituzionalizzazione, per rivalutare in concreto il principio di solidarietà collettiva, pilastro fondante della nostra democrazia, e la conseguente esigenza di protezione dei soggetti deboli.
Tutto ciò rinvia al carattere sociale della democrazia italiana, in gran parte
inattuato, e pone allo Stato urgenze e doveri finora spesso disattesi.
Lo scopo è dar vita ad una democrazia che si organizza, sia attraverso una
riforma del sistema politico coerente con l’art. 49 (“Tutti i cittadini hanno
diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo
democratico a determinare la politica nazionale”), che comporta anche
l’osservanza di regole di democrazia interna ai partiti, sia attraverso altre forme di partecipazione popolare.

Parlamento, Regioni, enti locali
Il Parlamento deve tornare ad essere specchio del Paese, esaltando la
sua funzione di rappresentanza e riconquistando centralità. Va perciò
contrastata l’allarmante tendenza a dar vita ad una sorta di presidenzialismo
“di fatto”.
Le Regioni non possono essere poteri separati e conflittuali, ma istituzioni
democratiche che valorizzano il territorio di competenza, che operano in
concerto col governo nazionale e in cui va esaltato il ruolo del consiglio
regionale in quanto massima espressione della rappresentanza politica: a
esso deve essere restituita la prerogativa di eleggere il presidente, il cui potere non può non essere bilanciato da opportuni contrappesi. L’Italia risente di decenni di propaganda di secessione delle Regioni ricche e, successivamente, di un federalismo sempre presentato in antitesi e in competizione con lo
Stato unitario. Viceversa, occorre ritornare allo spirito costituzionale per determinare un corretto rapporto fra poteri dello Stato, Regioni e comunità
locali. Lo Stato unitario va ancora pienamente compiuto, superando
differenze e diffidenze che datano dal Risorgimento. Il regionalismo deve
ritrovare il nesso fra la sua specificità territoriale e l’anima solidaristica che fa la Repubblica una e indivisibile. L’Italia è il Paese dei mille Comuni,
cioè di una diffusione di comunità locali con specifiche identità, che vanno
valorizzate e che costituiscono un ineliminabile patrimonio storico, civile,
culturale di carattere nazionale.

Lo Stato, le imprese e i lavoratori
Bisogna accantonare una visione dello Stato come notaio dello sviluppo
e come pagatore in ultima istanza della crisi delle imprese; lo Stato
dev’essere viceversa soggetto regolatore dell’economia, come si legge fra
l’altro negli artt. 41, 42, 43 della Costituzione, che stabiliscono la funzione
sociale dell’impresa, le libertà e i vincoli della proprietà privata, il ruolo
del legislatore nella programmazione dello sviluppo. In particolare, va
finalmente e fermamente attuata la norma costituzionale prevista nel
comma 2 dell’art. 41, che recita “La legge determina i programmi e i
controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa
essere indirizzata e coordinata a fini sociali”, e che segue al primo comma,
dove si legge che “L’iniziativa privata è libera. Non può svolgersi in contrasto
con l’utilità sociale”.
Assieme, occorre operare per una radicale trasformazione della cultura
d’impresa privata, superando il mero utilitarismo competitivo che ha caratterizzato gli ultimi quarant’anni come corollario del pensiero
neoliberista, e recuperando le migliori tradizioni della borghesia
imprenditoriale italiana, dal “contratto della montagna” a Adriano Olivetti.
Si tratta di una battaglia fondamentale anche se difficile, perché occorre
misurarsi con una tradizione profondamente arretrata di settori importanti
della piccola e grande impresa nazionale, troppe volte legati alla rendita
più che all’innovazione, abituati ad uno “Stato minimo” cui però rivolgere
sempre richieste di sostegni, incentivi, contribuzioni.

La questione demografica
L’Italia è in piena crisi demografica: stiamo diventando un Paese a sempre
più elevata età media. La politica demografica richiede ampie riforme: servizi
sociali e di sostegno per le famiglie, progetti educativi fin dalla prima infanzia e riforma dei cicli formativi, contrasto all’abbandono scolastico, rilancio della economia e della produzione di beni e servizi di qualità, interventi per la coesione sociale, superamento delle condizioni di lavoro precario e povero.
Vasto programma, si dirà: ma soltanto il conseguimento di questi obiettivi
riuscirà a cambiare concretamente le condizioni che rendono il futuro una
enorme e minacciosa incognita. Serve una organica e lungimirante visione
d’assieme: infatti si progetta una famiglia, si decide per una genitorialità
consapevole se il Paese si incammina su una strada positiva, aperta al futuro,
di grande innovazione, rassicurante perché comporta una grande, generale
assunzione di responsabilità. Non abbiamo una tradizione e nemmeno una
esperienza in questo campo: abbiamo però la consapevolezza della gravità della
situazione e pensiamo sia una delle priorità per una Italia che guarda avanti.

I beni comuni
Quale soggetto, se non lo Stato nella sua più vasta accezione o – se si vuole
– la Repubblica si deve prendere cura dei beni comuni? Diversi anni fa si
è affermato che “la locuzione ‘beni comuni’ allude non tanto a certi beni,
quanto (soprattutto) a un intero assetto istituzionale che, affermandosi tra il
pubblico e il privato, aspira a costruire un rinnovato circuito democratico: un
pubblico non statalistico e un privato liberato dall’individualismo possessivo”.
Parlare di beni comuni, in sostanza, vuol dire proporre un modello di Stato
democratico che tuteli la fruizione di risorse e servizi essenziali da parte
dell’intera comunità. L’esempio dell’acqua è il più comune ed evidente.
Quello del vaccino è il più attuale. Una nuova statualità e – va aggiunto – una
nuova visione dell’Europa, non possono non misurarsi su questo tema.

Il mondo digitale
Appare riduttivo parlare del digitale solo come un aspetto della organizzazione
della produzione. Siamo di fronte a una innovazione della portata del vapore
o della elettricità, a una forza produttiva nel senso pieno e integrale del
termine, perché tende ad organizzare e a far evolvere in modi nuovi i processi
sociali, conoscitivi, relazionali. Al centro di questa rivoluzione tecnologica
c’è un fattore determinante: i dati. La questione della proprietà dei dati
diventa la questione fondamentale, perché intorno ad essa si intrecciano
tutti gli altri aspetti, relativi all’economia, al controllo sociale, alla tutela della personalità, alla libertà intesa come autodeterminazione [libera e
consapevole]. L’acquisizione, il processamento e l’utilizzazione dei dati può
prefigurare scenari da “grande fratello” orwelliano, ma apre anche prospettive
avanzatissime di progresso individuale e collettivo. La UE è all’avanguardia
nelle misure di tutela della privacy ma è ancora un nano tecnologico, e deve
orientarsi a diventare un protagonista di taglia globale, come il suo livello
scientifico e tecnologico rendono possibile. Al tempo stesso deve sviluppare
una grande iniziativa perché i dati siano considerati e trattati come un bene
comune. La proprietà e il trattamento dei dati è la nuova frontiera delle
battaglie di libertà, per le attuali e per le prossime generazioni.

Lo stato sociale
Va ridisegnato lo stato sociale, cioè l’insieme delle politiche pubbliche tramite
cui si assicurano adeguati livelli di protezione ai cittadini o alla parte di
cittadinanza più in difficoltà.

Il sistema tributario
Va garantita la piena attuazione dell’art. 53 della Costituzione; va cioè
confermato che la tassazione deve essere informata a rigidi criteri di
progressività, e va condotta una lotta senza quartiere contro l’evasione e
l’elusione, anche con l’assunzione di provvedimenti rigorosi nei confronti
delle aziende con sede fiscale all’estero.

L’immigrazione
I temi dell’immigrazione sono di fatto, quanto meno in parte, nell’agenda
di lavoro dell’Anpi. A ciò siamo chiamati dall’art. 2 della Costituzione, che
recita: “La Repubblica (…) richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Pur avendo promosso
numerosissime iniziative di solidarietà e di prossimità nei confronti di varie
comunità di migranti, in particolare nei momenti più pesanti della pandemia,
abbiamo il dovere di occuparci anche del dramma degli sbarchi e dei naufragi,
denunciando innanzitutto le responsabilità morali di quanti hanno voluto
chiudere gli occhi di fronte al fenomeno, sollecitando politiche di accoglienza,
riaffermando gli inderogabili obblighi del soccorso in mare. Assieme, occorre
battersi per una politica alternativa ai respingimenti sul confine orientale, che creano un circolo vizioso tra Slovenia, Croazia e Bosnia, condannando decine di migliaia di migranti al lager. Ma l’attenzione al tema dev’essere più ampia,
perché esso riguarda il prossimo futuro del Paese, dove il calo delle nascite e
l’aumento dell’età media della popolazione diverranno fattori di fortissimo
squilibrio sociale, produttivo ed economico. Attraverso l’attivazione di
politiche di inclusione, è ragionevole supporre che l’afflusso di migranti e
la presenza di migranti di seconda generazione consentirà un riequilibrio
demografico assolutamente necessario. Il tema della immigrazione non
attiene perciò soltanto al pur necessario aspetto della solidarietà umana, ma
anche a quello del futuro della società italiana. Va affrontato di conseguenza
il problema della “alfabetizzazione” dei migranti, sia in senso proprio (la
conoscenza della lingua italiana) sia dal punto di vista civile (la conoscenza
della Costituzione e, per grandi linee, della storia stessa del nostro Paese).
Occorre su questo punto un intervento lungimirante delle istituzioni.

L’emigrazione
Per la prima volta dopo decenni il nostro Paese è protagonista di una
emigrazione costante e di natura profondamente diversa da quella che
storicamente ha caratterizzato e tormentato la nostra organizzazione sociale
e la vita di milioni di persone. E’ una emigrazione di giovani, spesso dotati
di alti livelli di formazione, che trovano in Europa (e non solo) un adeguato
riconoscimento delle loro qualità e capacità, personali e professionali, ma
anche di interi nuclei familiari che cercano all’estero quanto il Paese non è in
grado di offrire. Non sono i premi fiscali o gli sgravi contributivi gli strumenti adatti a fermare questa emorragia di energie giovanili e di competenze; al contrario, interventi di questa natura rischiano di distorcere modalità corrette e di lungo periodo di costruzione dei profili professionali. Occorre il rilancio dell’apparato produttivo italiano, una politica retributiva – nel settore privato quanto in quello pubblico – che riconosca le qualità professionali, la creazione di ambienti di lavoro, di ricerca, di formazione permanente, di mobilità intelligente, di parità tra uomo e donna; occorre un vero e proprio asse innovativo che trasformi un grande potenziale in una realtà al servizio del Paese, che a questi giovani è stato capace di fornire una formazione spesso altamente qualificata e che paradossalmente rinuncia ad avvalersene.

La sanità
La pandemia ha reso evidenti i limiti della sanità: il fallimento del modello
privatistico in una condizione di emergenza, la necessità di ricostruire al più
presto il tessuto della medicina territoriale e preventiva, esigono risposte
tempestive ed efficaci, che devono comprendere il superamento della
diseguaglianza territoriale nell’erogazione dei servizi sanitari e un rapporto
collaborativo fra Stato e Regioni. Colpisce ancora una volta la vitalità dello
“spirito della Resistenza”; fu infatti la partigiana Tina Anselmi, allora ministro della sanità, a promuovere nel 1978 il Servizio sanitario nazionale, che doveva essere caratterizzato da quattro principi: cioè, come ella stessa disse alla Camera, “globalità delle prestazioni, universalità dei destinatari, eguaglianza del trattamento, rispetto della dignità e della libertà della persona”.

La formazione civile
Va sostenuta attraverso un articolato programma di formazione la crescita di
una nuova coscienza civile, democratica e antifascista (diritti e doveri della
cittadinanza), magari prendendo spunto dagli esempi positivi (solidarietà,
prossimità, dedizione, sacrificio) registrati durante il corso della pandemia,
straordinario ed unico contenitore di esperienze, di successi, di fallimenti
da cui va tratto insegnamento. Il programma di formazione deve rivolgersi a
tutti, e riguardare in particolare la scuola, la magistratura, le forze dell’ordine.
Occorre investire fin dalla scuola nelle politiche di genere, educando alla
parità dei ruoli e insegnando a osservare il mondo anche con lo sguardo delle
donne. In sintesi, nello Stato va avviata una grande “riforma intellettuale e
morale” che ne esalti la natura democratica e antifascista.

La scuola
La scuola pubblica deve mantenere una funzione centrale nella nostra società, in quanto rappresenta una delle principali agenzie educative del Paese. Dopo un lungo periodo di politiche ispirate a una visione utilitaristica della cultura e a una concezione aziendalistica dell’organizzazione scolastica, va ribadito che la finalità della scuola consiste nel formare cittadini attivi e consapevoli, non produttori o consumatori.
L’ANPI sostiene e incoraggia la formazione riflessiva degli insegnanti, affinché siano in grado di suscitare l’interesse e la partecipazione degli studenti ai processi di trasmissione e di rielaborazione critica del sapere, di esaltare la loro autonomia intellettuale, di promuovere lo sviluppo di un atteggiamento cooperativo.
Le recenti disposizioni legislative, a cominciare da quelle relative all’insegnamento dell’educazione civica, unitamente all’accordo AnpiMiur, possono dare vita ad iniziative volte a favorire una migliore conoscenza della Costituzione. Si tratta di un eccellente punto di partenza per ulteriori avanzamenti sul piano della progettualità e della generalizzazione di buone pratiche locali.

La giustizia
Vi sono punti intoccabili della nostra Carta Costituzionale: in particolare i
principi fondamentali e il sistema di diritti e doveri dei cittadini definiti neisuoi primi 54 articoli. L’attuale sistema giudiziario si rivela insufficiente a renderli finalmente effettivi.
I ritardi strutturali nella pronuncia delle sentenze e nello svolgimento
dei processi mostrano il volto di un sistema poco efficiente, che sovente
frustra la legittima aspettativa ad un riconoscimento dei diritti in tempi
certi e ragionevoli. La situazione si è ulteriormente aggravata a causa dei
recenti scandali che hanno interessato l’ordine giudiziario. Tutto ciò
ha causato una crescente sfiducia nell’amministrazione della giustizia da parte della maggioranza dei cittadini. La riforma della giustizia
civile, penale, amministrativa, costituisce uno dei nodi fondamentali da
sciogliere perché la nostra democrazia possa dirsi più compiuta. Le tante
riforme processuali adottate negli ultimi decenni per sveltire i processi si
sono rivelate scorciatoie che non hanno ottenuto i risultati sperati. E’ stata
elusa la prima delle riforme necessarie, ovvero il potenziamento degli uffici
giudiziari, perennemente sotto organico, afflitto dalla drammatica carenza
di magistrati e di personale amministrativo. Alla giustizia va la percentuale
intollerabilmente esigua dell’uno virgola qualcosa per cento del bilancio
dello Stato, mentre la gran parte dell’arretrato, e non solo, è affidato al
lavoro di una magistratura onoraria precaria e senza diritti.
Nonostante questo quadro preoccupante, deve essere tributato un alto
riconoscimento al ruolo straordinario che la Magistratura ha svolto e continua
a svolgere nell’impegno contro l’eversione, contro i poteri occulti, contro la
corruzione economica e politica, contro i grandi poteri criminali delle mafie.
Tale riconoscimento deve tradursi nella ferma difesa dell’indipendenza e
della autonomia della Magistratura, che passa anche attraverso una rigorosa
riaffermazione della sua imparzialità, della ferma condanna di ogni possibile
inquinamento, oltre che attraverso uno specifico intervento ai fini della
formazione storico-politico-giuridica dei magistrati.
Un sistema giudiziario moderno è parte di una battaglia generale per una
società più giusta, per difendere i cittadini quando sono lesi nei loro diritti o quando entrano nelle aule giudiziarie, per lasciarci definitivamente alle spalle l’impianto di un codice penale – il codice Rocco – in vigore dal 1931; per superare definitivamente il problema dell’inumano sovraffollamento delle
carceri e della salvaguardia della dignità dei reclusi; per ottenere una profonda revisione delle norme punitive in materia di immigrazione e di manifestazioni politiche e sindacali contenute nei decreti sicurezza dell’ex Ministro dell’Interno; per dare effettività alla tutela dei meno abbienti con riforme che garantiscano a tutti la possibilità di concreto accesso alla Giustizia.

La difesa dell’ordine democratico
Lo Stato ha il compito specifico ed inalienabile della difesa dell’ordine
democratico e della sicurezza dei cittadini; tale compito cioè non può essere
demandato a privati o ad altri enti. Magistratura e forze dell’ordine devono
essere messe in condizione di garantire la sicurezza e ‒ in particolare ‒ di
contrastare efficacemente l’abnorme sviluppo della criminalità mafiosa.
Forze Armate
Un’attenzione specifica va rivolta alle nostre Forze Armate, il cui ordinamento,
come prescritto dall’art. 52, “si informa allo spirito democratico della
Repubblica”. È noto che da tempo si è passati dalla leva obbligatoria e di
massa al reclutamento professionale. Oggi tanta parte delle donne e degli
uomini che prestano servizio nelle varie armi sono impegnati in forme di
supporto nel contrasto alla pandemia: a tutti loro va il ringraziamento del
Paese. Non possiamo dimenticare però che l’attacco ai diritti del lavoro, che
investe il settore privato ma anche quello pubblico, non risparmia neppure
questa fondamentale struttura dello Stato. Perciò occorre garantire a tutti
gli effettivi delle Forze Armate, qualunque sia il grado rivestito, condizioni
di lavoro e di vita sicure e dignitose, al pari di quelle che dovrebbero essere
riconosciute a tutti i lavoratori.

Disciplina e onore
Un particolare rigore dev’essere esercitato nel far rispettare l’art. 54 Cost., che recita: “I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di
adempierle con disciplina ed onore”.
In sostanza, va avviato in modo rigoroso un processo di democratizzazione
integrale delle istituzioni.

Lo Stato e i rapporti internazionali
La storia degli ultimi decenni è stata caratterizzata, seppur in misura difforme
a livello globale, da una diminuzione dei poteri degli Stati nazionali rispetto ad altri organismi democratici di natura sovranazionale. Contemporaneamente,
tale “cessione di sovranità” non è significativamente avvenuta nelle grandi
potenze (Usa e Cina, per esempio). Si impone una riflessione sulle misure
da adottare per limitare e controllare i poteri multinazionali privati, oggi
essenzialmente liberi da vincoli e condizionamenti significativi in particolare
per quanto riguarda la tutela dei diritti dei lavoratori, ridotti di fatto alla loro mercé, da un lato; dall’altro, sull’ampiezza e sulle modalità dei trasferimenti di sovranità a poteri sovranazionali pubblici come l’UE, che appariranno tanto più legittimi quanto più l’UE metterà a valore la sua natura democratica, in sostanza quanto più sarà concretamente l’Europa dei popoli. Anche qui ci sentiamo di proporre un grande obiettivo per tutte le forze democratiche, la cultura e la scienza del nostro Paese: il controllo e lo smantellamento degli arsenali nucleari.

I giovani e le donne
L’Anpi mette al centro della sua attenzione il tema delle giovani generazioni e delle donne, che sono le categorie più deboli e di conseguenza le più colpite dalla crisi attuale nel mercato del lavoro. Ciò rappresenta un grave ostacolo allo sviluppo civile e sociale del Paese: una generazione condannata alla disoccupazione o a lavori dequalificati, un genere che mantiene ancora,
nonostante tanti avanzamenti, una condizione di subalternità.
Se è vero che la cultura largamente prevalente è quella delle classi dominanti,
va analizzata la cultura delle nuove generazioni, segnata dalla interruzione
della tradizionale trasmissione della memoria e dalla pressoché contestuale
affermazione, specialmente grazie alla rivoluzione tecnologica e alla
progressione geometrica dello sviluppo del web, di modi del tutto inediti di
comunicazione e di socializzazione, di nuovi stili di vita, di diversi linguaggi, cui corrisponde un pesantissimo ritardo formativo, inteso nella sua accezione più ampia. Pure da questa generazione nascerà la futura classe dirigente che, anche per effetto del blocco dell’ascensore sociale, sarà inesorabilmente condizionata dal ceto di provenienza. C’è il pesante rischio di un ritorno al passato, ad una rigida selezione di censo. Peraltro nei più giovani germogliano nuovi fermenti, in particolare sui temi della tutela ambientale e del riscaldamento globale.
L’approccio dell’Anpi deve escludere qualsiasi atteggiamento predicatorio
o paternalistico, come pure di inerte attesa che i giovani vadano all’Anpi.
È l’Anpi con le sue strutture, i suoi gruppi dirigenti, i suoi attivisti, che
deve andare verso i giovani con la massima capacità di ascolto e la massima
disponibilità. Il tema è vitale anche per il futuro dell’Associazione, la cui
età media è molto alta; l’Anpi ha bisogno di nuova linfa, di nuovi modi di
pensare, di una leva giovane che sia in più diretto contatto con le dinamiche
sociali, psicologiche ed anche esistenziali di un mondo che cambia. La nuova
linfa, lungi dal cambiare la natura dell’Associazione, ne rafforzerà le radici,
dal momento che i protagonisti della Resistenza furono prevalentemente
giovani, ragazzi e ragazzini.
La questione femminile è altro tema centrale per l’Anpi. Pur essendo
la maggioranza e pur avendo, dagli albori del voto del 2 giugno 1946,
raggiunto una serie di obiettivi di emancipazione civile e sociale, le donne
italiane vivono ancora in una condizione discriminata, e in più sono vittime
dell’imbarbarimento del nostro tempo; la violenza contro le donne è un
dramma mondiale e nazionale che conferma la carica di brutalità e di aggressività
diffusa nella pancia della società e alimentata da centrali mediatiche dell’odio
e della paura, da una spettacolarizzazione della violenza oramai abituale. In
Italia peraltro si moltiplicano circoli politici e culturali di stampo oscurantista
che auspicano una generale regressione dei diritti di parità.
Questa deriva va attivamente contrastata e va promossa, contestualmente, una valorizzazione di genere all’interno dell’Anpi. Peraltro, anche in questo caso l’insegnamento viene dalla Resistenza: basti pensare alle partigiane e alle staffette, e di conseguenza al contenuto liberatorio di quella esperienza storica per le donne.

Il lavoro e l’occupazione
La crisi del Paese è in gran parte crisi del lavoro e dell’occupazione, specialmente (ma non solo) a causa degli effetti indiretti della pandemia. Si stima in modo approssimativo, su scala mondiale, una perdita nel 2020 di 144 milioni di posti di lavoro. Il tema è propriamente sindacale e ‒ per altro verso ‒ politico; ma è possibile e del tutto legittima una iniziativa del più ampio mondo dell’associazionismo e in particolare dell’Anpi, in primo luogo affinché la Costituzione torni nei luoghi di lavoro e vengano riaffermati i diritti di libertà, il salario dignitoso, la dignità personale dei lavoratori, la sicurezza sul lavoro, purtroppo non ancora adeguatamente garantita.

L’ambiente e il riscaldamento globale
Il tema dell’ambiente e del riscaldamento globale dev’essere assunto dall’Anpi, nell’ambito e nei limiti delle sue competenze, come una delle attenzioni. Il rientro degli States fra i Paesi sottoscrittori degli accordi di Parigi è senz’altro positivo, ed è importante sottolineare il ruolo trainante dell’UE nel sostegno a tali accordi. Nella più ampia questione ambientale l’Italia conserva però un
ritardo dal punto della coscienza civile ed anche del ruolo delle istituzioni.
Basti pensare agli esiti territorialmente eterogenei della raccolta differenziata dei rifiuti. Da questo punto di vista è bene valorizzare la sensibilità delle giovanissime generazioni e contribuire a determinare punti di convergenza nelle istituzioni e con le istituzioni, in una più generale logica di alleanza democratica, sui tema della difesa ambientale.

I saperi
Il tema della cultura è oggi centrale per l’Anpi e riguarda un ampio spettro di interessi: la ricerca, le arti, le scienze, il pensiero filosofico, le dottrine religiose, ed anche lo spettacolo, i costumi, le credenze. Si è superata l’antica distinzione fra “cultura alta” e cultura materiale, popolare, ed è nato col tempo un ceto intellettuale di massa. Da ciò l’importanza della formazione come strumento di trasmissione e di estensione dei saperi. Eppure su questo terreno le forze democratiche registrano un inquietante ritardo perché, a fronte di un’offensiva culturale delle destre che è profondamente penetrata nella società e che è diventata una vera e propria narrazione, spesso acostituzionale e qualche volta anticostituzionale, non c’è una risposta che vada oltre la replica, la contestazione, la rettifica, e fornisca invece un’altra visione, un’altra narrazione. L’Anpi in questi anni ha prodotto numerosi e meritori lavori in controtendenza, in particolare sul tema della Resistenza. Occorre proseguire su questa strada anche attraverso un rapporto diretto con i vari mondi dei saperi, a cominciare dalle università (con particolare riguardo agli storici), con le associazioni dei docenti, con i centri culturali.

L’informazione
Va ricordato che il tema dell’informazione costituisce parte integrante
di una rigenerazione democratica del Paese sotto vari punti di vista. La
concentrazione delle testate in mano ad editori non puri, cioè a grandi gruppi
finanziari e industriali, una concentrazione che presenta il mondo ad una sola
dimensione, da un solo punto di vista in politica interna ed estera; assieme,
i ripetuti tentativi di conculcare la libertà di stampa e persino la libertà dei
singoli giornalisti di scrivere liberamente; il caos più totale nell’informazione
via web e in particolare via social, luogo prescelto per ogni sorta di fake news
e per ogni aggressione mediatica, a fronte di una scarsa regolamentazione del
settore che, salvaguardando i diritti di libertà, riconosca e definisca le eventuali
fattispecie di reato, sono fattori che distorcono le dinamiche di formazione
dell’opinione pubblica e inquinano la stessa dialettica democratica.

La pace e il disarmo
L’impegno per la pace e il disarmo è un tratto permanente nella lunga storia
dell’Anpi. Tale impegno si misura con una fase di inquietante riarmo delle
potenze globali e regionali. Preoccupa la forte esposizione del nostro Paese
nella produzione e nel commercio di armamenti, sovente in direzione di Stati
direttamente o indirettamente impegnati in teatri di guerra. La presenza
costante dell’Anpi alla tradizionale Marcia della Pace di Assisi attesta questo
impegno.

Il Servizio civile
L’Anpi da alcuni anni ha accesso al Servizio Civile Universale con progetti
inerenti alla promozione della memoria della Resistenza, a partire dalla
catalogazione del materiale documentaristico presente negli archivi provinciali
e nazionali della nostra Associazione. Si tratta per le giovani generazioni di
un‘opportunità di approccio all’attivismo antifascista, e di incontro tra le
nostre istanze formative e un vasto mondo in cerca di orientamento e di
buone pratiche di partecipazione.

L’organizzazione
Dal Congresso Nazionale che abbiamo celebrato nel maggio del 2016,
l’Anpi è stata diretta da tre Presidenti: Carlo Smuraglia, Carla Nespolo,
Gianfranco Pagliarulo, fatto unico nella lunga storia dell’Associazione. Negli
ultimi anni l’attività dell’Anpi è stata condizionata dalle restrizioni imposte
dalla pandemia e dalla tragica malattia di Carla Nespolo. Nonostante questo, l’insieme dell’Associazione ha svolto un lavoro di straordinaria quantità e qualità, scandito da eventi nazionali del tutto peculiari: le grandi
manifestazioni antifasciste, la diffusa attività solidale delle Sezioni e dei
Comitati provinciali nei confronti delle persone in difficoltà a causa del Covid, il 25 aprile sui balconi e sui social, la rosa sulle tombe delle Costituenti il 2 giugno, la già menzionata campagna antirazzista sui social, i diversi convegni di carattere storico. Grazie a queste attività e alla forte presenza dell’Anpi nel dibattito pubblico, l’Associazione conta oggi circa 130 mila iscritti e gode, in sostanza, di buona salute. Va pure segnalato che tale andamento appare in controtendenza rispetto in particolare alle adesioni ai partiti, a conferma che alla crisi dell’attuale sistema politico corrisponde un relativo rafforzamento delle comunità di natura associativa.
Questo quadro, pur positivo per l’Anpi, deve essere di sprone per il superamento dei limiti ancora presenti. L’età media degli iscritti è elevata
e occorre di conseguenza, come già detto, una specifica attenzione ai
giovani, con l’obiettivo di dar vita a una nuova leva di antifascisti. Va
inoltre prestata una particolare attenzione alle donne. Ancora: dall’analisi
della composizione sociale dell’Anpi (e in specie dei suoi gruppi dirigenti)
emerge la necessità di promuovere una maggiore presenza di alcune
figure sociali e di cittadini residenti nell’Italia meridionale ove, per ovvie
ragioni storiche, l’Anpi è mediamente più debole. Analogamente, occorre
rinnovare i gruppi dirigenti con la promozione di giovani, di donne, di persone provenienti dal mondo dei lavori subordinati e dei servizi. In questa fase di rinnovamento, nella confusa situazione politica e sociale del Paese, vanno a maggior ragione rigorosamente osservate le regole statutarie e, assieme, va elevata la qualità del dibattito politico-culturale potenziando la formazione degli iscritti e dei dirigenti, valorizzando il pluralismo, contrastando in modo energico personalismi e provincialismi, evitando che il pur salutare confronto dialettico si sclerotizzi su posizioni pregiudiziali e contrapposte laddove è responsabilità di tutti, in primo luogo degli organismi dirigenti, pervenire sempre a una sintesi virtuosa e produttiva.
L’esperienza ha dimostrato l’utilità della nomina da parte del Comitato nazionale di un coordinatore per ognuna delle grandi aree geografiche
che corrispondono al Nord, al Centro e al Sud d’Italia, con l’incarico
di coadiuvare la Presidenza e la Segreteria nazionale nella gestione della
Associazione. È quindi opportuno confermare questa scelta.
Più complesso è il tema dei coordinamenti regionali, che hanno dato vita
in questi anni a esperienze eterogenee. Anche alla luce dello Statuto, che
prevede tre soli livelli territoriali di direzione (nazionale, provinciale, di
sezione), sembra preferibile delegare alle strutture provinciali di ciascuna
regione la facoltà di costituire, d’intesa con il Comitato nazionale, un
Coordinamento regionale composto da uno a tre rappresentanti designati
in egual misura da ciascun Comitato provinciale, con il compito primario
di rappresentare l’Associazione nei rapporti con le Istituzioni regionali e
di curare le relazioni con le organizzazioni sociali, sindacali, politiche e
culturali del medesimo livello.
Ove costituito, il Coordinamento regionale, salvo diversa determinazione del Comitato nazionale, ha sede nella città capoluogo della Regione, usufruisce della sede e dei servizi di quel Comitato provinciale ed elegge tra i suoi componenti un Coordinatore che coincide, in linea di massima, con la figura del presidente del Comitato provinciale del capoluogo.
Nelle realtà territoriali di maggior dimensione i Comitati provinciali possono promuovere dei Coordinamenti di Zona, che raggruppino al proprio interno più sezioni e che possono nominare, sempre d’intesa con il Comitato provinciale, una struttura di coordinamento e un coordinatore.
Vanno ulteriormente estese le esperienze di costruzione di autonome Sezioni ANPI sia nel territorio sia nei luoghi di lavoro e di studio.
Anche a questo fine è necessario che le sezioni con un numero rilevante
di iscritti si sdoppino, a maggior ragione se fra i tesserati vi sono gruppi di
lavoratori di un’azienda o di studenti o di personale scolastico.
Viene confermata la scelta di dar vita al coordinamento nazionale donne
perché, sebbene la Costituzione repubblicana stabilisca l’uguaglianza
formale fra i sessi, consuetudini sociali e culturali fanno da freno
all’attuazione di una reale parità fra uomini e donne. Si ravvisa al contempo
l’opportunità di rivedere la composizione dell’organismo, al fine di renderlo
maggiormente rappresentativo, e di riconsiderarne le dimensioni. Il coordinamento nazionale donne deve diventare strumento di lavoro agile e radicato nel contesto dell’attualità politica, presente ed attivo nella rete
delle associazioni che si occupano di tematiche di genere.
Rimane comunque la necessità, per il futuro del nostro Paese, di cambiare il
paradigma di approccio alla politica, stabilendo un riequilibrio degli sguardi
che consenta di individuare nuove strategie utili ad orientare verso politiche di autentica promozione della parità di genere e dell’inclusione, e innanzitutto a estirpare l’odioso fenomeno della violenza contro le donne.
Particolare attenzione va rivolta la tema della formazione interna,
verificando la possibilità di articolarla su un livello elementare e diffuso,
rivolto in particolare ai nuovi iscritti, su un livello medio, riservato ai
dirigenti provinciali, e su un livello più specialistico.
Un importante strumento politico di conoscenza e di orientamento è
l’anagrafe degli iscritti. Grazie all’anagrafe è infatti possibile “conoscere”
l’Anpi: la composizione sociale, l’età media e il genere dei tesserati, nonché
le dinamiche che ne conseguono. Oggi vi sono 65 Comitati provinciali
presenti in anagrafe per un totale di 90.000 iscritti registrati (su circa
130.000), a fronte di 26 Comitati provinciali per un totale di 25.000
iscritti del precedente congresso nazionale (maggio 2016). Si tratta di un
avanzamento fondamentale, sebbene l’allestimento dell’anagrafe sia un
adempimento ancora sottovalutato da parte di alcune realtà, e sebbene si
avverta il bisogno di curarne ulteriormente l’aggiornamento.
Il tema della comunicazione è oggi essenziale. Ai tre strumenti nazionali
già esistenti ed insostituibili – l’ufficio stampa, il sito www.anpi.it e il
periodico www.patriaindipendente.it – si è aggiunta una linea editoriale
anche con l’obiettivo di operare in sinergia con la formazione.
Sono inoltre attivi tre profili social, facebook, twitter e instagram, con un sempre più crescente numero di follower. Comitati provinciali e sezioni si stanno attrezzando per una comunicazione social efficace, e questo processo va intensificato per realizzare una rete antifascista in tutto il Paese.
Nella Federazione Internazionale Resistenti (FIR) l’Anpi è oggi rappresentata da un vicepresidente e da due membri dell’esecutivo. Tali presenze sono indispensabili al fine di un rinnovamento e di una maggiore capacità di intervento della Federazione. A questo proposito, è importante garantire un supporto continuo da parte degli organismi dirigenti nazionali
della nostra Associazione all’attività della FIR, che si mostra ancora troppo
limitata e discontinua, laddove sarebbero urgenti una intensificazione e un
coordinamento unitario dell’attività antifascista e antirazzista nell’intero
spazio europeo. Su proposta della delegazione italiana, è allo studio della
FIR la costituzione di una associazione collaterale molto più larga, che
comprenda associazioni con specifiche mission (sindacali, ambientaliste,
culturali, ecc.) ma impegnate sul terreno dell’antifascismo.

Le regole dell’Anpi
Qualsiasi comunità piccola o grande si organizza in base a un sistema di regole.
Le regole dell’Anpi sono fissate nello Statuto e nel Regolamento. Tali regole
vanno sempre interpretate in modo rigoroso, al fine di una migliore efficacia
dell’attività complessiva dell’Associazione. Tale esigenza vale a maggior
ragione oggi, davanti ad una forte offensiva delle destre estreme e all’insidiosa iniziativa culturale revisionista tesa a colpire la memoria e la funzione della Resistenza nella storia d’Italia.
I dati del tesseramento 2019 e i primi dati del 2020 confermano un forte
rafforzamento dell’Anpi. Contemporaneamente si realizza ogni anno un
notevole turn over sia degli iscritti sia anche di parte dei gruppi dirigenti;
tutto ciò rende urgente un piano di formazione ed assieme richiede una
grande attenzione per il rispetto delle regole, al fine di un’armonica crescita
dell’Associazione.
Va sottolineato che tutti gli incarichi, fino ai più importanti, sono a termine;
che, di pari passo con i processi formativi, vanno promosse nuove leve di
giovani dirigenti; che i gruppi dirigenti devono operare con spirito unitario,
al fine di assicurare la massima concordia nella vita interna dell’Associazione; che l’orientamento sulle questioni di carattere generale viene deciso dal
Comitato Nazionale, il quale (art. 5 dello Statuto) “provvede a controllare le attività dei Comitati provinciali”, “a risolvere eventuali vertenze in seno
all’Associazione”, “ad adottare tutti i provvedimenti necessari al buon
funzionamento dell’Associazione”.
Una particolare attenzione va prestata alle pagine dell’Associazione sui social.
La prudenza e il buon senso devono ispirare qualsiasi intervento affidato a
questi strumenti, evitando prese di posizione e commenti che contraddicano gli orientamenti dell’Anpi o che si prestino ad attacchi ‒ per quanto
strumentali ‒ da parte degli avversari politici, com’è avvenuto in qualche caso
in passato e continua, seppur raramente, ad avvenire. Da questo punto di vista è assolutamente necessario che i gruppi dirigenti locali controllino il dibattito sui social, e che chi segue le pagine Anpi dia prova di senso di responsabilità, distinguendo sempre fra le sue legittime ma personali opinioni e il punto di vista dell’Associazione. Analoga attenzione va prestata agli altri media ed in particolare alla stampa locale, evitando accuratamente di esternare le problematiche interne all’associazione. L’insieme di queste cautele rinvia al punto d) dell’art. 2 dello Statuto, che recita: “Tutelare l’onore e il nome partigiano contro ogni forma di vilipendio e di speculazione”.
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L’ipotesi di una eutanasia-buona morte di ispirazione cristiana

lampadadialadmicromicro1Proseguendo nel nostro impegno sulla questione eutanasia-buonamorte – di cui il convegno del 4 ottobre scorso è stato un momento significativo – riportiamo un articolo che in merito da conto della posizione dell’associazione “Noi Siamo Chiesa”(*), che dichiariamo di condividere. La sintesi operativa di tale posizione è precisamente contenuta nelle conclusioni dell’articolo, che vogliamo mettere in evidenza: (si) ritiene necessario ed urgente un nuovo confronto nel paese, nel nome di una laicità condivisa da credenti, non credenti e da uomini in ricerca, per giungere a soluzioni legislative su tutta la questione del fine vita nel rispetto dei valori costituzionali.

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Deve iniziare subito un nuovo e vero dialogo senza “campagne” e
demonizzazioni. L’ipotesi di una eutanasia-buona morte di ispirazione cristiana

noisiamochiesa-logo
di Noi Siamo Chiesa
in “www.noisiamochiesa.org” del 25 ottobre 2021

Una riflessione che viene da lontano.
Sul problema del fine vita e dei suoi rapporti con la legislazione “Noi Siamo Chiesa” ha scritto molto, affrontando i casi di interesse generale (Englaro, Welby, legge sulle DAT) e più recentemente il caso Fabo. I capoversi delle nostre riflessioni hanno sempre rifiutato le semplificazioni di tanti discorsi facili (tra gli altri si veda il nostro testo del 14-9-2019). Abbiamo chiesto, soprattutto agli ambienti ecclesiali, dialogo e confronto ma con scarsi risultati. I capoversi del nostro percorso sono stati: presa d’atto della nuova medicina nel settore del fine vita; grande importanza delle cure palliative, poco conosciute e praticate; bene la legge sul fine vita n. 219 da far conoscere ed ‘usare’ in modo diffuso soprattutto in tutti gli aspetti che riguardano l’autodeterminazione del malato; differenza tra vita biografica e vita biologica; zona oggettiva di incertezza con situazioni intermedie tra accanimento e desistenza, tra coscienza del malato presente e coscienza insufficiente o inesistente; differenze tra tanti diversi ‘fine vita’ sia per motivi oggettivi di tipo sanitario sia per i differenti status culturali e psicologici; alleanza terapeutica tra medico e paziente che può affrontare al meglio le situazioni più difficili; lo stesso si dica per l’accompagnamento del malato terminale da parte dei famigliari e degli amici; presenza di una realtà di eutanasia clandestina gestita spesso ‘alla meglio’ o in modo casuale; tante cosmovisioni presenti nella società sul fine vita, nessuna delle quali può essere snobbata o contraddetta frontalmente; infine richiesta di una normativa debole o ‘gentile’, questione sulla quale il codice penale è a disagio. Durante queste ricerche ci siamo accorti della complessità dei problemi per i quali tutti dovrebbero impegnarsi nell’approfondimento prima di dire verità “definitive”. Aspetti etici e teologici devono essere ancora esplorati. Per esempio, dovremmo capire meglio, nel vissuto della pratica sanitaria, che differenza c’è tra “naturale” ed “artificiale” o, sotto un altro profilo, tra il così detto diritto naturale e il diritto della persona.
Abbiamo anche detto che la mistica del dolore e della mortificazione, da sopportare come ‘valore’ spirituale, frequentemente proposta da ambienti ecclesiastici alle persone in grande sofferenza, dovrebbe avere delle solide radici teologiche che sono invece molto controverse. Questa posizione si rifà a una concezione mistico-religiosa che considera la sofferenza fisica come elemento di purificazione e di santificazione che deve essere accettato e vissuto nella convinzione che esso faccia parte di un disegno sovrannaturale dalla logica imperscrutabile.
I vescovi
Questo complesso di questioni non si presta a ‘campagne’, a slogan in cui prevalga la radicalizzazione e la semplificazione. In questo modo nel nostro paese siamo invece andati avanti
per anni con un’area laica emarginata ed esasperata che ha presentato nel ’14 una proposta di legge
di iniziativa popolare sempre ferma in Parlamento, mentre la destra fondamentalista e clericale dello scontro contro l’eutanasia ha fatto da sempre una bandiera importante. Ora che la questione diventa di stretta attualità per l’imprevisto successo della raccolta di firme per il referendum promosso dai radicali, la linea della CEI si appresta, a quanto si capisce, a uno scontro duro.
Il 18 agosto la Presidenza della Conferenza episcopale parla della “vittoria di una concezione antropologica individualista e nichilista in cui non trovano più spazio né la speranza né le relazioni interpersonali”. Il giorno prima Mons. Paglia, presidente della vaticana Accademia per la vita, usa parole senza controllo. Ci troveremmo infatti di fronte a una ‘forma di eugenetica’ e a una
‘concezione salutista’. Idem la posizione del presidente della Cei Bassetti nella sua prolusione il 27 settembre al Consiglio Episcopale Permanente quando parla di “una sconfitta dell’umano”. I vescovi pretendono che sul fine vita le loro posizioni siano assunte integralmente nell’interesse di tutta la società e introdotte nelle istituzioni. Spazi di interlocuzione allo stato attuale non sembrano esserci. Dobbiamo allora entrare nel cuore della linea della CEI che diffida di ogni forma di autodeterminazione del singolo in circostanze date. Quella dei vescovi ci sembra soprattutto e anzitutto una posizione ideologica, non teologica, non pastorale.
Una posizione diversa
La Cei difende la Vita sempre e comunque. Ma la vita è una condizione esistenziale, non è un valore assoluto come possono esserlo la giustizia, l’amore per il prossimo, la pace, la fraternità e via di questo passo. La vita è inserita nel percorso che l’uomo e la donna si trova di fronte nel corso dell’esistenza e durante la quale si comporta un po’ nel bene, un po’ nel male, un po’ a fatica con dubbi, gioie e sofferenze. Le circostanze determinano o facilitano i comportamenti. La coscienza si confronta con le diverse situazioni, si orienta e decide o non decide. Tutto il percorso della vita è soggetto alle virtù e alle passioni. Naturalmente la Luce deve illuminare la coscienza e la vita in cui si può amare, creare, aiutare il prossimo, allevare i figli… Per un cristiano in particolare e soprattutto nei momenti terminali della vita, le circostanze e gli stati di coscienza possono scavalcare gli imperativi categorici della così detta ‘Vita’ come valore supremo, sempre e comunque? Dove c’è scritta nelle Scritture una affermazione categorica e non rinunciabile sulla ‘Vita’? Cosa si intende per “morte naturale” di cui tanto si parla nei testi ecclesiastici? Non è anche quella di chi prende atto che si è giunti al termine e che si può vivere con amore la remissione del dono (della vita) che si è ricevuto? Perché la sacralità della vita non può comprendere anche la libertà di autodeterminarsi nel momento in cui, in circostanze date, tale scelta non va contro Dio ma è davanti a Dio? Bisogna anche tenere presente che per quanto riguarda la Vita terminata col suicidio la Chiesa stessa ha ora un atteggiamento di rispetto e di silenzio ben diverso dal passato. La tutela della Vita, sempre e comunque, può essere assunta come riferimento non discutibile sempre valido nel tempo e nello spazio?
Nuove riflessioni tra i credenti
Negli ultimi anni i casi di grande impatto mediatico sono stati contemporanei a nuove riflessioni emerse tra i credenti. La linea della “Vita” della Cei non è più così solida. L’approvazione della legge 219 sulle DAT, la posizione di Hans Küng e quella della Chiesa valdometodista in Italia, la sentenza della Corte Costituzionale sul caso Fabo hanno dimostrato che le questioni sono aperte e
non si possono tacitare con parole sbrigative ed autoritarie. Da ricordare, ci sembra, quanto scriveva nel 1516 Tommaso Moro che indicava nell’eutanasia uno sbocco possibile e spiritualmente nobile alle situazioni che ora, come allora, si presentano in certi casi di fine vita (1). Una riflessione più matura, soprattutto dialogante, sarebbe possibile anche tenendo in conto preoccupazioni oggettive come quella che teme che qualsiasi passo in avanti nella direzione della eutanasia-buonamorte possa aprire la possibilità alle cosi dette ‘derive eutanasiche’ nei confronti di soggetti fragili, oppure come l’ipotesi della possibile obiezione di coscienza da parte del personale sanitario.
La posizione dei vescovi, che si è messa subito sul piede di guerra al sapere della facilità nella raccolta delle firme per il referendum, ci sembra un errore nei confronti dell’opinione pubblica. I vescovi si schierano senza timidezze con l’ala fondamentalista del mondo cattolico. Partendo dalla discussione sulla Vita come viene proposta dai vescovi la riflessione è andata avanti e ci si è chiesti quanto è difesa la Vita ‘durante’ il suo corso, soprattutto dalle stragi, dalla miseria, dalle guerre.
Difendere a oltranza la vita di una persona arrivata alla fine non è volontà che può essere vista in contraddizione col silenzio o la passività o la insufficiente reazione di fronte alla violenza presente nel vissuto di troppi popoli o anche nel quotidiano della nostra vita normale (per esempio gli
infortuni sul lavoro)? Perché non parlare di misericordia e di accoglienza, perché non parlare di ‘buona morte’, perché non parlare della speranza cristiana nella resurrezione ringraziando il Creatore oppure perché non essere consapevoli di avere esaurito il proprio percorso per chi non ha una fede o è ancora in ricerca?
La sentenza della Corte Costituzionale
La sentenza n. 242 del settembre 2019 della Corte Costituzionale sul caso Fabo ha indicato i quattro casi in cui viene esentato dalla responsabilità penale chi aiuta al suicidio (la persona deve essere cosciente, affetta da patologia irreversibile, fonte di intollerabili sofferenze e tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale). È un’apertura a casi estremi che la CEI, nonostante tutto, ha contrastato. Questa direzione di marcia, che ci sembra positiva, incontra ostacoli che rischiano di fare arenare tutto. Come ben sappiamo, ogni sentenza ha efficacia solo per il caso per cui è stata emessa. Così Marco Cappato non è stato perseguito. La sentenza della Corte costituisce più che importante giurisprudenza ma può essere disattesa dai giudici di merito. È di questi giorni la notizia che un malato terminale, un anno fa, chiese alla sua ASL nelle Marche di accertare le sue condizioni ai fini di accedere al suicidio assistito in base alla sentenza. L’azienda sanitaria si è rifiutata, il malato è ricorso alla magistratura che gli ha dato torto in prima istanza e ragione in seconda.
L’azienda sanitaria si oppone ancora alla sentenza e il malato ha presentato una denuncia penale. Il ministro Speranza è intervenuto contro l’inerzia della sanità delle Marche e in altri casi. Questo è un primo problema, il secondo è quello della ricognizione, regione per regione, della natura e della composizione dei Comitati etici territoriali per verificare la loro presenza e la loro adeguatezza al ruolo ipotizzato per loro dalla Corte per accertare la situazione specifica del malato in relazione alle condizioni richieste dalla sentenza. Inoltre è necessaria un’intesa tra Stato e regioni per consentire a
queste ultime di fornire indicazioni chiare ed univoche alle rispettive aziende sanitarie locali sull’applicazione della sentenza in modo da avere uniformità di intervento su tutto il territorio nazionale. In sostanza ci troviamo di fronte ad una situazione semibloccata, coi tempi lenti ostacolati dalle campagne della destra ma soprattutto frenati dalle aule parlamentari. Nel paese la situazione di malati in condizioni ultime è diffusa; non c’è quasi famiglia o comunità che non si trovi di fronte a pazienti in estreme condizioni di fine vita e che non si ponga degli interrogativi. È necessaria ed urgente una legge. La commissione Giustizia della Camera il 7 luglio ha elaborato un testo unificato, speriamo che non resti insabbiato. Il calendario della Camera l’ha in agenda per il 25 ottobre.
Il referendum e la campagna
Di fronte a questa emergenza legislativa che dura da anni i radicali, con la tenacia e con la passione che tutti riconoscono loro, hanno alla fine deciso di tentare la strada dell’indizione di un referendum per abrogare il primo comma dell’art. 579 del codice penale che recita ‘Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni’. Dell’art. 580 sulla ‘istigazione o sull’aiuto al suicidio’ se ne occuperà il Parlamento, come abbiamo visto.
L’imprevisto successo di adesioni al referendum ha sollevato attenzione ed anche emozioni nell’opinione pubblica. Si pensava a una raccolta lenta e faticosa. Ora questo esito fa presagire che il possibile voto referendario in primavera possa avere successo di partecipazione e di esito. Ci troviamo quindi di fronte a una questione molto importante per la società italiana ed anche per la politica.
Ci sono due ostacoli alla conclusione di un simile ipotizzato percorso. Il primo è relativo all’ammissibilità del quesito da parte della Corte Costituzionale. I costituzionalisti esprimono pareri diversi, nessuno è convinto che l’ammissione sia cosa facile. Si usa il referendum per scrivere una ‘legge’ o per interpretarla o per abrogarla? Quale è la sua funzione? Quanto resterebbe (la cosi detta ‘normativa di risulta’) dopo l’eventuale abrogazione del primo comma? Sarebbe accettabile questa mutilazione in ordine ai valori della Costituzione? Di qui nasce il secondo problema: abrogando seccamente questo primo comma ci troveremmo di fronte ad una assenza di norma. Qualsiasi persona sana di mente e in buona salute potrebbe chiedere di essere privato della vita, magari in condizioni particolari (a pagamento?) con un consenso non ben documentato (o falso, pensiamo ai poteri criminali del nostro paese) o convinto da persona interessata (magari per motivi patrimoniali). Nel senso comune, chi firma per il referendum e chi ha un’opinione in merito intende sempre per eutanasia l’interruzione di sofferenze estreme di persona in condizioni terminali. Nella
stessa proposta di legge di iniziativa popolare presentata nel 2014, sempre dai radicali, nell’art. 3 i ‘trattamenti eutanasici’ riguardano solo ‘pazienti affetti da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con prognosi infausta inferiore a 18 mesi’. Ci troviamo quindi di fronte alla possibile cancellazione del primo comma senza le indicazioni dei quattro punti della sentenza che servono per l’art. 580, come giurisprudenza. A questo vuoto normativo (molto pericoloso) l’associazione Coscioni, che ha promosso il referendum, non dà risposta. Probabilmente perché lo strumento referendario ha la rigidità che abbiamo visto e ad esso i radicali sono ricorsi per sbloccare la
situazione, pur conoscendone i limiti.
Bisognerebbe allora che la campagna referendaria fosse anche funzionale alla richiesta tassativa di una legge complessiva, che diventerebbe del tutto urgente per coprire il vuoto normativo che si creerebbe davanti alla probabile abrogazione dell’art. 579, primo comma, partendo dalla casistica contenuta nella sentenza della Corte che ruota attorno alle condizioni estreme. Il possibile vuoto legislativo costituisce l’elemento di debolezza della proposta referendaria. Se vincessero i SI sarebbe necessario un intervento di emergenza del Parlamento. La richiesta di una legge immediata e rigorosa serve ad indicare in che senso si partecipa alla domanda di referendum e si vota, con la volontà di soccorrere le sorelle ed i fratelli in condizioni esauste ma lucide davanti alla propria coscienza ed anche, per tanti, sotto lo guardo misericordioso e compassionevole del Dio che ci ha dato la vita e che ora ci indica come essa sia ormai finita. Sulla base di questa sensibilità il nostro consenso al referendum è molto differente da quello dei suoi promotori la cui cultura individualista
esasperata non è la nostra. Prefiguriamo invece la possibilità di una vera e propria eutanasia-buonamorte di ispirazione cristiana che sappia superare emozioni e resistenze psicologiche per una consapevole decisione di compiere così il proprio percorso terreno all’interno della propria fede e nell’attesa di un futuro prossimo di serenità e di gioia.
Premesse tutte queste riflessioni generali “Noi Siamo Chiesa” ritiene necessario ed urgente un nuovo confronto nel paese, nel nome di una laicità condivisa da credenti, non credenti e da uomini in ricerca, per giungere a soluzioni legislative su tutta la questione del fine vita nel rispetto dei valori costituzionali.
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(1) Così San Tommaso Moro immagina che debba essere regolato il fine-vita in una società bene ordinata: “I malati, come dicemmo, li curano con grande affetto e non lasciano proprio nulla che li renda alla buona salute, regolando le medicine e il vitto; anzi alleviano gli incurabili con l’assisterli, con la conversazione e porgendo loro infine ogni sollievo possibile. Se poi il male non solo è inguaribile, ma dà al paziente di continuo sofferenze atroci, allora sacerdoti e magistrati, visto che è inetto a qualsiasi compito, molesto agli altri e gravoso a se stesso, sopravvive insomma alla propria morte, lo esortano a non porsi in capo di prolungare ancora quella peste funesta, e giacché la sua vita non è che tormento, a non esitare a morire; anzi fiduciosamente si liberi lui stesso da quella vita amara come da prigione o supplizio, ovvero consenta di sua volontà a farsene strappare dagli altri: sarebbe questo un atto di saggezza, se con la morte troncherà non gli agi ma un martirio, sarebbe un atto religioso e santo, poiché in tal faccenda si piegherà ai consigli dei sacerdoti, cioè degli interpreti della volontà di Dio. Chi si lascia convincere, mette fine alla vita da sé col digiuno, ovvero si fa addormentare e se ne libera senza accorgersi; ma nessuno vien levato di mezzo contro sua voglia, né allentano l’affetto nel curarlo. Morire a questo modo, quando lo hanno convinto della cosa, è onorevole…” (cfr. “Utopia”, Laterza 1984, pag. 97-98).

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(*) Alcune informazioni sul Movimento Noi siamo chiesa.
Noi siamo chiesa o tendiamo ad esserlo?
La consegna “noi siamo chiesa”, carica di risonanze conciliari, intende affermare la centralità del “popolo di Dio” rispetto alle strutture e gerarchie ecclesiali. Ma, più profondamente, questo “noi” rinvia alla “comunione” dei fratelli e delle sorelle tra di loro e con Gesù Signore; rimanda cioè ad un’unione ancora più intima, al livello di una identificazione, il corpo di Cristo.
Se questo è vero, non basta il battesimo a renderci membri della chiesa, ad immetterci in questa comunione. È una comunione che nasce solo dall’amore, dal nostro amore per Cristo e dall’amore di Cristo per noi. Una comunione tanto più profonda quanto più profondo è l’amore che la plasma.
Allora s’impone una domanda: è vero che noi siamo chiesa? Non sarebbe più giusto dire che tendiamo, faticosamente, ad esserlo? Che la chiesa non è tanto per noi un luogo di appartenenza, e di rifugio, quanto invece un esigente progetto di vita? Che diventiamo chiesa nella misura in cui cresciamo nella coscienza di questi nostri vincoli? Che diventiamo chiesa soprattutto nella misura in cui amiamo? In cui ci amiamo tra di noi, e in cui amiamo Gesù di Nazareth? Non sarebbe più impegnativo vivere la nostra comunione come un albero in crescita continua, irrorato dall’amore?
Come un albero di cui noi siamo i rami e di cui Gesù è il tronco?
(Giulio Girardi)

Il Papa oscurato

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lampadadialadmicromicro1E’ già online e tra poco in distribuzione del cartaceo il n. 21, del 1° novembre 2021, di Rocca, quindicinale della Cittadella Pro Civitate Christiana di Assisi. Nel darne pubblicità, riproduciamo di seguito l’editoriale del direttore Mariano Borgognoni. Come è noto Aladinpensiero ha insieme con altre news online stipulato un accordo di collaborazione con la Cittadella di Assisi, in particolare per la diffusione delle informazioni relative al Sinodo della Chiesa cattolica universale e ai connessi cammini sinodali della Chiesa italiana. Giova anche ricordare che Aladinpensiero è media partner dell’associazione Amici sardi della Cittadella di Assisi.
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Il Papa oscurato
ROCCA 1 NOVEMBRE 2021

di Mariano Borgognoni

Un amico mi butta lì una battuta: «voi di Rocca siete diventati i portavoce del partito del Papa».
Dissimulo una certa irritazione: «noi papolatri? Giammai!». Rispetto sincero ed anche affetto sì, ma mai assenso acritico per la «sedia» pontificia a prescindere. Questa è la cifra di Rocca, rivista laica di ispirazione cristiana.
Qualche giorno dopo apro Avvenire e leggo il messaggio rivolto da Francesco al IV Incontro mondiale dei Movimenti Popolari (Emmp). Lo percorro da cima a fondo e quasi quasi la battuta del mio amico non produce più irritazione: «bisognerebbe fondarlo davvero il partito del Papa!» dico fra me e poi giudiziosamente
mi censuro, anche perché i Papi cambiano.
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In quell’intervento pontificio c’è un manifesto evangelico con una dimensione politica forte ed esplicita. D’altra parte se l’Evangelo non parla alle ferite dell’umanità in carne ed ossa è lettera morta o peggio, paralizzante consolazione, invece di essere speranza concreta di una liberazione che comincia dal presente e attende il Regno. Occorre guardarsi da chi parla del Regno senza calarsi nel presente e nel suo bisogno di giustizia e di vita buona.
I giorni seguenti sono andato spigolando per siti, giornali e giornaloni. Niente o troppo poco ho trovato in riferimento alla straordinaria forza di quel messaggio: il Papa è stato oscurato!
Ma cosa dice Francesco in quell’intervento?
Sarebbe troppo lungo enunciarne tutti i punti, ci torneremo puntualmente nel prossimo numero. Per ora basti citare alcuni elementi essenziali, a partire dalla considerazione iniziale del Papa secondo cui la pandemia ci ha messo davanti agli occhi disuguaglianze «che tanti meccanismi di post-verità non hanno potuto occultare». Quindi non basta tornare al prima «perché questo sarebbe davvero suicida e, se mi consentite di forzare un po’ le parole, ecocida e genocida». Torna in questo incipit l’ecologia integrale di Bergoglio; la convinzione che devastazione dell’ambiente e sfruttamento dell’uomo sull’uomo vanno da sempre a braccetto. E che quindi custodia della natura e cura della umanità più fragile sono la via difficile ma necessaria per dare una prospettiva alla casa comune e una speranza di giustizia tra gli uomini dentro la casa comune.
Che fare quindi per dare gambe ad una economia (oikonomia=legge/governo della casa) che serva senza asservire? Beh intanto questo deve diventare il compito di una politica autorevole e rigenerata, capace di compiere scelte fonrti a cominciare da un «salario universale» che dia la possibilità «ad ogni persona in questo mondo di accedere ai beni più elementari della vita» e dalla «riduzione della giornata lavorativa». Insomma, aggiunge il Papa «lavorare meno affinché più gente abbia accesso al mercato del lavoro».
Finisco qui anche se Francesco pone altri obiettivi di enorme importanza: dalla liberalizzazione dei brevetti sui vaccini, al condono dei debiti ai Paesi poveri, alla preservazione dei beni comuni, alla cessazione della fabbricazione e del traffico delle armi.
Un intervento di rara chiarezza e di grande forza etica e politica che tende a restituire al confronto sul futuro del mondo globalizzato la dimensione giusta, una risposta forte alla domanda di crescente uguaglianza, di universalizzazione dei diritti sociali e civili a cominciare dalle tre T: tierra, teto, trabajo. Terra, casa, lavoro.
E’ imbarazzante che su di esso non si sia aperta una discussione vera perché è chiaro che il contenuto del messaggio domanda un cambiamento radicale del paradigma economico dominante che, nella sostanza, esclude la possibilità di un governo democratico dei processi economico-sociali, relegando la politica a pura amministrazione dell’esistente. Di un esistente in crisi o in ripresa ma pur sempre dentro i sacri
paletti definiti dalle leggi ferree del mercato e del sostegno pubblico ad esso subalterno.
Concludo con una considerazione più domestica. In Italia e in Europa si sta discutendo di quello che abbiamo chiamato Piano nazionale di ripresa e resilienza. Come non porsi dentro questo percorso il grande obiettivo della piena e buona occupazione? Ci siamo tornati più volte in questi mesi perché avvertiamo che sul tema del lavoro si gioca la tenuta civile di una società, il suo benessere e il suo futuro. Certo perseguire la piena occupazione richiede l’utilizzo di molte leve ma l’unica veramente decisiva è quella di mettere questo obiettivo al primo posto dell’agenda sociale e politica e piegare su di esso l’insieme
delle scelte di bilancio, delle politiche fiscali e redistributive, degli investimenti nella ricerca e nella formazione.
Ci sono le forse sociali, culturali, politiche capaci di assumersi questa missione? L’oscuramento pontificio rendere lecito il dubbio. Ma non abbiamo alternative alla coltivazione attiva della speranza.
Mariano Borgognoni
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Newsletter n. 236 del 26 ottobre 2021
PER IL FUTURO DEL MONDO
Care Amiche ed Amici,

in questa settimana, il 30 e 31 ottobre, si riunirà a Roma il G 20 sotto la presidenza di Draghi. I temi all’ordine del giorno, crisi ecologica e pandemia da Covid, riguardano né più né meno che la salvezza del mondo. Noi non abbiamo modo di influire sulle sue decisioni, ma ci sembra che “i Grandi” potrebbero trarre ispirazione per il loro lavoro dal fatto che a Roma c’è anche la presenza del papa. Fino a qualche decennio fa questa ispirazione avrebbe potuto essere partigiana ed escludente, dato che il cattolicesimo definiva se stesso come l’unica religione vera e la Chiesa cattolica come unica arca fuori della quale non potesse darsi salvezza; l’ispirazione che oggi ne può venire è al contrario universale e includente sia per il riconoscimento operato dal Concilio Vaticano Secondo dei doni di Dio profusi come semi in tutte le religioni e le culture, sia per l’affermazione di fraternità tra tutti gli uomini che papa Francesco ha condiviso con ogni religione e ha esteso in particolare all’Islam con cui nel patto di Abu Dhabi ha firmato l’attestazione che “le diversità di religione… sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”. Lo stesso papa nel messaggio ai Movimenti popolari del 16 ottobre scorso ha chiesto a se stesso e a tutti gli altri leader religiosi “di non usare mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato”. Questa ispirazione può pertanto essere oggi tale da incoraggiare tutti i responsabili della vita sulla Terra a perseguire l’unità umana, a adottare un’ecologia integrale, a far proprio il Trattato già varato dall’ONU per la proibizione di tutte le armi nucleari, a promuovere la fine della corsa al riarmo e delle relative spese, nonché a indurre a una conversione dell’ideologia delle Forze Armate; tutto ciò al fine di costruire un mondo in cui rimangano come unici uccisi dal fuoco delle Forze Armate quelli uccisi per sbaglio nei set cinematografici di Hollywood.
Sarebbe bene inoltre che i partecipanti al vertice mondiale fossero informati del fatto che a Roma è stata da poco istituita una Scuola che promuove il pensiero e cerca le vie per dar luogo alla stesura e all’adozione per tutto il mondo di una Costituzione della Terra. Si potrebbe dire che i convenuti a Roma, come responsabili di popoli e protagonisti decisivi della scena mondiale, di tale Scuola potrebbero essere i primi docenti e discepoli. Sarebbe bello infatti che fra loro sorgessero persone iniziative e politiche che facessero proprio questo progetto, lo includessero nelle tematiche presenti nella comunità delle Nazioni e lo portassero a buon fine, in modo che la Terra intera possa avere la sua Costituzione: una Legge fondamentale che garantisca diritti e doveri a tutti gli uomini e le donne del pianeta e che con il supporto di efficaci garanzie giuridiche ed istituzionali assicuri che la Terra sia salva, la vita sia prospera e la storia continui.
Come si sa le Costituzioni hanno offerto molte volte e per molto tempo le più alte esperienze di giustizia e di pace nei singoli Stati, sicché si può pensare che il modello costituzionale esteso sul piano globale possa mantenere analoghe promesse per tutti i Paesi.
Anche la sfida della pandemia conduce nella stessa direzione, suggerendo di instaurare una politica dei beni comuni dell’umanità che non si possano né comprare né vendere, che siano fuori commercio e messi a disposizione di tutti da un’economia di liberazione, a cominciare dalla decisione della non brevettabilità dei vaccini contro il Covid e dei farmaci salvavita.
Che tale proposta non sia mai stata formulata fin qui non depone contro la sua attuabilità, ma deriva piuttosto dal fatto che finora da ogni punto del pianeta la Terra è apparsa frammentata e divisa e il corso storico si è andato svolgendo attraverso contrapposizioni etniche, religiose, culturali e politiche via via apparse come insormontabili, sicché una Costituzione di tutta la Terra sembrava impensabile; ma oggi la Terra può essere osservata dall’alto come un tutto globale e anzi un poliedro, come dice il Papa, e come si sa al mutamento del punto di vista corrisponde il mutamento delle cose; oggi in realtà le divisioni identitarie, pur feconde e inviolabili nel loro ordine, non sono più tali da precludere unità più costruttive e più vaste. Né questa costruzione di un ordinamento costituzionale mondiale può essere considerata un’utopia di intellettuali, se negli anni 80 del 900 un mondo ricomposto nella pace, “senza armi nucleari e non violento” fu proposto da due grandi compagini statali, l’Unione Sovietica e l’India, pur appartenenti a mondi diversi, i cui popoli insieme rappresentavano un quinto dell’umanità.
Nel nostro sito pubblichiamo il messaggio di papa Francesco ai membri dei movimenti popolari che il papa chiama affettuosamente “poeti sociali”; tale messaggio per la precisione con cui il papa ha evocato i I principi da osservare, opzione preferenziale per i poveri, destinazione universale dei beni, solidarietà, sussidiarietà, partecipazione, bene comune, e per le misure concrete suggerite, come il salario universale e la riduzione dell’orario di lavoro, ha suscitato le ire del sito antibergogliano integralista “Stilum Curiae” di Marco Tosatti. È anche da segnalare che dopo l’Angelus di domenica scorsa papa Francesco ha preso una forte posizione a favore dei migranti nel Mediterraneo e contro il loro respingimento e la loro riconsegna ai lager libici.
Con i più cari saluti

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«Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso»

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Il Messaggio di Papa Francesco
21 OTTOBRE 2021

Pubblichiamo di seguito il Messaggio che il Santo Padre Francesco invia ai partecipanti alla 49ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, che si svolge a Taranto dal 21 al 24 ottobre 2021 sul tema «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso»
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Cari fratelli e sorelle,
saluto cordialmente tutti voi che partecipate alla 49a Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, convocata a Taranto. Rivolgo il mio saluto fraterno al Cardinale Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, all’Arcivescovo Filippo Santoro e ai Vescovi presenti, ai membri del Comitato Scientifico e Organizzatore, ai delegati delle diocesi italiane, ai rappresentanti dei movimenti e delle associazioni, a tutti gli invitati e a quanti seguono l’evento a distanza.
Questo appuntamento ha un sapore speciale. Si avverte il bisogno di incontrarsi e di vedersi in volto, di sorridere e di progettare, di pregare e sognare insieme. Ciò è tanto più necessario nel contesto della crisi generata dal Covid, crisi insieme sanitaria e sociale. Per uscirne è richiesto un di più di coraggio anche ai cattolici italiani. Non possiamo rassegnarci e stare alla finestra a guardare, non possiamo restare indifferenti o apatici senza assumerci la responsabilità verso gli altri e verso la società. Siamo chiamati a essere lievito che fa fermentare la pasta (cfr Mt 13,33).
La pandemia ha scoperchiato l’illusione del nostro tempo di poterci pensare onnipotenti, calpestando i territori che abitiamo e l’ambiente in cui viviamo. Per rialzarci dobbiamo convertirci a Dio e imparare il buon uso dei suoi doni, primo fra tutti il creato. Non manchi il coraggio della conversione ecologica, ma non manchi soprattutto l’ardore della conversione comunitaria. Per questo, auspico che la Settimana Sociale rappresenti un’esperienza sinodale, una condivisione piena di vocazioni e talenti che lo Spirito ha suscitato in Italia. Perché ciò accada, occorre anche ascoltare le sofferenze dei poveri, degli ultimi, dei disperati, delle famiglie stanche di vivere in luoghi inquinati, sfruttati, bruciati, devastati dalla corruzione e dal degrado.
Abbiamo bisogno di speranza. È significativo il titolo scelto per questa Settimana Sociale a Taranto, città simbolo delle speranze e delle contraddizioni del nostro tempo: «Il pianeta che speriamo. Ambiente, lavoro, futuro. Tutto è connesso». C’è un desiderio di vita, una sete di giustizia, un anelito di pienezza che sgorga dalle comunità colpite dalla pandemia. Ascoltiamolo. È in questo senso che vorrei offrirvi alcune riflessioni che possano aiutarvi a camminare con audacia sulla strada della speranza, che possiamo immaginare contrassegnata da tre “cartelli”.
Il primo è l’attenzione agli attraversamenti. Troppe persone incrociano le nostre esistenze mentre si trovano nella disperazione: giovani costretti a lasciare i loro Paesi di origine per emigrare altrove, disoccupati o sfruttati in un infinito precariato; donne che hanno perso il lavoro in periodo di pandemia o sono costrette a scegliere tra maternità e professione; lavoratori lasciati a casa senza opportunità; poveri e migranti non accolti e non integrati; anziani abbandonati alla loro solitudine; famiglie vittime dell’usura, del gioco d’azzardo e della corruzione; imprenditori in difficoltà e soggetti ai soprusi delle mafie; comunità distrutte dai roghi… Ma vi sono anche tante persone ammalate, adulti e bambini, operai costretti a lavori usuranti o immorali, spesso in condizioni di sicurezza precarie. Sono volti e storie che ci interpellano: non possiamo rimanere nell’indifferenza.
Questi nostri fratelli e sorelle sono crocifissi che attendono la risurrezione. La fantasia dello Spirito ci aiuti a non lasciare nulla di intentato perché le loro legittime speranze si realizzino. Un secondo cartello segnala il divieto di sosta. Quando assistiamo a diocesi, parrocchie,
comunità, associazioni, movimenti, gruppi ecclesiali stanchi e sfiduciati, talvolta rassegnati di fronte a situazioni complesse, vediamo un Vangelo che tende ad affievolirsi. Al contrario, l’amore di Dio non è mai statico e rinunciatario, «tutto crede, tutto spera» (1 Cor 13,7): ci sospinge e ci vieta di fermarci. Ci mette in moto come credenti e discepoli di Gesù in cammino per le strade del mondo, sull’esempio di Colui che è la via (cfr Gv 14,6) e ha percorso le nostre strade. Non sostiamo dunque nelle sacrestie, non formiamo gruppi elitari che si isolano e si chiudono. La speranza è sempre in cammino e passa anche attraverso comunità cristiane figlie della risurrezione che escono, annunciano, condividono, sopportano e lottano per costruire il Regno di Dio. Quanto sarebbe bello che nei territori maggiormente segnati dall’inquinamento e dal degrado i cristiani non si limitino a denunciare, ma assumano la responsabilità di creare reti di riscatto. Come scrivevo nell’Enciclica Laudato si’, «non basta conciliare, in una via di mezzo, la cura per la natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso. Su questo tema le vie di mezzo sono solo un piccolo ritardo nel disastro. Si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore e una qualità di vita integralmente superiore non può considerarsi progresso» (n. 194). Talvolta prevalgono la paura e il silenzio, che finiscono per favorire l’agire dei lupi del malaffare e dell’interesse individuale. Non abbiamo paura di denunciare e contrastare l’illegalità, ma non abbiamo timore soprattutto di seminare il bene!
Un terzo cartello stradale è l’obbligo di svolta. Lo invocano il grido dei poveri e quello della Terra. «La speranza ci invita a riconoscere che possiamo sempre cambiare rotta, che possiamo sempre fare qualcosa per risolvere i problemi» (n. 61). Il Vescovo Tonino Bello, profeta in terra di Puglia, amava ripetere: «Non possiamo limitarci a sperare. Dobbiamo organizzare la speranza!». Ci attende una profonda conversione che tocchi, prima ancora dell’ecologia ambientale, quella umana, l’ecologia del cuore. La svolta verrà solo se sapremo formare le coscienze a non cercare soluzioni facili a tutela di chi è già garantito, ma a proporre processi di cambiamento duraturi, a beneficio delle giovani generazioni. Tale conversione, volta a un’ecologia sociale, può alimentare questo tempo che è stato definito “di transizione ecologica”, dove le scelte da compiere non possono essere solo frutto di nuove scoperte tecnologiche, ma anche di rinnovati modelli sociali. Il cambiamento d’epoca che stiamo attraversando esige un obbligo di svolta. Guardiamo, in questo senso, a tanti segni di speranza, a molte persone che desidero ringraziare perché, spesso nel nascondimento operoso, si stanno impegnando a promuovere un modello economico diverso, più equo e attento alle persone.
Ecco, dunque, il pianeta che speriamo: quello dove la cultura del dialogo e della pace fecondino un giorno nuovo, dove il lavoro conferisca dignità alla persona e custodisca il creato, dove mondi culturalmente distanti convergano, animati dalla comune preoccupazione per il bene comune. Cari fratelli e sorelle, accompagno i vostri lavori con la preghiera e con l’incoraggiamento. Vi benedico, augurandovi di incarnare con passione e concretezza le proposte di questi giorni. Il Signore vi colmi di speranza. E non dimenticatevi, per favore, di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 4 ottobre 2021
Festa di San Francesco d’Assisi
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“Solidarietà, cooperazione e responsabilità: gli antidoti per combattere le ingiustizie, le disuguaglianze e le esclusioni”
Udienza ai partecipanti al Convegno Internazionale della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, 23.10.2021

Questa mattina [sabato 23 ottobre 2021], nel Palazzo Apostolico Vaticano, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i partecipanti al Convegno Internazionale della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice, svoltosi in Vaticano dal 21 al 22 ottobre 2021, sul tema “Solidarietà, cooperazione e responsabilità: gli antidoti per combattere le ingiustizie, le disuguaglianze e le esclusioni”.

Pubblichiamo di seguito il discorso che il Papa ha rivolto ai presenti nel corso dell’incontro:

Discorso del Santo Padre

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Sono lieto di incontrarvi nel contesto del vostro Convegno Internazionale. Grazie, Signora Presidente, per le Sue cortesi parole – e chiare, come Lei fa sempre, chiare –. In questi giorni trattate temi grandi ed essenziali: la solidarietà, la cooperazione e la responsabilità come antidoti all’ingiustizia, alla disuguaglianza e all’esclusione.

Sono riflessioni importanti, in un tempo nel quale le incertezze e le precarietà che segnano l’esistenza di tante persone e comunità sono aggravate da un sistema economico che continua a scartare vite in nome del dio denaro, istillando atteggiamenti rapaci nei confronti delle risorse della Terra e alimentando tante forme di iniquità. Dinanzi a questo non possiamo restare indifferenti. Ma la risposta alle ingiustizie e allo sfruttamento non è solo la denuncia; è soprattutto la promozione attiva del bene: denunciare il male ma promuovere il bene. E per questo vi esprimo il mio apprezzamento: per le attività che portate avanti, specialmente nel campo educativo e formativo, in particolare per l’impegno di finanziare studi e ricerche per i giovani sui nuovi modelli di sviluppo economico-sociale ispirati alla dottrina sociale della Chiesa. È importante, ne abbiamo bisogno: nel terreno inquinato dal predominio della finanza abbiamo bisogno di tanti piccoli semi che facciano germogliare un’economia equa e benefica, a misura d’uomo e degna dell’uomo. Abbiamo bisogno di possibilità che diventino realtà, di realtà che diano speranza. Questo significa tradurre in pratica la dottrina sociale della Chiesa.

Riprendo la parola “predominio della finanza”. Quattro anni fa è venuta a trovarmi una grande donna economista che aveva un lavoro, anche, in un governo. E mi disse che lei aveva cercato di fare un dialogo tra economia, umanesimo e fede, religione, e che è andato bene, è un dialogo che è andato bene e continua ad andare bene, in un gruppo di riflessione. Ho cercato lo stesso – mi disse – con la finanza, l’umanesimo e la religione, e non siamo potuti neppure partire. Interessante. Questo mi fa pensare. Quella donna mi faceva sentire che la finanza era qualcosa di inagibile, qualcosa di “liquido”, “gassoso” che finisce come la catena di Sant’Antonio… Vi dico questa esperienza, forse può servirvi.

Proprio le tre parole da voi scelte – solidarietà, cooperazione e responsabilità – rappresentano tre assi portanti della dottrina sociale della Chiesa, che vede la persona umana, naturalmente aperta alla relazione, come il vertice della creazione e il centro dell’ordine sociale, economico e politico. Con questo sguardo, attento all’essere umano e sensibile alla concretezza delle dinamiche storiche, la dottrina sociale contribuisce a una visione del mondo che si oppone a quella individualista, in quanto si fonda sull’interconnessione tra le persone e ha come fine il bene comune. E nello stesso tempo si oppone alla visione collettivistica, che oggi riemerge in una nuova versione, nascosta nei progetti di omologazione tecnocratica. Ma non si tratta di una “faccenda politica”: la dottrina sociale è ancorata alla Parola di Dio, per orientare processi di promozione umana a partire dalla fede nel Dio fattosi uomo. Per questo essa va seguita, amata e sviluppata: appassioniamoci nuovamente alla dottrina sociale, facciamola conoscere: è un tesoro della tradizione ecclesiale! È proprio studiandola che anche voi vi siete sentiti chiamati a impegnarvi contro le disuguaglianze, che feriscono in particolare i più fragili, e a lavorare per una fraternità reale ed effettiva.

Solidarietà, cooperazione, responsabilità: tre parole che in questi giorni ponete come cardini delle vostre riflessioni e che richiamano lo stesso mistero di Dio, che è Trinità. Dio è una comunione di Persone e ci orienta a realizzarci attraverso l’apertura generosa agli altri (solidarietà), attraverso la collaborazione con gli altri (cooperazione), attraverso l’impegno per gli altri (responsabilità). E a farlo in ogni espressione della vita sociale, attraverso le relazioni, il lavoro, l’impegno civile, il rapporto con il creato, la politica: in ogni ambito siamo oggi più che mai tenuti a testimoniare l’attenzione per gli altri, a uscire da noi stessi, a impegnarci con gratuità per lo sviluppo di una società più giusta ed equa, dove non prevalgano gli egoismi e gli interessi di parte. E nello stesso tempo siamo chiamati a vigilare sul rispetto della persona umana, sulla sua libertà, sulla tutela della sua inviolabile dignità. Ecco la missione di attuare la dottrina sociale della Chiesa.

Cari amici, nel portare avanti questi valori e questo stile di vita – lo sappiamo – si va spesso controcorrente, ma – ricordiamolo sempre – non siamo soli. Dio si è fatto vicino a noi. Non a parole, ma con la sua presenza: in Gesù Dio si è incarnato. E con Gesù, fattosi nostro fratello, riconosciamo in ogni uomo un fratello, in ogni donna una sorella. Animati da questa comunione universale, come comunità credente possiamo collaborare senza paura con ciascuno per il bene di tutti: senza chiusure, senza visioni escludenti, senza pregiudizi. Come cristiani siamo chiamati a un amore senza frontiere e senza limiti, segno e testimonianza che si può andare oltre i muri degli egoismi e degli interessi personali e nazionali; oltre il potere del denaro che spesso decide le cause dei popoli; oltre gli steccati delle ideologie, che dividono e amplificano gli odi; oltre ogni barriera storica e culturale e, soprattutto, oltre l’indifferenza, quella cultura dell’indifferenza che, purtroppo, è quotidiana. Possiamo essere fratelli tutti, e dunque possiamo e dobbiamo pensare e operare come fratelli di tutti. Può sembrare un’utopia irrealizzabile. Preferiamo invece credere che sia un sogno possibile, perché è lo stesso sogno del Dio uno e trino. Con il suo aiuto è un sogno che può cominciare a realizzarsi anche in questo mondo.

È dunque un grande compito quello della costruzione di un mondo più solidale, giusto ed equo. Per un credente non è qualcosa di pratico staccato dalla dottrina, ma è dare corpo alla fede, a lode di Dio, amante dell’uomo, amante della vita. Sì, cari fratelli e sorelle, il bene che fate ad ogni uomo sulla terra rallegra il cuore di Dio nei cieli. Continuate con coraggio il vostro cammino. Vi accompagno con la preghiera e benedico voi e il vostro impegno. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie.

[01458-IT.02] [Testo originale: Italiano]

Per una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.

verdePer una cultura della cura, della bellezza e dell’incontro.
Dalla Laudato si’ alla Fratelli tutti

di S.E. Mons. Erio Castellucci
Arcivescovo di Modena, Vescovo di Carpi
Vicepresidente della Conferenza Episcopale Italiana

* * *
“Un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della
terra, di tutte le cose, visibili e invisibili”. Non solo dunque
degli esseri umani, ma di tutte le creature. Il Credo
convoglia in poche parole interi brani della Bibbia: dal
primo capitolo della Genesi, con il suo ritornello: “era cosa
buona/bella”, ai Salmi (cf. in particolare i Salmi 8, 102 e
144). Per questa comune origine, la Scrittura stabilisce tra
gli esseri umani e gli altri elementi creati delle connessioni
strette, quasi tessendo un’unica tela. E se solo con san
Francesco il filo di questa tessitura cosmica sarà esplicitato
con il linguaggio della “fraternità/sororità”, già la prima
pagina biblica nella quale compare la parola “fratello” –
quella drammatica di Caino e Abele – si stabilisce un
legame stretto tra l’uomo e la terra.
“Sono forse io il custode di mio fratello?” (Genesi 4,9). Tra
le migliaia di domande della Bibbia, quella rivolta da Caino
a Dio – che gli aveva chiesto dove fosse suo fratello Abele –
è la più drammatica di tutte. Esprime nello stesso tempo
menzogna, indifferenza e cinismo. Caino sapeva benissimo
dov’era suo fratello, perché l’aveva appena ucciso e lasciato
steso al suolo. Colpisce, nel breve episodio, la ripetizione
del termine “suolo” per ben sei volte. Caino, del resto, era
un “lavoratore del suolo”, cioè un agricoltore. Ad un certo punto, sembra che nell’assassinio di Abele
sia stato gravemente offeso non solo il fratello ucciso e nemmeno solo il Signore, ma anche il suolo.
Dio infatti dice a Caino che dovrà andare “lontano dal suolo che ha aperto la bocca per ricevere il
sangue” di Abele; e gli riferisce che anche il suolo protesta contro la sua mano omicida: “quando
lavorerai il suolo, esso non ti darà più i suoi prodotti”.
L’intero creato, insieme al Creatore, si rivolta contro il crimine fratricida. Dunque, fin dalle narrazioni bibliche iniziali, grandi parabole intese a svelare non dei fatti storici ma il cuore umano,
“tutto è connesso”: Dio, l’uomo, il suolo. Del resto proprio questa parola, “suolo”, in ebraico adamàh,
contiene la parola “uomo”, adàm. E il termine con il quale Caino tenta di discolparsi, “custode”, in
ebraico shomèr, ricorre come verbo pochi capitoli prima (2,15), quando Dio pose Adamo nel giardino
perché lo coltivasse “e lo custodisse” (shamàr). L’uomo è dunque custode del fratello e del giardino, è
guardiano del proprio simile e della terra. Adamo e Caino, usurpando il posto di Dio, saranno cattivi
custodi del creato e dei fratelli. Quando si lascia incustodito il suolo, ne soffre anche il fratello; e
quando si maltratta il fratello, anche il suolo si affligge.
Le Scritture ebraiche e cristiane leggono in profonda connessione la custodia della natura creata e la
custodia della società umana. Ma solo san Francesco, come già accennato, arriverà a chiamare con lo stesso termine, “fratello” e “sorella”, l’una e l’altra. Il Santo di Assisi definisce per primo il legame tra tutti gli esseri non solo a partire dalla fede nell’unico Creatore, ma anche a partire dalla fede nell’unico Padre: se il Credo proclama Dio “Padre Onnipotente”, prima ancora che “Creatore”, significa che tutto il creato origina da questa paternità e che tutte le creature – e non solo quelle animate e
intelligenti – sono legate dalla figliolanza e, sono legate tra loro dalla fraternità/sororità. “Frate” per lui non è solo il compagno che condivide il battesimo e la vita religiosa, ma è anche il sole, il vento, il fuoco. “Sora” per lui è Chiara, è ciascuna donna, ma è anche l’acqua, la terra, la luna. La “rete fraterna” intessuta da San Francesco indica già, con singolare profezia, gli elementi del creato che oggi vengono valorizzati come fonti di energia pulita: sole, aria, acqua, vento, terra… e poteva farlo per quello sguardo con il quale “contemplava nelle cose belle il Bellissimo” (San Bonaventura, Leggenda maggiore, X: FF 1162).
* * *
L’intreccio tra la custodia per i propri simili e la custodia per l’ambiente non è certo un’invenzione
dei nostri tempi: quando papa Benedetto XVI parla di “ecologia umana” e papa Francesco di “ecologia
integrale”, danno voce ad una tradizione biblica e cristiana di millenni. E le due ultime encicliche di
papa Bergoglio dicono che “tutto è connesso” e che “tutti siamo connessi”.
“Sei proprio tu il custode di tuo fratello”: così sottintende il Signore nella sua risposta a Caino: “la
voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo”. La terra, bagnata di sangue, grida insieme all’innocente ucciso. “Il grido della terra e il grido dei poveri”, come li definisce papa Francesco
nell’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015, n. 49), si mescolano assieme. Già mezzo secolo fa, quando ancora pochi coglievano il rapporto tra questione ambientale e questione sociale, scriveva papa Paolo VI: «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale: ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» (Octogesima Adveniens, 14 maggio 1971, n. 21). Nella sua prima enciclica, poi, papa Giovanni Paolo II rilanciò l’allarme, ricordando «certi fenomeni, quali la minaccia di inquinamento dell’ambiente naturale nei luoghi di rapida industrializzazione, oppure i conflitti armati che scoppiano e si ripetono continuamente, oppure le prospettive dell’autodistruzione mediante l’uso delle armi atomiche, all’idrogeno, al neutrone e simili, la mancanza di rispetto per la vita dei non nati» (Redemptor hominis, 4 marzo 1978, n. 8). Papa Wojtyła, in ventisette anni di pontificato, ritornerà decine di volte sulla connessione tra temi ecologici e sociali.
Così come Benedetto XVI, che vi dedica ampio spazio all’interno della sua enciclica sociale, arrivando
a dire: «il sistema ecologico si regge sul rispetto di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in
società sia il buon rapporto con la natura» (Caritas in veritate, 29 giugno 2009, n. 51). Anche i grandi
documenti ecumenici, scritti insieme alle Chiese ortodosse e alle Comunità protestanti, hanno offerto
pregevoli contributi. Nel solco dei suoi predecessori, papa Francesco dedica un’intera enciclica all’argomento, prendendo in prestito le prime parole dal Cantico delle creature di San Francesco e
indicando come sottotitolo “la cura della casa comune”. L’idea della casa, òikos/oikìa, è contenuta nel termine stesso di “ecologia”, che significa “governo/gestione della casa”.
Proprio l’immagine della casa, insieme a quella del giardino e del suolo, ci aiuta a comprendere la
connessione tra uomo e natura, di cui lui è coltivatore e custode. Dio affida all’essere umano una “casa”, il creato, formata da abitazione, orto e giardino. Consegnando alla sua creatura più intelligente il resto delle creature, Dio non fa un rogito, non opera un passaggio di proprietà, ma fa semmai un
comodato, assegnando un bene con il compito di utilizzarlo responsabilmente e restituirlo in buono stato. Ed è questa responsabilità a definire il compito umano della custodia della “casa”: responsabilità verso il padrone, verso la famiglia che la abita e la abiterà, verso la casa stessa, giardino e orto compresi. Se l’uomo è l’apice della natura, consapevole di esistere come soggetto, fatto a “immagine e somiglianza” di Dio (cf. Gen 1,26-27), il resto della creazione non è semplice oggetto a disposizione dell’uomo, materia inerte che lui possa sfruttare a proprio arbitrio.
* * *
L’equivoco, tragico, che tanto disagio causa nel mondo moderno, è sorto dall’illusione che la natura
fosse una cava più che una casa: una miniera inesauribile di materiali da estrarre e utilizzare senza criterio. Quando l’uomo si fa predatore della natura, anziché suo custode e coltivatore, la casa si
trasforma in cava, il rispetto in profitto, la responsabilità in utilità. Un antropocentrismo esagerato,
divenuto negli ultimi secoli una sorta di narcisismo, saldatosi con le diverse fasi della rivoluzione
industriale, ha fatto scivolare talvolta l’uso delle risorse naturali in abuso; specialmente l’estrazione e il consumo dei combustibili fossili, senza un’adeguata regolazione, ha immesso progressivamente nell’atmosfera dei gas nocivi che l’hanno inquinata e hanno incentivato quell’effetto-serra che risulta
la causa principale dell’aumento della temperatura media nel nostro pianeta, determinando il fenomeno del surriscaldamento globale, riconosciuto dalla comunità scientifica come dato da ricondurre, almeno in parte, all’attività dell’uomo. Gli effetti, che in altre epoche si misuravano in migliaia o addirittura milioni di anni – le “ere geologiche” – sono ora percepibili su una scala di decenni: scioglimento dei ghiacciai, fenomeni atmosferici estremi, squilibri nella fauna e nella flora con la rapida scomparsa di specie animali e vegetali, disagi di intere popolazioni, compresa la lotta per l’acqua potabile, i conflitti per l’accaparramento delle risorse e le migrazioni climatiche.
Il legame tra il comportamento umano nei confronti dell’ambiente e nei confronti dei propri simili è evidente a chiunque non voglia chiudere gli occhi davanti alla realtà, ai dati e alle statistiche. È
evidente, oggi più di qualche decennio fa, che il problema non è semplicemente tecnico, ma etico: si
tratta di guadagnare non solo strumenti meno inquinanti, ma soprattutto comportamenti più responsabili. Le annuali Conferenze internazionali sul clima rendono evidente come la sfida riguardi proprio l’etica: anche per questo i loro orientamenti spesso cadono nel vuoto, perché incontrano poi nei singoli Stati delle politiche maldisposte verso l’assunzione di impegni che implicano sacrifici, cambiamenti di stili e abitudini, e quindi appaiono impopolari e tutt’altro che premianti, anzi punitivi, dal punto di vista elettorale.
* * *
Le società impostate su logiche prevalentemente economiche e finanziarie, come quelle imperanti
nell’Occidente capitalistico o nell’Oriente dei grandi paesi emergenti – soprattutto Cina e India –
faticano ad accettare culturalmente e ad integrare programmaticamente il valore della sobrietà, anzi
il vantaggio della sobrietà: perché non procura un beneficio immediato, ma un giovamento su larga
scala e su tempi lunghi. Dove prevale la logica del consumo e del profitto immediato, difficilmente si
fa strada il senso della responsabilità verso gli altri popoli e le future generazioni.
In queste società la natura non solo non viene considerata una casa da custodire, ma nemmeno una
semplice cava di materiali da estrarre; diventa piuttosto una cassa, un conto corrente alimentato dalla
speculazione, da una logica di mercato e da una finanza spregiudicata. Impressionano certo i dati
assoluti legati alla fame nel mondo, che colpisce ancora più di 820 milioni di persone, e quelli legati
alla sete, che ne coinvolge più di un miliardo. Ma questi dati, insieme ad altri indicatori delle povertà
planetarie, potrebbero suscitare una reazione simile a quella di Caino: “sono forse io il responsabile
delle ingiustizie nel mondo?”. È più utile, per rendersi conto delle sperequazioni legate all’uso delle
risorse, considerare l’impronta ecologica, ossia l’area della superficie terrestre in grado di fornire le
risorse occorrenti per il consumo quotidiano e lo smaltimento dei rifiuti. Per avere un termine di
paragone, si pensi che se l’impronta ecologica di un abitante degli Stati Uniti è 8,2, quella di un
abitante del Bangladesh è 0,7. Limitandoci al tasso di inquinamento, si può ricordare che un cittadino
nordamericano immette nell’atmosfera mediamente tanta anidride carbonica quanto due cittadini
europei e 160 cittadini etiopi. Si intuisce l’inadeguatezza di un approccio puramente demografico alla
questione ecologica: «incolpare l’incremento demografico e non il consumismo estremo e selettivo di
alcuni è un modo per non affrontare i problemi» (Laudato si’, n. 50).
Oggi possiamo misurare addirittura l’impronta ecologica dell’intero pianeta anche in termini
cronologici. Il 29 luglio 2019 è stato l’Overshoot Day, il “giorno del sorpasso”, che si calcola ogni anno mettendo in rapporto la biocapacità del globo, cioè l’insieme delle risorse generate dalla terra, con l’impronta ecologica dell’umanità, cioè il consumo totale di risorse per l’intero anno. In sette mesi, dal primo gennaio al 29 luglio, il pianeta ha dunque esaurito tutte le risorse naturali che è in grado di rinnovare in un anno. Nei successivi cinque mesi del 2019 l’uomo è vissuto “a credito”, consumando ciò che la terra non riesce a rigenerare. E non si tratta solo di cibo, ma anche di aria, terra e acqua: il sistema vegetale mondiale, attraverso la fotosintesi clorofilliana, può assorbire annualmente 20 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, a fronte dei 36 miliardi immessi nell’atmosfera, aggravando il riscaldamento globale e i cambiamenti climatici. Ciò che più preoccupa è che l’Overshoot Day continua a retrocedere: nel 1971 cadeva il 21 dicembre, nel 1981 il 12 novembre, nel 1990 il 13 ottobre, nel 2000 il 23 settembre, nel 2018 il primo agosto… Sembra che l’intero pianeta stia prendendo la forma di Leonia, una delle città fantastiche descritte da Italo Calvino: «ogni anno la città s’espande, e gli immondezzai devono arretrare più lontano; l’imponenza del gettito aumenta e le cataste
s’innalzano, si stratificano, si dispiegano su un perimetro più vasto (…). Il risultato è questo: che più
Leonia espelle roba più ne accumula» (Le città invisibili, 1972).
* * *
Negli incontri che si stanno moltiplicando dovunque e in tutte le sedi, anche nelle comunità cristiane
e in vista della Settimana sociale di Taranto, è facile che qualcuno esprima un senso di frustrazione e
impotenza rispetto ai dati e alle previsioni. Non mancano poi le accuse di catastrofismo da una parte
e di negazionismo dall’altra; etichette spesso cavalcate politicamente. Ma l’unico atteggiamento
costruttivo, in questo come in tutti i campi del vivere civile, è quello di una concreta progettualità.
Ciascuno, secondo le proprie competenze e i propri ruoli, può e deve fare qualcosa per rendere più
abitabile la nostra casa comune.
A cominciare da uno stile personale sobrio, sostenibile, sano. Tutto comincia sempre dalla conversione
dei singoli: il mare è composto di tante gocce: “sono proprio io il custode di mio fratello!”. La custodia verso l’altro e verso il creato, che diventa non solo rispetto ma vera e propria responsabilità, è uno stile globale, integrale: è impossibile custodire i fratelli abusando del creato o custodire il creato facendo violenza ai fratelli. Uno stile più attento ad evitare sprechi di energia e di materie prime e consumi inutili, a ridurre le immissioni di gas nocivi nell’atmosfera, a favorire il riciclo dei rifiuti secondo i criteri dell’economia circolare, fa bene alla propria salute psicofisica, oltre che al pianeta.
È chiaro che non basta: occorre ben altro. Ma il famoso e troppo usato “benaltrismo”, oltre che costituire un comodo alibi, dimentica che il bene “altro” comincia dal bene che compio io, da “questo”
bene. E quando il bene dei singoli si somma, in realtà si moltiplica: diventa bene “nostro”. La seconda
sfera d’azione, quindi, è quella educativa. È cresciuta negli ultimi anni, tanto da diventare per i cristiani un “segno dei tempi”, la sensibilità ecologica specialmente nei ragazzi e nei giovani. Il sistema educativo scolastico e universitario forma alla sostenibilità le persone – docenti, alunni, famiglie – facendo leva sui dati scientifici e sul senso di responsabilità etico di ciascuno. I risultati si vedono e vanno incentivati: l’educazione stessa, la cultura diffusa, plasma stili personali sobri e rispettosi verso il creato e verso gli altri.
L’impegno nella formazione personale e nell’educazione dei ragazzi e dei giovani diventa così una forza sociale, fa opinione, desta l’attenzione dei mondi economici e tecnologici. Questi ambiti planetari si
collocano ben oltre la nostra portata e tuttavia interagiscono con i diversi corpi sociali. Noi cittadini
abbiamo la possibilità di influire, quando ci organizziamo, sulle grandi scelte nei settori del
commercio, della ricerca scientifica e della tecnologia. Possiamo “votare con il portafoglio”, cioè
orientare acquisti e investimenti in modo da favorire i comportamenti virtuosi delle aziende, degli
enti di ricerca e delle banche. In non poche situazioni, ad esempio, le preferenze motivate dei consumatori e dei clienti hanno determinato scelte più sostenibili da parte dei produttori e degli
erogatori di beni.
Il mondo politico internazionale sta prendendo coscienza, ormai da decenni, della gravità rivestita
dalla questione ecologica e dalla sua connessione con la questione sociale. La Conferenza di Rio de
Janeiro nel 1992, il Protocollo di Kyoto nel 1997, la Conferenza di Parigi nel 2015, sono solo alcune
delle tappe più significative di questo cammino. Nel settembre 2015 le Nazioni Unite hanno approvato
l’Agenda 2030, che individua 17 obiettivi e 169 sotto-obiettivi per uno sviluppo sostenibile, attraverso
la lotta contro le povertà, le ingiustizie e il degrado dell’ambiente. Le amministrazioni locali, secondo le loro competenze e risorse, si stanno interrogando e muovendo su questa scia. L’Agenda 2030 è
perfettamente in linea con l’enciclica Laudato si’, pubblicata tre mesi prima. La Chiesa cattolica infatti si sta attivando a tutti i livelli, sotto la decisiva spinta del magistero degli ultimi pontefici, che richiede una migliore integrazione, nella formazione catechistica, della custodia dell’altro con la custodia del creato e l’adozione di criteri di sostenibilità anche nella nuova edilizia di culto e nella manutenzione delle strutture. La cura del creato è da tempo entrata anche nelle agende ecumeniche, dando vita a documenti e soprattutto ad esperienze – compresa l’annuale Giornata del Creato – che coinvolgono cattolici, ortodossi e protestanti. Ed ha fatto il suo ingresso solenne, soprattutto con la Dichiarazione di Abu Dhabi, nel dialogo islamo-cristiano.
* * *
La consapevolezza che il creato è “la nostra casa comune” non potrà che farci bene. Quando trattiamo la natura come “cava” da cui estrarre materie prime, o “cassa” da cui guadagnare profitti, cadiamo nell’illusione di una “indifferenza” dell’ambiente rispetto ai nostri comportamenti. Essendo però il creato una vera e propria “casa”, le nostre azioni nei suoi confronti si riflettono su di noi. Se la casa è sporca, se teniamo le finestre chiuse anziché far entrare aria pulita, se gettiamo i rifiuti sul pavimento invece di portarli fuori, se sprechiamo acqua, luce e gas inutilmente, se lasciamo crescere
umidità e muffa, ne risentiamo prima di tutto noi, perché ci indeboliamo e ci ammaliamo; e ne
risentono i familiari, in casa con noi, specialmente quelli meno difesi come i piccoli, gli anziani, i più fragili. Questo succede troppo spesso nel mondo, “casa comune” dove lo sfruttamento e l’inquinamento fanno ammalare e indeboliscono soprattutto chi non ha sufficienti forze per difendersi.
L’impegno per la salvaguardia del creato è una piattaforma comune a cristiani, ebrei e membri di
altre religioni, a credenti e non credenti, a tutti gli uomini di buona volontà. Il grido del suolo e il
grido di Abele, sono gli orizzonti di impegno comune per un presente e un futuro sostenibile e dignitoso.

Videomessaggio di Papa Francesco in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP)

2e44801c-9d6f-4f46-9c5d-23d539e3626e“(…) mettere l’economia al servizio dei popoli per costruire una pace duratura fondata sulla giustizia sociale e sulla cura della Casa comune”.
Videomessaggio del Santo Padre in occasione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), 16.10.2021
[B0669]

Originale in lingua spagnola, segue la traduzione in lingua italiana

Pubblichiamo di seguito il testo del Videomessaggio che il Santo Padre Francesco ha inviato ai partecipanti alla seconda Sessione del IV Incontro Mondiale dei Movimenti Popolari (EMMP), che si è svolta sabato 16 ottobre online:

Videomessaggio del Santo Padre

Hermanas, hermanos, queridos poetas sociales:

1. Queridos Poetas Sociales

Así me gusta llamarlos, poetas sociales, porque ustedes son poetas sociales, porque tienen la capacidad y el coraje de crear esperanza allí donde sólo aparece descarte y exclusión. Poesía quiere decir creatividad, y ustedes crean esperanza; con sus manos saben forjar la dignidad de cada uno, la de sus familias y la de la sociedad toda con tierra, techo y trabajo, cuidado, comunidad. Gracias porque la entrega de ustedes es palabra con autoridad capaz de desmentir las postergaciones silenciosas y tantas veces educadas a las que fueron sometidos —o a las que son sometidos tantos hermanos nuestros—. Pero al pensar en ustedes creo que, principalmente, su dedicación es un anuncio de esperanza. Verlos a ustedes me recuerda que no estamos condenados a repetir ni a construir un futuro basado en la exclusión y la desigualdad, el descarte o la indiferencia; donde la cultura del privilegio sea un poder invisible e insuprimible y la explotación y el abuso sea como un método habitual de sobrevivencia. ¡No! Eso ustedes lo saben anunciar muy bien. Gracias.

Gracias por el vídeo que recién compartimos. He leído las reflexiones del encuentro, el testimonio de lo que vivieron en estos tiempos de tribulación y angustia, la síntesis de sus propuestas y sus anhelos. Gracias. Gracias por hacerme parte del proceso histórico que están transitando y gracias por compartir conmigo este diálogo fraterno que busca ver lo grande en lo pequeño y lo pequeño en lo grande, un diálogo que nace en las periferias, un diálogo que llega a Roma y en el que todos podemos sentirnos invitados e interpelados. «Para encontrarnos y ayudar mutuamente necesitamos dialogar» (FT 198), ¡y cuánto!

Ustedes sintieron que la situación actual ameritaba un nuevo encuentro. Sentí lo mismo. Aunque nunca perdimos el contacto —y ya pasaron seis años, creo, del último encuentro, el encuentro general—. Durante este tiempo pasaron muchas cosas; muchas cosas han cambiado. Son cambios que marcan puntos de no retorno, puntos de inflexión, encrucijadas en las que la humanidad debe elegir. Se necesitan nuevos momentos de encuentro, discernimiento y acción conjunta. Cada persona, cada organización, cada país y el mundo entero necesita buscar estos momentos para reflexionar, discernir y elegir, porque retornar a los esquemas anteriores sería verdaderamente suicida, y si me permiten forzar un poco las palabras, ecocida y genocida. Estoy forzando, ¡eh!

En estos meses muchas cosas que ustedes denunciaban quedaron en total evidencia. La pandemia transparentó las desigualdades sociales que azotan a nuestros pueblos y expuso —sin pedir permiso ni perdón— la desgarradora situación de tantos hermanos y hermanas, esa situación que tantos mecanismos de post-verdad no pudieron ocultar.

Muchas cosas que dábamos por supuestas se cayeron como un castillo de naipes. Experimentamos cómo, de un día para otro, nuestro modo de vivir puede cambiar drásticamente impidiéndonos, por ejemplo, ver a nuestros familiares, compañeros y amigos. En muchos países los Estados reaccionaron. Escucharon a la ciencia y lograron poner límites para garantizar el bien común y frenaron al menos por un tiempo ese “mecanismo gigantesco” que opera en forma casi automática donde los pueblos y las personas son simples piezas (cf. S. Juan Pablo II, Carta enc. Sollicitudo rei socialis, 22).

Todos hemos sufrido el dolor del encierro, pero a ustedes, como siempre, les tocó la peor parte: en los barrios que carecen de infraestructura básica (en los que viven muchos de ustedes y cientos y cientos y millones de personas) es difícil quedarse en casa, no sólo por no contar con todo lo necesario para llevar adelante las mínimas medidas de cuidado y protección, sino simplemente porque la casa es el barrio. Los migrantes, los indocumentados, los trabajadores informales sin ingresos fijos se vieron privados, en muchos casos, de cualquier ayuda estatal e impedidos de realizar sus tareas habituales agravando su ya lacerante pobreza. Una de las expresiones de esta cultura de la indiferencia es que pareciera que este tercio sufriente de nuestro mundo no reviste interés suficiente para los grandes medios y los formadores de opinión, no aparece. Permanece escondido, acurrucado.

Quiero referirme también a una pandemia silenciosa que desde hace años afecta a niños, adolescentes y jóvenes de todas las clases sociales; y creo que, durante este tiempo de aislamiento, se incrementó aún más. Se trata del estrés y la ansiedad crónica, vinculada a distintos factores como la hiperconectividad, el desconcierto y la falta de perspectivas de futuro que se agrava ante el contacto real con los otros —familias, escuelas, centros deportivos, oratorios, parroquias—; en definitiva, la falta de contacto real con los amigos, porque la amistad es la forma en que el amor resurge siempre.

Es evidente que la tecnología puede ser un instrumento de bien, y es un instrumento de bien que permite diálogos como éste y tantas otras cosas, pero nunca puede suplantar el contacto entre nosotros, nunca puede suplantar una comunidad en la cual enraizarnos y hacer que nuestra vida se vuelva fecunda.

Y si de pandemia se trata, no podemos dejar de cuestionarnos por el flagelo de la crisis alimentaria. Pese a los avances de la biotecnología millones de personas fueron privadas de alimentos, aunque estos estén disponibles. Este año, 20 millones de personas más se han visto arrastradas a niveles extremos de inseguridad alimentaria, ascendiendo a [muchos] millones de personas; la indigencia grave se multiplicó, el precio de los alimentos escaló un altísimo porcentaje. Los números del hambre son horrorosos, y pienso, por ejemplo, en países como Siria, Haití, Congo, Senegal, Yemen, Sudán del Sur pero el hambre también se hace sentir en muchos otros países del mundo pobre y, no pocas veces, también en el mundo rico. Es posible que las muertes por año por causas vinculadas al hambre puedan superar a las del COVID.[1] Pero eso no es noticia, eso no genera empatía.

Quiero agradecerles porque ustedes sintieron como propio el dolor de los otros. Ustedes saben mostrar el rostro de la verdadera humanidad, esa que no se construye dando la espalda al sufrimiento del que está al lado sino en el reconocimiento paciente, comprometido y muchas veces hasta doloroso de que el otro es mi hermano (cf. Lc 10,25-37) y que sus dolores, sus alegrías y sus sufrimientos son también los míos (cf. GS 1). Ignorar al que está caído es ignorar nuestra propia humanidad que clama en cada hermano nuestro.

Cristianos o no, han respondido a Jesús, que dijo a sus discípulos frente al pueblo hambriento: «Denles ustedes de comer» (Mt 14,16). Y donde había escasez, el milagro de la multiplicación se repitió en ustedes que lucharon incansablemente para que a nadie le faltase el pan (cf. Mt 14,13-21). ¡Gracias!

Al igual que los médicos, enfermeros y el personal de salud en las trincheras sanitarias, ustedes pusieron su cuerpo en la trinchera de los barrios marginados. Tengo presente muchos, entre comillas, “mártires” de esa solidaridad sobre quienes supe por medio de muchos de ustedes. El Señor se los tendrá en cuenta.

Si todos los que por amor lucharon juntos contra la pandemia pudieran también soñar juntos un mundo nuevo, ¡qué distinto sería todo! Soñar juntos.

2. Bienaventurados

Ustedes son, como les dije en la carta que les envié el año pasado,[2] un verdadero ejército invisible, son parte fundamental de esa humanidad que lucha por la vida frente a un sistema de muerte. En esa entrega veo al Señor que se hace presente en medio nuestro para regalarnos su Reino. Jesús, cuando nos ofreció el protocolo con el cual seremos juzgados —Mateo 25—, nos dijo que la salvación estaba en cuidar de los hambrientos, los enfermos, los presos, los extranjeros, en definitiva, en reconocerlo y servirlo a Él en toda la humanidad sufriente. Por eso me animo a decirles: «Felices los que tienen hambre y sed de justicia porque serán saciados» (Mt 5,6), «felices los que trabajan por la paz, porque serán llamados hijos de Dios» (Mt 5,9).

Queremos que esa bienaventuranza se extienda, permee y unja cada rincón y cada espacio donde la vida se vea amenazada. Pero nos sucede, como pueblo, como comunidad, como familia e inclusive individualmente, tener que enfrentar situaciones que nos paralizan, donde el horizonte desaparece y el desconcierto, el temor, la impotencia y la injusticia parece que se apoderan del presente. Experimentamos también resistencias a los cambios que necesitamos y que anhelamos, resistencias que son profundas, enraizadas, que van más allá de nuestras fuerzas y decisiones. Esto es lo que la Doctrina social de la Iglesia llamó “estructuras de pecado”, que estamos llamados también nosotros a convertir y que no podemos ignorar a la hora de pensar el modo de accionar. El cambio personal es necesario, pero es imprescindible también ajustar nuestros modelos socio-económicos para que tengan rostro humano, porque tantos modelos lo han perdido. Y pensando en estas situaciones, me vuelvo pedigüeño. Y paso a pedir. A pedir a todos. Y a todos quiero pedirles en nombre de Dios.

A los grandes laboratorios, que liberen las patentes. Tengan un gesto de humanidad y permitan que cada país, cada pueblo, cada ser humano tenga acceso a las vacunas. Hay países donde sólo tres, cuatro por ciento de sus habitantes fueron vacunados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los grupos financieros y organismos internacionales de crédito que permitan a los países pobres garantizar las necesidades básicas de su gente y condonen esas deudas tantas veces contraídas contra los intereses de esos mismos pueblos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones extractivas —mineras, petroleras—, forestales, inmobiliarias, agro negocios, que dejen de destruir los bosques, humedales y montañas, dejen de contaminar los ríos y los mares, dejen de intoxicar los pueblos y los alimentos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a las grandes corporaciones alimentarias que dejen de imponer estructuras monopólicas de producción y distribución que inflan los precios y terminan quedándose con el pan del hambriento.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los fabricantes y traficantes de armas que cesen totalmente su actividad, una actividad que fomenta la violencia y la guerra, y muchas veces en el marco de juegos geopolíticos que cuestan millones de vidas y de desplazamientos.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de la tecnología que dejen de explotar la fragilidad humana, las vulnerabilidades de las personas, para obtener ganancias, sin considerar cómo aumentan los discursos de odio, el grooming, las fake news, las teorías conspirativas, la manipulación política.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los gigantes de las telecomunicaciones que liberen el acceso a los contenidos educativos y el intercambio con los maestros por internet para que los niños pobres también puedan educarse en contextos de cuarentena.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los medios de comunicación que terminen con la lógica de la post-verdad, la desinformación, la difamación, la calumnia y esa fascinación enfermiza por el escándalo y lo sucio, que busquen contribuir a la fraternidad humana y a la empatía con los más vulnerados.

Quiero pedirles en nombre de Dios a los países poderosos que cesen las agresiones, bloqueos, sanciones unilaterales contra cualquier país en cualquier lugar de la tierra. No al neocolonialismo. Los conflictos deben resolverse en instancias multilaterales como las Naciones Unidas. Ya hemos visto cómo terminan las intervenciones, invasiones y ocupaciones unilaterales; aunque se hagan bajo los más nobles motivos o ropajes.

Este sistema con su lógica implacable de la ganancia está escapando a todo dominio humano. Es hora de frenar la locomotora, una locomotora descontrolada que nos está llevando al abismo. Todavía estamos a tiempo.

A los gobiernos en general, a los políticos de todos los partidos quiero pedirles, junto a los pobres de la tierra, que representen a sus pueblos y trabajen por el bien común. Quiero pedirles el coraje de mirar a sus pueblos, mirar a los ojos de la gente, y la valentía de saber que el bien de un pueblo es mucho más que un consenso entre las partes (cf. Exhort. ap. Evangelii gaudium, 218); cuídense de escuchar solamente a las elites económicas tantas veces portavoces de ideologías superficiales que eluden los verdaderos dilemas de la humanidad. Sean servidores de los pueblos que claman por tierra, techo, trabajo y una vida buena. Ese “buen vivir” aborigen que no es lo mismo que la “dolce vita” o el “dolce far niente”, no. Ese buen vivir humano que nos pone en armonía con toda la humanidad, con toda la creación.

Quiero pedir también a todos los líderes religiosos que nunca usemos el nombre de Dios para fomentar guerras ni golpes de Estado. Estemos junto a los pueblos, a los trabajadores, a los humildes y luchemos junto a ellos para que el desarrollo humano integral sea una realidad. Tendamos puentes de amor para que la voz de la periferia con sus llantos, pero también con su canto y también con su alegría, no provoque miedo sino empatía en el resto de la sociedad.

Y así soy pedigüeño.

Es necesario que juntos enfrentemos los discursos populistas de intolerancia, xenofobia, aporofobia —que es el odio a los pobres—, como todos aquellos que nos lleve a la indiferencia, la meritocracia y el individualismo; estas narrativas sólo sirvieron para dividir nuestros pueblos y minar y neutralizar nuestra capacidad poética, la capacidad de soñar juntos.

3. Soñemos juntos

Hermanas y hermanos, soñemos juntos. Y así, como pido esto con ustedes, junto a ustedes, quiero también trasmitirles algunas reflexiones sobre el futuro que debemos construir y soñar. Dije reflexiones, pero tal vez cabría decir sueños, porque en este momento no alcanza el cerebro y las manos, necesitamos también el corazón y la imaginación: necesitamos soñar para no volver atrás. Necesitamos utilizar esa facultad tan excelsa del ser humano que es la imaginación, ese lugar donde la inteligencia, la intuición, la experiencia, la memoria histórica se encuentran para crear, componer, aventurar y arriesgar. Soñemos juntos, porque fueron precisamente los sueños de libertad e igualdad, de justicia y dignidad, los sueños de fraternidad los que mejoraron el mundo. Y estoy convencido de que en esos sueños se va colando el sueño de Dios para todos nosotros, que somos sus hijos.

Soñemos juntos, sueñen entre ustedes, sueñen con otros. Sepan que están llamados a participar en los grandes procesos de cambio, como les dije en Bolivia: «El futuro de la humanidad está, en gran medida, en sus manos, en su capacidad de organizarse, de promover alternativas creativas» (Discurso a los movimientos populares, Santa Cruz de la Sierra, 9 julio 2015). Está en sus manos.

“Pero esas son cosas inalcanzables”, dirá alguno. Sí. Pero tienen la capacidad de ponernos en movimiento, de ponernos en camino. Y ahí reside precisamente toda la fuerza de ustedes, todo el valor de ustedes. Porque son capaces de ir más allá de miopes autojustificaciones y convencionalismos humanos que lo único que logran es seguir justificando las cosas como están. Sueñen. Sueñen juntos. No caigan en esa resignación dura y perdedora… El tango lo expresa tan bien: “Dale que va, que todo es igual. Que allá en el horno se vamo a encontrar”. No, no, no caigan en eso por favor. Los sueños son siempre peligrosos para aquellos que defienden el statu quo porque cuestionan la parálisis que el egoísmo del fuerte o el conformismo del débil quieren imponer. Y aquí hay como un pacto no hecho, pero es inconsciente: el egoísmo del fuerte con el conformismo del débil. Esto no puede funcionar así. Los sueños desbordan los límites estrechos que se nos imponen y nos proponen nuevos mundos posibles. Y no estoy hablando de ensoñaciones rastreras que confunden el vivir bien con pasarla bien, que no es más que un pasar el rato para llenar el vacío de sentido y así quedar a merced de la primera ideología de turno. No, no es eso, sino soñar, para ese buen vivir en armonía con toda la humanidad y con la creación.

Pero, ¿cuál es uno de los peligros más grandes que enfrentamos hoy? A lo largo de mi vida —no tengo quince años, o sea, cierta experiencia tengo—, pude darme cuenta de que de una crisis nunca se sale igual. De esta crisis de la pandemia no vamos a salir igual: o se sale mejor o se sale peor, igual que antes, no. Pero nunca saldremos igual. Y hoy día tenemos que enfrentar juntos, siempre juntos, esta cuestión: ¿Cómo saldremos de estas crisis? ¿Mejores o peores? Queremos salir ciertamente mejores, pero para eso debemos romper las ataduras de lo fácil y la aceptación dócil de que no hay otra alternativa, de que “éste es el único sistema posible”, esa resignación que nos anula, de que sólo podemos refugiarnos en el “sálvese quien pueda”. Y para eso hace falta soñar. Me preocupa que mientras estamos todavía paralizados, ya hay proyectos en marcha para rearmar la misma estructura socioeconómica que teníamos antes, porque es más fácil. Elijamos el camino difícil, salgamos mejor.

En Fratelli tutti utilicé la parábola del Buen Samaritano como la representación más clara de esta opción comprometida en el Evangelio. Me decía un amigo que la figura del Buen Samaritano está asociada por cierta industria cultural a un personaje medio tonto. Es la distorsión que provoca el hedonismo depresivo con el que se pretende neutralizar la fuerza transformadora de los pueblos y en especial de la juventud.

¿Saben lo que me viene a la mente a mí ahora, junto a los movimientos populares, cuando pienso en el Buen Samaritano? ¿Saben lo que me viene a la mente? Las protestas por la muerte de George Floyd. Está claro que este tipo de reacciones contra la injusticia social, racial o machista pueden ser manipuladas o instrumentadas para maquinaciones políticas y cosas por el estilo; pero lo esencial es que ahí, en esa manifestación contra esa muerte, estaba el “samaritano colectivo” —¡que no era ningún bobeta!—. Ese movimiento no pasó de largo cuando vio la herida de la dignidad humana golpeada por semejante abuso de poder. Los movimientos populares son, además de poetas sociales, “samaritanos colectivos”.

En estos procesos hay tantos jóvenes que yo siento esperanza…; pero hay muchos otros jóvenes que están tristes, que tal vez para sentir algo en este mundo necesitan recurrir a las consolaciones baratas que ofrece el sistema consumista y narcotizante. Y otros, es triste, pero otros optan por salir del sistema. Las estadísticas de suicidios juveniles no se publican en su total realidad. Lo que ustedes realizan es muy importante, pero también es importante que logren contagiar a las generaciones presentes y futuras lo mismo que a ustedes les hace arder el corazón. Tienen en esto un doble trabajo o responsabilidad. Seguir atentos, como el buen Samaritano, a todos aquellos que están golpeados por el camino pero, a su vez, buscar que muchos más se sumen en este sentir: los pobres y oprimidos de la tierra se lo merecen, nuestra casa común nos lo reclama.

Quiero ofrecer algunas pistas. La Doctrina social de la Iglesia no tiene todas las respuestas, pero sí algunos principios que pueden ayudar a este camino a concretizar las respuestas y ayudar tanto a los cristianos como a los no cristianos. A veces me sorprende que cada vez que hablo de estos principios algunos se admiran y entonces el Papa viene catalogado con una serie de epítetos que se utilizan para reducir cualquier reflexión a la mera adjetivación degradatoria. No me enoja, me entristece. Es parte de la trama de la post-verdad que busca anular cualquier búsqueda humanista alternativa a la globalización capitalista, es parte de la cultura del descarte y es parte del paradigma tecnocrático.

Los principios que expongo son mesurados, humanos, cristianos, compilados en el Compendio elaborado por el entonces Pontificio Consejo “Justicia y Paz”.[3] Es un manualito de la Doctrina social de la Iglesia. Y a veces cuando los Papas, sea yo, o Benedicto, o Juan Pablo II decimos alguna cosa, hay gente que se extraña, ¿de dónde saca esto? Es la doctrina tradicional de la Iglesia. Hay mucha ignorancia en esto. Los principios que expongo, están en ese libro, en el capítulo cuarto. Quiero aclarar una cosa, están compilados en este Compendio y este Compendio fue encargado por san Juan Pablo ll. Les recomiendo a ustedes y a todos los líderes sociales, sindicales, religiosos, políticos y empresarios que lo lean.

En el capítulo cuarto de este documento encontramos principios como la opción preferencial por los pobres, el destino universal de los bienes, la solidaridad, la subsidiariedad, la participación, el bien común, que son mediaciones concretas para plasmar a nivel social y cultural la Buena Noticia del Evangelio. Y me entristece cuando algunos hermanos de la Iglesia se incomodan si recordamos estas orientaciones que pertenecen a toda la tradición de la Iglesia. Pero el Papa no puede dejar de recordar esta doctrina, aunque muchas veces le moleste a la gente, porque lo que está en juego no es el Papa sino el Evangelio.

Y en este contexto, quisiera rescatar brevemente algunos principios con los que contamos para llevar adelante nuestra misión. Mencionaré dos o tres, no más. Uno es el principio de solidaridad. La solidaridad no sólo como virtud moral sino como un principio social, principio que busca enfrentar los sistemas injustos con el objetivo de construir una cultura de la solidaridad que exprese —literalmente dice el Compendio— «una determinación firme y perseverante de empeñarse por el bien común» (n. 193).

Otro principio es estimular y promover la participación y la subsidiariedad entre movimientos y entre los pueblos capaz de limitar cualquier esquema autoritario, cualquier colectivismo forzado o cualquier esquema estado céntrico. El bien común no puede utilizarse como excusa para aplastar la iniciativa privada, la identidad local o los proyectos comunitarios. Por eso, estos principios promueven una economía y una política que reconozca el rol de los movimientos populares, «la familia, los grupos, las asociaciones, las realidades territoriales locales; en definitiva, aquellas expresiones agregativas de tipo económico, social, cultural, deportivo, recreativo, profesional y político, a las que las personas dan vida espontáneamente y que hacen posible su efectivo crecimiento social». Esto en el número 185 del Compendio.

Como ven, queridos hermanos, queridas hermanas, son principios equilibrados y bien establecidos en la Doctrina social de la Iglesia. Con estos dos principios creo que podemos dar el próximo paso del sueño a la acción. Porque es tiempo de actuar.

4. Tiempo de actuar

Muchas veces me dicen: “Padre, estamos de acuerdo, pero, en concreto, ¿qué debemos hacer?”. Yo no tengo la respuesta, por eso debemos soñar juntos y encontrarla entre todos. Sin embargo, hay medidas concretas que tal vez permitan algunos cambios significativos. Son medidas que están presentes en vuestros documentos, en vuestras intervenciones y que yo he tomado muy en cuenta, sobre las que medité y consulté a especialistas. En encuentros pasados hablamos de la integración urbana, la agricultura familiar, la economía popular. A estas, que todavía exigen seguir trabajando juntos para concretarlas, me gustaría sumarle dos más: el salario universal y la reducción de la jornada de trabajo.

Un ingreso básico (el IBU) o salario universal para que cada persona en este mundo pueda acceder a los más elementales bienes de la vida. Es justo luchar por una distribución humana de estos recursos. Y es tarea de los Gobiernos establecer esquemas fiscales y redistributivos para que la riqueza de una parte sea compartida con la equidad sin que esto suponga un peso insoportable, principalmente para la clase media —generalmente, cuando hay estos conflictos, es la que más sufre—. No olvidemos que las grandes fortunas de hoy son fruto del trabajo, la investigación científica y la innovación técnica de miles de hombres y mujeres a lo largo de generaciones.

La reducción de la jornada laboral es otra posibilidad, el ingreso básico uno, es una posibilidad, la otra es la reducción de la jornada laboral. Y hay que analizarla seriamente. En el siglo XIX los obreros trabajaban doce, catorce, dieciséis horas por día. Cuando conquistaron la jornada de ocho horas no colapsó nada como algunos sectores preveían. Entonces, insisto, trabajar menos para que más gente tenga acceso al mercado laboral es un aspecto que necesitamos explorar con cierta urgencia. No puede haber tantas personas agobiadas por el exceso de trabajo y tantas otras agobiadas por la falta de trabajo.

Considero que son medidas necesarias, pero desde luego no suficientes. No resuelven el problema de fondo, tampoco garantizan el acceso a la tierra, techo y trabajo en la cantidad y calidad que los campesinos sin tierras, las familias sin un techo seguro y los trabajadores precarios merecen. Tampoco van a resolver los enormes desafíos ambientales que tenemos por delante. Pero quería mencionarlas porque son medidas posibles y marcarían un cambio positivo de orientación.

Es bueno saber que en esto no estamos solos. Las Naciones Unidas intentaron establecer algunas metas a través de los llamados Objetivos de Desarrollo Sostenible (ODS), pero lamentablemente desconocidas por nuestros pueblos y las periferias; lo que nos recuerda la importancia de compartir y comprometer a todos en esta búsqueda común.

Hermanas y hermanos, estoy convencido de que el mundo se ve más claro desde las periferias. Hay que escuchar a las periferias, abrirle las puertas y permitirles participar. El sufrimiento del mundo se entiende mejor junto a los que sufren. En mi experiencia, cuando las personas, hombres y mujeres que han sufrido en carne propia la injusticia, la desigualdad, el abuso de poder, las privaciones, la xenofobia, en mi experiencia veo que comprenden mucho mejor lo que viven los demás y son capaces de ayudarlos a abrir, realísticamente, caminos de esperanza. Qué importante es que vuestra voz sea escuchada, representada en todos los lugares de toma de decisión. Ofrecerla como colaboración, ofrecerla como una certeza moral de lo que hay que hacer. Esfuércense para hacer sentir su voz y también en esos lugares, por favor, no se dejen encorsetar ni se dejen corromper. Dos palabras que tienen un significado muy grande, que yo no voy a hablar ahora.

Reafirmemos el compromiso que tomamos en Bolivia: poner la economía al servicio de los pueblos para construir una paz duradera fundada en la justicia social y el cuidado de la Casa común. Sigan impulsando su agenda de tierra, techo y trabajo. Sigan soñando juntos. Y gracias, gracias en serio, por dejarme soñar con ustedes.

Pidámosle a Dios que derrame su bendición sobre nuestros sueños. No perdamos las esperanzas. Recordemos la promesa que Jesús hizo a sus discípulos: “siempre estaré con ustedes” (cf. Mt 28,20); y recordándola, en este momento de mi vida, quiero decirles también que yo voy a estar con ustedes. También lo importante es que se den cuenta de que está Él con ustedes. Gracias.

_____________________

[1] “El virus del hambre se multiplica”, Informe de Oxfam del 9 de julio de 2021, en base al Global Report on Food Crises (GRFC) del Programa Mundial de Alimentos de las Naciones Unidas.
[2] Carta a los movimientos populares, 12 abril 2020.
[3] Dicasterio para el Servicio del Desarrollo Humano Integral, Compendio de la Doctrina Social de la Iglesia, 2004.

[01413-ES.01] [Texto original: https://movpop.org/wp-content/uploads/2021/07/IT-Comunicato-stampa-2-IV-IMMP.pdf
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Traduzione in lingua italiana

Sorelle, fratelli, cari poeti sociali!

1. Cari poeti sociali

Così mi piace chiamarvi, “poeti sociali”. Perché voi siete poeti sociali, in quanto avete la capacità e il coraggio di creare speranza laddove appaiono solo scarto ed esclusione. Poesia vuol dire creatività, e voi create speranza. Con le vostre mani sapete forgiare la dignità di ciascuno, quella delle famiglie e quella dell’intera società con la terra, la casa e il lavoro, la cura e la comunità. Grazie perché la vostra dedizione è parola autorevole, capace di smentire i rinvii silenziosi e tante volte “educati” a cui siete stati sottoposti, o a cui sono sottoposti tanti nostri fratelli. Ma pensando a voi credo che la vostra dedizione sia principalmente un annuncio di speranza. Vedervi mi ricorda che non siamo condannati a ripetere né a costruire un futuro basato sull’esclusione e la disuguaglianza, sullo scarto o sull’indifferenza; dove la cultura del privilegio sia un potere invisibile e insopprimibile e lo sfruttamento e l’abuso siano come un metodo abituale di sopravvivenza. No! Questo voi lo sapete annunciare molto bene. Grazie.
[segue]

CheFare? Buone pratiche

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CHE FARE?
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Volere la Luna: che fare? Un confronto aperto
22-09-2021 – di: Livio Pepino

L’ultima assemblea e la festa di Volere la Luna appena conclusa ci hanno lasciato alcuni punti fermi e la comune convinzione della necessità, per il nostro futuro, di un supplemento di riflessione. Il modo migliore per farlo è aprire un ampio confronto: tra di noi, con i nostri interlocutori abituali e con chi ci guarda con interesse. Finita l’estate possiamo partire, prendendo le mosse da alcuni dati e dalla riflessione assembleare.

1.
Tre anni fa, quando abbiamo costituito Volere la Luna, lo abbiamo fatto partendo da un’analisi sintetizzata così nel preambolo dello statuto
:

L’Associazione “VOLERE LA LUNA – Laboratorio di cultura politica e di buone pratiche” nasce dalla constatazione degli enormi cambiamenti prodotti dalla grande trasformazione di fine-secolo, con la conseguente crisi economica e sociale, e dalla necessità di sperimentare risposte nuove e adeguate. L’aumento vertiginoso delle diseguaglianze, la rottura dei legami sociali e della solidarietà, la crescita della povertà e dell’indigenza, vissute troppo spesso in solitudine, l’imbarbarimento del comune sentire (con la sua coda velenosa di aggressività, disprezzo di sé e dell’altro, xenofobia e razzismo), sono gli effetti più evidenti. Così come l’indebolirsi delle forme di partecipazione e della rappresentanza, soprattutto per gli strati più fragili, e la sempre più evidente inefficacia degli strumenti tradizionali di difesa e di giustizia sociale, dal welfare alle forme di organizzazione politica e sociale (partiti e sindacati).

La prima verifica deve, dunque, riguardare la perdurante correttezza (o meno) di quell’analisi. E la risposta è, purtroppo, assai agevole.
La situazione economica, sociale e politica si è, in questi tre anni, ulteriormente aggravata, e non solo per la comparsa della pandemia. In estrema sintesi, e limitandosi alla situazione nazionale (che, per quella internazionale, il tragico fallimento dell’ennesimo tentativo di “esportare la democrazia con le armi”, questa volta in Afghanistan, è tanto clamoroso da non richiedere commenti):

a1) l’involuzione del sistema politico ha assunto proporzioni macroscopiche. Abbiamo l’ennesimo governo di tecnici, ancor più inquietante di quelli del passato: guidato dal banchiere simbolo di quel potere economico-finanziario che, nell’ultimo decennio, ha soppiantato la politica; con il potere reale, all’interno del Governo, affidato a un bureau emanazione diretta del presidente; con un prefetto e l’ex capo della polizia in posti chiave; con l’attribuzione dei “pieni poteri” per l’emergenza Covid a un generale che partecipa alle riunioni istituzionali e percorre il Paese in tuta mimetica o con una sfilza di onorificenze sul petto (tanto da evocare inquietanti figure di governi sudamericani di qualche decennio fa). E ciò avviene con l’euforico consenso dei partiti tradizionali (ormai indistinti nelle scelte economiche e di politica internazionale), senza reale opposizione da parte delle organizzazioni sindacali tradizionali (salvo eccezioni impercettibili) e con l’unanime appoggio della grande stampa (segnata da una ulteriore concentrazione). Morta la speranza (dettata dalla disperazione più che da segnali specifici) che il M5Stelle introducesse nella scena politica elementi di rinnovamento e confermata l’incapacità di aggregazione dei frammenti di quella che un tempo si chiamava sinistra radicale, il futuro del Paese, stando ai sondaggi (e ferme le eccezioni di alcune città), vedrà l’egemonia della destra, con l’unica incertezza di chi ne sarà l’azionista di maggioranza;

a2) a fronte di ciò continua, in modo evitabile e sacrosanto, la fuga dei cittadini da questa politica (come dimostra il flop delle primarie del centro-sinistra nelle grandi città) e deperiscono fino a scomparire gli stessi luoghi della rappresentanza, a cominciare dal Parlamento (minato dalla incapacità di affrontare i temi fondamentali, dalla delegittimazione intervenuta con la demagogica riduzione dei parlamentari e dalla sirena vincente del maggioritario) della cui esistenza non si accorge più nessuno;

a3) intanto la povertà e la disuguaglianza sono ulteriormente cresciute (a livello nazionale e nei territori). Pochi mesi fa il report annuale dell’Istat ha fotografato la crisi segnalando che, nel nostro Paese, sono in condizioni di povertà assoluta oltre 2 milioni di famiglie, pari a 5,6 milioni di persone, e in condizioni di povertà relativa 2,6 milioni di famiglie, pari a 8 milioni di persone. E ciò avviene non per mancanza di ricchezza ma per la distribuzione abissalmente diseguale delle risorse, che si è ulteriormente aggravata durante la pandemia (basti pensare che nel 2020 i 36 miliardari italiani hanno guadagno 45,6 miliardi in più rispetto al 2019). Né si vedono prospettive di una inversione di tendenza, neppure grazie agli ingenti fondi europei di prossima erogazione, posto che il Piano nazionale di ripresa e resilienza – al di là di alcuni riconoscimenti di facciata – resta solidamente ancorato al modello di sviluppo che ha portato alla crisi sociale, economica e ambientale in atto, come dimostra icasticamente il fatto che in una delle sue ultime formulazioni il PNRR ripeteva ben 257 volte i termini “concorrenza”, “impresa” e “competizione”, mentre la parola “disuguaglianze” si affacciava solo 7 volte (due delle quali riferite al genere).

In questo quadro è verosimile che la conflittualità diffusa prodotta dalla catastrofe sociale (che si acuirà con lo sblocco dei licenziamenti e degli sfratti) non trovi interpreti adeguati e che ad essa si risponda con una ulteriore involuzione autoritaria del sistema (già anticipata dalle politiche migratorie e dai vari decreti sicurezza). Lo segnalano anche fonti non sospette, come il papa di Roma: «La persona fragile, vulnerabile, si trova indifesa davanti agli interessi del mercato divinizzato, diventati regola assoluta. Oggi, alcuni settori economici esercitano più potere che gli stessi Stati: una realtà che risulta ancora più evidente in tempi di globalizzazione del capitale speculativo. Il principio di massimizzazione del profitto, isolato da ogni altra considerazione, conduce a un modello di esclusione – automatico! – che infierisce con violenza su coloro che patiscono nel presente i suoi costi sociali ed economici, mentre si condannano le generazioni future a pagarne i costi ambientali. […] Questo fenomeno mette a rischio le istituzioni democratiche e lo stesso sviluppo dell’umanità. In concreto, la sfida presente […] è quella di contenere l’irrazionalità punitiva, che si manifesta, tra l’altro, in reclusioni di massa, affollamento e torture nelle prigioni, arbitrio e abusi delle forze di sicurezza, espansione dell’ambito della penalità, la criminalizzazione della protesta sociale, l’abuso della reclusione preventiva e il ripudio delle più elementari garanzie penali e processuali» (discorso indirizzato dal Papa il 15 novembre 2019 ai partecipanti al XX Congresso mondiale Associazione internazionale di diritto penale).
L’analisi che stava alla base della costituzione di Volere la Luna ne esce ampiamente confermata e, con essa, la scelta di rimanere fuori dalle dinamiche della politica istituzionale e delle competizioni elettorali (anche solo per sostenere il meno peggio).

2.
Più complicato è, come sempre, il che fare. Anche in questo caso conviene partire dal progetto esposto nel preambolo dello statuto
:

Volere la luna significa proporsi quello che può sembrare impossibile a molti, ma che in realtà dovrebbe essere normale: cambiare radicalmente il proprio modo di essere, di pensare, agire, cooperare e aggregarsi, tenendo fermi i valori di riferimento di un solidarismo radicale. Il mondo è cambiato, è ora di cambiare noi stessi. E il nostro modo di stare insieme. A cominciare da tre obiettivi primari: contrastare le diseguaglianze, promuovere ma soprattutto praticare forme di partecipazione solidale, favorire la rinascita di un pensiero libero e critico. Cioè non limitarsi a proclamare i propri valori, ma praticarli concretamente, con azioni positive quotidiane, creazione di occasioni di prossimità, di spazi, anche limitati, di relazione, di strumenti di comunicazione aperti e critici.

Ci abbiamo provato e ci stiamo provando. Ed è dalla valutazione dell’esperienza che dobbiamo muovere per definire le prospettive future. Due le principale linee su cui ci siamo mossi:

b1) anzitutto abbiamo cercato e trovato un luogo in cui radicarci, almeno a Torino, convinti che senza una presenza fisica sul territorio non ci siano le condizioni per promuovere partecipazione solidale. Quel luogo è la casetta di via Trivero, con annessi capannone e pergolato. Lì abbiamo cominciato a costruire relazioni (con le persone e con le realtà associative più prossime) e a sviluppare attività sociali (sportelli gratuiti di consulenza legale, sanitaria e sulla casa; partecipazione a interventi di aiuto materiale alle fasce di popolazione più in difficoltà; offerta di “pasti sospesi”, anche per promuovere socialità) e culturali (film, dibattiti, presentazione libri, mostre, biblioteca). I risultati sono, per ora, ridotti, per un doppio ordine di ragioni: i limiti imposti dalla normativa per la prevenzione della pandemia (che da un anno e mezzo hanno inevitabilmente abbattuto le attività in presenza e i rapporti diretti) e il mancato incremento del numero di persone coinvolte, in particolare di giovani (per ragioni molteplici, non ultima delle quali ancora la pandemia). Non mancano, peraltro, i progetti, considerata l’auspicabile normalizzazione delle attività e i lavori in programma per rendere i locali più agibili soprattutto nel periodo invernale, a cominciare dall’apertura di un’aula studio, di un forno per la panificazione comunitaria una volta la settimana e via elencando;

b2) parallelamente abbiamo cercato di contribuire alla rinascita di un pensiero libero e critico, essenzialmente su due piani: la realizzazione e l’implementazione del sito e l’organizzazione di momenti di formazione via web (ultimo dei quali il ciclo di studio sul Piano nazionale di ripresa e resilienza dello scorso luglio). Il sito ha raggiunto in questi anni un numero lusinghiero di collaboratori (oltre 100, a dimostrazione della progressiva costruzione di una vera e propria comunità di riferimento) e di visitatori (una media di 60.000 mensili, che non sono pochi per un sito funzionante esclusivamente sul volontariato dei redattori) ed ha avuto molti riconoscimenti circa la qualità e tempestività di interventi. Più difficile si è rivelato, invece, il decollo degli incontri di formazione che, forse anche per la stanchezza del lavoro via web, hanno avuto un numero di fruitori modesto.

Quali, a questo punto, le direttrici e le prospettive di lavoro? Essenzialmente tre, secondo le indicazioni emerse dall’assemblea:

c1) proseguire e intensificare il radicamento nel territorio con una presenza continuativa e solidale capace di creare comunità e partecipazione. È questo il presupposto per un reale rinnovamento della politica: non andare nei territori (come ormai tutti, a parole, sostengono) ma esserci (che è cosa profondamente diversa e che risponde a una logica di coinvolgimento e non di colonizzazione). Ciò significa, da un lato, consolidare l’esperienza torinese e promuovere e realizzare altrove esperienze analoghe; dall’altro, definire meglio le attività e modalità di presenza nel territorio;

c2) potenziare il sito come luogo di confronto, di approfondimento, di segnalazione di buone pratiche nella direzione di “un altro mondo possibile”. Ciò richiede una supplemento di riflessione sulle nostre modalità di comunicazione, un ulteriore allargamento della comunità dei collaboratori e, soprattutto, la costruzione di una rete con siti analoghi (nella convinzione che solo una dimensione collettiva può determinare, per tutti, un salto di qualità);

c3) lavorare a una formazione-azione politica a livello nazionale. È, all’evidenza, il settore più difficile per carenza di risorse e di presenza nel Paese ma è una prospettiva ineludibile (anche qui senza velleità di autosufficienza e nella consapevolezza che il percorso sarà lungo e senza scorciatoie). Le vie principali finora perseguite e da consolidare – certamente insufficienti ma utili come punto di partenza – sono la costruzione di una sorta di scuola di formazione politica (da organizzare con una pluralità di altri soggetti e con metodologie partecipative) e l’impegno in alcune campagne politiche strategiche e capaci di coinvolgimento (la modifica in senso proporzionale della legge elettorale, una politica dell’abitare solidale e che salvaguardi il territorio, nuove tutele del lavoro etc.)

È, quella sin qui esposta, una semplice scaletta, una traccia per un confronto di cui abbiamo bisogno per proseguire. Speriamo che sia un confronto ampio, franco e propositivo. Ad esso vogliamo dedicarci nei prossimi mesi.
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DIBATTITO. CHE FARE?
Stare nei territori, ma anche ridefinire un progetto
11-10-2021 – di: Riccardo Barbero su VOLERELALUNA.
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Oggi&Domani Che fare? “Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Ce lo dice un Nobel

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La percezione della scienza nella società: intervista a Giorgio Parisi, nobel per la fisica
Alberto Silvani

Sbilanciamoci! 5 Ottobre 2021 | Sezione: Alter, Nella rete
“La scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato”. Intervista al premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi da Articolo33.

È passato un po’ di tempo da quando, a fine maggio il Senato ha approvato un Disegno di legge sull’Agricoltura biologica, col solo voto contrario della Sen. Elena Cattaneo, che ha equiparato – in un passaggio del testo – l’agricoltura biologica con quella biodinamica, caratterizzata da pratiche e codici di comportamento ascientifici. La questione ci fornisce lo spunto, ripresa con la giusta distanza temporale, per sviluppare alcune riflessioni sul ruolo della scienza, sul processo di avanzamento scientifico, sul rapporto tra scienza e società.

Il primo interlocutore a cui ci rivolgiamo è il Prof. Giorgio Parisi, eminente fisico della Sapienza di cui è appena terminato il mandato di Presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei*.

Il Prof. Parisi ha ricevuto il 5 ottobre 2021, il premio nobel per la fisica. Premiato per le sue ricerche sui sistemi complessi insieme agli studiosi del clima Syukuro Manabe e Klaus Hasselmann. Era dal 1984 con Carlo Rubbia che l’Italia non vinceva un Nobel per la fisica.

Parisi ha sempre associato l’eccellenza scientifica con la capacità di intervenire sulle problematiche della politica scientifica e non solo, come è avvenuto anche nell’ultimo anno e mezzo di pandemia. Pubblichiamo una sua intervista rilasciata per noi da Alberto Silvani.

Cosa si dovrebbe fare per aumentare la percezione del ruolo della scienza nella società e, su questa base, motivare le scelte in suo favore, approfittando del rinnovato interesse da parte dell’opinione pubblica?

La comunità scientifica tende a comunicare poco con la società perché in fondo non crede che questo sia il suo mestiere. Ciò viene confermato da come viene realizzata questa comunicazione, come abbiamo visto in questi mesi di sovraesposizione mediatica. Bisogna formare figure professionali di “comunicatori” ma anche intervenire sulla capacità di trasferire la metodologia scientifica anziché limitarsi ad accendere l’interesse sul singolo risultato. Il processo scientifico porta a realizzare un consenso a partire da ipotesi diverse, a volte contrapposte. La scienza lavora così, per avanzamenti successivi, e questo richiede tempo anche perché il processo presuppone la peer review dei diversi contributi. Il vero successo del singolo contributo dipende sia dalla rivista su cui è pubblicato ma, soprattutto, da come reagiscono i lettori, da come fanno proprio il contenuto e da come danno seguito, nel proprio lavoro e nelle citazioni, a quanto l’articolo vuole comunicare.

La sanità costituisce una realtà specifica, evidenziata dall’esperienza della pandemia. In cosa si caratterizza?

La sanità richiede “sicurezza” circa la rilevanza e il significato dei risultati e, soprattutto, una consapevolezza del rapporto tra i benefici e i rischi, in particolare sugli effetti che si generano, non necessariamente limitati a quelli auspicati o aspettati. Potrei citare vari esempi, anche come testimonianza diretta…senza dimenticare che esistono interessi che ne condizionano le scelte. Ogni risultato deve essere sempre sottoposto a commenti e validazioni che presuppongono procedure, gruppi di controllo e numerosità statisticamente significative.

La sanità è stata associata, in particolare in questo periodo, al grande tema delle fake news. Perchè il metodo scientifico non basta per sconfiggere le fake news? Che fare?

In alcuni casi vanno anche contro il senso comune: bisogna, ovviamente, smascherare le falsità. Le fake news si propagano perché spesse volte confermano le opinioni che avevano già le persone. Ad esempio il caso dei vaccini è emblematico in tal senso perché, pur di evitare il vaccino, si ipotizza l’esistenza di cure e terapie domiciliari ma non comunicate. Curare la comunicazione, e non è un gioco di parole, richiede che i comunicatori siano in grado di non attirare su di sé pregiudizi negativi che ostacolino la comprensione e la credibilità del messaggio che si vuole fornire. Non basta cioè dire le cose corrette se non si è in grado di costruire il messaggio e di veicolarlo nel modo giusto, potendo utilizzare le competenze e i contributi a supporto. Le trasmissioni televisive in particolare soffrono di due problemi: una certa tendenza a favorire gli scontri e le contrapposizioni (che fanno audience) e i tempi stretti che impediscono lo sviluppo di ragionamenti compiuti e articolati. Faccio una modesta proposta: prevedere l’obbligo di un incontro precedente alla formale messa in onda per consentire un confronto approfondito e preventivo in modo da realizzare poi, anche nei tempi ristretti delle trasmissioni, la focalizzazione delle questioni e delle opinioni.

Più conoscenza e più formazione hanno rappresentato da sempre gli obiettivi per realizzare una società più giusta e più equilibrata, indirizzata al futuro piuttosto che condizionata dal passato. La tecnologia ha spesso fornito il supporto per rendere praticabili questi obiettivi. Bisogna aggiornare la formula? Aggiungere elementi?

Uno dei problemi seri derivava dal fatto che la scienza era associata alla garanzia di un futuro migliore. Ora non è più così, anzi spesse volte alla scienza vengono addebitate colpe e responsabilità. Se ne esce solo con più scienza e non con un improbabile ritorno al passato. Ma questo non è ben percepito. La tecnologia, come applicazione della scienza, risente di avanzamenti scientifici non pensati in una mera prospettiva tecnologica. La gran parte della popolazione coglie (e usa) la tecnologia senza interrogarsi quanta e quale scienza ci sia dietro. Dai transistor, alla crittografia dei messaggi o ai led ad alta potenza.

Quanta è democratica la scienza? Qual è la tua opinione in proposito? In che misura l’opinione pubblica condiziona l’avanzamento della scienza?

La scienza deve fare i conti con le risorse. Se queste sono scarse, finiscono per condizionare le scelte, se non altro perché bisogna convincere i cittadini/elettori/contribuenti che i soldi sono ben spesi. E la ricerca non è democratica non perché “non si può votare”, ma perché richiede che ci sia un riconoscimento reciproco che deriva da un bagaglio conoscitivo condiviso anche se non necessariamente convergente.

Questo però implica un rischio di conservazione ovvero di ostacolo e freno al nuovo, già a partire dalle valutazioni di peer review.

Le nuove idee si affermano non perché si convincono gli oppositori ma perché i portatori di quelle precedenti muoiono, come diceva Planck. Per le idee estremamente nuove ci vuole tempo per il consenso.

Un’ultima domanda sul caso italiano e sul peculiare momento che stiamo vivendo. Conosciamo l’appello per le risorse, noto come Piano Amaldi, e la tua convinta adesione. Ma accanto alle risorse ci sono altre priorità concretamente spendibili nello scenario che si prospetta nei prossimi anni?

Ci sono tanti problemi. La ricerca è a macchia di leopardo: accanto ad eccellenze ci sono inefficienze. Alcuni poi hanno utilizzato la propria influenza come effettivo centro di potere, senza bilanciamenti adeguati. E questo ha dato luogo a scandali (certamente da non sottovalutare) ma quando va male si finisce sui giornali, quando va bene questo non ha visibilità. Da molti anni si cerca di realizzare un punto di riflessione con scienziati di ottimo livello in grado di costituire un interlocutore per le scelte governative ma anche quando un tale organo viene istituito non se ne tiene conto nell’operatività. La stessa Agenzia Nazionale, oltre a non essere decollata, richiede tempi lunghi e consensi politici. Ha senso solo se raccoglie risorse distribuite oggi in altre sedi, se resta “leggera” e se impiega il tutto in una logica competitiva e verso obiettivi chiari ed espliciti. Non che di ripensamenti organizzativi non ci sia bisogno ma questi hanno molto faticato a tenere insieme dichiarazioni e scelte e, soprattutto, a consolidarsi nel tempo.

Siamo ora in presenza della grande opportunità del PNRR ma questo non può essere l’unica scelta, se non altro perché tocca una parte dei problemi ed è a scadenza. L’importante è già porsi oggi il disegno complessivo ed accompagnare il sostegno delle risorse addizionali con nuove risorse “stabili”, ovvero a valere sul bilancio ordinario. Registro una nuova sensibilità su questi temi ma la conferma non può che essere a breve termine. La legge di bilancio del prossimo anno sarà una cartina di tornasole tra dichiarazioni, volontà e comportamenti.
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L’INTERVISTA SU ARTICOLO 33
05 OTTOBRE 2021
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NEWS CNR
gp-2A Giorgio Parisi il Wolf Prize per la Fisica 2021
10/02/2021 (2 ottobre 2021)
Giorgio Parisi
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Nobel per la fisica a Giorgio Parisi
Ott 2021
“L’assegnazione del premio Nobel al fisico Giorgio Parisi inorgoglisce tutta l’Italia e anche il Consiglio nazionale delle ricerche, con il quale il fisico ha sempre intrattenuto stretti rapporti di collaborazione proseguiti ancora di recente con le attività svolte in associatura al nostro Istituto Nanotec”, ha dichiarato Maria Chiara Carrozza, presidente del Cnr. “Oltre a compiacerci per questo straordinario risultato – che segue di poco quello del *Clarivate Citation Laureates 2021 che lo riconosce studioso più citato al mondo per le pubblicazioni scientifiche – *la nostra comunità scientifica lo ringrazia sentitamente per il contributo fondamentale nello studio dei sistemi complessi disordinati alla base di tante linee di ricerca del Cnr, dallo studio dei sistemi vetrosi, ai sistemi di lasing e trasmissione della luce in mezzi random, dalle reti neurali e IA, alle reti metaboliche e alla biofisica. Lamentiamo spesso, e purtroppo a ragione, le molte difficoltà nelle quali si dibatte la ricerca italiana, dalla scarsità di risorse umane e finanziarie alla burocratizzazione, ma questo premio è solo l’ultima e straordinaria conferma dell’eccellenza della ricerca scientifica italiana”.
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Il Nobel segue un altro prestigioso premio
Il fisico teorico Giorgio Parisi, attuale presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei, ricercatore dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare e professore alla Sapienza Università di Roma, è stato insignito del prestigioso Wolf Prize per la Fisica 2021 “per le sue scoperte pionieristiche nella teoria quantistica dei campi, in meccanica statistica e nei sistemi complessi”.

Il riconoscimento, istituito dalla Fondazione Wolf di Israele nel 1978 per gli scienziati e gli artisti che hanno prodotto “risultati nell’interesse dell’umanità e relazioni amichevoli tra le persone, indipendentemente dalla nazionalità, razza, colore, religione, sesso o opinioni politiche”, è stato attribuito, in passato, a personalità come Giuseppe Occhialini, Bruno Rossi, Riccardo Giacconi, Leon Lederman, Roger Penrose, Stephen Hawking, Peter Higgs, per citare solo alcuni degli scienziati più noti.

“Sono estremamente contento ed onorato per aver ricevuto questo premio prestigioso non solo per essere stato inserito in una compagnia molto prestigiosa, nella quale ritrovo con molti amici, ma anche per essere stato messo in relazione diretta con Riccardo Wolf, persona che ammiro moltissimo per le sue capacità scientifiche e il grande impegno civile. Il merito di questo premio va anche a tantissimi collaboratori che ho avuto, con i quali ci siamo divertiti nel cercare di svelare quelli che una volta si chiamavano i “misteri della natura”, ha affermato lo studioso.

Laureato in fisica nel 1970 presso la Sapienza Università di Roma sotto la guida di Nicola Cabibbo, Giorgio Parisi collabora da molti anni con il Consiglio nazionale delle ricerche: è associato all’Istituto di nanotecnologia (Nanotec) e ha contribuito alla nascita e allo sviluppo, all’inizio del 2000, del centro “Statistical Mechanics and Complexity” dedicato allo studio di concetti come i sistemi disordinati, il caos e la complessità, poi confluito nell’Istituto dei sistemi complessi (Isc) del Cnr di Roma.

Nella sua lunga carriera scientifica, in parte svolta presso istituzioni estere come la Columbia University di New York (1973-1974), l’Institut des Hautes Etudes Scientifiques a Bures-sur-Yvettes (1976-1977), l’Ecole Normale Superieure di Parigi (1977-1978), Parisi ha dato contributi determinanti e ampiamente riconosciuti anche in altre aree della fisica: fisica delle particelle, meccanica statistica, fluidodinamica, materia condensata, supercomputer.

È stato vincitore di due advanced grant dell’ERC European Reasearch Council, nel 2010 e nel 2016, e ha ricevuto numerosi premi nazionali e internazionali, tra i quali la Medaglia Boltzmann della International Union of Pure and Applied Physics (1992), la Medaglia Max Planck (2011), la Medaglia Dirac per la fisica teorica (1999), il Nature Award Mentoring in Science (2013), l’High Energy and Particle Physics dell’EPS European Physical Society (2015).

È membro dell’Accademia dei Quaranta, dell’Académie des Sciences, dell’Accademia Nazionale delle Scienze degli Stati Uniti, dell’Accademia Europea, dell’Academia Europea e dell’American Philosophical Society, ed è autore di oltre seicento articoli e contributi a conferenze scientifiche e quattro libri
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Le immagini di Giorgio Parisi e la sua biografia sono tratte dal sito del CNR: https://www.cnr.it/it/news/10006/a-giorgio-parisi-il-wolf-prize-per-la-fisica-2021
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gp-titolo
Giorgio Parisi, un manifesto per la giustizia climatica
Il discorso. La critica del premio Nobel per la fisica alla Pre-Cop26 in Parlamento: “Governi inadeguati sulla crisi”. «il Pil non è una buona misura per economia e clima». E poi un nuovo appello per l’istruzione e la ricerca pubblica: “Dare ai bambini un’educazione scientifica a partire dalla scuola materna”
di Roberto Ciccarelli
il manifesto
EDIZIONE DEL 09.10.2021 – PUBBLICATO 8.10.2021, 23:59

Il convegno di Cagliari sul fine vita “ha dimostrato che in nome dell’Uomo si possono trovare soluzioni. Bisognerà continuare a battere la stessa strada e possibilmente ampliarla perché si sia pronti, all’indomani dell’esito del Referendum, a discutere di una legge che guardi alle sofferenze umane non a pure astrazioni”

eu-olita

EUTANASIA, CONFRONTO FRA GIANNI LOY E DON ETTORE CANNAVERA: CONVEGNO A CAGLIARI TRA UN GIURISTA E UN SACERDOTE

di OTTAVIO OLITA su Tottusinpari

Le adesioni al referendum per l’abolizione dell’articolo 579 del codice penale – ‘omicidio del consenziente’ – e per una successiva legge che riconosca il diritto ad una buona morte sono massicce in tutta Italia. Del milione e 207 mila firme finora raccolte, oltre 823 mila sono cartacee, 383 mila digitali. Significativo il dato che riguarda la Sardegna: percentualmente, con 72 adesioni su mille, è al secondo posto in Italia, dietro alla sola Lombardia.

L’attenzione verso un problema così sentito è stata confermata dal convegno che varie associazioni hanno voluto organizzare lunedì 4 ottobre a Cagliari nel salone conferenze della Fondazione Sardegna. Relatori un giurista, il professor Gianni Loy, e un sacerdote, don Ettore Cannavera, da sempre impegnato su tanti temi che riguardano la tutela dei diritti dei cittadini.

In apertura la coordinatrice dell’incontro, la giornalista Susi Rochi, ha chiesto all’assemblea un minuto di raccoglimento in memoria di Annalisa Cao Diaz, morta il giorno prima, protagonista per quasi mezzo secolo delle lotte per l’affermazione della pari dignità delle donne nel lavoro, nella politica, nella società.

Gianni Loy ha esordito con una considerazione amara: il Comitato Nazionale di Bioetica e il Parlamento si stanno limitando a raccogliere pareri: non hanno il coraggio di esprimere una posizione precisa su come predisporre una legge che consenta una buona morte al malato terminale che ne facesse richiesta. Così il Referendum, che pure sta dimostrando qual è la ferma volontà degli italiani sul tema, rischia di restare monco, senza un successivo intervento legislativo che legalizzi la materia. Bisognerebbe anche definire con precisione la differenza che c’è tra il suicidio e la richiesta d’aiuto alle strutture sanitarie per porre fine alle sofferenze dei malati terminali, anche alla luce della Costituzione che tutela il diritto alla vita, quindi la libertà dell’uomo e della donna di scegliere come gestirla.

Per spiegare la differenza tra suicidio e eutanasia, il professor Loy ha citato l’esempio di una donna spagnola che dopo anni di grandi sofferenze e non avendo avuto risposte alla richiesta di essere aiutata a morire, disperata decise di suicidarsi in una stanza d’albergo, ingerendo una forte dose di veleno. Ben diversa la condizione di chi, assistito dai familiari, dalle persone care, sa di essere accompagnato con affetto e solidarietà fino alla fine dei suoi giorni. La persona, in tutto il suo valore, fino all’ultimo giorno, in un contesto di solidarietà e sostegno da parte della comunità in cui è inserita. Questo è il concetto esatto di vita, non un’affermazione di pura astrazione che non tenga conto del vissuto di ognuno. E visto che l’ordinamento, già oggi, su altri problemi, consente l’obiezione di coscienza, dove nascerebbe il contrasto tra etica laica e religiosa? “Noi siamo e vogliamo continuare ad essere una società pluralista, nella quale bisogna avere dubbi più che certezze, non dimenticando mai di chiederci ‘Chi sono io per giudicare’?” ha concluso Gianni Loy.

Don Ettore Cannavera, partendo da due interviste con titoli quasi uguali, pubblicate prima dal Manifesto, poi da L’Unione sarda, ha riaffermato la sua convinzione nel volere una Chiesa dell’ascolto, non nell’ostinata ricerca delle contrapposizioni. Un continuo dialogo con le diversità, nel rispetto reciproco. Frutto, ha poi detto don Ettore, del percorso culturale ch’egli si porta dietro da tutta la vita, che lo ha spinto ad occuparsi di filosofia, psicologia, oltre che della dottrina della Chiesa. Per questo in una società pluralista bisogna imboccare strade che portino a soluzioni condivisibili. E’ per questo che anche le leggi dello Stato devono tutelare le diversità.

“Come non ricordare la richiesta che Giovanni Paolo II fece quando, morente, disse a chi stava al suo capezzale ‘Lasciatemi andare’. Stessa richiesta fatta, in sardo, da mio padre”. Perché, dunque, ha poi proseguito il sacerdote, combattere contro la morte? La nostra vita è fatta costantemente di relazioni e queste relazioni non possono essere abbandonate soprattutto quando dobbiamo affrontare il momento più difficile della nostra esistenza.

“Quindi, basta con i pregiudizi. Ho chiarito la mia posizione anche con il mio vescovo quando mi ha convocato. A differenza di altri momenti della mia vita ecclesiale, quando venni sospeso a divinis o ammonito per le mie posizioni sul preservativo e sul divorzio, questa volta mi pare che ci sia una qualche possibilità in più di dialogo”.

La forza dirompente dimostrata dalle adesioni al quesito referendario, servirà alle autorità istituzionali, dal Parlamento alle forze politiche, fino al Comitato Nazionale di Bioetica perché abbandonino prudenza e silenzi omertosi, per cominciare a gettare le basi per la legalizzazione della buona morte? O ancora una volta invece di schierarsi dalla parte dell’umanità si sceglierà la convenienza elettoralistica? Il convegno di Cagliari ha dimostrato che in nome dell’Uomo si possono trovare soluzioni. Bisognerà continuare a battere la stessa strada e possibilmente ampliarla perché si sia pronti, all’indomani dell’esito del Referendum, a discutere di una legge che guardi alle sofferenze umane non a pure astrazioni.

Il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte: un confronto necessario

cb110c7e-47cb-4d1d-87c9-a17cb3158262Lunedì 4 ottobre 2021 alla Fondazione di Sardegna in Via Salvatore da Horta 2 a Cagliari si è svolto un confronto pubblico dal titolo “il tormento dell’etica religiosa di fronte alla buona morte” organizzato dagli Amici sardi della cittadella di Assisi, dall’associazione Comunità la Collina e dalla Fondazione Anna Ruggiu Onlus in collaborazione con l’Assotziu Consumadoris Sardigna e con i tre media partner Aladin Pensiero, Giornalia e il manifesto sardo. Un confronto sull’opportunità dell’Eutanasia Legale coordinato dalla giornalista Susi Ronchi e con la partecipazione di Don Ettore Cannavera e Gianni Loy. Con il consenso dell’autore e in accordo con le tre testate giornalistiche online,“media partner” dell’iniziativa, Aladinpensiero, Giornalia, il manifesto sardo, pubblichiamo di seguito la prima relazione introduttiva al tema.
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Riflessioni sulla “buona morte”.
di Gianni Loy
Il significato dell’espressione, sia nella lingua originaria che in quella italiana, per quanto riguarda l’aspetto teleologico, è chiaro e inequivocabile: indica le azioni volte a porre fine alla vita di una persona allo scopo di evitargli sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia.
Non altrettanto condivisa è la classificazione delle condotte che vengono considerate eutanasia. Si parla di eutanasia attiva quando la morte è diretta conseguenza dall’azione di un terzo, come la somministrazione di un farmaco da parte del medico, e di eutanasia passiva quando la morte costituisce l’effetto indiretto di un’azione o di un’omissione, come nel caso della sospensione di trattamento sanitario o dell’alimentazione artificiale.
Fattispecie a sé, sarebbe costituita dal suicidio assistito, (l’aiuto o l’assistenza al suicidio) nel quale è la persona che desidera morire a compiere l’atto che produce la morte grazie all’aiuto di una terza persona. Il caso classico è quello del medico, o di un familiare che, su richiesta dell’aspirante suicida, gli fornisce un farmaco idoneo a procurargli la morte, che sarà però il richiedente ad assumere.
Quanto alla classificazione delle condotte non vi è consenso neppure all’interno del Comitato Nazionale di Bioetica che, chiamato a pronunciarsi sulla questione dopo la nota sentenza della Corte Costituzionale, si è limitato a dar conto dell’esistenza di diverse opinioni al suo interno: alcuni hanno sostenuto che la distinzione tra eutanasia e suicidio assistito sarebbe speciosa, data la sostanziale equivalenza tra il fatto di aiutare una persona che vuole darsi e si dà la morte, e il fatto di essere autore della morte di questa persona; altri hanno ritenuto che, sia sotto il profilo filosofico che simbolico, consentire a una persona di darsi la morte non è identico a dare la morte a qualcuno a seguito della sua richiesta.
Il suicidio, da un punto di vista giuridico, non è oggetto di divieto da parte della legge. Tuttavia, – secondo interpretazione dello stesso Comitato di bioetica, non si ritiene esercizio di un diritto costituzionalmente garantito, ma viene inteso come una semplice facoltà̀ o un mero esercizio di una libertà di fatto. Lo sfavore dell’ordinamento si ricaverebbe, tra l’altro, dal fatto che la legge sanziona penalmente sia le condotte che incitano al suicidio, sia quelle che provocano, materialmente, la morte di una persona che chieda di porre fine alla propria vita.
L’art. 579 del codice penale punisce (con reclusione tra i 6 e i 15 anni) chi cagioni la morte di una persona con il consenso di lui ed un’altra norma (art. 580) punisce con pene variabili tra 1 e 12 anni chi determina altri al suicidio, ne rafforza il proposito, ovvero ne agevola, in qualsiasi modo, l’esecuzione.
Si tratta, per la verità, di norme estranee all’impianto costituzionale, introdotte dal Codice penale del 1930 precedentemente all’entrata in vigore della Carta Costituzionale. Norme, peraltro, già dichiarate parzialmente incostituzionali. La Corte costituzionale , (Sent. n. 242 del 22 novembre 2019), ha dichiarato incostituzionale l’art. 579 del c.p. nella parte in cui non esclude la punibilità di chi con le modalità di cui alla legge n. 219/2017 (Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento) o con modalità equivalenti, agevoli l’esecuzione del proposito di suicidio che si sia autonomamente e liberamente formato, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputi intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente. La norma, è ritenuta in contrasto con gli art. 2, 13 e 32 Cost. che riconoscono i diritti inviolabili dell’individuo, la libertà personale ed il diritto alla salute.
Sulla base dei ragionamenti del Giudice costituzionale si può sospettare che anche l’art. 580, (oggetto del quesito referendario) potrebbe non superare un eventuale vaglio di costituzionalità ove la Corte venisse chiamata a pronunciarsi. La distinzione tra fornire il prodotto che procura la morte e somministrarlo, quanto a finalità ed effetti, è assai labile, almeno fuori dai confini di Bisanzio, posto che, in ogni caso si produce la morte della persona che, nel rispetto delle condizioni indicate dal Giudice costituzionale, lo richieda.
Del fatto che il suicidio costituisca una semplice facoltà e non un diritto, o una libertà di fatto, si può dubitare. Nel diritto alla vita, al pari di altri diritti costituzionalmente garantiti, è implicito anche il diritto a rinunciare all’esercizio di tale diritto. Il diritto ad iscriversi ad un sindacato, ad esempio, comprende in sé anche il diritto a non iscriversi. Il diritto alla riservatezza non proibisce di comunicare ad altri i dati che si ha diritto a mantenere riservati. Analogamente, il diritto alla vita non impone alla persona l’obbligo di restare in vita. Non le impedisce, in altri termini, di decidere di non esercitare quel diritto. Se così non fosse, dovremmo concepire non solo un diritto alla vita, ma, accanto ad esso, anche un obbligo a restare in vita. Ma possiamo davvero ipotizzare che l’ordinamento, in presenza dell’esplicita e consapevole volontà di una persona di rinunciare al proprio diritto alla vita, possa in qualche modo costringerlo a vivere?
L’art. 32 della Costituzione consente, ove sia la legge a disporlo, l’obbligo di sottoporre le persone a determinati trattamenti sanitari, anche contro la loro volontà; precisa, tuttavia, che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Personalmente, non credo che imporre di continuare a vivere ad un uomo o ad una donna che con piena coscienza e consapevolezza abbiano deciso di lasciarsi andare nelle braccia della loro “sorella morte” – tanto più se si tratta di una scelta dettata dall’urgenza di fuggire da un insopportabile dolore fisico e psichico – sia rispettoso della dignità umana. Un’interpretazione che ritenesse il contrario, sarebbe in contrasto, con quanto stabilito dal secondo comma dell’art. 32 della Costituzione in quanto andrebbe oltre i limiti imposti dal rispetto della persona umana.
Sia ben chiaro, nel nostro ordinamento, nella nostra cultura giuridica, non esiste alcun “diritto al suicidio”. La Repubblica, al contrario, è chiamata a promuovere e proteggere il diritto alla vita, e sono molti gli strumenti che può mettere in cmapo, a partire dal promuovere il benessere generale della società, garantire un’assistenza sanitaria generale e gratuita, ridurre gli incidenti sul lavoro, soccorrere i naufraghi, predisporre misure di tempestiva ed efficace terapia del dolore, offrire il sostegno psicologico alle persone che si trovino in grave difficoltò, garantire un’adeguata riabilitazione e rieducazione …
In Europa, secondo dati Eurostat, oltre un milione di persone muoiono ogni anno delle deficienza del sistema sanitario pubblico diverse migliaia a causa di errori della diagnosi e della cura. Per fortuna, in queste speciali classifiche, l’Italia risulta tra i paesi più virtuosi o, sarebbe meglio dire, meno deficitari.
Il fatto che l’ordinamento, in generale, non guardi con favore alla scelta di rinunciare alla propria vita non significa, tuttavia, né che possano adottarsi misure coercitive che impediscano alla persona di disporre della propria esistenza, e neppure che nelle ipotesi di patologie incurabili in presenza di sofferenze insopportabili, in ossequio al rispetto dei diritti fondamentali della persona, il sistema sanitario non possa prevedere forme di assistenza medica alla buona morte.
Concludo questi brevi riferimenti – di carattere prevalentemente giuridico – con riferimento al suicidio, perché dal punto di vista teleologico, anche quanto alle implicazioni di carattere morale, non vi è differenza tra le diverse modalità che provochino la morte di chi abbia deciso di togliersi la vita. Ciò che conta sono il desiderio e la cosciente volontà di porre fine alla propria vita. In definitiva, sotto il profilo etico, non fa differenza se tale finalità viene perseguita mediante la rinuncia alle cure, il suicidio o la buona morte medicalmente assistita. Altrettanto potrebbe dirsi per la persona che cooperi alla realizzazione dell’intento: sotto il profilo etico, poco importa se provoca la morte di una persona a seguito di un’omissione o di una condotta attiva. Ciò che conta è il rapporto tra la condotta e l’effetto desiderato. Sotto il profilo legale, invece, il mero aiuto al suicidio, alla luce della sentenza della Corte Costituzionale, non costituisce più reato, mentre continua ad esserlo, in attesa dell’esito del referendum abrogativo, la condotta di chi provochi direttamene la morte, ad esempio con la somministrazione di un farmaco.
Vorrei far riferimento ad un recente avvenimento. Qualche settimana fa, in Spagna, una donna gravemente ammalata si è tolta la vita in una stanza d’albergo assumendo una dose di veleno. La donna era affetta, da anni, da una patologia cronica osteomuscolare incurabile, aggravata dall’intolleranza agli oppiacei. Ultimamente era sopravvenuto un cancro alla vescica “invasivo e di grado elevato”, secondo il referto medico. La donna, che auspicava una dolce morte, non appena entrata in vigore la legge che, in quel paese, consente la morte medicalmente assistita, aveva chiesto di poter essere ammessa. La richiesta era stata sottoposta alla struttura competente, ma non era andata a buon fine, inizialmente in quanto il medico incaricato si era dichiarato obiettore di coscienza.
Ma non è questo che interessa, piuttosto l’esito e le ragioni della donna che, qualche settimana prima accompagnata dal medico curante e dall’amica più cara, aveva rilasciato un’intervista a “El Pais” dichiarando quanto segue:
“La decisione l’ho già presa. Non credo di poter attendere che mi venga applicata la legge. Ho sempre affermato che non voglio vivere se non sono in grado di poter decidere sulla mia vita. Non sono in grado di cucire, non posso leggere. Non c’è niente che possa darmi speranza. Non si tratta di un capriccio. Il fatto è che tutta la mia vita consiste esclusivamente nel cercare di soffrire il meno possibile. E nonostante tale sforzo la mia sofferenza è intollerabile. Per questo penso che, al massimo, riuscirò a resistere sino ad ottobre, ma forse neppure riuscirò ad arrivarci”.
Il giornalista le chiede: “E nel caso non riuscisse ad essere ammessa al trattamento previsto dalla legge, ha cercato qualche alternativa per darsi la morte?*
“Si ho qualche alternativa, non piacevole, ma ce l’ho. Solo che, dal punto di vista psicologico, si tratta di una alternativa terribilmente violenta. È violento pensare Mi sto suicidando”. Io non lo voglio questo. Voglio solo che mi aiutino a smettere di soffrire. Niente di più”.
Cito questo, episodio, uno come tantissimi altri, tra i pochi che superano il riserbo e diventano di dominio pubblico, perché consente, di comprendere come il tema, l’unico tema in discussione, sia quello della vita, della morte e del diritto di decidere della propria esistenza: il resto riguarda gli aspetti tecnici, le modalità di esecuzione dell’intento, che possono andare dalla rinuncia alle cure ed all’alimentazione sino al suicidio.
Ho voluto introdurre nel discorso un caso concreto, anche perché risulti chiaro che la vita, la morte, le sofferenze, non esistono. Nella storia, nella realtà esistono uomini e donne che vivono, che soffrono, che muoiono. Le espressioni astratte che utilizziamo sono comprensibili e concepibili soltanto perché si verificano tali evenienze.
Come, proprio in questi giorni ci ha ricordato Björn Larsson, siamo in grado di intendere il “senso” attribuito alle parole ed alle espressioni, ma per sapere se esistono veramente dobbiamo rivolgerci alla scienza. La vita è sacra, inviolabile, è un valore supremo. Il principio lo intendiamo, riscuote consenso. Ma, nella realtà, davvero la vita è sacra protetta, rispettata? Ed in che modo?
Arriviamo al nodo. La decisione circa le regole che potrebbero disciplinare – se, quando e come – pratiche di buona morte, ha evidenti implicazioni etiche che interrogano la coscienza di ciascuno e quella collettiva.
Il fondamentale interrogativo, sul piano etico, consiste nel cercare una risposta, non ambigua, ad una elementare domanda: consentire la buona morte, è un bene o un male? Ciò, non significa, nonostante ogni apparenza, pronunciarsi su principi astratti, quali la sacralità della vita.
Il quesito, al quale il Parlamento italiano non ha voluto rispondere, nonostante il pressante invito della Corte Costituzionale, è un altro: se la comunità nella quale oggi storicamente viviamo ritenga eticamente accettabile consentire l’assistenza medica, la buona morte, alle persone gravemente sofferenti, senza speranza di guarigione delle quali sia stata accertata la cosciente e consapevole volontà di porre fine alle proprie sofferenze.
Ciò, non sulla base di precetti morali fondati su costruzioni metafisiche o di credo religiosi, ma alla luce di valori fondanti e condivisi, logicamente giustificati, di una comunità, laica. Quali il benessere collettivo, la ricerca della felicità, la solidarietà. Che tenga conto, evidentemente, degli effetti che le scelte personali possano provocare sul sistema di convivenza dell’intera comunità. L’etica laica, in ogni caso deve necessariamente trovare nell’immanenza, e non nel trascendente, la risposta ai propri interrogativi.
Non dobbiamo chiederci se la buona morte, astrattamente considerata, sia un bene o un male, ma se operi bene o male, per se stesso e per la comunità, la persona che decida di praticarla. Si tratta, conseguentemente, di un giudizio sulla persona che aiuta il richiedente a porre fine alle proprie sofferenze.
L’etica di cui parliamo, peraltro, è opinabile, in quanto ispirata a diverse concezioni filosofiche; ad esempio all’imperativo categorico kantiano che ipotizza una sorta di deontologia nel comportamento umano; oppure alle teorie utilitaristiche, secondo le quali le nostre azioni dovrebbero mirare alla massima felicità per il maggior numero di persone. In ogni caso, l’etica di cui parliamo non coincide con i precetti morali dettati da ideologie o religioni. Beninteso, è frequente che i valori “laici” e quelli derivanti dai precetti morali delle religioni possano coincidere, Ma non sempre. Alcune pratiche imposte da talune religioni, ad esempio, sono incompatibili con i diritti fondamentali universalmente riconosciuti.
In ogni caso non vi è alcun antagonismo tra l’etica laica che dovrà ispirare le scelte del legislatore in materia di buona morte ed i precetti morali delle religioni cristiane in materia di buona morte – peraltro non condivisi da tutte le professioni religiose – . Precetti morali che, anche quando non coincidenti con l’etica “laica” del legislatore, potranno sempre orientare liberamente le condotte dei propri adepti. Non solo, a quanti eventualmente professino un credo distinto da quello dell’etica “laica”, in casi come questo, viene di norma riconosciuto il diritto di non uniformarsi al precetto civile, cioè di astenersi dalle pratiche che non condividono, attraverso lo strumento dell’obiezione di coscienza, come opportunamente richiamato anche dalla citata sentenza della Corte Costituzionale.
Nel caso concreto, – perché non si dimentichi, neppure per un momento, che non è della morte che ragioniamo, bensì delle persone che, in determinate circostanze, desiderano la propria morte o si danno la morte – si può aggiungere che a tutte le professioni religiose, vien in ogni caso garantita – ci mancherebbe altro – ogni assistenza spirituale volta ad aiutare il credente a non cedere alla tentazione di porre fine anticipatamente alla propria vita e ad affrontare con spirito orientato al trascendente le proprie sofferenze. Ma se un credente, uomo o donna, esercitando il libero arbitrio, continuasse a manifestare il proposito di porre fine alla sua vita, troverei paradossale che il suo desiderio non possa poi essere accolto perché il precetto morale della confessione religiosa che il proprio adepto non intende rispettare venisse recepito e fatto proprio dall’ordinamento giuridico dello Stato.
Aver certezze è bene, risulta sicuramente rassicurante, rassicurante. Ma coltivare dubbi è non meno salutare e utile, soprattutto in questo caso, visto che la vita e la morte, per tutti, possono essere segnate da svolgimenti imprevedibili e misteriosi.
Spesso siamo convinti, molti di noi- e lo proclamiamo con sicumera -, che in presenza di un determinato evento ci comporteremo in una determinata maniera. Ma è soltanto un’idea, un’astrazione. Finché resta un’idea … Tra quanti oggi giurerebbero che mai, in nessuna circostanza, ricorrerebbero alla buona morte, non pochi, di fronte ad una situazione non più immaginaria ma reale, sicuramente, potrebbero comportarsi in maniera differente. Ma è vero anche il contrario, cioè che tra quanti dichiarano che, in circostanze analoghe, sceglierebbero di anticipare la morte, molti, alla prova dei fatti opererebbero una diversa scelta rinunciando a tale proposito.
Vita e morte, disincrostate dell’astrazione, altro non sono che i nostri percorsi quotidiani Così terribili da considerare funesto persino il giorno della nascita – secondo il pastore errante di Leopardi – o così assurdi da potere essere paragonati – secondo Camus – alla fatica di Sisifo? O, per altro verso, esaltante esperienza di conoscenza e di appagamento, o alternarsi di gioia e di dolore? Una miriade interpretazioni che sfugge alla nostra conoscenza ed alla nostra esperienza futura. Cosa ne sappiamo, esercitando sana umiltà, del sentimento di chi, ormai sul ciglio del baratro, in presenza di insopportabili sofferenze, chiede di lasciarsi andare dolcemente? Abbiamo sufficienti motivi per giudicarlo e per impedirglielo? Senza contare che, il più delle volte, ciò significa semplicemente che lo costringiamo a realizzare lo stesso proposito in clandestinità o con maggiore sofferenza.
Non abbiamo ricette. Camus immagina che possa essere felice persino chi è destinato a spingere sassi lungo il pendio per tutta dal vita, senza alcuna speranza di fuggire dal supplizio. Umberto Eco afferma “Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri”, e tanti altri, ciascuno secondo i propri principi.
Prendiamo atto di trovarci di fronte all’irrisolto mistero della vita e della morte. E visto che la vita, in un modo o nell’altro, la sperimentiamo, il mistero si concentra sulla nostra. La morte costituisce il nostro ultimo dubbio.
Il mistero. Io, ad esempio, in questo momento, immagino che se mi trovassi in condizioni di estrema ed insopportabile sofferenza, non solo chiederei di anticipare la fine con una buona morte, ma mi fingo persino che nel momento in cui mi comunicassero che all’indomani un medico mi accompagnerebbe dolcemente alla morte, proverei un grande senso di serenità, anzi di felicità.
Allo stesso tempo, sono certo e consapevole che, di fronte ad una situazione del genere, ne ho esperienza, potrei decidere diversamente, cioè scegliere di attendere, anche nel dolore, con altro spirito, la fine dei miei giorni.
Insomma, sappiamo così poco della vita da non poter essere certi neppure delle nostre azioni. Figuriamoci se possiamo dettare il comportamento di altre persone. Spero che né a me né ad altri venga confiscato il libero arbitrio.
Insomma chi siamo noi per giudicare? Impedire, per legge, una scelta altrui che non condividiamo è assai più di un giudizio.
Gianni Loy