Editoriali
Iniziative di pace in tutt’Italia, mobilitazione contro la guerra.
Iniziative di pace in tutt’Italia, mobilitazione contro la guerra.
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Riceviamo questo messaggio (e rilanciamo) come sostenitori, amici e simpatizzanti dell’associazione PeaceLink, avendo Aladinpensiero aderito alla campagna di mobilitazione contro la guerra in Ucraina, lanciata
all’indirizzo https://www.peacelink.it/campagnaucraina
L’associazione segnala le iniziative antiguerra che si
svolgeranno nella Regione Sardegna il prossimo sabato, e che si trovano su questo link:
https://www.peacelink.it/calendario/search.php?q=&id_geo=18
Si possono poi consultare la mappa di tutte le iniziative in Italia:
https://www.peacelink.it/peacelink/manifestazioni-26-febbraio
Per socializzare le iniziative nonviolente di mobilitazione nella nostra Regione siamo anche
invitati a segnalare eventi e manifestazioni contro la guerra all’indirizzo www.peacelink.it/segnala
che verranno poi pubblicati sul calendario di PeaceLink
www.peacelink.it/calendario
Per restare in contatto durante lo svolgimento delle iniziative, siamo invitati a partecipare al canale Telegram https://t.me/peacelink con l’hashtag #bastaguerre
In queste ore di tensione e apprensione, al crocevia tra la crisi sanitaria, economica, climatica, ecologica e militare l’associazione ci saluta con la speranza che la collaborazione tra persone di buona volontà, potenziata da un utilizzo sociale delle tecnologie della comunicazione, possa gettare dei semi di speranza per il futuro di tutti noi e delle generazioni a venire.
Cordiali saluti
Associazione PeaceLink
www.peacelink.it
info@peacelink.it
————–Opinioni———-
La guerra globale in Europa
Possiamo ancora fermarla
di Alfonso Gianni
Lo scontro bellico più volte minacciato è quindi in atto. Quando, non molte ore fa, eravamo ancora sull’orlo del baratro di una nuova guerra ad alta intensità entro i confini geografici del continente europeo, ci ha raggiunto l’esternazione dell’uomo delle sentenze epocali e (solo per lui) definitive. Si parla di Francis Fukuyama che in una intervista di un’intera pagina su la Repubblica del 22 febbraio, dopo avere con disinvoltura riconosciuto che la storia non è finita perché Putin vorrebbe “estendere la zona di influenza sull’Europa orientale, tornando a controllare i Paesi entrati nella Nato dopo il 1991” afferma perentoriamente: “Ho passato molto tempo in Ucraina negli ultimi sette anni, poiché abbiamo programmi per addestrare i giovani. Ogni volta ripeto che lo faccio perché Kiev è il fronte della lotta globale per la democrazia”. Un fronte alquanto inquinato e traballante visto il pessimo stato di salute delle istituzioni ucraine, la corruzione e il malaffare che ne corrodono le fondamenta, la presenza di consistenti forze fasciste e neonaziste capaci di interpretare e indirizzare nel modo più violento le diffuse pulsioni nazionalistiche. Ma è così che l’autore de La fine della storia e l’ultimo uomo intende riassumere la missione salvifica degli Usa e per estensione dell’Occidente.
Vista così, e Fukuyama è uomo ascoltato dalla amministrazione Biden, la crisi ucraina non lascerebbe davvero speranze. Saremmo di fronte a uno scontro di portata storica, oltre che globale, che peraltro e sempre più rapidamente sposta in avanti, cioè verso est, la linea del fronte. Il patto Nord Atlantico al suo sorgere nel 1949 comprendeva 12 paesi. In seguito a otto allargamenti si è giunti a 30, con un’intensificazione delle adesioni negli ultimi 20 anni, a partire da quel fatidico 1999, quando venne demolita la Jugoslavia. Infatti i nuovi ammessi sono tutti paesi del disciolto Patto di Varsavia e della smembrata repubblica federale jugoslava. La successione rende chiaro il processo e le intenzioni dei suoi promotori: nel 1999 entrano a far parte della Nato Polonia, Repubblica ceca e Ungheria, cinque anni dopo, nel 2014, è la volta di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania Slovacchia e Slovenia; cui si aggiungono nel 2009 l’Albania e la Croazia; nel 2017, il Montenegro e nel 2020 la Macedonia del Nord. Così l’attuale segretario della Nato, Jens Stoltenberg, alla recente Conferenza di Monaco sulla sicurezza tenutasi il 18 febbraio, ovviamente senza la Russia, ha potuto con grande enfasi vantarsi che “l’allargamento della Nato negli ultimi decenni è stato un grande successo e ha anche aperto la strada a un ulteriore allargamento della Ue”. Il che, per la verità, non sempre è avvenuto come dimostra il caso della Turchia, membro Nato, ma finora fuori dalla Ue.
Esattamente il contrario di quanto George Kennan, figura di spicco negli anni della Guerra Fredda, propugnatore della politica del containment nei confronti dell’Urss, scrisse nel 1997 nella veste di storico, secondo il quale invece – come ci ha ricordato Alberto Negri in suo recente articolo su il manifesto – “ L’allargamento della Nato è il più grave errore della politica americana dalla fine della guerra fredda … questa decisione susciterà tendenze nazionalistiche e militariste anti-occidentali … spingendo la politica estera russa in direzione contraria a quella che vogliamo”. Ma ciò non ha impedito a Stoltenberg di annunciare con giubilo che “questo è il settimo anno consecutivo di aumento della spesa della difesa degli alleati europei, accresciuta di 270 miliardi di dollari dal 2014” anche se gli americani non si accontentano e vorrebbero di più. Vale la pena di notare che il settennato che parte dal 2014 è richiamato sia dal segretario della Nato che da Fukuyama nella sua intervista del 22 febbraio.
Eh già, il 2014: l’anno nel quale le manifestazioni di piazza Maidan a Kiev si trasformarono in una mattanza; l’anno in cui venne firmato il patto noto come Minsk 1, seguito l’anno successivo dal Minsk 2, che avrebbero dovuto garantire il cessate il fuoco e la reintegrazione dei territori di Donesk e Lugansk tramite elezioni, un loro status speciale e un’amnistia per i partecipanti alla rivolta armata, patti che le autorità ucraine non hanno mai voluto e che le consistenti forze fasciste interne all’Ucraina hanno sempre considerato alla stregua di un tradimento; l’anno in cui la Russia annesse la Crimea; come è sempre a partire dal 2014 che è cresciuta esponenzialmente la dipendenza europea dalle forniture di gas russo, passando dal 30% all’attuale 47%. L’Italia è nella media europea di questi valori, il che spiega assai bene come l’attivismo del governo italiano in questa contingenza, peraltro non travolgente, sia ben più legato ad assicurarsi la continuità delle forniture di gas che non a salvaguardare la pace.
Non c’è da stupirsi dunque se la dirigenza russa si senta accerchiata e senza spazio per indietreggiamenti. Non è una novità, ci spiegano gli studiosi della storia, della cultura e della mentalità russe. E’ vero, ma è una ragione in più perché le loro ragioni – che come per tutti non assolute – venissero almeno comprese e prese in considerazione. Come ci ricorda l’ambasciatore Giuseppe Cassini in un articolo sull’ultimo numero della rivista Alternative per il Socialismo di imminente uscita, i russi si ricordano bene che negli anni Novanta il loro paese ritirò tutti gli ordigni nucleari posizionati in Ucraina, Bielorussia e Kazakhstan mentre gli Usa non hanno ritirato i loro, a cominciare da quelli posizionati nel nostro Friuli. Così come non hanno dimenticato le rassicurazioni ricevute, seppure verbalmente, sul fatto che lo scioglimento del Patto di Varsavia non avrebbe comportato l’estensione della Nato fino ai loro confini, con l’unica eccezione della Germania dell’Est. “Che ci fanno gli Stati Uniti in Ucraina alle porte del nostro Paese? Dovrebbero capire che non abbiamo più spazio per arretrare” ha esclamato Putin a dicembre.
Non hanno voluto capirlo. E allora Putin ha deciso di avanzare. Ma non è affatto la scelta migliore. Il riconoscimento, con la teatralità della diretta televisiva, dell’indipendenza di Lugansk e Donesk, con le conseguenze che sono maturate in queste ore sul terreno militare, ammutolisce, per il momento, ogni sforzo sul terreno del dialogo e della diplomazia. “Un grave errore”, lo ha giustamente definito Tommaso Di Francesco su il manifesto. Il confronto, spostatosi interamente sul piano muscolare-militare, è in queste ore in continuo movimento ed è difficile perfino inseguire tutti i passi e le mosse. Ma la sua direzione è purtroppo chiara ed è tragica. Putin ha motivato questa scelta con un lungo discorso alla nazione di cinquanta minuti. In altre occasioni è stato assai più lapidario ed efficace, come quando disse “Chiunque non rimpianga il decesso dell’Unione Sovietica non ha cuore, chiunque voglia resuscitarla non ha cervello”. Per farlo ha dovuto reinterpretare la storia a proprio uso e consumo.
Definire l’Ucraina un prodotto artificiale, chiamando in causa le responsabilità di Lenin, non ha senso da qualunque punto di vista. Non è forse necessario, ma comunque sempre utile, spingersi fino alla nascita del Rus’ di Kiev tra il X e l’XI secolo dove nacque il mito fondativo della “terra russa”, un fattore decisivo nella formazione dello Stato moscovita due secoli più tardi. La “terra russa”, tutta la “terra russa” è l’esito di un processo storico, quello appunto della “raccolta delle terre russe”, come ha recentemente ricordato Adriano Roccucci, ordinario di storia contemporanea a Roma tre e profondo conoscitore della storia di quel paese. Un territorio è parte della “terra russa” non tanto perché abitato da una popolazione di una determinata etnia, ma perché attraverso un secolare processo di espansione quel territorio è stato conquistato dai russi. La Russia non è andata in cerca di colonie, ma dell’allargamento del suo territorio.
Quando, nel 1924, entrò in vigore la Costituzione, l’Urss comprendeva quattro repubbliche: la Repubblica socialista federale sovietica russa (Rsfsr), la Repubblica socialista sovietica ucraina, la Repubblica socialista sovietica bielorussa e la Repubblica federale socialista transcaucasica. Non vi era alcun bisogno di inventarsi l’Ucraina, che c’era già da tempo, poiché la Rsfsr aveva una popolazione pari ai due terzi di quella di tutta l’Urss e una superficie pari al 95 per cento di tutta l’Unione. Se formalmente il principio dell’uguaglianza era rispettato era nella pratica inevitabile che l’Urss apparisse e in effetti funzionasse più come l’estensione della Rsfsr che non come una unione di diverse repubbliche.
Ma a Putin la ricostruzione storica falsata sulle origini dell’Ucraina, come la stessa battuta sulla decomunistizzazione che lui farebbe per davvero e non a metà, serve per tracciare un percorso sostanzialmente unitario della storia russa, entro la quale la rivoluzione bolscevica e l’esperienza sovietica sono al massimo una lunga parentesi all’interno del cammino multisecolare della “Russia, la nostra sacra potenza” come dicono le prime parole dell’inno della attuale Federazione Russa. E Putin è l’uomo che ha portato il suo paese fuori dai turbolenti periodi del crollo del socialismo reale restituendo al suo paese solidità e dignità che tutto il mondo deve rispettare.
Solo che non è la guerra che le può garantire. Solo chi è vivo può riconoscere l’altro, dunque anche le sue motivazioni, le sue necessità i suoi meriti. Una volta stabilite in sede analitica quali sono e come sono distribuite – come sempre in modo diseguale – le responsabilità che hanno portato ad una certa situazione, bisogna fare il passo successivo e cercare di comprendere le ragioni di ognuno e su questa base avviare una soluzione possibile che precluda l’avvento della guerra o ne blocchi immediatamente l’inizio e lo svolgersi. E ancora possibile nella crisi ucraina. Non si deve solo sperarlo ma agire in questa direzione. Non può essere solo il papa a ricordarlo. Il movimento pacifista internazionale che ha, come tutti i movimenti, un andamento carsico, può e deve tornare ad essere un fattore determinante. Non si tratta solo di fare appelli generici alla pace, ma di indicare una strada, premendo sui vari governi perché la perseguano. L’Unione europea non può oscillare tra l’appalto della politica estera a Macron da un lato e l’adagiarsi sul più trito filoatlantismo dall’altro. Nel 1975, in piena guerra fredda, si svolse con successo il vertice di Helsinki ove l’Atto finale venne sottoscritto dai 35 Paesi dell’emisfero nord, per garantire sicurezza e cooperazione, un decalogo per una coesistenza pacifica in piena guerra fredda: integrità territoriale, inviolabilità dei confini post-bellici, non ingerenza negli affari interni, né ricorso alla forza, autodeterminazione dei popoli, rispetto dei diritti umani.
Ora bisogna prima di tutto fermare la macchina bellica in atto. Ma non saranno solo le sanzioni economiche alla Russia decise in sede Ue a riuscirci. L’Italia deve giocare un ruolo di pace in tutti gli organismi internazionali dei quali fa parte. E’ necessario e forse ancora possibile pensare ad una soluzione in qualche modo simile a quella di Helsinki, che cioè ponga l’Ucraina in una condizione di neutralità, fuori dalla Nato e libera da ogni sudditanza verso la Russia, garantendo alle zone prevalentemente popolate da russi una effettiva autonomia. Già prima del precipitare della situazione nelle ultime ore, era ben discutibile che, in base allo stesso statuto della Nato, l’Ucraina fosse in grado di rispondere alle caratteristiche richieste dall’articolo 10 che prevede l’ingresso di Stati europei solo se in grado “di contribuire alla sicurezza della regione”. Ma come si sa gli articoli dei Trattati vengono interpretati in base agli argomenti della forza che non a quelli del diritto. Contano di più le riflessioni di un sociologo come Volodymyr Ishchenko secondo il quale molti ucraini pensano che entrare nella Alleanza atlantica comporta una minaccia maggiore per la sovranità del paese, incrementando le tensioni con la Russia ed esponendolo ai rischi di venire trascinati nelle guerre statunitensi, infinite quanto perdenti. In una intervista a Jacobin Magazine il sociologo di Kiev ricorda che “secondo i sondaggi condotti nel corso di questi trent’anni dall’indipendenza sovietica, lavoro salari e prezzi sono sempre stati al primo posto, mentre identità, lingua. Relazioni geopolitiche, Ue, Russia, Nato sono sempre stati in fondo alla lista delle priorità ucraine”. Ovvero, si potrebbe dire con un balzo di tigre nel passato, pane, pace, lavoro, le stesse parole d’ordine della rivoluzione bolscevica di più di cento anni fa.
Costituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri
una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
Newsletter n. 65 del 23 febbraio 2022
DAL CONFLITTO SULLA SOVRANITÀ DEGLI STATI AL CONFLITTO SUL DIRITTO DEI POPOLI
Care amiche ed amici,
Con l’azzardo di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk (Donbass) la crisi ucraina cambia natura e da conflitto sulla sovranità degli Stati diventa un conflitto sul diritto e la liberazione dei popoli. Se finora la disputa era sul diritto sovrano dell’Ucraina a entrare nella NATO senza doverne rispondere ad alcuna istanza superiore ad essa e sul diritto della Russia a muovere le sue truppe dentro i suoi confini per essere pronta a difendersi, la mossa di Putin introduce un elemento nuovo che mette al centro della crisi non più solo gli Stati ma i popoli; da un lato infatti è in gioco il diritto del popolo russo a non avere sulla porta di casa missili nemici capaci di raggiungere Mosca in trenta secondi, dall’altro il diritto dei popoli del Donbass a rimettere in discussione il proprio status nel contesto degli altri popoli e di un potere centrale percepito come oppressivo e intenzionato ad espropriarli della loro identità e della loro cultura, dalla lingua alle tradizioni e alla stessa Chiesa ortodossa che si vorrebbe autonoma dal patriarcato di Mosca. Ed è sui popoli che ricadono le conseguenze dell’aggravarsi della crisi non solo per le minacce di guerra ma già per le “sanzioni” annunciate da Biden con l’esplicita intenzione di provocare “dolore” nelle popolazioni che ne saranno colpite (ma non nella sua), sanzioni che saranno, come ha detto il presidente americano, quali la Russia non ha mai subito prima; esse peraltro colpiranno anche l’Europa e noi. Per questo le reazioni sono altrettanto devastanti delle azioni, e si innestano in una spirale perversa che ha preso avvio dall’internazionalizzazione del conflitto interno dell’Ucraina fino al coinvolgimento della NATO e quindi alla trasformazione del conflitto politico in conflitto militare potenzialmente mondiale.
Il mondo assiste attonito al precipitare degli eventi mentre sul territorio il doloroso esodo degli abitanti in fuga incrocia il movimento temerario delle armate.
Questo cambiamento della natura del conflitto avrebbe dovuto comportare una diversa reazione degli Stati ad esso estranei e della stessa comunità mondiale; la reazione ragionevole sarebbe quella primaria di escludere la guerra, promuovere un vero negoziato ed esigere che la volontà dei popoli coinvolti sia urgentemente e debitamente accertata con un controllo internazionale adeguato. Purtroppo le reazioni dell’Occidente sono state finora quelle tradizionali degli Stati che non fanno altro che identificare il nemico e contemplare come esito finale la guerra.
Nel prendere atto della mutata natura del conflitto bisognerebbe invece tener conto di due cose. Anzitutto non ignorare le gravissime accuse mosse dal presidente russo al potere statale dell’Ucraina responsabile di una gestione della cosa pubblica riassumibile nella denuncia agostiniana dei regni della terra quando, senza giustizia, sono solo dei grandi ladrocini. In secondo luogo bisogna uscire dalla falsa alternativa tra una resa dell’Occidente o una sua inflessibile reazione fino alla guerra. Finora la risposta, coerente alla cultura di Biden, ha solo a che fare coi soldi ed è rivolta allo strangolamento dell’economia e al blocco delle forniture di gas; ma la difesa militare “di ogni centimetro dell’Ucraina”, come è stato promesso, sarebbe, per dirla con papa Giovanni, “fuori della ragione”. Tutte le guerre intraprese dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale sono state del resto perdenti e sbagliate, dal Vietnam alle guerre del Golfo (infatti ce ne sono volute due), dalla guerra contro la Iugoslavia, addirittura appaltata alla NATO, all’Afghanistan; per non parlare della guerra contro i migranti combattuta alzando muri e reticolati ai confini, negando l’approdo nei porti o perfino finanziando i lager libici; ma quest’ultima guerra, a partire dal cuore dell’Europa, potrebbe essere veramente quella “finale”. Al contrario non sarebbe “una resa” quella che si facesse carico della salvezza dei popoli e costruisse un’alternativa che ne riconoscesse i diritti fondamentali.
L’affermazione del diritto all’autodeterminazione e alla liberazione dei popoli vanta in Italia una ricca tradizione, dalle iniziative di Lelio Basso al Tribunale permanente dei popoli a “Costituente Terra”. Certamente tale diritto deve essere contemperato col valore della stabilità dei confini ed essere esercitato con metodi negoziali e non violenti, e con le necessarie cautele e garanzie per evitare derive populiste e antistatali. Ma senza dubbio uscire in avanti dalla terribile crisi in atto, in alternativa agli automatismi della contrapposizione e della vendetta, sarebbe un passo importantissimo verso un mondo più equo, come quello che era stato sognato alla fine della guerra fredda, quando si era parlato di “un dividendo della pace” e di un mondo “libero dalle armi nucleari e nonviolento”. Quelle speranze sono state stracciate, benché nel frattempo il mondo sia entrato in un’epoca nuova, e non solo per il clima; ma purtroppo non se ne sono accorti i responsabili delle nazioni. È questo il tempo di riprenderle e realizzarle.
Pubblichiamo nel sito un articolo sulle industrie delle armi come le vere beneficiarie della crisi in Ucraina.
Cordiali saluti,
www.costituenteterra.it
P. S. Ricordiamo l’IBAN per il pagamento della quota associativa per il 2022, necessaria alla continuità del nostro lavoro, nella misura suggerita di 100 euro o nella misura decisa da ciascuno: IT94X0100503206000000002788 (dall’estero BIC BNLIITRR) sul conto BNL intestato a “Costituente Terra”. Grazie.
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Newsletter n. 250 del 23 febbraio 2022
IL DOLORE DEI POPOLI
Carissimi,
Con l’azzardo di Putin di riconoscere l’indipendenza delle repubbliche di Donetsk e Luhansk (Donbass) la crisi ucraina cambia natura e da conflitto sulla sovranità degli Stati diventa un conflitto sul diritto e la liberazione dei popoli. Se finora la disputa era sul diritto sovrano dell’Ucraina a entrare nella NATO senza doverne rispondere ad alcuna istanza superiore ad essa e sul diritto della Russia a muovere le sue truppe dentro i suoi confini per essere pronta a difendersi, la mossa di Putin introduce un elemento nuovo che mette al centro della crisi non più solo gli Stati ma i popoli; da un lato infatti è in gioco il diritto del popolo russo a non avere sulla porta di casa missili nemici capaci di raggiungere Mosca in trenta secondi, dall’altro il diritto dei popoli del Donbass a rimettere in discussione il proprio status nel contesto degli altri popoli e di un potere centrale percepito come oppressivo e intenzionato ad espropriarli della loro identità e della loro cultura, dalla lingua alle tradizioni e alla stessa Chiesa ortodossa che si vorrebbe autonoma dal patriarcato di Mosca. Ed è sui popoli che ricadono le conseguenze dell’aggravarsi della crisi non solo per le minacce di guerra ma già per le “sanzioni” annunciate da Biden con l’esplicita intenzione di provocare “dolore” nelle popolazioni che ne saranno colpite (ma non nella sua), sanzioni che saranno, come ha detto il presidente americano, quali la Russia non ha mai subito prima; esse peraltro colpiranno anche l’Europa e noi. Per questo le reazioni sono altrettanto devastanti delle azioni, e si innestano in una spirale perversa che ha preso avvio dall’internazionalizzazione del conflitto interno dell’Ucraina fino al coinvolgimento della NATO e quindi alla trasformazione del conflitto politico in conflitto militare potenzialmente mondiale.
Il mondo assiste attonito al precipitare degli eventi mentre sul territorio il doloroso esodo degli abitanti in fuga incrocia il movimento temerario delle armate.
Questo cambiamento della natura del conflitto avrebbe dovuto comportare una diversa reazione degli Stati ad esso estranei e della stessa comunità mondiale; la reazione ragionevole sarebbe quella primaria di escludere la guerra, promuovere un vero negoziato ed esigere che la volontà dei popoli coinvolti sia urgentemente e debitamente accertata con un controllo internazionale adeguato. Purtroppo le reazioni dell’Occidente sono state finora quelle tradizionali degli Stati che non fanno altro che identificare il nemico e contemplare come esito finale la guerra.
Nel prendere atto della mutata natura del conflitto bisognerebbe invece tener conto di due cose. Anzitutto non ignorare le gravissime accuse mosse dal presidente russo al potere statale dell’Ucraina responsabile di una gestione della cosa pubblica riassumibile nella denuncia agostiniana dei regni della terra quando, senza giustizia, sono solo dei grandi ladrocini. In secondo luogo bisogna uscire dalla falsa alternativa tra una resa dell’Occidente o una sua inflessibile reazione fino alla guerra. Finora la risposta, coerente alla cultura di Biden, ha solo a che fare coi soldi ed è rivolta allo strangolamento dell’economia e al blocco delle forniture di gas; ma la difesa militare “di ogni centimetro dell’Ucraina”, come è stato promesso, sarebbe, per dirla con papa Giovanni, “fuori della ragione”. Tutte le guerre intraprese dall’Occidente dopo la seconda guerra mondiale sono state del resto perdenti e sbagliate, dal Vietnam alle guerre del Golfo (infatti ce ne sono volute due), dalla guerra contro la Iugoslavia, addirittura appaltata alla NATO, all’Afghanistan; per non parlare della guerra contro i migranti combattuta alzando muri e reticolati ai confini, negando l’approdo nei porti o perfino finanziando i lager libici; ma quest’ultima guerra, a partire dal cuore dell’Europa, potrebbe essere veramente quella “finale”. Al contrario non sarebbe “una resa” quella che si facesse carico della salvezza dei popoli e costruisse un’alternativa che ne riconoscesse i diritti fondamentali.
L’affermazione del diritto all’autodeterminazione e alla liberazione dei popoli vanta in Italia una ricca tradizione, dalle iniziative di Lelio Basso al Tribunale permanente dei popoli a “Costituente Terra”. Certamente tale diritto deve essere contemperato col valore della stabilità dei confini ed essere esercitato con metodi negoziali e non violenti, e con le necessarie cautele e garanzie per evitare derive populiste e antistatali. Ma senza dubbio uscire in avanti dalla terribile crisi in atto, in alternativa agli automatismi della contrapposizione e della vendetta, sarebbe un passo importantissimo verso un mondo più equo, come quello che era stato sognato alla fine della guerra fredda, quando si era parlato di “un dividendo della pace” e di un mondo “libero dalle armi nucleari e nonviolento”. Quelle speranze sono state stracciate, benché nel frattempo il mondo sia entrato in un’epoca nuova, e non solo per il clima; ma purtroppo non se ne sono accorti i responsabili delle nazioni. È questo il tempo di riprenderle e realizzarle.
Pubblichiamo nel sito un appello del papa per la pace in Ucraina e una nota di Domenico Gallo sui falsi argomenti dei referendum sulla giustizia.
Cordiali saluti,
Firenze. Convegno nel nome di La Pira. Segni e contraddizioni.
Mediterraneo frontiera di Pace
Al via l’Incontro dei Vescovi del Mediterraneo
23 FEBBRAIO 2022 su sito dedicato.
“Perché non il Mediterraneo, che è il grande lago di Tiberiade della famiglia abramitica, sia davvero segno di pace soprattutto nel contesto drammatico che stiamo vivendo”. Con l’auspicio del Cardinal Gualtiero Bassetti, Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, inizia, oggi pomeriggio, a Firenze, l’incontro dei Vescovi e dei sindaci del Mediterraneo. Il meraviglioso contesto del Convento di Santa Maria Novella aprirà oggi le porte ai presuli provenienti dai 20 Paesi che si affacciano sul Mare Nostro e l’intervento del Presidente del Consiglio Mario Draghi, che raggiungerà il capoluogo toscano per incoraggiare il confronto e il dialogo.
“Il Mediterraneo – continua il Presidente della Cei – è veramente una grande frontiera di pace che deve riunire tutta la famiglia di Abramo. Siamo in un momento di profonda crisi, anche per quello che sta succedendo in Ucraina: dal punto di vista della provvidenza di Dio diventa ancora più necessaria questa nostra azione di pace”.
La giornata anticiperà l’arrivo dei sindaci di venerdì e l’assemblea congiunta dei vescovi e dei primi cittadini. “Quelli che si svolgeranno a Firenze – conclude il Card. Giuseppe Betori, arcivescovo di Firenze – sono due incontri che si uniscono nell’eredità di La Pira e che confluiranno nella giornata di sabato in un confronto comune da cui si auspica possa uscire anche una voce unanime”.
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Controcanto.
Firenze tradisce La Pira
23-02-2022 – di: Tomaso Montanari su Volerelaluna.
Domenica 27 febbraio papa Francesco tornerà a Firenze: «dove arte, fede e cittadinanza si sono sempre composte in un equilibrio dinamico tra denuncia e proposta», come disse con felicissima ispirazione durante il suo primo viaggio nella città di Dante, Savonarola, don Milani.
Ma questa volta lo accoglie un’altra Firenze, quella di un potere che per secolare abitudine dissimula il suo vero volto e prova a legittimarsi nascondendosi dietro una tradizione che non gli appartiene. Un lupo sotto pelli di agnello. L’arrivo del pontefice sarà infatti preceduto da un convegno della Conferenza episcopale italiana intitolato al “Mediterraneo frontiera di pace” (www.volerelaluna.it/territori/2022/02/23/firenze-migrazioni-passerelle-e-luoghi-comuni/): in esplicita continuità con i Convegni del Mediterraneo che Giorgio La Pira – sindaco santo e padre costituente – organizzò a Firenze dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Quei convegni, irrisi dai protagonisti della Realpolitik, erano un segno profetico: la fede nel Dio di Abramo diventava protagonista nella tessitura di una pace che univa ebrei, cristiani, musulmani in un dialogo fondato sulla dignità della persona umana, segno potente contro la volontà di potenza e la corsa agli armamenti di un mondo che sembrava marciare verso l’apocalisse nucleare.
E oggi? Oggi c’è Marco Minniti. L’ex ministro dell’Interno chiuderà la sezione IV del convegno, quella intitolata alle «migrazioni tra le sponde del Mar Mediterraneo. Come le città possono contribuire nella definizione di nuove politiche migratorie e collaborare per un effettivo rispetto dei diritti umani fondamentali». Sembra un pezzo di Crozza (il cui meraviglioso Minniti diceva: «non possiamo lasciare il fascismo ai fascisti!»), ma è tutto vero. Minniti oggi presiede la Fondazione MedOr, «un soggetto nuovo nel suo genere, globale e collaborativo, nato per unire competenze e capacità dell’industria con il mondo accademico per lo sviluppo del partenariato geo-economico e socio-culturale». Sul sito leggiamo che «Med-Or condivide e fa propri i valori del Socio Fondatore Leonardo»: Leonardo, l’industria controllata dal Ministero per l’Economia che è tra i primi dieci produttori di armi al mondo. Basterebbe questo a chiedersi cosa c’entri Minniti con un profeta del disarmo come La Pira.
Ma chi non ricorda le scelte e le responsabilità del Minniti ministro? Costruttore di poderosi “muri” contro i migranti, distruttore dei loro diritti, artefice del Memorandum d’intesa con la Libia (https://volerelaluna.it/migrazioni/2022/02/15/revocare-il-memorandum-italia-libia/) grazie al quale rinchiudiamo in mostruose carceri e condanniamo a torture indicibili chi prova a varcare quel “Mediterraneo frontiera di pace” celebrato dal convegno fiorentino. I muri costruiti da Minniti non erano materiali, ma non per questo erano meno efficaci: quando, nel 2017, fu varato il decreto Minniti-Orlando, a dirlo fu il presidente dell’Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione Lorenzo Trucco: «Ci sono tanti modi per fare i muri: con il calcestruzzo o con le norme. È come dire: intanto rendo tutto molto difficile, con pochi controlli giurisdizionali, tolgo un secondo grado di giudizio, eccetera. Non c’è nulla che va a rafforzare la tutela dei diritti su persone assolutamente deboli. Perché dare loro strumenti minori rispetto agli altri? Qui è in atto una separazione tra persone: i migranti non avranno gli stessi diritti degli altri e tutto ciò è codificato». Davvero una legge secondo il pensiero di Giorgio La Pira!
Il decreto di Minniti aprì una strada terribile: «nel luglio 2017 – ha scritto il costituzionalista Francesco Pallante – Minniti ha iniziato a ostacolare le attività di salvataggio condotte dalle ONG, imponendo loro la firma di un codice di condotta assai restrittivo. Oltre a indurre alcune organizzazioni a ritirare le proprie imbarcazioni, l’iniziativa di Minniti ha dato avvio a una polemica rapidamente degenerata nella criminalizzazione delle stesse iniziative umanitarie, bollate di complicità con le organizzazioni criminali che trafficano in esseri umani». Su quella strada si sarebbe presto incamminato Matteo Salvini: «C’è una continuità in termini di progetto politico, nel senso che i decreti Minniti Orlando hanno aperto la strada alla recrudescenza di Salvini. Perché nel momento in cui si è iniziato a derogare alle garanzie fondamentali delle persone, in questo caso i richiedenti asilo, automaticamente, colui che è venuto dopo, cioè Salvini, non poteva che proseguire su quella strada» (così Antonello Ciervo, avvocato dell’ASGI).
Per non ritenere opportuno che proprio la Firenze città di pace si affidi a Minniti, sarebbe bastato anche un altro passaggio terribile di quel decreto del 2017, un passaggio che – scrisse Roberto Saviano – «ha toni razzisti e classisti. Per descriverlo in breve: i sindaci, per ripulire i centri storici delle città, avranno il potere di allontanare chiunque venga considerato “indecoroso”, non occorrerà che sia indagato o che abbia commesso un reato. Il sindaco potrà così chiedere che venga applicato a queste persone un “mini Daspo urbano”». Un decreto contro i poveri, in nome del decoro e della bellezza: e qua davvero La Pira si rivolta nella sua tomba nella chiesa fiorentina di San Marco.
Del resto, a fare gli onori del padrone di casa sarà Dario Nardella, che di fronte a un appello firmato da comunità e personalità del mondo cattolico fiorentino, ha caparbiamente rivendicato la scelta di Minniti, la cui politica migratoria ha definito «un esempio per l’Europa». Se il suo predecessore La Pira nel 1953 requisì le case sfitte per garantire «il diritto fondamentale del cittadino all’assistenza e alla sicurezza individuale e familiare», Nardella dichiara invece di voler agire contro le «occupazioni abusive, soprattutto se molto impattanti, che colpiscono la proprietà privata o l’interesse pubblico. […] È su questo principio di legalità che dobbiamo ricostruire un senso di comunità. […] Uno degli errori della sinistra è stato quello di essere troppo ambigua sui temi della legalità e della sicurezza». Il vocabolario è impressionante. Per La Pira, come per la Costituzione, il fine è la persona umana: e la proprietà privata è un mezzo per costruire un’utilità sociale che promuovesse e sviluppasse la dignità di ogni uomo. La sicurezza era quella sociale, l’ordine pubblico si manteneva facendo giustizia. Per il sindaco di oggi tutto è ribaltato, tutto è al contrario: la tutela della proprietà privata è il fine ultimo, la sicurezza è garantita dalla polizia, l’ordine pubblico dalla sicurezza. Da cristiano e da fiorentino vorrei dire al papa: la Firenze di La Pira non è mai stata così tradita e umiliata.
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TOMASO MONTANARI
Tomaso Montanari insegna Storia dell’arte moderna all’Università per stranieri di Siena. Prende parte al discorso pubblico sulla democrazia e i beni comuni e, nell’estate 2017, ha promosso, con Anna Falcone l’esperienza di Alleanza popolare (o del “Brancaccio”, dal nome del teatro in cui si è svolta l’assemblea costitutiva). Collabora con numerosi quotidiani e riviste. Tra i suoi ultimi libri Privati del patrimonio (Einaudi, 2015), La libertà di Bernini. La sovranità dell’artista e le regole del potere (Einaudi, 2016), Cassandra muta. Intellettuali e potere nell’Italia senza verità (Edizioni Gruppo Abele, 2017) e Contro le mostre (con Vincenzo Trione, Einaudi, 2017)
Crisi internazionale
Parole d’ordine: Grande potenza e Terra russa
22-02-2022 – di: Adriano Roccucci
Su Lines, ripreso su Volerevolare.
«Sì, anche noi abbiamo pagine problematiche della nostra storia, come le ha ogni Stato. Ne abbiamo meno di altri, e meno terribili. Certo abbiamo capitoli drammatici della nostra storia, pensate agli eventi del 1937. Ma anche altri paesi hanno conosciuto pagine oscure e terribili. (…) Gli avvenimenti del passato debbono essere descritti in modo tale da suscitare l’orgoglio per la nostra storia». Sono parole pronunciate da Vladimir Vladimirovič Putin alla Conferenza nazionale degli insegnanti di storia nel 2007. L’esigenza di rivedere il rapporto con il passato in funzione del progetto di rilancio della Russia, portato avanti da Putin fin dal suo primo mandato presidenziale, ha caratterizzato questi primi due decenni del XXI secolo. Non si tratta di un unicum russo. Pur in modi diversi e con intensità differente, i sistemi politici e le società propongono una rilettura del passato che sia a sostegno di visioni e progetti politici.
Nel 2000 l’approvazione di una legge sui simboli statali aveva ufficializzato l’uso dell’aquila bicipite dell’impero russo nello stemma della Federazione Russa, il recupero del tricolore zarista come bandiera ufficiale, l’adozione delle divise dell’esercito imperiale, il ripristino come inno nazionale di quello sovietico, sebbene con il testo parzialmente modificato. La simbolica ufficiale è uno dei linguaggi con i quali gli Stati definiscono il loro rapporto con il passato e la storia. Emergeva fin da questi atti l’obiettivo di rivendicare una continuità di lungo periodo della storia russa, senza fratture irrimediabili: avevano spazio sia l’eredità imperiale sia l’esperienza sovietica.
Un rapporto con il passato volto a restituire il senso della continuità storica non era mancato nemmeno nel periodo sovietico, quando il regime, almeno dal punto di vista ideologico e politico, rivendicava una totale rottura con quanto lo aveva preceduto. Eppure, nella scelta di Lenin di spostare la capitale a Mosca e di insediare il governo al Cremlino, nel luogo matrice del potere russo, come non rintracciare i fili di un’operazione simbolica volta a comunicare un senso di continuità storica, pur nel contesto del radicale cambiamento rivoluzionario? L’idea che la «patria sovietica» fosse l’erede della «grande nazione russa» si affacciò fin dagli anni Trenta nella riflessione di Stalin, particolarmente attento al rilievo politico della narrazione e delle interpretazioni storiche, per poi emergere con maggiore evidenza negli anni della seconda guerra mondiale. Nel 1934 il vožd’ in un intervento al Politbjuro si espresse con notevole chiarezza: «Il popolo russo in passato ha messo insieme altri popoli. Anche adesso ha intrapreso una raccolta dello stesso genere.
Parole
La proposta di una lettura della storia russa finalizzata a rintracciare i fili di continuità insiste su alcuni elementi. Ne enucleiamo due, ma l’analisi potrebbe essere ulteriormente ampliata e approfondita. Entrambi rinviano alla trama imperiale della storia russa, che, sebbene in forme «aggiornate», continua a caratterizzare il percorso dello Stato e della società in Russia.
Il primo elemento è connesso al profilo della Russia come «grande potenza». È questo uno statuto cui le classi dirigenti russe, nella fase attuale così come in età imperiale e nel periodo sovietico, non sembrano poter rinunciare. Il riconoscimento della Russia come grande potenza rappresenta, infatti, un fattore decisivo di legittimazione del potere. Non è a questo riguardo casuale che le parole con le quali inizia l’inno della Federazione Russa siano le seguenti: «Russia, la nostra sacra potenza». Una lettura della storia russa volta a far emergere come nelle diverse epoche lo Stato russo abbia svolto nell’arena internazionale un ruolo rispondente allo statuto di grande potenza non può che essere funzionale alla riaffermazione di un profilo analogo nel presente. Il mito polisemico della Grande guerra patriottica, vale a dire la seconda guerra mondiale, svolge in questo senso la funzione di mito di unificazione e di legittimazione dell’ambizione della Russia a svolgere un ruolo mondiale.
Il secondo elemento attiene a un’altra dimensione, anch’essa di grande rilevanza geopolitica: quella del rapporto con lo spazio russo. Si tratta di un aspetto fondamentale della storia della Russia e del pensiero dei russi su di essa. Uno dei mitologemi più antichi della storia degli slavi orientali, le cui origini risalgono alla Rus’ di Kiev tra X e XI secolo è quello della «terra russa». Esso è stato un potente fattore per l’affermazione dello Stato moscovita, tra XIII e XV secolo, e ha continuato a esercitare la sua influenza fino ai nostri giorni. La terra russa però non è un dato acquisito, un fattore «naturale», come avviene spesso nelle mitologie dei vari nazionalismi. La «terra russa» è il prodotto di un processo storico, quello della «raccolta delle terre russe» (sobiranie zemel’ russkikh).
Un territorio è parte della «terra russa» non per suoi caratteri naturali o per ubicazione geografica, neppure perché abitato da una popolazione etnicamente connotata, ma perché nel processo storico di formazione dello Stato russo, avvenuto attraverso un moto plurisecolare di espansione, quel territorio è stato conquistato dai russi. L’espansione dello spazio russo prevalentemente non ha condotto alla formazione di colonie, ma a un allargamento del territorio metropolitano, cioè della «terra russa». In questo senso il rapporto tra lo spazio e la storia è costitutivo della «terra russa». E la lettura della storia è quindi fondamentale per la tenuta dello «spazio russo», e, al bisogno, per il suo recupero, come è avvenuto nel caso della Crimea.
Nel 2004, all’indomani della seconda elezione di Putin alla presidenza della Federazione Russa, una legge ha abolito la festa nazionale del 7 novembre, ricorrenza sovietica coincidente con la data della rivoluzione d’Ottobre, trasformata da El’cin in giorno della concordia e della riconciliazione. La stessa legge ha stabilito la data della nuova festa nazionale, il giorno dell’unità del popolo, il 4 novembre, per celebrare gli eventi che a Mosca nel 1612 posero fine all’occupazione polacca e a quella fase di anarchia iniziata con l’esaurimento della dinastia dei Rjurikidi nel 1598, denominata età dei torbidi (smutnoe vremja). Nel 1613, con l’elezione di Mikhail Romanov a zar, avrebbero avuto inizio la vicenda di una nuova dinastia e una stagione storica caratterizzata da una sostanziale stabilità del potere.
Tra 2004 e 2005, il riferimento allo smutnoe vremja diveniva un topos nella narrazione e nell’interpretazione, che si venivano affermando come tendenza dominante nel dibattito culturale e politico russo, di quanto era avvenuto in Russia negli anni Novanta, dopo la fine dell’Unione Sovietica. Gli anni Novanta erano presentati come una nuova età dei torbidi, una stagione di catastrofe nazionale che aveva messo in pericolo la stessa esistenza della Federazione Russa. Per continuare l’analogia storica, la presidenza di Putin aveva segnato l’uscita dai nuovi torbidi e l’inizio di una fase di consolidamento dello Stato.
Insomma, il bisogno e allo stesso tempo la opportunità di una lettura della storia russa, finalizzata alla elaborazione di una visione del passato «condivisa» o veicolata in modo sistematico e diffuso, si imposero come una sfida decisiva per la realizzazione del progetto politico della Russia di Putin e per la formazione di una visione geopolitica che le assegnasse un ruolo adeguato nel mondo. La pista da seguire fu in qualche modo indicata dalla decisione presa nel 2007 nella definizione di linee guida per il manuale per le scuole superiori. Nei testi scaturiti da questo lavoro con la finalità di offrire indicazioni metodologiche agli insegnanti, sebbene non venga proposta una versione monolitica della storia, è indicato chiaramente l’obiettivo di rendere gli alunni consapevoli della continuità della storia millenaria della Russia, il cui inizio è individuato nel 988, l’anno del battesimo della Rus’, cioè della conversione al cristianesimo del gran principe di Kiev Vladimir. Nel quadro di questa continuità va mostrata «la relazione organica fra la storia russa e quella mondiale, specificando il ruolo della civiltà russa nell’ambito del processo storico mondiale».
La visione della storia proposta non nega l’esistenza di periodi bui, come ad esempio quelli delle repressioni bolsceviche negli anni di Lenin e Stalin. Ma al centro è l’azione dello Stato e delle élite, che nei diversi passaggi sono riusciti a consolidare la società e lo Stato e a salvaguardare con successo il profilo internazionale di grande potenza che spetta alla Russia. Si pone a questo livello il controverso rapporto con la figura di Stalin, di cui non si negano i crimini, ma si propone di fatto una distinzione tra il costruttore dello Stato, leader vittorioso della seconda guerra mondiale, e il persecutore del suo popolo.
Attraverso i diversi canali e linguaggi con i quali si intende proporre una lettura orientata della storia della Russia passa un’operazione di grande impatto politico e culturale. Il rapporto con il passato e l’elaborazione di miti storiografici sono infatti elementi costitutivi dei progetti politici e delle visioni geopolitiche. Così è anche per la Russia di questi primi due decenni del XXI secolo. Impresa complessa. Il cui esito non è predeterminato.
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Pubblicato in: “È LA STORIA, BELLEZZA!” – n°8 – 2020 e ripubblicato in “Limes” febbraio 2022
Carlo Molari
È morto Carlo Molari, il
Teologo dell’ascolto.
di Brunetto Salvarani su SettimanaNews.
Alla metà degli anni Ottanta l’editrice Marietti ebbe l’idea di invitare dieci illustri teologi italiani a stendere delle testimonianze sul senso del loro lavoro, che finirono in un bel libro dal titolo Essere teologi oggi.
Tra loro c’era anche Carlo Molari, che nel suo contributo esordiva così: “Fare teologia non è un mestiere o un semplice servizio reso agli altri, ma è un modo concreto di vivere la fede ecclesiale, è uno stile di vita, e per me, oggi, è componente di identità personale, ragione di tutta la mia storia”.
Qualche anno prima, nel ’72, nella prefazione a La fede e il suo linguaggio (uscito per Cittadella) in cui compaiono suoi saggi pioneristici sul rapporto tra fede e la sua espressione verbale, egli già sosteneva che la sincerità è la condizione di verità della teologia: “per questo ogni libro di teologia è una specie di confessione”.
Per Molari è stato davvero così, e questo è (solo) uno dei motivi per cui affrontare un suo testo, un libro, un saggio o un articolo, risulta sempre un’avventura avvincente.
Percorso di vita
La figura di don Carlo, nato a Cesena il 25 luglio 1928 e morto ieri, 19 febbraio 2022, sempre nella città romagnola, ha rappresentato un unicum nell’orizzonte della teologia italiana, quella di uno studioso tanto solido quanto dotato di grande umanità, e in grado di dialogare ad alto livello non solo con la teologia contemporanea internazionale, ma con il pensiero scientifico e le scienze umane. Conservando costantemente i suoi tratti caratteriali della prima giovinezza, la mitezza, l’umiltà, la disponibilità all’ascolto e a mettersi in gioco.
Laureato in Teologia dogmatica e Diritto alla Lateranense, Molari è stato negli anni docente nella stessa università, all’Urbaniana e alla Gregoriana, segretario dell’Associazione Teologica Italiana (ATI) e membro del Comitato di consultazione della rivista Concilium. Credenziali di tutto rilievo, dunque, che si sono accompagnate a un’attività di relatore e conferenziere particolarmente apprezzata in molti contesti diversi.
Lui parlava volentieri delle varie famiglie che l’hanno accompagnato nel tempo della sua lunga esistenza, attiva fino agli ultimi anni: la famiglia del sangue che l’ha segnato persino nella parlata (rimasta sempre fedele all’accento romagnolo, nonostante gli spostamenti ancor giovane su Roma), la famiglia del San Leone nella capitale, dove ha svolto attività pastorale all’Istituto dei Fratelli maristi dal 1967 al 2011, la famiglia degli appartenenti alla FUCI, frequentata dal 1955 in avanti, e poi quella del Gruppo teologico che si riuniva a Camaldoli, legato all’ATI, e quelle allargate del SAE (Segretariato Attività Ecumeniche), di Ore Undici, della Cittadella di Assisi, e così via.
Fu assai sensibile al cammino del dialogo ecumenico e interreligioso, fornendo volentieri i suoi apporti sul quadro teorico in cui inserire le esperienze di dialogo vissuto che si sono avviate nel Paese nel post-concilio. Aiutante di studio alla Congregazione per la dottrina della fede, nel 1978 Molari chiese la pensione anticipata, dopo che la prefazione al Dizionario teologico (Borla 1972) e proprio il libro citato La fede e il suo linguaggio furono accusati di sostenere posizioni non conformi alla dottrina.
I censori non accettavano il fatto che di Dio non si possa dire nulla di definitivo in quanto la sua comprensione cresce con l’evolversi dell’uomo e delle sue capacità cognitive.
Leggere Molari
Il suo registro, in effetti, – lo testimonia ampiamente il suo ultimo lavoro, la summa Il cammino spirituale del cristiano, uscito da Gabrielli editori nel 2020 – si colloca in una prospettiva evolutiva (l’amato Teilhard de Chardin!) da tempo tracciata dal pensiero scientifico e ora finalmente fatta propria anche dalla chiesa cattolica nei suoi documenti ufficiali.
Il suo riferimento costante era ai dati elaborati dalle scienze: dalle riflessioni sul cervello a quelle sul tempo, dalla fisica del cosmo alla fisiologia, dall’antropologia agli studi storico-linguistici. Ne è derivata una teologia perennemente in progress e sempre in ricerca, sviluppatasi appieno all’interno di una visione del mondo attualissima, e capace di gettare una luce inedita sul vivere dell’uomo e sulla creazione, sulle sue meraviglie e i suoi abissi; dunque, per chi crede, sul nostro rapporto con il divino.
Leggere Molari fa bene al cuore e alla mente, anche per i non addetti ai lavori: provare per credere. Per fare solo un esempio, in un intervento del 2013 per l’associazione Biblia su Le ragioni cristiane del dialogo, tema a lui particolarmente caro, metteva in luce la possibile tentazione, e quindi il rischio grave, di elaborare una teologia delle religioni prima di avere intrapreso un dialogo con esse.
D’altra parte – proseguiva – occorre sempre tenere presente che il dialogo suppone sempre una teologia, ma una teologia che disponga al cambiamento e solleciti la conversione. L’impegno del dialogo con le altre religioni, un’eredità conciliare inrealtà tutta da costruire, implica già di per se stesso che la Chiesa si esponga a un cambiamento, a delle continue sfide, a una messa in discussione, genuini. Perciò, secondo Molari, la riflessione teologica e il dialogo sono due momenti di un unico processo: la teologia guida il dialogo; ma il dialogo guida anch’esso, e addirittura trasformerà, la teologia.
I due movimenti – i dati della teologia e quelli del dialogo – sono due fasi essenziali e interrelate di un’unica impresa. Questa correlazione appare con maggiore chiarezza ed efficacia quando il dialogo accompagna un’azione comune. Fino a concludere: “Dialogare dopo avere agito insieme a favore dei poveri e degli oppressi è molto più facile ed efficace. Quando si mette in comune l’esercizio dell’amore le parole acquistano un senso nuovo”.
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CIAO DON CARLO!
di Renzo Salvi su fb del 19 febbraio 2022.
Stamattina, sabato 19 febbraio, ha lasciato la nostra compagnia don Carlo Molari, uno dei maggiori teologi del Novecento e di questo primo scorcio del millennio. E davvero è stato un momento di tristezza: sapevamo l’età; sapevamo i malanni che lo avevano indotto, pochi mesi fa, a “proporre” (un tratto dell’anima questa sua mitezza rispettosa) di lasciare l’impegno con Rocca: un articolo a numeri alterni, ogni mese dunque, gli risultava pesante.
Avevamo allora proposto noi – noi di redazione – e poi realizzato “… almeno” un’intervista con lui, persin divisa in due, per farlo rimanere presente ancora un po’ in quelle nostre pagine che nascono in Assisi ed in quella Pro Civitate Christiana con la quale i rapporti di don Carlo erano saldi e cordialissimi, per amicizia, per convinzione e per la reciproca condivisione di una visione di Chiesa e di mondo del presente e del futuro…
Ora ci precede – lo ha sempre fatto in realtà – in un cammino che, come Dio stesso, secondo la lezione di don Carlo, è una evoluzione continua continuamente da scoprire.
Nella contingenza c’è anche chi oggi ha voluto leggere in un “palchetto” (il sottotitolo giornalistico) dell’articolo/notizia di “Avvenire” un che di “velenoso” per il ricordo del sospetto e dell’emarginazione riservata a don Carlo dalle gerarchie ecclesiastiche nei primi anni Settanta. Chi ha notato questo cenno ha poi argomentato sulle condizioni infelici della Chiesa italiana anche a seguito di scelte come quelle: di allontanamento di figure di testimoni e maestri come lui. Cosa probabilmente vera, in parte.
Mi riesce però difficile pensare che don Carlo Molari – anche don Carlo Molari – non sia “Chiesa italiana” e che il suo pensiero per vie non ufficiali – ma dobbiamo per forza aspirare a quei riconoscimenti? – non abbia fatto scuola. E molta scuola. E buona scuola. Nella Chiesa, dopo il Concilio ma anche prima a ben vedere, tante posizioni e figure di pensiero e d’azione sono state messe ai margini e colpite. Con quel che avevamo a disposizione, di risorse e di capacità, noi (parte degli emarginati e dei colpiti o loro affini) abbiamo anche risposto. Talvolta pesantemente.
E anche se il combattere non è mai stata la nostra prima scelta, in non pochi casi abbiamo ottenuto persino buoni esiti.
L’importante – come ci ricordava spesso David Maria Turoldo – è “non scoraggiarsi, non darsi mai per vinti”.
Anche nella Chiesa, si chiederà qualcuno? Si. Anche nella Chiesa.
Vogliamo la Pace!
Campagna Ucraina, promossa da PeaceLink
Campagna di mobilitazione contro le minacce di guerra in Ucraina e per la costituzione di comitati per la pace a livello locale.
La crisi in Ucraina e le tensioni fra Russia e Nato rischiano di sfociare in una guerra dagli esiti imprevedibili, che potrebbe degenerare in un confronto nucleare.
Contro l’escalation militare è importante mobilitarsi perché l’Italia e l’ONU svolgano un ruolo di distensione in questo difficile momento.
Voglio sostenere le iniziative di pace che facciano sentire la voce di chi ripudia la guerra, così come recita l’articolo 11 della Costituzione Italiana.
Con questa adesione esprimo la volontà di collaborare alle attività contro la guerra e di partecipare alla costituzione di un comitato per la pace a livello locale.
Hanno già aderito: Punto Pace PaxChristi Pistoia , Comitato provinciale Anpi Catania , Presidio Libera Don Peppe Diana , Movimento per la Decrescita Felice – Circolo di Ca , WarFree – Liberu dae sa gherra , Coordinamento LIBERA a Siena , Circolo Legambiente Pistoia , Presidio di Libera Lucca , Coordinamento LIBERA Pistoia , Comitato per la Pace di Bari , Anpi Zavattarello , A.S.C.E. Associazione Sarda Contro l’Emarginazione , PPPT PARTIRE CON I PIEDI PER TERRA , Circolo ACLI S. Polo , Chiesa di S. Andrea Gruppo Brasile ONLUS , Donne in Nero Reggio Emilia , CasaDelleDonne Viareggio , Associazione Reggiana per la Costituzione , CREIS Centro Ricerca Europea per l’Innovazione Sos , Ecologia e diritti , Rete Radiè Resch Associazione di solidarietà inter , Legambiente Versilia , Rete Donne in Nero – Italia , COMITATO RICONVERSIONE RWM , Punto Pace Napoli Pax Christi , Pax Christi Salerno , Il femminile è politico: potere alle donne , Rifondazione Comunista – Sinistra Europea , Anpi 7 martiri di Venezia , Sezione Anpi Erminio Ferretto di Mestre , Esodo associazione , Il richiamo del Jobél odv , Comitato Pace e Cooprezione Internazionale Comune , Arcisolidarieta’ Siracusa , Stonewall , Pax Christi Venezia Mestre , Gruppo Educhiamoci alla Pace – ODV , Centro di Pastorale Sociale e del Lavoro diocesi M , Casa degli Italiani , Sindacato Europeo dei Lavoratori , Mir Palermo , Donne per la Solidarietà , Gruppo di Democrazia Partecipata , Stella Maris Apostolato del mare , Associazione Genitori tarantini , Costruttori di Pace odv , Mani Rosse antirazziste. , Amici Silvestro Montanaro , Comitato Fermiamo la Guerra firenze , Rete Radie’Resch gruppo di Salerno , Associazione kyrios , Ennio Cabiddu, Circolo Legambiente Amerino , Comitato Ass. per la Pace Diritti Umani Rovereto , Associazione per la Pace , ASSOCIAZIONE CULTURA DELLA PACE , Francesco Lo Cascio, Centro Gandhi , Libera Taranto , Agenzia per la pace , Casa per la pace Grottaglie , Associazione Umanista Culture in Movimento onlus , PeaceLink , Comitato Intercomunale per la Pace del magentino , Aladinpensiero, Adriana De Mitri, Alberto Cacopardo, Alessandra Mecozzi, alessandro capuzzo, Alessandro Marescotti, Angelo Baracca, Angelo Cifatte, Anna Ferruzzo , Annamaria Bonifazi, Annamaria Moschetti, Antonello Rustico, antonio bruno, Antonio Ghibellini, Antonio Mazzeo, Cinzia Zaninelli, Dale Zaccaria, Domenico Gallo, Domenico Palermo, don Antonio Panico, don Marco Tenderini, Elio Pagani, Emanuele De Gasperis, Enrico Peyretti, Francesco Iannuzzelli, Fulvia Gravame, Gaia Pedrolli, Gianni Alioti, Giovanni Matichecchia, Giovanni Pugliese, giovanni scotto, Giuliana Dettori, Giustino Melchionne, gregorio piccin, Jason Nardi, Laura Tussi, loredana Flore, Luisa Morgantini, Marco Dalbosco, Marco D’Auria, Marco Trotta, Mariaclaudia Salvaggio , Massimo Wertmuller , Massimo Castellana, Mauro Biani, Michele Boato, nanè giuseppina, paolo candelari, Paolo Crosignani , Paolo Moro, paxchristi_paronetto@yahoo.com , Pierangelo Monti, Raffaello Zordan, Riccardo Iacona, rossana de simone, Suor patrizia Pasini, tiziano cardosi, turi palidda, Vittorio Agnoletto, Franco Meloni
Aderisci:
Come persona
Come associazione
https://www.peacelink.it/campagne/index.php?id=104&id_topic=3
Adesioni dal 4 febbraio 2022: 1386 persone , 114 associazioni.
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Appello per la Pace:
Che fare?
Il noi mancante e la domanda di politica
di Filippo Barbera, su Volerelaluna
Il sociologo americano Erik Klinenberg in Palaces for the people. How social infrastructure can help fight inequality, polarization and the declin of civic life (Penguin Random House, 2018) sostiene che il futuro delle società democratiche si costruisce non solo, o non tanto, in base a valori comuni, quanto a partire dalla presenza di spazi condivisi. Biblioteche, centri per l’infanzia, librerie, chiese, moschee, sinagoghe, fablab, spazi di coworking, cooperative di comunità e parchi possono costituire contesti in cui le persone interagiscono in modi che hanno conseguenze dirimenti per la qualità democratica della società e, quindi, della politica che questa riesce a esprimere. Sono spazi, questi, in cui le persone si riuniscono per soddisfare contemporaneamente – tramite azioni pratiche – un obiettivo privato e un progetto pubblico. Klinenberg definisce questi luoghi come tasselli cruciali per la nascita e la crescita della “infrastruttura sociale” delle società.
Quando tale infrastruttura è robusta, la qualità democratica delle società è ben salvaguardata; quando è debole, gli individui perdono la capacità di aspirare collettivamente a un progetto comune. La filosofa analitica Margaret Gilbert ne Il noi collettivo (Cortina, 2015) avverte che senza un progetto congiunto non può esistere un attore plurale: senza un orientamento collettivo a un futuro condiviso, cioè senza un impegno comune, non c’è un vero noi, ma solo una somma di “io”. E da una somma di “io”, come dai diamanti, non nasce niente. La classe dirigente della sinistra italiana – con poche eccezioni – si è dimenticata che senza un “noi” orientato al futuro in modo aperto e inclusivo vengono a mancare le basi sociali della democrazia e, di conseguenza, i presupposti per la costruzione di una domanda di politica e, a fortiori, di una domanda di sinistra. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere una domanda di politica (e un orientamento di sinistra), così come non lo è ogni tipo di organizzazione dell’economia.
Questi temi sono stati dimenticati a favore dell’idea che il controllo – effimero – dell’opinione pubblica sarebbe stato un elemento sufficiente per guidare un’azione politica progressista. Ma l’opinione pubblica non esaurisce la rilevanza della sfera pubblica, dei suoi spazi vivi, dei suoi luoghi concreti, delle sue ramificazioni territoriali. E della loro insostituibile capacità – come evocato in apertura dal richiamo al libro di Klinenberg – di generare progetti comuni e orientati al futuro.
Oggi, ciò che è drammaticamente assente – e che dovrebbe informare le strategie politiche di una classe dirigente di sinistra all’altezza dei tempi – è proprio la diffusa e pervasiva mancanza di meccanismi di costruzione del “noi”, oggi alle corde a favore di un “noi” nativista e impaurito che lascia spazio solo a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia. Osservazione, questa, corroborata anche dalla ricerca di Bertuzzi, Caciagli e Caruso (Popolo chi? Ediesse, 2019) svolta su un campione di residenti nei quartieri periferici di alcune medio-grandi città italiane. In questo lavoro si legge infatti che il sentimento secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri, cooperando e lottando per cambiarla, sembra ormai assente. Non si individuano né le possibilità, né gli strumenti per farlo. Un vero e proprio “noi mancante”, incapace di costituirsi come soggetto plurale, base sociale per una politica della speranza collettiva. Ciò che è urgente ricostruire è, come la definisce l’antropologo Arjun Appadurai, la capacità di aspirare a un futuro comune dove i bisogni individuali si intrecciano senza soluzione di continuità a concezioni del buon vivere, a modelli di società e a dimensioni collettive. Un “noi” siffatto non può non essere prioritario, oggi, per la classe dirigente che ha ereditato una delle più gloriose tradizioni politiche della sinistra europea.
Un “noi” di questo tipo richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi come persone in ruoli di cittadinanza, di spazi e luoghi for the people. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo solo se, in uno spazio dedicato, ci mettiamo alla prova come cittadini. Solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni collettive proiettate nel futuro. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante “opportunità di cittadinanza” ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali? Dove, cioè, un legittimo problema privato – occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento collettivi? Pensiamoci: quante volte nell’ultima settimana siamo concretamente stati dei cittadini?
La battaglia per difendere e costruire tali spazi – dalle piccole biblioteche di quartiere aperte fino a sera, ai community center, agli spazi per la gestione dei beni comuni – permettono alle persone di vivere i tempi e gli eventi del “mio”, dell’acquisizione di comfort nella “mia” casa, della salute “mia”, della crescita dei “miei” figli, vivendo nel contempo i tempi e gli eventi della “adesione al noi”. Anche l’apparentemente prosaico atto di fruizione di un bosco, di un giardino o di un cortile in modo condiviso acquista valore simbolico e stabilisce un nesso emotivo-cognitivo con l’ideale della solidarietà collettiva. La battaglia del Labour di Jeremy Corbin per “altri modelli di proprietà” e per “un’economia della vita quotidiana” o la prospettiva dell’economia fondamentale (Economia fondamentale, Einaudi, 2019) trova anche qui la sua ragion d’essere.
Con l’erosione dei pilastri della cittadinanza industriale e con la crisi del capitalismo organizzato non sono venuti meno solo o tanto i corpi intermedi, ma sono venuti a mancare soprattutto i luoghi intermedi, gli spazi della socievolezza quotidiana dove bisogni privati e progetti pubblici si intrecciano senza soluzione di continuità. La sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale, al di là di quello strumentale, è la distanza guadagnata rispetto agli altri. I vissuti di successo sono gravidi di mitemi che rimandano alle capacità personali, del tutto sganciate dalla collettività di appartenenza rispetto cui non sente alcuna gratitudine e responsabilità. I fallimenti e le deprivazioni sono, al contrario, vissute con rabbia e frustrazione. Donne e uomini che vivono la loro individualità in negativo, come impossibilità di essere riconosciuti come persone e perciò esposti a crisi di autostima, perdita di capacità di aspirare e di inserire “il futuro nel quotidiano” (Il futuro nel quotidiano, a cura di O. de Leonardis e M. Deriu, Egea, 2012). La dicotomia secca vincente-perdente fornisce il criterio sociale di classificazione predominante e la regola di “riconoscimento” è quella sprezzante del winners-take-all. Quale domanda di politica può nascere da una società con una sfera pubblica di questo tipo? Quale rilevanza può avere l’opinione pubblica se gli spazi e i meccanismi di formazione del “noi” sono ridotti a narrative centrate sulle qualità individuali o sulla loro mancanza?
La priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe essere questa. Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso. Luoghi intermedi, una volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove forme associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della produzione della riproduzione. Luoghi intermedi capaci di intercettare la domanda di cittadinanza e il policentrismo territoriale, normativo ed esperienziale, caratterizzato da bisogni in parte simili e in parte unici. Un lavoro lungo e faticoso di costruzione politica e istituzionale che non si risolve con una cena tra amici, i cui effetti benefici si potranno vedere solo nel tempo e che, se mai ci saranno, potranno in futuro costituire le basi sociali per una nuova domanda di politica.
Basi che, per essere generative di una domanda di politica emancipativa e di sinistra (F. Barca, Diseguaglianze, Conflitto, Sviluppo, Donzelli, 2021), dovrebbero nascere vicino a conflitti sociali ed economici, a ridosso di controversie sull’uso degli spazi e delle risorse, intorno ad asimmetrie di potere tra “chi ha” e “chi non ha”, vicino alle persone e nei luoghi di vita, lavoro e consumo, accanto alla possibili relazioni tra diritti economici e civili. Tessendo reti di significati tra bisogni quotidiani e soluzioni collettive. Senza però invocare valori pre-costituiti, le cui condizioni di efficacia richiedono condizioni strutturali e organizzative lontanissime dagli assetti socio-politici in cui siamo oggi immersi.
Bibliografia
Collettivo per l’economia fondamentale, Economia fondamentale, Einaudi, 2019
E. Klinenberg, Costruzioni per le persone, Ledizioni, 2019
K. Rawhorth, L’economia della ciambella, Edizioni Ambiente, 2017
È il testo della lezione svolta il 3 febbraio 2022 a Torino nel liceo Gioberti occupato.
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Sulla strada
di Giulio Marcon, su Sbilanciamoci
12 Febbraio 2022 | Sezione: Editoriale, Società
In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. E anche l’associazionismo e il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità, dal professionismo progettante a pratiche dal basso effettivamente partecipate.
Nei mesi preparatori la conferenza d’organizzazione della CGIL, il segretario generale Maurizio Landini ha evocato in più di una occasione la necessità di un “sindacato di strada”. Nell’era della frammentazione e della precarizzazione del mercato del lavoro, una visione verticale e per categorie dell’organizzazione sindacale non funziona più. E’ necessario – e rapidamente – tornare ad una dimensione orizzontale e confederale, si potrebbe dire. In sostanza andrebbe riscoperta la natura sociale e territoriale delle camere del lavoro, o dei lavori, come luogo di organizzazione della mobilitazione e della conflittualità sociale, in cui includere anche soggetti diversi: gli studenti, gli ambientalisti, gli attivisti sociali.
Includere significa fare delle cose insieme e più semplicemente ospitare nei luoghi del sindacato queste organizzazioni o – come hanno fatto alcune categorie in Germania – cooptare come osservatori indipendenti negli organismi sindacali anche rappresentanti delle associazioni ambientaliste. In un momento in cui la transizione ecologica rappresenta una sfida immensa per il lavoro e le produzioni del passato, il dialogo tra ambientalisti e lavoratori è assolutamente fondamentale. Senza questo salto, il sindacato rischia di diventare un’organizzazione di pensionati, di dipendenti pubblici e di poche grandi categorie produttive. In un paese in cui oltre il 95% del nostro tessuto produttivo è di piccole e piccolissime imprese e il lavoro parcellizzato, autonomo e precario arriva alla soglia del 40%, partire dai luoghi di lavoro non è efficace più tanto come una volta; una gran parte di lavoratori non li raggiungi. C’è parecchio cammino da fare, e forse non è neanche veramente cominciato.
Tornare sulla strada è un invito che vale anche per l’associazionismo (quello più organizzato e grande), e non solo per il sindacato. Anche il mondo del terzo settore ha subito nel corso degli anni una involuzione burocratica, corporativa e autoreferenziale, all’insegna di progetti spesso studiati e realizzati a tavolino. Questo ha trasformato – anche in questo mondo – i cittadini in utenti e beneficiari dentro una retorica e un professionismo della partecipazione spesso calata dall’alto, o veicolata dai social.
Anche l’associazionismo ed il terzo settore hanno bisogno di passare dalla verticalità all’orizzontalità, dal professionismo progettante a pratiche dal basso ed effettivamente partecipate. Hanno bisogno di tornare a confrontarsi con l’organizzazione attiva dei cittadini, con i conflitti, con il rammendo di un tessuto sociale che in questi anni è stato devastato. Va ricordato che gran parte del mondo del terzo settore è fatto di piccoli gruppi, composti solo da volontari: si tratta di una realta molto parcellizzata, che non si fa soggettività politica e non ha rappresentanza generale.
Sindacato e associazionismo si trovano dunque a fonteggiare sfide analoghe nell’epoca della disintermediazione e delle sirene del corporativismo e dell’autoreferenzialità: tornare ad essere soggetti capaci di rappresentare l’interesse collettivo e il bene comune di lavoratori e cittadini ammaliati dalla scorciatoia del populismo e di un tornaconto individuale e di corporazione.
Tornare sulla strada è il modo con il quale si riacquista la legittimità in nome della quale si può aspirare ad essere soggetti del cambiamento.
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Che succede?
una Terra
un popolo
una Costituzione
una scuola
Newsletter n. 63 del 9 febbraio 2022
LA DIGNITÀ
Care Amiche ed Amici,
Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato il presidente Mattarella ha voluto ricordare il significato etico e culturale della dignità che esprime “il valore delle persone e chiama in causa l’intera società”, e per diciotto volte ha invocato la dignità di diverse figure umane che tocca alla politica riconoscere e salvaguardare, dalla dignità dei lavoratori che muoiono sul lavoro, alla dignità delle vittime del razzismo e dell’antisemitismo, dalla dignità delle donne che subiscono violenza e non devono essere costrette a scegliere tra il lavoro e la maternità, a quella dei migranti, dalla dignità che ci impone di combattere la tratta e la schiavitù degli esseri umani, a quella degli anziani, dei disabili, dei carcerati, dei poveri. È per questo richiamo alla dignità che Mattarella è stato oggetto ingiustamente del sarcasmo di chi lo ha sbeffeggiato come “papa laico”, mentre non aveva fatto che appellarsi alla Costituzione.
Ma la Costituzione non è solo la Carta che rivendica la dignità delle persone, essa postula la dignità della stessa Repubblica. E se c’è una cosa che oggi soprattutto deturpa la dignità della Repubblica, una cosa turpe che è esplicitamente causata e voluta dai suoi governanti e che è immediatamente necessario rimuovere è il “memorandum d’intesa” tra l’Italia e la Libia, di cui è caduto nei giorni scorsi, il 2 febbraio, il quinto anniversario, e che un appello levatosi dalla società civile, da decine di organizzazioni italiane, libiche, ed europee chiede che sia revocato. Si tratta del patto con cui l’Italia ha concordato con la Libia di “contenere” con ogni mezzo il flusso dei migranti che prendono il mare per raggiungere le nostre coste, e ciò sia impedendone la partenza e trattenendoli nei centri di detenzione libici, sia riconsegnandoli in mare alla Guardia costiera libica sia, quando sono salvati, se non riconosciuti meritevoli di asilo, rispediti ai lager da cui sono fuggiti. Ma “la Libia è un inferno in terra”, ha scritto Mattia Ferrari, un prete che opera con la ONG Mediterranea Saving Humans, il quale ha raccontato del grido di soccorso ricevuto da una folla di migranti che in Libia si erano auto-organizzati dando luogo a un presidio chiamato “Refugees in Libya”, avevano cercato di ottenere una protezione internazionale, avevano ricevuto il conforto della preghiera e della solidarietà invocata per loro dal papa nell’ “Angelus” del 24 ottobre scorso e nella conversazione con Fazio a “Il tempo che fa”, avevano avuto l’aiuto di molti attivisti ed associazioni europee e il sostegno di Carola Rackete (definitivamente prosciolta il 23 dicembre dalla giudice – “il gip” – del tribunale di Agrigento dall’accusa di aver portato a Lampedusa i naufraghi salvati nel Mediterraneo e speronato una nave da guerra italiana (!) per farli sbarcare); e ancora Mattia Ferrari ha raccontato come nel corso delle settimane ci siano state al presidio tre vittime, tre giovani ragazzi uccisi, uno da uomini armati riconducibili alle milizie libiche e due investiti in circostanze misteriose da automobili che in corsa dinnanzi al presidio li hanno travolti. Poi, la notte del 10 gennaio i migranti che vi erano raccolti sono stati catturati dalle forze del Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione illegale del governo libico, i loro accampamenti sono statik distrutti, le persone deportate nella prigione di Ain Zara, restituite alle torture e agli stupri, e quelle sfuggite ricercate dalle milizie e minacciate di morte. “Così è finito il presidio di Refugees in Libya, la prima esperienza di autorganizzazione dal basso delle persone migranti in Libia, il primo caso nella storia in cui le persone migranti si sono rese soggetto e hanno cercato di essere riconosciute come veri fratelli e sorelle” dal resto del mondo, ha scritto Mattia Ferrari; ma anche ultima prova di una tragedia per cui quando i migranti riescono a scappare “vengono catturati e riportati nei lager dagli stessi aguzzini con i finanziamenti di Italia e Malta e spesso su coordinamento di Frontex” (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) mentre l’ENI e i ministri vanno e vengono per fare affari in base al principio “business as usual”.
.Queste sono le ragioni dell’appello per la revoca del memorandum che è stato rivolto al governo ma anche all’UNCHR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e all’OIM (l’Organizzazione internazionale per i migranti). I rifugiati chiedono il trasferimento in un Paese sicuro, non necessariamente in Europa, ma anche in Africa, e che sia garantita la loro sicurezza; l’UNHCR a Tripoli dice di adoperarsi per la riapertura dei voli di evacuazione verso il Niger e il Ruanda ma che occorre trovare soluzioni per la protezione dei cittadini stranieri all’interno del Paese, attraverso l’interlocuzione con lo stesso governo libico; ma nelle attuali condizioni tale strategia non può considerarsi in alcun modo adeguata quando diverse diramazioni del governo sono attivamente coinvolte nella catena di abusi e sfruttamento delle persone migranti, come hanno spiegato i Rifugiati auto-organizzati nel loro manifesto. Perciò il patto tra Italia e Libia va revocato, e in ogni caso l’Italia dovrebbe pretendere che la Libia sottoponga a controllo internazionale i suoi campi di detenzione dei profughi, per impedirvi torture, stupri e sofferenze.
È facile infatti parlare di dignità: ma per realizzarla ci vogliono scelte di cui evidentemente non siamo capaci. Mentre i buoni propositi, e anche le idee e le risorse ci sarebbero, se lo volessimo, per scongiurare la fine.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Gustavo Buster che mostra la pretestuosità dell’argomento del “diritto alla sicurezza” dell’Ucraina per giustificare le provocazioni NATO alla Russia, quando invece la norma di civiltà e delle Costituzioni è quella della sicurezza collettiva.
www.costituenteterra.it
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ChiesadituttichiesadeipoveriChiesaditutti.
Newsletter n. 248 del 9 febbraio 2022
LA DIGNITÀ
Cari Amici,
Per il Concilio la dignità dell’uomo, ciò che lo fa un essere unico e diverso da tutte le altre creature viventi, è la libertà, cioè l’essere portato dalla sua stessa natura razionale ad assumere la responsabilità del proprio operare, ed è proprio questo che sta scritto nel testo conciliare fondativo della libertà religiosa, la “Dignitatis humanae”.
Nel discorso inaugurale del suo secondo mandato il presidente Mattarella ha voluto ricordare il significato etico e culturale della dignità che esprime “il valore delle persone e chiama in causa l’intera società”, e per diciotto volte ha invocato la dignità di diverse figure umane che tocca alla politica riconoscere e salvaguardare, dalla dignità dei lavoratori che muoiono sul lavoro, alla dignità delle vittime del razzismo e dell’antisemitismo, dalla dignità delle donne che subiscono violenza e non devono essere costrette a scegliere tra il lavoro e la maternità, a quella dei migranti, dalla dignità che ci impone di combattere la tratta e la schiavitù degli esseri umani, a quella degli anziani, dei disabili, dei carcerati, dei poveri. È per questo richiamo alla dignità che Mattarella è stato oggetto ingiustamente del sarcasmo di chi lo ha sbeffeggiato come “papa laico”, mentre non aveva fatto che appellarsi alla Costituzione.
Ma la Costituzione non è solo la Carta che rivendica la dignità delle persone, essa postula la dignità della stessa Repubblica. E se c’è una cosa che oggi soprattutto deturpa la dignità della Repubblica, una cosa turpe che è esplicitamente causata e voluta dai suoi governanti e che è immediatamente necessario rimuovere è il “memorandum d’intesa” tra l’Italia e la Libia, di cui è caduto nei giorni scorsi, il 2 febbraio, il quinto anniversario, e che un appello levatosi dalla società civile, da decine di organizzazioni italiane, libiche, ed europee chiede che sia revocato. Si tratta del patto con cui l’Italia ha concordato con la Libia di “contenere” con ogni mezzo il flusso dei migranti che prendono il mare per raggiungere le nostre coste, e ciò sia impedendone la partenza e trattenendoli nei centri di detenzione libici, sia riconsegnandoli in mare alla Guardia costiera libica sia, quando sono salvati, se non riconosciuti meritevoli di asilo, rispediti ai lager da cui sono fuggiti. Ma “la Libia è un inferno in terra”, ha scritto Mattia Ferrari, un prete che opera con la ONG Mediterranea Saving Humans, il quale ha raccontato del grido di soccorso ricevuto da una folla di migranti che in Libia si erano auto-organizzati dando luogo a un presidio chiamato “Refugees in Libya”, avevano cercato di ottenere una protezione internazionale, avevano ricevuto il conforto della preghiera e della solidarietà invocata per loro dal papa nell’ “Angelus” del 24 ottobre scorso e nella conversazione con Fazio a “Il tempo che fa”, avevano avuto l’aiuto di molti attivisti ed associazioni europee e il sostegno di Carola Rackete (definitivamente prosciolta il 23 dicembre dalla giudice – “il gip” – del tribunale di Agrigento dall’accusa di aver portato a Lampedusa i naufraghi salvati nel Mediterraneo e speronato una nave da guerra italiana (!) per farli sbarcare); e ancora Mattia Ferrari ha raccontato come nel corso delle settimane ci siano state al presidio tre vittime, tre giovani ragazzi uccisi, uno da uomini armati riconducibili alle milizie libiche e due investiti in circostanze misteriose da automobili che in corsa dinnanzi al presidio li hanno travolti. Poi, la notte del 10 gennaio i migranti che vi erano raccolti sono stati catturati dalle forze del Dipartimento per il Controllo dell’Immigrazione illegale del governo libico, i loro accampamenti sono stati distrutti, le persone deportate nella prigione di Ain Zara, restituite alle torture e agli stupri, e quelle sfuggite ricercate dalle milizie e minacciate di morte. “Così è finito il presidio di Refugees in Libya, la prima esperienza di autorganizzazione dal basso delle persone migranti in Libia, il primo caso nella storia in cui le persone migranti si sono rese soggetto e hanno cercato di essere riconosciute come veri fratelli e sorelle” dal resto del mondo, ha scritto Mattia Ferrari; ma anche ultima prova di una tragedia per cui quando i migranti riescono a scappare “vengono catturati e riportati nei lager dagli stessi aguzzini con i finanziamenti di Italia e Malta e spesso su coordinamento di Frontex” (l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera) mentre l’ENI e i ministri vanno e vengono per fare affari in base al principio “business as usual”.
Queste sono le ragioni dell’appello per la revoca del memorandum che è stato rivolto al governo ma anche all’UNCHR (l’agenzia delle Nazioni Unite per i Rifugiati) e all’OIM (l’Organizzazione internazionale per i migranti). I rifugiati chiedono il trasferimento in un Paese sicuro, non necessariamente in Europa, ma anche in Africa, e che sia garantita la loro sicurezza; l’UNHCR a Tripoli dice di adoperarsi per la riapertura dei voli di evacuazione verso il Niger e il Ruanda ma che occorre trovare soluzioni per la protezione dei cittadini stranieri all’interno del Paese, attraverso l’interlocuzione con lo stesso governo libico; ma nelle attuali condizioni tale strategia non può considerarsi in alcun modo adeguata quando diverse diramazioni del governo sono attivamente coinvolte nella catena di abusi e sfruttamento delle persone migranti, come hanno spiegato i Rifugiati auto-organizzati nel loro manifesto. Perciò il patto tra Italia e Libia va revocato, e in ogni caso l’Italia dovrebbe pretendere che la Libia sottoponga a controllo internazionale i suoi campi di detenzione dei profughi, per impedirvi torture, stupri e sofferenze inumane.
È facile infatti parlare di dignità: ma per realizzarla ci vogliono scelte di cui evidentemente non siamo capaci. Mentre i buoni propositi, e anche le idee e le risorse ci sarebbero, se lo volessimo, per scongiurare la fine.
Nel sito pubblichiamo un estratto delle risposte di papa Francesco nella conversazione con Fazio (“i lager in Libia”!) e un articolo di Gustavo Buster che mostra la pretestuosità dell’argomento del “diritto alla sicurezza” dell’Ucraina per giustificare le provocazioni NATO alla Russia, quando invece la norma di civiltà e delle Costituzioni è quella della sicurezza collettiva.
Appello per la Pace
IMPEDIRE IL RITORNO DELLA GUERRA IN EUROPA
Sono già oltre 400 le firme all’appello promosso dal Cdc, appello evidentemente largamente condiviso da uomini e donne del nostro paese che temono l’esplodere di un nuovo conflitto in Europa.
Per aderire inviare una mail a coord.dem.costituzionale@gmail.com
A questo link il testo dell’appello e le firme in continuo aggiornamento.
http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/2022/02/02/impedire-il-ritorno-della-guerra-in-europa-decine-di-intellettuali-firmano-un-appello-perche-la-ue-non-si-faccia-trascinare-dalla-nato-nel-suo-espansionismo-a-est-perche-litalia-si-opponga/
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Appello
Impedire il ritorno della guerra in Europa
Nel secolo scorso l’Europa è stata dilaniata per ben due volte, nel corso di una generazione, dal flagello della guerra che ha causato sofferenze indicibili ai suoi popoli e una degradazione inconcepibile dell’umanità fino al male assoluto della Shoah.
La profonda aspirazione alla pace, a rendere impossibile di nuovo la guerra fra le nazioni europee è stata a fondamento della nascita della Comunità europea e del percorso che l’ha portata a trasformarsi in Unione Europea.
La caduta del muro di Berlino e lo scioglimento del Patto di Varsavia hanno fatto venire meno le ultime conseguenze della guerra fredda in Europa e creato la possibilità della convivenza pacifica di tutti i suoi popoli, dall’Atlantico agli Urali.
Purtroppo la distensione resa possibile dalla fine della guerra fredda non è stata coltivata; non è bastata la dissoluzione dell’Unione Sovietica per far venir meno lo spirito di contrapposizione dei due blocchi militari, come poteva fare prevedere l’allargamento del G7 alla Russia, capitolo che è stato frettolosamente chiuso.
L’allargamento ad est della NATO, che ha inglobato paesi che facevano parte della ex Unione Sovietica, ha comportato il dispiegamento di un dispositivo militare ostile ai confini della Russia; ciò costituisce obiettivamente una minaccia e come tale è stata percepita.
Questa situazione ha generato una nuova corsa agli armamenti, compreso il riarmo nucleare.
Si sono create, così, le condizioni per un nuovo tipo di guerra fredda molto più pericolosa della precedente, perché non più fondata su una contrapposizione ideologica ma su pulsioni nazionalistiche ancora meno controllabili.
L’esercizio del diritto all’autodeterminazione del popolo ucraino è stato fortemente condizionato dal tentativo della Russia, da un lato, e del blocco occidentale a guida USA, dall’altro, di trascinare questo Paese ognuno nel proprio campo di influenza.
Se la Russia ha occupato la Crimea e in seguito alimentato il conflitto del Donbass, la NATO ha assunto una posizione vissuta come provocazione politica e militare dalla Russia quando si è dichiarata disponibile ad accogliere Ucraina e Georgia nell’alleanza atlantica.
Adesso la tensione politica e militare fra i due schieramenti è arrivata a livelli insostenibili.
Una provocazione può arrivare da qualunque parte sul terreno e fare da detonatore ad un conflitto armato non più controllabile.
E’ assolutamente urgente mobilitarsi per impedire il ritorno della guerra in Europa.
Un conflitto potrebbe avere conseguenze inimmaginabili.
Si deve operare immediatamente per un raffreddamento della tensione politico-militare e l’unica strada percorribile è quella del blocco immediato di ogni escalation militare.
L’Unione Europea non deve farsi trascinare dalla NATO in una insensata corsa all’incremento delle minacce sul campo e ad un rilancio delle spese militari. L’Italia deve dissociarsi da questa politica e deve mandare un segnale chiaro a favore della distensione, che non ha alternative, opponendosi – com’è in suo potere – all’estensione nel territorio dell’Ucraina del dispositivo militare della NATO e al dispiegamento in Europa di nuovi missili e armi nucleari americane. E’ interesse dell’Italia e dell’Unione Europea avviare una trattativa per arrivare a condizioni che garantiscano la Russia dalla preoccupazione di un accerchiamento e consentano all’Ucraina di sviluppare la propria autonomia nazionale, in condizioni di indipendenza dai due blocchi, com’è avvenuto per la Finlandia durante la guerra fredda. Partendo dall’attuazione dell’accordo di Minsk, occorre negoziare una posizione di neutralità per l’Ucraina, non più avamposto militare della NATO ma terra d’incontro fra la civiltà russa e quella occidentale.
Occorre agire adesso prima che sia troppo tardi.
Per aderire coord.dem.costituzionale@gmail.com
Domenico Gallo, Pietro Adami, Mario Agostinelli, Paola Altrui, Cesare Antetomaso, Pietro Antonuccio, Franco Argada, Franco Astengo, Gaetano Azzariti, Donata Bacci, Vittorio Bardi, Fausto Bertinotti, Mauro Beschi, Maria Luisa Boccia, Sergio Caserta, Enrico Calamai, Duccio Campagnoli, Giuseppe Cassini, Aurora D’Agostino, Roberto De Angelis, Claudio De Fiores, Tommaso Di Francesco, Piero Di Siena, Anna Falcone, Luigi Ferrajoli, Chiara Gabrielli, Fausto Gianelli, Alfonso Gianni, Rossella Guadagnini, Elisabetta Grande, Alfiero Grandi, Roberto Lamacchia, Sergio Labate, Raniero La Valle, Alberto Leiss, Citto Leotta, Lidia Lo Schiavo, Federico Losurdo, Silvia Manderino, Antonio Mazzeo, Alberta Milone, Rossella Muroni, Gian Giacomo Migone, Tomaso Montanari, Alberto Negri, Daniela Padoan, Francesco Pallante, Pierluigi Panici, Valentina Pazè, Claudia Pedrotti, Livio Pepino, Giancarlo Piccinni, Carmelo Picciotto, Antonio Pileggi, Bianca Pomeranzi, Jacopo Ricci, Rodolfo Ricci, Marco Romani, Giovanni Russo Spena, Giuseppe Salmè, Lucia Salto, Gianluca Schiavon, Massimo Serafini, Paolo Solimeno, Gianni Tognoni, Fabrizio Tonello, Enrico Tonolo, Aldo Tortorella, Giulio Toscano, Grazia Tuzi, Stefania Tuzi, Nadia Urbinati, Angelo Viglianisi Ferraro, Massimo Villone, Vincenzo Vita, Gianluca Vitale, Mauro Volpi, Antonia Sani, Umberto Franchi, Giuseppe Tadolini, Michelangelo Pietrobuono, Geni Sardo, Maurizio Francesco Giacobbe, Emilio Rossi, Alarico Mariani Marini, Luciano Kovacs, Maria Grazia Minelli, Giuseppe Gallelli, Lucy Pole, Patrizia Gallo, Elena Rampello, Tiziana Migliore, Gianni Alioti, Francesco Di Matteo, Laura Tussi , Alessandro Marescotti, Antonietta Salerno, Maurizio Acerbo, Maria Ricciardi Giannoni, Gianni Castellan, Hans Spinnler, Frida Spinnler, Raffaele Tecce, Francesco Montorio, Gaetano Bucci, Francesco Tanzarella , Haidi Gaggio Giuliani, Flavio Bedini, Silvio Gambino, Augusto Cacopardo, Angelo Cifatte, Giuseppe Bruzzone, Loredana Fasciolo, Caterina Di Francesco, Maria Pia Porta, Stefano Perri, Pietro Cocco, Maria Teresa Fiocchi, Carmen Campesi, Paola Agnello Modica, Consiglia Imputato, Marco Cinque, Daniele Barbieri, Giuliano Campo, Guido Falsirollo, Vittorio Agnoletto, Giovanni Consoletti, Leila Lisa d’Angelo, Silvana Rizzo, Mauro Mergoni, V. Michele Abrusci, Anna Di Sapio, Umberto Franchi, Loris Caldana, Rosario Russo, Adriana Giuliobello, Silvestro Profico, Dora Chiara Leonzio, Clemente Santillo, Mara Valentini, Mariangela Villa, Claudia Baldoli, Milena Confalonieri, Giuseppe Ventura, Luigi Mosca, Maurizio Ferron, Luciano Oliveri, Ester Prestini, Giorgia Ballarani, Marina Premoli, Lele Noferi, Danilo Bruno Storico, Adriana Buffardi, Adriano Querci, Gianluigi Trianni, Pierangelo Monti, Pasqualina Andro, Silvio Colloca, Vittoria Longoni, Gabriel Baravalle, Eleonora Cirant, Luisa Morgantini, Luciano Zambelli, Donatella Esposti, Marco De Luca, Andrea Buiatti, Armando Spataro, Beppe Casales, Gabriella Severino, Giacomo Meloni, Marco Mameli, Crotti Claudio, Cherchi Rita, Caterina Dolcher, Sonia Soldani, Pierluigi Tega, Rosario Grillo, Dante Bedini, Roberto Giuliani, Luisa Albini, Marialuisa Breda, Rina Zardetto, Giuseppe Murolo, Giuliano Albertini, Claudio Bella, Adriano Bracone, Beniamino Ginatempo, Maurizio Maurizi, Alma Biglieri, Giovanna D’Ambrosio, Francesco Lovison, Flavio Pajer, Claudio Natoli, Antonio Peratoner, Laura Cima, Bruno Abati, Serenella Muratori, Rosamaria Maggio, Angelo Grungo, Vincenzo Monaco, Augusto Bianco, Salvatore Consolente, Rossella Guadagnini, Fabrizio Caniglia, Donato Caporalini; Davide Bertok, Eliana Disabella, Alessandra Basilio, Mario Neri, Giovanna Corchia, Lucia Perrone, Isabella Bet, Alessandro Manfridi, Claudio Debetto, Monica Kleinefeld, Giulia Venia, Alessandro Capuzzo, Luigi La Delfa, Carlo Borriello, Tommaso Esposito, Furio Trezzi, Valentina Dovigo, Gabriella Santini, Enzo Beccaceci, Ivo Mattozzi, Luisa Albini, Pierluigi Albini, Maddalena Capezzera, Angelo Gaccione, Andrea Domenici, Giuseppe Barnato, Gianfranco Cammarata, Fausto Del Bene, Bruno Guglieri, Gianmaria Toffi, Fabio Amodio, Eugenia Marchesi, Giacomo De Lorentis, Alessandra Ferraresi, Rita Didomenica, Giancarlo Onor, Loretta Mussi, Rosario Giuè, Antonio Stupiggia, Paolo Fumagalli, Fanio Giannetto, Adriana Giussani, Bruno Vanetti Carlo, Maurizio Portaluri, Maria Rita Grazioso, Pietro Pertici, Emilio Vanoni, Roberto Collodel, Rita Angelastri, Massimo Iurino, Graziano Sampò, Maria Rosaria Bortolone, Agnese Priante, Angela Dogliotti, Fiora Pezzoli, Moreno Biagioni, Mariuccia Larocchia, Domenico Cifù, Valeria Volpe, Claudia Mazzilli, Rita Campioni, Nino Ferraiuolo, Giuseppe Natale, Clementina Mazzucco, Giuseppe Vitiello, Gianfranco Gamberini, Eleonora Zamboni, Bruno Zilio, Paolo Bertinat, Adele Pontiroli, Gianni Tasselli, Anna Maria Rizzi, Cinzia Spaolonzi, Lucia Gallo, Mario Albrigoni, Graziella Bassani, Donato Perreca, Mauro Conti, Germano Zanzi, Sergio Falcone, Ivan Morini, Renato Sala, Ivan Morini, Maria Paola Patuelli, Maria Conversano, Stefano Kegljevic, Fiorella Ercoli, Enzo Jorfida, Vito Capano, Piergiorgio Bortolotti, Giovanni Mottura, Massimiliano Galanti, Antonia Bufano, Freweini Bortolan, Franco Argada, Piera Nobili, Simone Del Corno, Maria Teresa Pietrantoni, Ilaria Cioffo, Alessia Di Grazia, Rosanna Carrera, Mirella Cerasa, Antonella Trocino, Marina Mannucci, Alberto Rebucci, Melania Rigon, Antonella Baccarini, Adelaide Castellucci, Pierpaolo Loi, Amelia Narciso, Gianni Manco, Renzo Laporta, Enzo Cabiddu, Angela Manna, Silvia Serra, Luciano Vecchi, Luisa Muston, Lucia Formenti, Maria Fraccaroli, Bruno Formenti, Ilaria Cioffo, Anna Cristina Meinardi, Gaetano Maculan, Alda Rizzo, Walter Tucci, Giulia Mariani, Augusto Cacopardo, Rosario Patane, Claudia Lazzaro, Marco Modena, Carmelo Labate, Aldo Sbrana, Luigia Oberrauch Madella, Mariella Urzì, Luciana Scognamiglio, Mariarosa Cami, Rosina Tallarico, Sergio Mondoni, Tiberio Tanzini, Alfredo Scognamiglio, Massimo Gallina, Eros Cozzari, Mauro Valiani, Marta Ghezzi, Laura Barile, Francesco Lucat, Rosanna Patrizi, Giulia Schiavo, Corrado Aprile, Carmelina Aprile, Maria Chiara Alba, Alvise Alba, Piero Murineddu, Daniela Nesi, Aurora Frigerio, Felice Scalia, Vania Valoriani, Stanislao Natali, Giuliano Valeriani, Giuseppe Longo, Manuela Galli, Licia Godeassi, Marzenka Matas, Mariagrazia Campari, Vanna Trevisan, Marinella Martucci, Gigi Lecci, Santino Marchiselli, Augusta Rossi, Anna Somenzi, Antonio Locoteta, Daniela Caramel, Martina Camarda, Giovanni Tarditi, Giuliana Martirani, Giancarlo Penazzi, Paolo Modesti, Silvana Pisa, Alberto Cacopardo, Filippo Lunesu, Claudio Morciano, Mario Martini, Cristina Quintavalla, Vittorio Pallotti, Lucia Davico, Augusto Dalmasso, Saverio Di Bella, Gabriele Serio, Paola Blasucci, Giuliano Muolo, Anna Tripoli Signore, Simone Del Corno, Giovanni Maniscalco, Maurizio Palmieri, Eleonora Fornai, Alberto Gandini, Paolo Pieroni, Silvia Lelli, Leonardo Grassi, Pietro Doneddu, Andrea Pubusa, Carlo Gubitosa, Maurizio Mastrogiovanni, Luciano Corradini, Dario Guastini, V. Cannici, Franco Meloni, Carlo Boi …
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Iniziativa della CSS Le tensioni politico militari sulla questione UCRAINA sono ormai arrivate a livelli insostenibili. È urgente mobilitarsi per PREPARARE LA PACE. Martedì 15 febbraio 2022 alle ore 18,00, presso la sede della Confederazione Sindacale Sarda in Via Marche, 9 a Cagliari si terrà un incontro per concordare una giornata di mobilitazione alla quale sei invitato ad intervenire. I primi promotori, Giacomo Meloni, Marco Mameli, Roberto Congia, Riccardo Piras, Mauro Zedda, Antonello Pranteddu. Siete invitati se concordate di aggiungere i vostri nomi tra i promotori. Saluti.
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Che succede e succederà?
Newsletter n. 247 del 2 febbraio 2022
DITELO SUI TETTI
Cari Amici,
La rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica, che ha suscitato un generale consenso, può tuttavia prestarsi a manovre di sovvertimento costituzionale che è necessario fronteggiare. La prima consiste nella delegittimazione dell’attuale sistema per l’elezione del capo dello Stato che invece si è dimostrato validissimo. Esso è giunto al risultato in soli cinque giorni, fortemente rallentati peraltro dalla pandemia che ha costretto alla rarefazione del voto. Ha anche efficacemente fermato la corsa di candidature del tutto inappropriate: prima di tutto l’autocandidatura di Berlusconi che la procedura di tipo parlamentare rendeva irrealistica ma che una procedura plebiscitaria attraverso un voto popolare avrebbe invece reso possibile; allo stesso modo un’elezione popolare avrebbe reso plausibile il falsissimo argomento di una dovuta alternanza tra “presidente di sinistra” e “presidente di destra”, aprendo la strada ai Trump e ai Goldwater di turno. Si è pure confermata la validità del sistema parlamentare integrato dalle rappresentanze regionali che prevede come salutare il formarsi di maggioranze diverse per le elezioni al Parlamento e quella al Quirinale mediante la intenzionale esclusione della sincronia tra esse, con evidente vantaggio per la divisione e il reciproco controllo dei poteri. Il risvolto negativo è semmai che il raddoppio di un lungo settennato possa portare con sé un’errata percezione di un rapporto di necessità tra il destino di una persona e il destino del Paese, con l’idea sullo sfondo dell’Uomo della Provvidenza o dell’uomo solo (e non certo della donna!) al comando.
Né vale l’argomento che i social e le maratone televisive polarizzino oggi l’attenzione dell’opinione pubblica sui palazzi del potere, come settanta anni fa, quando questo processo elettorale fu concepito, non era prevedibile, perché anzi questo argomento lo avvalora per il più largo coinvolgimento che comporta; d’altra parte anche in questo caso una ragionevole durata dello spettacolo elettorale mentre è servita a dare il pane ai giornalisti (anche se sempre gli stessi con inevitabile usura dei rispettivi volti) non ha bloccato per troppo tempo i lavori in corso nel Paese.
Il vero rischio è oggi quello di una deriva verso il presidenzialismo, non solo per la suggestione esercitata dal rinnovo del mandato a Mattarella, ma anche per la esplicita diffamazione dei partiti e delle loro leadership che è stata perpetrata durante tutta la vicenda, mentre proprio le leadership (e non i “peones” come con altrettanto disprezzo sono stati celebrati come protagonisti i semplici parlamentari) hanno condotto il gioco compreso il suo esito, deciso nel vertice finale mentre centinaia di grandi elettori erano tenuti in surplace con l’astensione.
Il vero regista dell’operazione è stato del resto il segretario del partito più sperimentato, Enrico Letta, che col realismo di una lunga esperienza parlamentare ha sempre saputo di non avere in mano le carte se non per la conferma di Mattarella. Ciò lo ha condotto a non fare mai alcun nome, tanto meno dell’unico veramente desiderato, cosa resa più agevole dal grande successo mediatico degli scatoloni presidenziali e ha permesso ai suoi luogotenenti di “farlo crescere” nelle urne, come è stato apertamente ammesso, nella ben assecondata disattenzione generale.
Il rischio di una caduta in un presidenzialismo monocratico mediante un’elezione popolare diretta è ora aumentato per il fatto che l’ha esaltato, come il proprio “sogno”, l’attore politico che, conformemente al ruolo di guastatore abituale che si è ritagliato nell’attuale congiuntura, ha sbarrato la strada all’unica candidata apprezzata da tutti e giunta fino a un passo dall’elezione. L’attore politico è stato Renzi, e la candidata era Elisabetta Belloni, che è entrata in scena come parte di una rosa proposta da Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, con la partecipazione straordinaria di Letta, in grado dunque di coagulare una maggioranza schiacciante dell’Assemblea elettorale, È stato questo fausto evento, a un passo dal realizzarsi, che ha miracolosamente prodotto la repentina conclusione della vicenda, l’inopinato ritorno in campo del presidente Mattarella, la rinuncia definitiva di Draghi, la reprimenda del ministro degli Esteri Di Maio al suo capopartito Conte, e il tripudio finale.
Le circostanze e le concomitanze sono tali che incuriosisce la domanda sul perché la candidatura Belloni sia stata così facilmente sventata. Non potendo ammettersi che la causa ne sia stata una parossistica misoginia di tutto il sistema, occorre accogliere la motivazione addotta e presa per buona che non si potesse portare alla presidenza della Repubblica la responsabile (da sette mesi) dei Servizi di Sicurezza. Ma allora resta da chiedersi il perché. Non si trattava infatti di fare presidente della Repubblica il capo della Stasi, del KGB, della CIA, del Mossad o magari della Spectre, a volerci mettere dentro anche una tipologia di jamesbondiana memoria; si trattava invece della direttrice generale dei Servizi “segreti” italiani, a capo dei quali c’è il presidente del Consiglio. Per quanto essi in passato siano stati deviati, si dovrebbe spiegare perché oggi sia infamante o inabilitante dirigerli; o chiedersi se vi sia qualche norma di purità rituale o pericolo per qualcuno a far sì che una persona con più di cinquant’anni investita di tale incarico sia la sola in Italia a non godere del diritto civile e politico di fare il presidente della Repubblica; questa sì che sarebbe una “sgrammaticatura” costituzionale, come è stato ammesso dallo stesso segretario Letta, mentre non è credibile che a preoccuparsi della grammatica costituzionale sia chi a suo tempo ne voleva sovvertire la sintassi dimezzando la rappresentanza e abolendo il Senato. A meno che a non volerlo fosse qualche Servizio, per nulla segreto, straniero, dal momento che sarebbe un “delirio”, come sostiene platealmente Cacciari sull’Espresso, eleggere qualcuno che non goda “della fiducia delle grandi potenze economico-finanziarie da cui dipendono i nostri destini”, o magari fosse l’Arabia Saudita. Così il segreto rimane: ma “per favore” la prossima volta ditelo sui tetti.
Nel sito vi offriamo il discorso del papa ai “pubblicani” italiani sul perché pagare le tasse (per i poveri, per la giustizia e per la salute), e un suo appello per i rifugiati in Libia in coda a una drammatica testimonianza di don Mattia Ferrari che evoca l’inferno libico e denuncia le responsabilità per la caccia ai migranti fuggitivi da parte degli aguzzini e della Guardia costiera che operano con i nostri finanziamenti. Pubblichiamo anche un appello urgente, aperto alle firme, contro le provocazioni che potrebbero portare a una guerra in Europa e nel mondo. Data la sua attualità, dal momento che si discute della legge elettorale con forti pulsioni presidenzialistiche, pubblichiamo anche un vecchio discorso di Palmiro Togliatti sulle virtù e la necessità, in un sistema rappresentativo, della proporzionale.
Con i più cordiali saluti
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Newsletter n. 62 del 2 febbraio 2022
IL SEGRETO
Cari Amiche e Amici,
La rielezione di Mattarella a presidente della Repubblica, che ha suscitato un generale consenso, può tuttavia prestarsi a manovre di sovvertimento costituzionale che è necessario fronteggiare. La prima consiste nella delegittimazione dell’attuale sistema per l’elezione del capo dello Stato che invece si è dimostrato validissimo. Esso è giunto al risultato in soli cinque giorni, fortemente rallentati peraltro dalla pandemia che ha costretto alla rarefazione del voto. Ha anche efficacemente fermato la corsa di candidature del tutto inappropriate: prima di tutto l’autocandidatura di Berlusconi che la procedura di tipo parlamentare rendeva irrealistica ma che una procedura plebiscitaria attraverso un voto popolare avrebbe invece reso possibile; allo stesso modo un’elezione popolare avrebbe reso plausibile il falsissimo argomento di una dovuta alternanza tra “presidente di sinistra” e “presidente di destra”, aprendo la strada ai Trump e ai Goldwater di turno. Si è pure confermata la validità del sistema parlamentare integrato dalle rappresentanze regionali che prevede come salutare il formarsi di maggioranze diverse per le elezioni al Parlamento e quella al Quirinale mediante la intenzionale esclusione della sincronia tra esse, con evidente vantaggio per la divisione e il reciproco controllo dei poteri. Il risvolto negativo è semmai che il raddoppio di un lungo settennato possa portare con sé un’errata percezione di un rapporto di necessità tra il destino di una persona e il destino del Paese, con l’idea sullo sfondo dell’Uomo della Provvidenza o dell’uomo solo (e non certo della donna!) al comando.
Né vale l’argomento che i social e le maratone televisive polarizzino oggi l’attenzione dell’opinione pubblica sui palazzi del potere, come settanta anni fa, quando questo processo elettorale fu concepito, non era prevedibile, perché anzi questo argomento lo avvalora per il più largo coinvolgimento che comporta; d’altra parte anche in questo caso una ragionevole durata dello spettacolo elettorale mentre è servita a dare il pane ai giornalisti (anche se sempre gli stessi con inevitabile usura dei rispettivi volti) non ha bloccato per troppo tempo i lavori in corso nel Paese.
Il vero rischio è oggi quello di una deriva verso il presidenzialismo, non solo per la suggestione esercitata dal rinnovo del mandato a Mattarella, ma anche per la esplicita diffamazione dei partiti e delle loro leadership che è stata perpetrata durante tutta la vicenda, mentre proprio le leadership (e non i “peones” come con altrettanto disprezzo sono stati celebrati come protagonisti i semplici parlamentari) hanno condotto il gioco compreso il suo esito, deciso nel vertice finale mentre centinaia di grandi elettori erano tenuti in surplace con l’astensione.
Il vero regista dell’operazione è stato del resto il segretario del partito più sperimentato, Enrico Letta, che col realismo di una lunga esperienza parlamentare ha sempre saputo di non avere in mano le carte se non per la conferma di Mattarella. Ciò lo ha condotto a non fare mai alcun nome, tanto meno dell’unico veramente desiderato, cosa resa più agevole dal grande successo mediatico del trasloco degli scatoloni presidenziali e ha permesso ai suoi luogotenenti di “farlo crescere” nelle urne, come è stato apertamente ammesso, nella ben assecondata disattenzione generale.
Il rischio di una caduta in un presidenzialismo monocratico mediante un’elezione popolare diretta è ora aumentato per il fatto che l’ha esaltato, come il proprio “sogno”, l’attore politico che, conformemente al ruolo di guastatore abituale che si è ritagliato nell’attuale congiuntura, ha sbarrato la strada all’unica candidata apprezzata da tutti e giunta fino a un passo dall’elezione. L’attore politico è stato Renzi, e la candidata era Elisabetta Belloni, che è entrata in scena come parte di una rosa proposta da Cinque Stelle, Lega e Fratelli d’Italia, con la partecipazione straordinaria di Letta, in grado dunque di coagulare una maggioranza schiacciante dell’Assemblea elettorale, È stato questo fausto evento, a un passo dal realizzarsi, che ha miracolosamente prodotto la repentina conclusione della vicenda, l’inopinato ritorno in campo del presidente Mattarella, la rinuncia definitiva di Draghi, la reprimenda del ministro degli Esteri Di Maio al suo capopartito Conte, e il tripudio finale.
Le circostanze e le concomitanze sono tali che incuriosisce la domanda sul perché la candidatura Belloni sia stata così facilmente sventata. Non potendo ammettersi che la causa ne sia stata una parossistica misoginia di tutto il sistema, occorre accogliere la motivazione addotta e presa per buona che non si potesse portare alla presidenza della Repubblica la responsabile (da sette mesi) dei Servizi di Sicurezza. Ma allora resta da chiedersi il perché. Non si trattava infatti di fare presidente della Repubblica il capo della Stasi, del KGB, della CIA, del Mossad o magari della Spectre, a volerci mettere dentro anche una tipologia di jamesbondiana memoria; si trattava invece della direttrice generale dei Servizi “segreti” italiani, a capo dei quali c’è il presidente del Consiglio. Per quanto essi in passato siano stati deviati, si dovrebbe spiegare perché oggi sia infamante o inabilitante dirigerli; o chiedersi se vi sia qualche norma di purità rituale o pericolo per qualcuno a far sì che una persona con più di cinquant’anni investita di tale incarico sia la sola in Italia a non godere del diritto civile e politico di fare il presidente della Repubblica; questa sì che sarebbe una “sgrammaticatura” costituzionale, come è stato ammesso dallo stesso segretario Letta, mentre non è credibile che a preoccuparsi della grammatica costituzionale sia chi a suo tempo ne voleva sovvertire la sintassi dimezzando la rappresentanza e abolendo il Senato. A meno che a non volerlo fosse qualche Servizio, per nulla segreto, straniero, dal momento che sarebbe un “delirio”, come ha sostenuto platealmente Cacciari sull’Espresso, eleggere qualcuno che non goda “della fiducia delle grandi potenze economico-finanziarie da cui dipendono i nostri destini”, o magari fosse l’Arabia Saudita. Così il segreto rimane: ma “per favore” la prossima volta ditelo sui tetti.
Nel sito pubblichiamo un appello urgente, aperto alle firme, contro le provocazioni che potrebbero portare a una guerra in Europa e nel mondo. Pubblichiamo anche un vecchio discorso di Palmiro Togliatti che, al di là delle contingenze politiche del tempo, illustra il valore permanente della proporzionale in un sistema rappresentativo, e un contributo di Raniero La Valle sul problema della collocazione costituzionale delle religioni nella nuova società globale.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
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La tragedia di via Cadello
Perché?
di Massimo Aresu su fb
Tra i vari miei contatti su fb ha suscitato ieri molta commozione mista a rabbia l’investimento in Via Cadello di un bimbo di quindici mesi, travolto da un motociclista che non si sarebbe poi fermato. Al di là della risposta emotiva e delle giuste richieste di un maggior controllo sul traffico in una città in cui la polizia municipale sembra avere quasi una funzione ornamentale, rimane un punto su cui non ho visto particolari riflessioni. Cagliari come molti comuni italiani è un centro costruita su misura per gli automobilisti, e in cui la fluidità del traffico è stato il principale obiettivo perseguito istituzionalmente in favore degli automobilisti, a prescindere dal fatto che tale fluidità che si può tradurre in una velocità maggiore dei mezzi privati si ripercuotesse sull’incolumità di una categoria particolarmente invisa agli amministratori cittadini, i pedoni. Con meno scalpore nei mesi passati, e cito solo i fatti di cui ho memoria si sono verificati incidenti mortali in diverse zone della città: nell’ agosto dell’anno scorso un operatore del mercato ittico investito in viale la Plaia; a novembre un’anziana signora in Via Quirra travolta con la figlia; ancora a dicembre un altro signore investito n Via Baccaredda ha perso la vita. Più di recente nel mese di gennaio, una persona anziana è stata investita in Via Roma finendo in rianimazione. Tutti questi incidenti pero non hanno suscitato particolari reazioni nell’opinione pubblica. Mancano a Cagliari percorsi di attraversamento pedonale sicuri, dato che con l’avvio della stagione delle rotonde molti semafori sono spariti, e sono spariti i semafori pedonali anche in strade come Via Roma dove le rotonde non ci sono, mancano in altre vie a scorrimento veloce dove pure non sarebbero mancati gli spazi per poterlo fare, Via Cadello è uno di quelli sovrapassaggi o sottopassaggi. Ma il punto è che il pedone a Cagliari è un ostacolo, un intralcio e che fino a quando la città sarà in ostaggio delle auto, e per far risparmiare tempo agli automobilisti (magari cinque o dieci minuti su un percorso di mezz’ora) si penalizzeranno i pedoni, questi incidenti saranno una costante, e a poco varranno le lacrime spese in un post se non si tradurranno in un’azione politica tesa a rimettere in discussione le scelte scellerate del passato.
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di Gianfranco Fancello, su fb.
Oggi, per chi fa il mio lavoro, per chi come me si occupa di mobilità, trasporti e soprattutto di sicurezza stradale, é stata una giornata pesante, molto pesante.
Al dolore, forte, per quanto accaduto a Cagliari, si somma l’altrettanto forte sensazione di inutilità del nostro lavoro, l’inadeguatezza di quanto fatto finora, l’evanescenza di ciò che si é scritto e detto, l’incompiutezza di piani e di interventi progettati e mai attuati.
Tutto inutile, tutto maledettamente in ritardo, tutto tremendamente vuoto quando un bimbo di poco più di un anno muore sulle strisce.
Ti interroghi sul tuo ruolo di ricercatore, di studioso, di progettista, su cosa avresti potuto fare. Certamente tanto, certamente meglio, certamente di più.
Ci sarà tempo, spero non tanto, per capire, per approfondire e soprattutto per migliorare le mille cose fatte e fare le mille cose che ancora mancano. Da domani, però.
Oggi solo silenzio, rispettoso, doloroso e profondo silenzio, disturbato solo da una piccola nota: quando guidiamo, auto o moto non ha importanza, ricordiamoci che abbiamo sempre in mano un’arma. Carica e senza sicura.
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La tragedia di via Cadello: Cagliari non dimentichi Daniele
di Marcello Zasso su SardiniaPost.
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Che succede?
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Newsletter n. 61 del 26 gennaio 2022
LA SFIDA
Cari Amici,
mentre è in corso un’elezione del Presidente della Repubblica in cui la cosa peggiore è come la raccontano i giornali, che non sono meno responsabili, con i loro proprietari, della crisi di credibilità della politica, nel cuore dell’Europa spirano impetuosi venti di guerra.
Questa coinvolge gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Russia e potrebbe perciò chiamarsi, e forse diventarlo, guerra mondiale, in un mondo ormai però ben provvisto di armi nucleari o altre simili ad esse; per sventare questo rischio, il Papa ha indetto proprio per oggi una “giornata di preghiera”.
Il casus belli del conflitto per l’Ucraina, con gli Stati Uniti che la rimpinzano di armi, l’Inghilterra che ritira i suoi diplomatici da Kiev, e la NATO pronta a mettercisi in mezzo (ma non così la Germania e la Francia) è particolarmente eloquente: cioè non esiste, o meglio non esisterebbe se non fosse costruito a tavolino. La Russia è accusata di voler invadere l’Ucraina, ma nello stesso tempo la sfidano facendo entrare l’Ucraina nella NATO, la quale è portata così fino ai confini della Russia. E a questa che si sente minacciata e ne vuole scongiurare il pericolo, come fecero a suo tempo gli Stati Uniti dinanzi alla provocazione dei missili a Cuba, si replica che l’Ucraina deve essere libera di allearsi con chi vuole.
Senonché la NATO non è solo un’alleanza, è una integrazione di armate sotto un comando unificato e un’unica obbedienza, altrimenti noi non avremmo le bombe atomiche a Ghedi e non avremmo avuto i missili Cruise schierati in Sicilia col compito di distruggere l’Ungheria. E come spiega Domenico Gallo, nella NATO non si entra se non è essa stessa a volerlo e non ne venga modificato il trattato istitutivo e così esteso non lo ratifichino tutti gli Stati membri (compresa l’italia).
Perciò mettere l’Ucraina nella NATO è una insensata e inutile provocazione, che appare tanto più temeraria in quanto fatta da Biden, che non ha saputo né prevenire né controllare l’assalto al Campidoglio né gestire decentemente il ritiro dall’Afghanistan, da lui definito “uno straordinario successo”.
Nel sito, in sede di “processo costituente” iniziamo la riflessione sul progetto di Costituzione “L’umanità al bivio” di Luigi Ferrajoli con tre interventi: uno di Raniero La Valle in cui ci si domanda che cosa è la Terra, se gli esseri umani sono unici o assimilabili agli altri esseri viventi, animali e piante, e quale rapporto prevedere tra gli Stati e i popoli nell’Assemblea generale e nell’ordinamento complessivo; un altro intervento dello stesso Ferrajoli per un confronto tra l’Assemblea dell’ONU e il Parlamento mondiale ipotizzato in una Federazione della Terra, e un articolo di Gaetano Azzariti sul “Manifesto” che pone il problema, peraltro già contemplato nel progetto Ferrajoli, dell’incontro tra costituzionalmente locale e globale. Dello stesso Ferrajoli è uscito oggi un lungo articolo sul supplemento mensile “Pianeta Terra” del Corriere della Sera. Una discussione che invitiamo a proseguire, così come invitiamo chi non lo avesse fatto a rinnovare l’iscrizione a “Costituente Terra”, anche in vista della prossima assemblea.
Molto bene sono andati gli incontri seminariali “da remoto” di “Costituente Terra” con le classi dell’Istituto Keplero di Roma, coordinati da Paola Paesano, l’ultimo dei quali, il 24 gennaio, dedicato ai nuovi problemi costituzionali e giuridici provocati dall’avanzare delle tecnologie informatiche.
Nel sito pubblichiamo altresì un commento di Boaventura de Sousa Santos sulle responsabilità dell’ONU nei confronti della crisi ucraina.
Con i più cordiali saluti
www.costituenteterra.it
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chiesadituttichiesadeipoveri
Newsletter n. 246 del 26 gennaio 2022
VENTI DI GUERRA
Carissimi,
non sappiamo se l’odierna giornata di preghiera per la pace in Ucraina e nel continente europeo promossa dal Papa nell’Angelus di domenica 23 gennaio riuscirà a fermare la guerra, come accadde quando, all’inizio dl pontificato, papa Francesco con la veglia di preghiera del 7 settembre 2013 riuscì a fermare la guerra con cui gli Stati Uniti e i loro alleati erano pronti a “punire” la Siria. Questa volta la promessa di guerra non è meno grave, perché il coinvolgimento degli Stati Unit, dell’Europa e della Russia ben potrebbe chiamarsi, e forse essere, una guerra mondiale, in un mondo ormai però ben provvisto di armi nucleari o altre simili ad esse.
Il casus belli del conflitto per l’Ucraina, con gli Stati Uniti che la rimpinzano di armi, l’Inghilterra che ritira i suoi diplomatici da Kiev, e la NATO pronta a mettercisi in mezzo (ma non così la Germania e la Francia) è particolarmente eloquente: cioè non esiste, o meglio non esisterebbe se non fosse costruito a tavolino. La Russia è accusata di voler invadere l’Ucraina, ma nello stesso tempo la sfidano facendo entrare l’Ucraina nella NATO, la quale è portata così fino ai confini della Russia. E a questa che si sente minacciata e ne vuole scongiurare il pericolo, come fecero a suo tempo gli Stati Uniti dinanzi alla provocazione dei missili a Cuba, si replica che l’Ucraina deve essere libera di allearsi con chi vuole. Senonché la NATO non è solo un’alleanza, è una integrazione di armate sotto un comando unificato e un’unica obbedienza, altrimenti noi non avremmo le bombe atomiche a Ghedi e non avremmo avuto i missili Cruise schierati in Sicilia col compito di distruggere l’Ungheria. E come spiega Domenico Gallo nel suo articolo in questo sito, nella NATO non si entra se non è essa stessa a volerlo e non ne venga modificato il trattato istitutivo e così esteso non lo ratifichino tutti gli Stati membri (compresa l’Italia).
Perciò mettere l’Ucraina nella NATO è una insensata e inutile provocazione, che appare tanto più temeraria in quanto fatta da Biden, che non ha saputo né prevenire né controllare l’assalto al Campidoglio né gestire decentemente il ritiro dall’Afghanistan, da lui definito “uno straordinario successo”.
Con i più cordiali saluti
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E l’Italia?
SI RISCHIA LA GUERRA
26 GENNAIO 2022 / EDITORE / DICONO I FATTI / su Costituente Terra.
La provocazione di una estensione della NATO fino alle frontiere della Russia riapre la guerra fredda. Un conflitto armato in Ucraina anche se non vi entrasse la NATO avrebbe conseguenze esiziali per l’Europa
di Domenico Gallo
La crisi Russia, Ucraina, NATO si avvita ogni giorno di più in una spirale di minacce militari e politiche in fondo alle quali non si intravede alcuna via di uscita. A nulla è servita la riunione a Ginevra il 12 gennaio del Consiglio Nato-Russia, principale forum di dialogo tra le due parti, convocata e presieduta dal segretario generale dell’Alleanza, Jens Stoltenberg, cui hanno partecipato per la Russia il viceministro degli Esteri Alexander Grushko, per gli Stati Uniti il sottosegretario di Stato americano Wendy Sherman, oltre gli ambasciatori presso la Nato degli Stati membri. Stoltenberg ha riconosciuto che nessun accordo è stato raggiunto per operare una de-escalation della tensione e, con riferimento alla questione centrale sul tappeto (l’adesione dell’Ucraina alla NATO) ha dichiarato: “Ogni Stato ha il diritto di decidere il proprio cammino e solo l’Ucraina può decidere quando aderire alla Nato. Gli alleati sono pronti a sostenere l’Ucraina per la sua adesione“. Poiché l’oggetto della crisi riguarda proprio l’adesione dell’Ucraina alla NATO, vale a dire l’ingresso del dispositivo militare della NATO nel territorio dell’Ucraina, che la Russia percepisce come una minaccia intollerabile alla propria sicurezza, è evidente che se si mantiene questa posizione fondamentalistica non si può fare nessun passo avanti per risolvere la crisi. Non a caso il fallimento del dialogo NATO – Russia ha comportato negli ultimi giorni una decisa escalation della tensione. Il Regno Unito ha annunciato che invierà d’urgenza armi anticarro all’Ucraina, mentre ingenti forze russe con reparti corazzati, artiglieria, armi pesanti e aviazione, sono state schierate in Bielorussia per grandi manovre militari congiunte. Contemporaneamente la Svezia ha rafforzato il suo dispositivo militare nell’isola baltica di Gotland. Ogni giorno che passa cresce la violenta reciprocità delle minacce militari.
Un dialogo serio non può essere fondato sulla richiesta di capitolazione dell’avversario come ha fatto Stoltemberg su mandato USA. Un conflitto armato in Ucraina, anche se non comportasse un intervento diretto della NATO nelle operazioni belliche, avrebbe conseguenze esiziali per l’Europa, basti pensare al tema dell’energia, dei profughi, delle devastazioni ambientali. Il nostro futuro non può rimanere appeso al filo degli umori di Blinken o di Stoltemberg. Dobbiamo renderci conto che ci troviamo di fronte all’ultimo atto, siamo arrivati in fondo ad un percorso che ci ha portato in un vicolo cieco dal quale non c’è una via d’uscita (pacifica).
Dopo il crollo del muro di Berlino Gorbaciov acconsentì alla riunificazione della Germania e sciolse il patto di Varsavia, chiedendo soltanto, a garanzia della sicurezza della Russia, che la NATO non spostasse i propri dispositivi militari nei Paesi dell’Europa dell’est. Invece in questi trent’anni gli Stati Uniti hanno lavorato forsennatamente per estendere la NATO ad est, includendo anche Paesi che facevano parte dell’ex Unione sovietica. Progressivamente ai confini della Russia sono stati dislocati dispositivi militari che obiettivamente costituiscono una minaccia e come tali vengono percepiti. Queste scelte insensate che hanno costruito, passo dopo passo, le condizioni per il ritorno di una nuova e molto più pericolosa guerra fredda, non sono frutto del fato cinico e baro, non ci cadute addosso per malasorte, l’Italia vi ha contribuito e ne è stata protagonista. Quando Stoltemberg dichiara che solo l’Ucraina può decidere quando aderire alla NATO, prende in giro l’opinione pubblica e nasconde la sostanza del problema poiché l’adesione alla NATO di un Paese che non ne faccia parte non è un fatto automatico, sono i Paesi membri dell’Alleanza che lo decidono necessariamente all’unanimità. Nel vertice della NATO svoltosi a Bucarest il 2 aprile 2008 si decise che la NATO avrebbe riconosciuto il “principio della porta aperta” sia per l’Ucraina sia per la Georgia. Nell’occasione, evidentemente, l’ambasciatore italiano ha espresso consenso o non si è opposto. E allora dobbiamo chiederci, quando mai nel dibattito politico è stato discusso quale posizione dovesse assumere l’Italia su un tema così delicato di politica estera, come l’adesione alla NATO dell’Ucraina e della Georgia?
Le scelte che l’Italia compie in sede NATO vengono effettuate in silenzio ed al riparo da ogni ingerenza dell’opinione pubblica. I Protocolli di adesione alla NATO delle Repubbliche di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, sono stati ratificati con la legge 19 agosto 2003 n. 255, quelli di adesione di Croazia e Albania con la legge 30 dicembre 2008 n. 220, quello di adesione del Montenegro con la legge 16 gennaio 2017, n.2. Queste leggi sono passate senza clamore, senza discussione, come se si trattasse di un atto dovuto. Se i politici italiani avessero avuto la lungimiranza e il coraggio di dissociarsi, oggi non ci troveremmo con la guerra alle porte.
Che si può ancora evitare: basta dire No.
Domenico Gallo
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MEDIAMORFOSI potere poteri e società dell’informazione
Potere poteri
e società dell’informazione/1
di Vincenzo Vita su Rocca*
Il sociologo e filosofo francese Pierre Bourdieau (2010) scrive che «il campo del potere» è lo spazio al di sopra e al di là dei campi specifici e sul quale agiscono le forze che muovono per influenzare le interrelazioni fra i vari campi.
Lo studioso tedesco di scienze politiche Thomas Meyer (2003) parla di «mediatizzazione» della politica, introducendo – senza forse immaginare le conseguenze della sua premonizione – una categoria di analisi quanto mai pertinente per descrivere la situazione odierna. È importante introdurre riferimenti generali e «nominare» bene le diverse questioni. Riflettere oggi, infatti, sul nesso dialettico politica-comunicazione è ben diverso rispetto ad altre fasi della comunicazione.
Lasciamo stare la preistoria, segnata dalla transizione dall’oralità alla scrittura. Ma come sarà stata grave la lotta, senza vie di uscita.
Si potrebbe cominciare per comodità dall’età della Galassia Gutenberg, quando i caratteri a stampa limitarono radicalmente il ruolo dei monaci; per arrivare con un balzo veloce all’avvento delle trasmissioni circolari con il tubo catodico e le onde hertziane.
media and politics dai media ai mass media
Anzi. Proprio nella stagione della radio e della televisione raggiunse la sua epifania il tema media and politics. Il sistema informativo, infatti, era pesantemente entrato nei riti e negli usi del consumo di massa, scrollandosi di dosso il suo sapore elitario. Dall’aristocrazia si passava direttamente alla piccola borghesia. In verità, l’ascesa del peso dei media, divenuti mass media, fu facilitato da due fenomeni tra di loro pur assai distanti: per un verso il grande peso assegnato alla radio da Roosevelt per lanciare il New Deal, per un altro la spinta strumentale venuta dai regimi autoritari. Con una differenza sostanziale: negli Stati Uniti il desiderio riguardava l’incremento della spesa pubblicitaria in funzione anticiclica; in Europa fascismo e nazismo si impossessarono di strumenti ritenuti adatti alla propaganda.
Una delle teorie sugli effetti dei media, rovello che ha sempre impegnato la communication research, fu non per caso quella cosiddetta ipodermica, coniata dal suo fondatore Harold Lasswell. Come con una puntura il messaggio entra sotto la pelle. La teoria degli anni quaranta del secolo scorso si attagliava agli stati d’eccezione, ma ne ritroveremo tracce – ad esempio- nella stagione dei videomessaggi di Silvio Berlusconi o del vessillifero Emilio Fede.
La medesima impostazione fu corretta (e sminuita), dalle ricerche dello statunitense Paul Lazarsfeld, mentre una compiuta diagnosi degli usi e gratificazioni dei cittadini-utenti fu offerta dai cultural studies nati e cresciuti negli anni sessanta in Gran Bretagna su impulso di Stuart Hall. Alla base degli studi culturali si ha l’encoding/ decoding model. Hall individua tre tipi di decodifica: dominante (corrispondente al punto di vista egemone), oppositiva (frutto di un’opposta visione del mondo), negoziale (compromesso attraverso il conflitto). Come si vede, la comunicazione diviene un rapporto negoziale, attraversato da lotte ed asperità.
l’agenda setting
Saranno gli approcci dell’agenda setting e dell’agenda building (secondo gli studi del compianto Mauro Wolf) a meglio chiarire il punto: la comunicazione (classica) non influisce in modo diretto sugli orientamenti delle persone, bensì sulla costruzione del clima e delle priorità. Del resto, lo vediamo tuttora nei grandi quotidiani o nella televisione generalista: un tema sale e scende secondo opportunità extra-mediali. Pensiamo al terribile caso di scuola dell’Afghanistan, rimasto in testa alle notizie per un paio di settimane, e poi scomparso.
Naturalmente, stiamo parlando dei media analogici o di quelli digitali derivati a mo’ di copia conforme dai predecessori.
Il lungo periodo del dominio elettronico fa vivere gli alti e i bassi del nesso con la politica o, meglio, con il «campo del potere» definito da Bourdieau. Lottizzazioni partitiche (in primis alla Rai, ma non solo), sventagliata di editori «impuri», intrecci con associazioni non commendevoli connotano il percorso accidentato delle liaison dangereuse.
La riforma del servizio pubblico del 1975 (n. 103) servì da alibi per plasmare l’azienda «a canne d’organo», l’editoria sempre in affanno si posizionava nei pressi di governi e parlamenti, l’esplosione delle emittenti commerciali stravolgeva per un certo limitato numero di anni l’equilibrio, ma senza una vera normativa antitrust, perché la legge n. 223 del 1990 (ministro Oscar Mammì) tutto fu salvo che un’effettiva regolamentazione del settore.
la nuova avventura
tra comunicazione e politica
Peggio che mai, arrivarono nel 1984 i decreti legge chiamati Craxi (allora presidente del Consiglio) in favore delle reti di Silvio Berlusconi.
Lì cominciò la nuova avventura del rapporto con l’universo politico.
Un’opposizione spesso ignara e, comunque, flebile non riuscì a contrapporsi ad un andamento tanto forte da surdeterminare i lustri successivi. Neppure un
referendum tenutosi nel 1995 riuscì a frenare la resistibile ascesa del Cavaliere di Arcore. E neppure ne scalfì il successo la normativa degli anni novanta, di cui
ha la principale responsabilità il centrosinistra, fatta eccezione per la legge n. 28 del 2000 (par condicio) e – almeno nelle intenzioni – per la costituzione dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni (Agcom) con la legge n. 249 del 1997.
Le destre, a cominciare dagli ex ministri Romani e Gasparri, spensero ogni speranza, legittimando definitivamente l’impero del biscione. E il Testo Unico per la
radiodiffusione del 2005 è ancora in vigore.
Proprio con la offensiva congiunta di Fininvest-Mediaset e Forza Italia il contesto cambia, fino a rovesciare l’ordine degli addendi: la comunicazione si fa politica e quest’ultima vive di comunicazione.
il berlusconismo come ibridazione
tra comunicazione e politica
Il berlusconismo non è solo e tanto un fenomeno limitato alla sfera politica, bensì
un modello di ibridazione tra i due livelli.
I videomessaggi superano l’intermediazione giornalistica e costruiscono la relazione tra l’uno e la moltitudine zche diventa
via via uno stile e un criterio. Con numerosi seguaci: da Matteo Renzi a Salvini.
Torna di attualità la stessa sopra citata teoria ipodermica. Ma, ciò che è più importante, avvenne una piccola significativa rivoluzione, capace di cambiare la sintassi del sistema. Lo stile di Berlusconi conquista progressivamente l’egemonia sul
e nel discorso pubblico. Che, per riprendere Meyer, si «mediatizza».
Ma, nel frattempo, sembra svanire la cornice della modernità, per entrare nel territorio ambiguo che il condirettore del Wesley
Media Center Jay David Bolter (2020) chiama «Plenitudine digitale», ovvero – secondo la sua descrizione – «un universo di prodotti (dai social media ai videogiochi, dalla
tv al cinema, e così via) e pratiche (la realizzazione di tutti questi prodotti insieme al
loro remix, condivisione e critica) tanto vasto
e vario che non può essere descritto come un
insieme coerente: la plenitudine accoglie facilmente, anzi ingloba, le forze contraddittorie della cultura alta e popolare, dei vecchi e
dei nuovi media, delle opinioni sociali conservatrici e radicali. I media digitali oggi forniscono un ambiente ideale per questa pienezza. Per la nostra cultura mediale flat in cui ci sono molti punti focali ma nessun singolo centro»…
La storia si prende la rivincita. Il gruppo di comando Fininvest-Mediaset, supportato dal centrodestra, aveva fatto carte false per accelerare l’ingresso su larga scala della decodifica numerica. E non si accorse che perdeva in tal modo la sua centralità, annegata e confusa nella plenitudine. digitale e post-modernità
In verità, l’ambiente digitale non è un mero salto tecnologico, bensì una antropologia culturale, forse il vero avvio della post-modernità. E se, nei vari passaggi, si è parlato (Fidler; Grusin e Bolter) di «Mediamorfosi» o di «Ri-mediazione» – i media non si cannibalizzano, bensì si trasformano – è probabilmente venuto il momento di assumere lo scenario di un cambiamento profondo.
Il digitale (incredibilmente pensato per anni come un aggettivo di televisione) è il linguaggio del capitalismo delle piattaforme
e, prima che sia soppiantato a sua volta dall’informatica quantica, è una sorta di latino-rum delle macchine. È una parola indebitamente legata all’inglese to digit, mentre più semplicemente evoca le dita delle mani e la conta. I nativi digitali ben conoscono la realtà, navigando già alla giovanissima età di 5/6 anni. Si pone, dunque, un clamoroso problema di alfabetizzazione. Perché non basta navigare: è indispensabile conoscere filosofia e funzionamento degli dei pagani che ci accompagnano per tre-quattro ore al giorno di media. Computer, smartphone, cellulari di nuova generazione, tv streaming sono entrati nella quotidianità, attraverso quella che Roger Silverstone ha chiamato domestication. La vittima designata è il palinsesto, mentre prevale il flusso on demand.
C’è un pericolo incombente che attiene alla democrazia effettiva: il pubblico subisce un digital e un cultural divide. Tra chi è in grado di accedere ai servizi a pagamento e chi si deve accontentare del vecchio video generalista con i suoi format antiquati e ripetitivi.
(continua)
Vincenzo Vita
MEDIA MORFOSI
ROCCA 15 GENNAIO 2022
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MEDIAMORFOSI
potere poteri e società dell’informazione/2
Vincenzo Vita
Il Piano di Rilancio e Resilienza (Pnrr)
destina al digitale (termine che ricorre 143 volte nel testo) cospicue cifre,
più di 40 miliardi di euro.
Gli algoritmi dominano le strutture di
calcolo, moltiplicandole all’infinito. Big
Data, Cloud, profilazione divengono le parole magiche.
I social superano le audience dell’electronic age e persino la loro capacità di reperimento delle risorse pubblicitarie.
Ecco, i social, malgrado siano spesso utilizzati secondo schemi televisivi, ovvero
come bacheche, hanno fatto irruzione nelle retoriche pubbliche. Non c’è esponente
politico che non utilizzi Facebook, o Twitter, o Instagram, o WhatsApp, o Tik Tok
per rapportarsi ai referenti sociali.
Un msg ti allunga la vita e ti connette a
una società sempre meno frequentata dal
vivo e poco conosciuta nei sommovimenti
profondi.
La politica è trasmigrata nelle recenti modalità di comunicazione. Spesso acriticamente, come se non fosse chiaro che ogni
click è un regalo incosciente agli oligarchi
della rete e che l’utilizzo massivo degli Over
The Top (da Apple, a Microsoft, a Google, a
Facebook, a Twitter, a Alibaba per estendere la visuale) accresce enormemente il nuovo Potere, quello delle Big Tech, i più ricchi
e finanziarizzati del reame.
[segue]
Economia circolare
AGENDA VERDE
economia circolare e design
di Carlo Timio su Rocca.
Uno degli elementi cardine dell’ormai avviato processo di transizione economica è rappresentato dall’opportunità di dare vita a un’economia circolare in grado di conciliare sviluppo e impatto ambientale. Questo obiettivo, che costituisce una delle sfide perseguite dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), ma che si rifà anche agli Obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, agli accordi di Parigi e al Green Deal europeo, rientra nella Missione 2 del Pnrr che prevede uno stanziamento di 59,47 miliardi per dare vita alla Rivoluzione verde e la transizione ecologica, di cui 5,27 miliardi sono dedicati sia all’economia circolare che all’agricoltura sostenibile.
Quando si parla di economia circolare si fa riferimento a un modello di produzione e di consumo che implica condivisione, riutilizzo, riparazione, ricondizionamento, riciclo di materiali e prodotti esistenti per incrementarne la durata. Così facendo, si estende il ciclo di vita dei prodotti, contribuendo a ridurre i rifiuti al minimo. Ciò che accade è che una volta che il prodotto ha terminato la sua funzione, i materiali di cui è composto, vengono reintrodotti, laddove possibile, nel ciclo economico, venendo continuamente riutilizzati all’interno del sistema produttivo e generando ulteriore valore. Questi principi dell’economia circolare esprimono la soluzione alternativa al tradizionale modello economico lineare fondato sul paradigma «estrarre, produrre, utilizzare e gettare», la cui funzionalità non può prescindere dalla presenza di una vasta disponibilità di materiali ed energia facilmente reperibili e a basso prezzo. Con l’avvento della pandemia si è determinato un forte incremento della domanda di materie prime e allo stesso tempo uno scarso reperimento delle risorse, che da un lato sono sempre più essenziali – data anche la continua crescita della popolazione mondiale – e dall’altro sempre più limitate. In tutto ciò va anche ricordato l’impatto sul clima e quindi sull’ambiente provocato dai processi di estrazione e di utilizzo delle materie prime, che necessitano di un uso crescente di consumo di energia, provocando ulteriori emissioni di anidride carbonica. Si stima che la produzione dei materiali che vengono utilizzati ogni giorno è responsabile del 45% delle emissioni di Co2. Numerosi sono i vantaggi che derivano dalla transizione verso un’economia più circolare: tra questi spiccano la riduzione della pressione sull’ambiente, una maggiore disponibilità di materie prime, un incremento della competitività, un impulso all’innovazione, alla crescita economica e
un incremento dell’occupazione (che nell’Ue ammonterebbe a circa settecentomila nuovi posti di lavoro entro il 2030). Altro vantaggio è che grazie all’economia
circolare i consumatori potranno avere anche prodotti più durevoli e innovativi in grado di far risparmiare e migliorare la qualità della vita. Ad esempio, ricondizionare i veicoli commerciali leggeri anziché riciclarli porterebbe a un risparmio di materiale per 6,4 miliardi all’anno e 140 milioni in costi energetici, con una contrazione delle emissioni di gas serra pari a 6,3 milioni di tonnellate. Su questo fronte a livello europeo, il Parlamento ha chiesto l’adozione di misure che contrastino l’obsolescenza programmata dei prodotti che rappresenta una strategia propria del modello economico lineare. A marzo 2020 la Commissione europea ha presentato la proposta per la nuova strategia industriale basata sul piano di azione per un’economia circolare che include proposte sulla progettazione di prodotti più sostenibili, sulla riduzione dei rifiuti e sul «diritto alla riparazione». A febbraio 2021 il Parlamento europeo ha votato a favore, chiedendo misure aggiuntive per raggiungere un’economia a zero emissioni di carbonio, sostenibile dal punto di vista ambientale, libera dalle sostanze tossiche e completamente circolare entro il 2050. Su questo scenario, ai fini della realizzazione di una economia circolare, si inserisce in maniera significativa il design che con le sue caratteristiche e finalità incentrate sulla progettazione su scala micro, se riesce ad avere una visione non solo fondata sull’estetica e sull’orpello, ma anche capace di cogliere le esigenze su scala più ampia, può giocare un ruolo
strategico e determinante nella transizione da un’economia lineare a una circolare. Quado si parla di design che crea valore non si deve pensare soltanto al prodotto nella sua lunga fase di realizzazione dal concept alla produzione, ma anche alla distribuzione, alla comunicazione, fino all’esperienza dell’utilizzo. Sono anche progettati i servizi, le relazioni tra i marchi e il loro pubblico e persino il fine vita dei prodotti. Ma non è tutto. Oggi il design è chiamato ad assolvere un ruolo di primaria importanza in questa fase di transizione green, avendo le potenzialità per invertire quel processo fin qui adottato e concentrato sull’iperconsumo industriale – di cui lo stesso design è complice –, che per promuovere e incrementare la produzione promuove l’obsolescenza programmata (il processo che suscita nei consumatori il desiderio di sostituire beni tecnologici o appartenenti ad altre tipologie, per poter possedere oggetti di ultima generazione), contribuendo a rendere insostenibile l’attuale sistema economico. In che modo può assolvere a questa rinnovata funzione? Passando da un sistema in cui il valore era rappresentato dalla filiera estrazione materiali, lavorazione e trasformazione in prodotti, vendita e nella maggior parte dei casi deposito nella discarica, a un sistema in cui il valore rimane in circolo, rigenerandosi continuamente. Questa è l’essenza dell’economia circolare. Ma se questo nuovo approccio è encomiabile e degno di essere applicato in maniera massiccia, è altrettanto vero che non è sufficiente. Seppur è vero che l’utilizzo di alcuni materiali quali la carta e il legno piuttosto che altri sia più sostenibile così come sono più performanti e green alcuni sistemi produttivi come quelli che utilizzano materiali di recupero, è altrettanto vero che se queste attitudini non vengono inserite in un quadro più ampio, anche sicuramene culturale, serviranno a ben poco. La sostenibilità va compresa e sostenuta con un metodo multidisciplinare capace di valutare l’impatto ambientale sotto molteplici aspetti. Un sistema indispensabile cui non si può prescindere è l’analisi del ciclo di vita (in inglese life-cycle assessment), un metodo che consente di quantificare il potenziale impatto che può causare tutta la filiera della produzione sull’ambiente e sulla salute, distribuzione e utilizzo di un bene o un servizio attraverso l’analisi dell’impiego di risorse e le relative emissioni di Co2.
Due casi sono emblematici: il primo riguarda il lavaggio di una t-shirt le cui emissione di Co2 sono maggiori rispetto al suo intero processo di vita e l’altro fa
riferimento alla preparazione di un piatto di pasta che produce più inquinamento (tra coltivazione, imballaggio e trasporto) della produzione stessa. Tutto questo per dire che non basta pronunciare parole magiche quali green, sostenibilità, riuso, riciclo per avere un impatto positivo sull’ambiente. Servirebbe più che altro attivare una campagna di comunicazione in cui si spiega come poter cambiare l’uso che si fa di un certo oggetto piuttosto che riprogettarlo. La visione sistemica del design, denominata anche «System Thinking», consiste nella capacità di trovare soluzioni alternative per gestire la complessità dei processi, cercando di creare valore con qualcosa di diverso dalla produzione tradizionale. Ciò non vuol dire parlare di decrescita felice, piuttosto di un differente modo di rappresentare il
valore dei materiali che sono in circolazione mediante una progettazione strategica. Il che significa progettare dei prodotti che possano essere riparabili, ricondizionabili, riutilizzabili, condivisibili e solo in ultima istanza, riciclabili. Pertanto il design, in quanto disciplina che si interpone tra le persone e la produzione, e che crea esperienze e relazioni tra uomini, cose e servizi, deve in prima battuta innovare in modo sistemico per poi tornare a produrre beni, servizi o esperienze su scala più piccola.
Carlo Timio
CHE FARE?
La sinistra immaginaria
17-01-2022 – di: Vincenzo Vita
su Volerelaluna*
La discussione sulle soggettività della sinistra è ormai segnata dal correre inesorabile del tempo. Pur sorrette da argomenti seri e passioni mai dome, le riflessioni pubbliche sulla vexata quaestio sono diventate retoriche ripetitive, utili soprattutto per chi si cimenta sull’argomento e per i suoi dubbi interiori. Certamente, trattare il tema della crisi e delle difficoltà di ciò che si muove – per semplificare – sul lato mancino del Partito democratico rischia ogni volta di subire l’attrazione fatale del tatticismo, se non del desiderio – magari mascherato – di trovare una ennesima sigla elettorale.
Tuttavia, è forse utile interrogarci sul perché la discussione sia tanto stantia e la base di partenza reale così misera. Verosimilmente, va capovolto l’ordine degli addendi. Prima del soggetto, andrebbero indagati l’oggetto e il suo contesto di riferimento.
Si tratta, se questo è giusto, di rifare l’analisi della società, della situazione di classe, per utilizzare un linguaggio antico e pur sempre attualissimo. Già, in quale età del Capitale siamo? L’universo delle piattaforme guidato dagli algoritmi e dall’intelligenza artificiale non è esattamente la prosecuzione con altri mezzi delle ere precedenti del dominio. La potenza intellettuale della produzione (si rilegga il famoso frammento sulle macchine dei Grundrisse) ha nettamente superato la fase dell’espansione quantitativa, per determinare uno sconfinamento verso una stagione che potremmo definire post-umana. Si tratta di un corpo a corpo tra esseri viventi ed esseri che copiano e rideterminano le stesse modalità della vita. In precedenza fu il nostro immaginario ad essere occupato attraverso ideologie e diffusione mediatica. Ora è l’intero corpo a venire sussunto e condizionato da migliaia di sensori e di rilevamenti del nostro essere.
Ciò significa che non esistono più le persone fisiche con le loro pulsioni e la loro coscienza? No. Significa, però, che convive con noi il nostro gemello digitale. Non è una novità, si potrebbe osservare. Già Norbert Wiener, uno dei padri fondatori della cibernetica, mise in guardia sui pericoli insiti nello sfruttamento massivo delle macchine, per rendere più efficiente «l’uso umano degli esseri umani». Lo sottolineano Luciano Floridi, Federico Cabitza (2021). E l’acume di Alan Turing sottolineò che la macchina si può comportare assomigliando ad un essere umano. Insomma, il tema esiste ed è enorme. Intendiamo rimuoverlo, come se non condizionasse ogni narrazione?
Ora siamo, probabilmente, al punto di catastrofe, né transitorio né eludibile. Ovviamente, un approfondimento di maggiore organicità si renderebbe necessario, per evitare suggestioni improprie o approssimative. Ma l’evocazione del problema è indispensabile, per lanciare un allarme sulla vecchiezza dei riferimenti cui generalmente ricorriamo. Anzi. Sarebbe doveroso ripartire dall’analisi puntuale delle parole chiave che utilizziamo: libertà, democrazia, mercato, solidarietà, uguaglianza, stato, pubblico, privato. Intendiamoci, non si deve riscrivere il vocabolario. Il significato manifesto dei termini non è in questione. Il punto, invece, è che spesso ci si trova di fronte a significanti vuoti. Riempire i vuoti è il primo compito di una ri-costruzione della sinistra. Insomma, è necessario mettere in causa le fondamenta del discorso consueto, troppo legato a una mera vulgata marxiana. Marx, in verità, è un autore versatile e non uniforme, assai diverso nella sua complessità dal racconto banalizzato che è scaturito dai versetti della Terza internazionale che fu.
Per essere legittimati ad urlare “sinistra”, dunque, è bene chiarire di cosa stiamo parlando. Sinistra non è un contenitore, come con stucchevole reiterazione si tende a sostenere. Sinistra è una cultura, una forma identitaria, un’etica, una passione civile. Se non ci chiariamo a partire da qui, non si ritroverà la retta via.
Non sarà un caso se, davanti alle contorsioni moderate del Partito democratico e alla discesa vorticosa dell’appeal del Mov5Stelle, a sinistra la desertificazione continua senza tregua. Persino un’intemerata in un brindisi augurale da parte di Massimo D’Alema sull’eventuale rientro nella casa madre di “Articolo Uno-Mdp” è sembrata una sferzata. Eppure, per chiunque segua un po’ simili cose fu chiaro da quando si ruppe il gruppo di “Liberi e Uguali” che la componente sopra accennata stava preparando l’appuntamento pacificatore dopo il divorzio. Sarà pure fondata la proposta di D’Alema e Bersani di ripartire da zero, rifacendo l’edificio: una sorta di neo-partito talvolta dipinto come un Ulivo aggiornato o una riedizione della famiglia socialdemocratica. Siamo, però, sempre fermi alla “dittatura” del contenitore. Non dissimile, mutatis mutandis, è il percorso della sinistra-sinistra. Che senso ha la disseminazione di sigle, alcune – purtroppo per loro – davvero insignificanti? E, dopo la scelta coraggiosa di “Sinistra italiana” di rimanere fuori dal perimetro della maggioranza che sostiene il governo presieduto da Mario Draghi, è comprensibile che non un passo si sia fatto per una riunificazione almeno con “Rifondazione comunista”?
Senza rovesciare paradigmi e modelli non se ne esce. Per avviarsi su una strada meno infelice servono scelte pacificamente “eversive”. Vi sono contraddizioni enormi, irriducibili se non si rivolta il tavolo. Lavoro e ambiente, tutela della salute e riguardo alla privacy, corsa tecnologica e difesa dell’umanesimo sono coppie dialettiche che non possono trovare alcuna sintesi evolutiva se non si squarciano le compatibilità di un Capitale forgiato dagli anni dell’egemonia liberista e ora dominato dalle piattaforme. Far dialogare, connettere le varie parzialità secondo gli insegnamenti delle pratiche femministe, ingaggiare ricerche sulle culture che possono farsi politiche è l’ulteriore passaggio. Siamo ai prolegomeni, ma senza tornare alle caselle iniziali il giro non va avanti.
Negli ultimi anni, eravamo nel giugno del 2017, vi fu un tentativo interessante, che sarebbe anche oggi il criterio cui ispirarsi. Si rammenterà l’assemblea tenutasi al teatro Brancaccio di Roma. Si provò ad intrecciare il livello strettamente politico con le esperienze di movimento, immaginando un’ibridazione in grado di creare un partito-non partito, vale a dire un soggetto variabile regolato da uno statuto minimo e da assetti dirigenti democratici e partecipativi. Ecco, quello spirito fuori dai cori classici va considerato morto. Sarebbe, invece, il potenziale collante di luoghi oggi frammentati e non comunicanti.
Un ruolo cruciale di stimolo e di coordinamento spetta ai centri di cultura politica (il Crs e l’Ars ne sono un esempio), senza esclusive o custodie conservative dei patrimoni (teorici) accumulati.
Una doppia proposta. Da un lato, con il prezioso contributo del “Forum Disuguaglianze e Diversità”, è urgente avviare una capillare inchiesta sul campo. La società italiana, al netto della sociologia del Censis, si è profondamente trasformata. L’analisi della trama che anima città, periferie e territori è persino più difficile della lettura degli algoritmi. Senza una chiara fotografia del contesto e delle sue faglie non si riparte e non si trovano i protagonisti potenziali, i “becchini” di un blocco di forze alternative. Inoltre, è da concepire una Conferenza nazionale sul significato delle parole, per introdurre nel dibattito – finalmente – un tentativo di mutare linguaggio e sintassi del cambiamento. Il resto, se mai, seguirà.
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*L’articolo è stato pubblicato il 12 gennaio sul sito del CRS
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VINCENZO VITA
Vincenzo Vita, giornalista, già parlamentare, scrive per “il manifesto”. È stato docente all’Università di Sassari nel corso di laurea in Scienza della comunicazione e giornalismo. È presidente della Fondazione Archivio audiovisivo del Movimento operaio e democratico.