Editoriali

Che succede dalle nostre parti e nel mondo?

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Per la Pace sempre e comunque!
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8d6d29d3-287e-443d-bd13-e61d61507e24Iran: https://www.rainews.it/amp/articoli/2022/11/qatar2022-mondiali-calcio-la-tifosa-delliran-allo-stadio-con-la-maglia-masha-amini-22-la-foto–virale-9bc49085-8d25-481b-b0af-b14445dce47a.html
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RASSEGNA STAMPA 29.11.2022
30 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem
La Rassegna stampa del 29 novembre 2022 (fonte Ceccanti e altro). Si segnala: UCRAINA: Nello Scavo, “Kiev senza pace si prepara alla fuga” (Avvenire). Lorenzo Cremonesi, “Mosca contro le parole del papa. E rinvia i colloqui sul nucleare” (Corriere della sera). Eugenio Somaini, “La crisi ucraina, le sue origini e i suoi possibili sviluppi” (un saggio su Mondo Operaio). Mauro Magatti, “Il realismo del dialogo” (Avvenire). GOVERNO: Giorgia Meloni intervistata dal direttore del Corriere, Luciano Fontana: “Questo governo durerà”. OPPOSIZIONI: Paolo Armaroli, “Conte, la volpe nel deserto” (La Ragione). Franco Monaco, “Il fantasma di Bonaccini, e Renzi si aggira per il Pd” (Il Fatto). Stefano Folli, “I condoni, Conte e la cautela del Pd” (Repubblica), Laura Cesaretti, “Armi a Kiev fino al 2023Opposizione spaccata: liti nel Pd, M5S pro Putin” (Il Giornale). Laura Pennacchi, “Il progetto radicale che serve alla sinistra” (Repubblica). Ceccanti, Tonini, Bentivogli e altri, “Appello laburista” (Foglio). INOLTRE: Davide De Luca, “Breve storia dell’egemonia della destra in Lombardia” (Domani). Marco Buti, “Ecco perché va difeso l’approccio della Commissione europea sul nuovo Patto di stabilità” (Sole 24 ore).
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RASSEGNA 28.11.2022. SI PUO’ SALVARE IL PD?
28 Novembre 2022 su C3dem
La Rassegna stampa del 28 novembre 2022 (fonte Ceccanti e altro). Si segnala: SUL PD: Ezio Mauro, “Cosa manca all’opposizione” (Repubblica). Gianni Cuperlo, “Obiezioni sullo scioglimento del Pd e sul voto a Moratti” (Domani). Antonio Floridia, “Scegliere o sciogliersi. Lo sforzo di salvare il Pd rischia di essere vano” (Domani). Concetto Vecchio, “Luigi Zanda compie 80 anni, Ricordi e opinioni” (intervista al Corriere). Stefano Bonaccini, “Il mio Pd aperto e di sinistra” (intervista, ieri, a Repubblica). SUL GOVERNO: Claudio Cerasa, “Perché adesso l’opposizione deve cambiare” (ieri, Foglio). Francesco De Bartolomeis, pedagogista emerito, “Il ministro dell’istruzione? E’ una disgrazia” (intervista a Domani). Ilvo Diamanti, “Il merito a scuola supera l’esame. Otto italiani su dieci lo vogliono” (Repubblica). Andrea Manzella, “Con il PNRR una svolta culturale” (Corriere della sera). Giuliano Ferrara, “Considerazioni sulla nuova tregua italiana” (Foglio). Gianluca De Feo, “L’Italia e le armi all’Ucraina” (Repubblica). Adolfo Battaglia, “Su lavoro ed uguaglianza serve un paino di 5 anni” (Repubblica). SULL’UCRAINA: Paolo Mieli, “La tragedia dell’Ucraina, da Stalin a Putin” (Corriere). Giuliano Da Empoli e Francois Colosimo, “Fino a dove può spingersi Putin?” (ieri, sul Foglio). INOLTRE: Sergio Fabbrini, “Unilateralismo e nazionalismo, la Germania di Scholz” (ieri, Sole 24 ore). Romano Prodi, “Così il gas può cambiare gli equilibri dell’industria a livello mondiale” (Messaggero).
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In attività

e07b0772-9e52-4546-ba04-b2aa58ad39cdmanifesta-rwmMarco Mameli della segreteria della Css ci invia il seguente messaggio:
“L’avv. Pubusa comunica: processo RWM. Tutti rinviati a giudizio. Tutte le ass. parti civili ammesse” Quanto prima ulteriori dettagli.
584f1b22-899b-4785-a7b0-833254476c7cPer la Pace sempre e comunque!
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RASSEGNA 28.11.2022. SI PUO’ SALVARE IL PD?
28 Novembre 2022 su C3dem
La Rassegna stampa del 28 novembre 2022 (fonte Ceccanti e altro). Si segnala: SUL PD: Ezio Mauro, “Cosa manca all’opposizione” (Repubblica). Gianni Cuperlo, “Obiezioni sullo scioglimento del Pd e sul voto a Moratti” (Domani). Antonio Floridia, “Scegliere o sciogliersi. Lo sforzo di salvare il Pd rischia di essere vano” (Domani). Concetto Vecchio, “Luigi Zanda compie 80 anni, Ricordi e opinioni” (intervista al Corriere). Stefano Bonaccini, “Il mio Pd aperto e di sinistra” (intervista, ieri, a Repubblica). SUL GOVERNO: Claudio Cerasa, “Perché adesso l’opposizione deve cambiare” (ieri, Foglio). Francesco De Bartolomeis, pedagogista emerito, “Il ministro dell’istruzione? E’ una disgrazia” (intervista a Domani). Ilvo Diamanti, “Il merito a scuola supera l’esame. Otto italiani su dieci lo vogliono” (Repubblica). Andrea Manzella, “Con il PNRR una svolta culturale” (Corriere della sera). Giuliano Ferrara, “Considerazioni sulla nuova tregua italiana” (Foglio). Gianluca De Feo, “L’Italia e le armi all’Ucraina” (Repubblica). Adolfo Battaglia, “Su lavoro ed uguaglianza serve un paino di 5 anni” (Repubblica). SULL’UCRAINA: Paolo Mieli, “La tragedia dell’Ucraina, da Stalin a Putin” (Corriere). Giuliano Da Empoli e Francois Colosimo, “Fino a dove può spingersi Putin?” (ieri, sul Foglio). INOLTRE: Sergio Fabbrini, “Unilateralismo e nazionalismo, la Germania di Scholz” (ieri, Sole 24 ore). Romano Prodi, “Così il gas può cambiare gli equilibri dell’industria a livello mondiale” (Messaggero).
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RASSEGNA 27.11.2022
27 Novembre 2022 su C3dem
La Rassegna stampa del 27 novembre 2022 (fonte S. Ceccanti).
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L’avv. Pubusa comunica: processo RWM. Tutti rinviati a giudizio. Tutte le ass. parti civili ammesse.
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Chi sono i credenti
La Repubblica – 28 Novembre 2022

di Enzo Bianchi sul suo blog
In una conversazione con un teologo cristiano sul tema della fede Umberto Galimberti a un certo punto insorge e dice con forza: “Mi sento offeso dalla cultura cristiana che chiama quelli che non credono ‘non credenti’, al negativo, e quelli che non credono in Dio ‘atei’, che è un altro negativo. Abbiamo diritto di cittadinanza senza essere definiti in negativo”.

Questa rivendicazione è molto significativa: da un lato attesta la reale difficoltà da parte dei cristiani di definire chi non si professa credente in Dio come loro, dall’altro mi sembra si possa individuare qui una domanda per i cristiani.

Chi è colui che crede? Perché credere innanzitutto significa aderire, fare fiducia, mettere la fiducia in… Credere ingloba in sé la speranza. Difatti noi oggi siamo consapevoli che se pur c’è una differenza cristiana questa non sta nella capacità di credere: molti umani vivono di fede, nutrendo ogni giorno pensieri e atteggiamenti di fiducia, aderiscono a un orientamento con il quale stare al mondo e magari renderlo più abitabile e più umano, mentre altri che, a differenza dei primi, si dicono cristiani si nutrono di un cinismo che li segna attraverso dottrine e formule che non richiedono nessun atto di fiducia, nessun movimento e cammino verso una meta, magari sconosciuta, ma che li preceda come una promessa.

Per gli ebrei la fede è innanzitutto umana, è un atto di fiducia che si regge anche senza un oggetto in cui credere, ma anche per i cristiani questa fede resta primaria come atto assoluto che si consuma nel quotidiano rapporto con gli altri.

Com’è possibile credere in Dio che non si vede, o in Cristo, se non si è capaci di porre la fiducia negli umani che vediamo, incontriamo e con i quali viviamo? Proprio per questo noi cristiani prima di lamentarci della crisi della fede in Dio dovremmo interrogarci sulla crisi della fede nel prossimo. Non è morto solo Dio, è morto anche il prossimo! Se si intende la fede cristiana non tanto come un nutrire idee o pretese certezze, ma come un seguire, un essere impegnati in una sequela, in una chiamata di Gesù, allora quelli che non si confessano cristiani o dicono di non avere conoscenza di Dio non vanno chiamati “non credenti”. Anche Gesù si è stupito di trovare fede in greci e di non trovarla invece tra i giudei, il popolo in alleanza con Dio.

Fede e incredulità non sono distribuite secondo canoni e frontiere stabilite da noi, anzi abitano sia il credente in Dio sia chi sa aver fiducia senza pensare a Dio. E poi anche di questo oggi siamo consapevoli: che quelli che si dicono credenti in Dio sovente hanno nulla in comune tra loro, soprattutto non hanno lo stesso Dio perché di lui hanno immagini diverse, a volte immagini che danno a Dio un volto perverso.

C’è un credente in ogni ateo e c’è un ateo in ogni credente, anzi significativamente Ernst Bloch ha scritto che “solo un ateo può essere un buon cristiano, solo un cristiano può essere un buon ateo”, perché aveva compreso come il cristianesimo è negazione della religione alla quale basta un dio per funzionare.

Nel nostro mondo globalizzato la marea di quelli che non credono in Dio è estesa e in crescita. Non sarebbe il caso che le chiese cercassero di rendere complice questa realtà, di prestare attenzione alla fiducia, che non è assente, invece di essere attente unicamente ai credenti in Dio delle altre religioni?

Teofilo di Antiochia scriveva: “Tu mi chiedi di mostrarti il Dio in cui credo, ma io ti mostrerò l’uomo in cui credo e se tu vorrai capirai il mio Dio!”.

Che succede e che succederà? In marcia per la Pace.

manifesta-rwmMarco Mameli della segreteria della Css ci invia il seguente messaggio:
“L’avv. Pubusa comunica: processo RWM. Tutti rinviati a giudizio. Tutte le ass. parti civili ammesse” Quanto prima ulteriori dettagli.
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L’avv. Pubusa comunica: processo RWM. Tutti rinviati a giudizio. Tutte le ass. parti civili ammesse.
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Che succede e che succederà?

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Domenica 27 novembre 2022
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Che succede e succederà?

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Sabato 26 novembre 2022
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Domenica 27 novembre 2022
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25 novembre: Giornata mondiale contro la violenza sulle donne

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c3dem_banner_04RASSEGNA 24.11. SULLA MANOVRA, SUL REDDITO, SULLA SANITA’
24 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem
Dalla Rassegna di S. Ceccanti (qui) e da altre fonti, segnaliamo: GOVERNO/LA MANOVRA: Paolo Gentiloni, “Bene la cautela e il deficit contenuto. Ora meno sussidi” (intervista a Qn). Giuseppe Pisauro, “La riforma del Patto di stabilità può insegnare all’Italia a pensare nel lungo termine” (Domani). Giovanni Orsina, “Quella della Meloni è una manovra di chi pensa di duyrare cinque anni” (intervista a Il Dubbio). GOVERNO/REDDITO: Marco Bentivogli, “La demagogia non crea lavoro” (Repubblica). Valentina Conte, “Reddito. Otto mesi per un impiego. La sfida impossibile per il governo” (Repubblica). Raffaele Tangorra (presidente Agenzia delle politiche attive per il lavoro), “Molti non sanno leggere, trovare loro un posto è davvero difficile” (intervista a Repubblica). Alberto Gentili, “Studi sospesi, niente reddito”. (Mattino, GOVERNO/SANITA’: Eugenia Tognotti, “La nostra salute non è più una priorità” (La Stampa). Filippo Anelli (pres. Ordine dei medici), “Così si incentiva la fuga dei medici. Tra 8 anni anni ne mancheranno 80mila” (intervista a La Stampa). QUESTIONI APERTE: Carlo Cottarelli, “La società del ’18 politico’” (Foglio). Francesco Moscatelli, “L’offensiva della Chiesa sui diritti dei migranti: ‘Subito lo ius culturae’. Zuppi all’Anci” (La Stampa). Dario Di Vico, “Draghismo anti-povertà. I dati Istat lo dimostrano” (Foglio). Roberto Napoletano, “La pedagogia della solidarietà di Mattarella” (Il Quotidiano).
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RASSEGNA 24.11 / 2. SUL PARTITO DEMOCRATICO
24 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem

Carlo Bertini, “Alle primarie dei dem spunta Amendola (per evitare la scissione)” (La Stampa. Piero Fassino, “Stare al governo ha ferito il Pd. Ora un congresso costituente” (intervista a Il Riformista). Giuliano Ferrara, “Perché al Pd serve un atto di distruzione creativa” (Foglio). Fabio Martini, “Manifesto Bonaccini” (La Stampa9. Paolo Mieli, “Lo smarrimento del Pd e le scelte a sinistra” (Corriere della sera). Paolo Pombeni, “La profonda crisi dei Democratici segna la fine della forma partito?” (Il Quotidiano). Daniela Preziosi, “Il Pd cerca un segretario ma può finire di ritrovarsene anche due” (Domani). Gianni Cuperlo, “Il Pd resterà ma va rifondato” (intervista al Manifesto). Andrea Orlando, “Penso a un Pd socialista” (intervista al Foglio). Claudio Bozza, “Torna ‘L’Unità’. Sansonetti direttore” (Corriere della sera).
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1b18458e-f1fb-4bdf-89f6-f30d902d79cdcoordinamento-dcostIl Coordinamento per la Democrazia Costituzionale propone un OdG che potrebbe essere sottoposto all’approvazione dei Consigli Comunali. Ci facciamo carico di promuovere tale iniziativa nei confronti di tutti i Comuni della Sardegna,

Ricordiamo che per firmare il DDL di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116 e 117 Cost., lanciato dal CDC nazionale, si può andare al sito del CDC:
http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/ra
ccolta-firme-proposta-di-legge/

oppure direttamente al link:
https://raccoltafirme.cloud/app/user.html?codice=CDC
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Ordine del Giorno sull’Autonomia Differenziata (AD) ex art.116, c.3, cost. proposto dal CDC-ER e CDC nazionale

Il Consiglio Comunale di ______________________________________________
premesso che
> da parte delle Regioni Lombardia Veneto ed Emilia Romagna è stata richiesta nelle pre intese del 2019 la devoluzione ex art. 116, c.3, cost. rispettivamente di 20,23 e 16 materie tra quelle indicate nell’art. 117 cost. tutte di interesse anche nazionale;
> è vero che l’art.116, c.3, Cost. ammette il trasferimento a singole regioni che lo richiedano di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie indicate nell’art.117 Cost…” ma è altresì vero che la richiesta, estremistica e non conforme ad una lettura corretta dell’art.116 Cost di devolvere alle regioni tutte o quasi tutte le materie indicate stravolge in modo inammissibile lo stesso art.117 Cost. e viola i principi degli artt. 5 e 119 Cost;
> nel mese di novembre 2022 è stato presentato dal ministro Calderoli un disegno di legge sull’attuazione dell’AD che presenta/va i seguenti caratteri: a) al parlamento è riservato un ruolo solo notarile senza possibilità di intervenire nel processo di formazione delle intese. Ciò dato che la commissione bicamerale per le questioni regionali esprime un parere non vincolante e solo eventuale, mentre l’aula è chiamata a una “mera approvazione”, non potendo entrare nel merito dell’intesa; b) vengono sottratte alla Stato le competenze legislative e le relative funzioni amministrative per le materie richieste nelle pre-intese del 2019. Viene tolta potestà legislativa allo Stato persino sulla legislazione che disciplina i principi generali regolanti le singole materie, così alterando in modo inammissibile l’intero impianto dell’art. 117 Cost. Norma quest’ultima che prevede o materie di esclusiva competenza statale o materie di competenza concorrente tra Stato e Regione ma non certo materie di esclusiva competenza regionale; c) le intese sarebbero modificabili solamente se la Regione fosse d’accordo. In caso contrario diventerebbero immodificabili; d) le intese tra Regioni e Stato sarebbero approvate anche senza la preventiva definizione legislativa di LEP, costi e fabbisogni standard, perequazione strutturale; e) il finanziamento dell’AD avverrebbe all’inizio utilizzando il criterio della spesa storica (la stessa che perpetua le attuali diseguaglianze tra territori) , nell’ambito di un regime transitorio che non si sa come e quando avrà fine; f) con la clausola di invarianza per la finanza pubblica (art. 7 DDL Calderoli) se una regione avrà più risorse per le maggiori funzioni assunte, appare certo che altre regioni ne avranno di meno; d) risultano devolvibili anche materie di primario rilievo nazionale – scuola, sanità, infrastrutture strategiche, ambiente, lavoro, beni culturali, norme generali sull’istruzione, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, e molto altro .
> se questa scelta di devoluzione si realizzasse sarebbe colpita a morte l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art.2, 3 e 5 Cost.) con enormi complicazioni nel governo delle singole materie, in danno dell’uguaglianza dei cittadini, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni locali e nazionali;
>Nessuna delle tre regioni richiedenti ha mai spiegato – né tantomeno dimostrato la fondatezza de – le ragioni per le quali sarebbe utile e giusto trasferire quelle materie alla competenza regionale;
>esiste una relazione e interdipendenza tra tutte le Regioni e i territori italiani tali per cui il sistema paese cresce o arretra assieme;
> il riordino istituzionale di cui ha bisogno il paese non riguarda soprattutto le Regioni quanto invece il rafforzamento delle autonomie locali;
> molte Regioni e moltissimi Sindaci, tra cui quelli di Bari, Napoli e Bologna, hanno manifestato contrarietà alle richieste ex art.116 Cost. da parte delle tre regioni

    questo premesso si chiede al Governo che

> qualunque futuro disegno di legge attuativo dell’autonomia differenziata ex art. 116, comma, 3, Cost., sia inviato alle Camere come DDL ordinario, al fine di permettere un approfondito e indispensabile dibattito pubblico nel paese su scelte che determineranno importanti e potenzialmente irreversibili conseguenze istituzionali, economiche e sociali. Coinvolgendo in tale dibattito sindacati, associazionismo, studiosi, autonomie locali e soprattutto il Parlamento a cui va riservato un ruolo centrale anche nella valutazione di merito delle eventuali intese;
> vengano obbligatoriamente definiti – prima di eventuali intese con singole regioni – LEP, costi fabbisogni standard e fondi perequativi, senza i quali non è possibile stabilire le risorse necessarie a finanziare le prestazioni sulla base del principio di uguaglianza. Vietando in particolare regimi transitori governati da fantomatiche “commissioni paritetiche” prive di qualsiasi legittimazione politica;
> ogni trasferimento di materie avvenga nel rispetto dei principi di solidarietà e unità nazionale, garantendo maggiori risorse a quei territori in cui permangono gap infrastrutturali, economici e sociali col resto dell’Italia;
> il processo di eventuale devoluzione di cui all’art.116, c.3. Cost. avvenga nel rispetto del principio di sussidiarietà nell’esercizio delle funzioni amministrative e non si traduca in un accentramento regionale in danno delle autonomie locali;
> il riconoscimento di ulteriori e particolari forme di autonomia ex art.116, c.3, cost trovi fondamento in specifiche e dimostrate esigenze della Regione richiedente, compatibili con l’unità della Repubblica e col principio di uguaglianza. Caratteri che non risultano presenti nelle richieste di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna;
> sia portato rapidamente alla discussione in Senato il DDL di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116 e 117 Cost., lanciato dal CDC nazionale, non appena completata la raccolta firme nell’aprile 2023.
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Sabato.
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Domenica.
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Giovedì 1 dicembre 2022
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Navigando in rete giovedì 24 novembre 2022

1b18458e-f1fb-4bdf-89f6-f30d902d79cdcoordinamento-dcostIl Coordinamento per la Democrazia Costituzionale propone un OdG che potrebbe essere sottoposto all’approvazione dei Consigli Comunali. Ci facciamo carico di promuovere tale iniziativa nei confronti di tutti i Comuni della Sardegna,

Ricordiamo che per firmare il DDL di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116 e 117 Cost., lanciato dal CDC nazionale, si può andare al sito del CDC:
http://www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it/ra
ccolta-firme-proposta-di-legge/

oppure direttamente al link:
https://raccoltafirme.cloud/app/user.html?codice=CDC
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Ordine del Giorno sull’Autonomia Differenziata (AD) ex art.116, c.3, cost. proposto dal CDC-ER e CDC nazionale

Il Consiglio Comunale di ______________________________________________
premesso che
> da parte delle Regioni Lombardia Veneto ed Emilia Romagna è stata richiesta nelle pre intese del 2019 la devoluzione ex art. 116, c.3, cost. rispettivamente di 20,23 e 16 materie tra quelle indicate nell’art. 117 cost. tutte di interesse anche nazionale;
> è vero che l’art.116, c.3, Cost. ammette il trasferimento a singole regioni che lo richiedano di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie indicate nell’art.117 Cost…” ma è altresì vero che la richiesta, estremistica e non conforme ad una lettura corretta dell’art.116 Cost di devolvere alle regioni tutte o quasi tutte le materie indicate stravolge in modo inammissibile lo stesso art.117 Cost. e viola i principi degli artt. 5 e 119 Cost;
> nel mese di novembre 2022 è stato presentato dal ministro Calderoli un disegno di legge sull’attuazione dell’AD che presenta/va i seguenti caratteri: a) al parlamento è riservato un ruolo solo notarile senza possibilità di intervenire nel processo di formazione delle intese. Ciò dato che la commissione bicamerale per le questioni regionali esprime un parere non vincolante e solo eventuale, mentre l’aula è chiamata a una “mera approvazione”, non potendo entrare nel merito dell’intesa; b) vengono sottratte alla Stato le competenze legislative e le relative funzioni amministrative per le materie richieste nelle pre-intese del 2019. Viene tolta potestà legislativa allo Stato persino sulla legislazione che disciplina i principi generali regolanti le singole materie, così alterando in modo inammissibile l’intero impianto dell’art. 117 Cost. Norma quest’ultima che prevede o materie di esclusiva competenza statale o materie di competenza concorrente tra Stato e Regione ma non certo materie di esclusiva competenza regionale; c) le intese sarebbero modificabili solamente se la Regione fosse d’accordo. In caso contrario diventerebbero immodificabili; d) le intese tra Regioni e Stato sarebbero approvate anche senza la preventiva definizione legislativa di LEP, costi e fabbisogni standard, perequazione strutturale; e) il finanziamento dell’AD avverrebbe all’inizio utilizzando il criterio della spesa storica (la stessa che perpetua le attuali diseguaglianze tra territori) , nell’ambito di un regime transitorio che non si sa come e quando avrà fine; f) con la clausola di invarianza per la finanza pubblica (art. 7 DDL Calderoli) se una regione avrà più risorse per le maggiori funzioni assunte, appare certo che altre regioni ne avranno di meno; d) risultano devolvibili anche materie di primario rilievo nazionale – scuola, sanità, infrastrutture strategiche, ambiente, lavoro, beni culturali, norme generali sull’istruzione, produzione e distribuzione nazionale dell’energia, e molto altro .
> se questa scelta di devoluzione si realizzasse sarebbe colpita a morte l’unità giuridica ed economica della Repubblica (art.2, 3 e 5 Cost.) con enormi complicazioni nel governo delle singole materie, in danno dell’uguaglianza dei cittadini, delle imprese e delle pubbliche amministrazioni locali e nazionali;
>Nessuna delle tre regioni richiedenti ha mai spiegato – né tantomeno dimostrato la fondatezza de – le ragioni per le quali sarebbe utile e giusto trasferire quelle materie alla competenza regionale;
>esiste una relazione e interdipendenza tra tutte le Regioni e i territori italiani tali per cui il sistema paese cresce o arretra assieme;
> il riordino istituzionale di cui ha bisogno il paese non riguarda soprattutto le Regioni quanto invece il rafforzamento delle autonomie locali;
> molte Regioni e moltissimi Sindaci, tra cui quelli di Bari, Napoli e Bologna, hanno manifestato contrarietà alle richieste ex art.116 Cost. da parte delle tre regioni

    questo premesso si chiede al Governo che

> qualunque futuro disegno di legge attuativo dell’autonomia differenziata ex art. 116, comma, 3, Cost., sia inviato alle Camere come DDL ordinario, al fine di permettere un approfondito e indispensabile dibattito pubblico nel paese su scelte che determineranno importanti e potenzialmente irreversibili conseguenze istituzionali, economiche e sociali. Coinvolgendo in tale dibattito sindacati, associazionismo, studiosi, autonomie locali e soprattutto il Parlamento a cui va riservato un ruolo centrale anche nella valutazione di merito delle eventuali intese;
> vengano obbligatoriamente definiti – prima di eventuali intese con singole regioni – LEP, costi fabbisogni standard e fondi perequativi, senza i quali non è possibile stabilire le risorse necessarie a finanziare le prestazioni sulla base del principio di uguaglianza. Vietando in particolare regimi transitori governati da fantomatiche “commissioni paritetiche” prive di qualsiasi legittimazione politica;
> ogni trasferimento di materie avvenga nel rispetto dei principi di solidarietà e unità nazionale, garantendo maggiori risorse a quei territori in cui permangono gap infrastrutturali, economici e sociali col resto dell’Italia;
> il processo di eventuale devoluzione di cui all’art.116, c.3. Cost. avvenga nel rispetto del principio di sussidiarietà nell’esercizio delle funzioni amministrative e non si traduca in un accentramento regionale in danno delle autonomie locali;
> il riconoscimento di ulteriori e particolari forme di autonomia ex art.116, c.3, cost trovi fondamento in specifiche e dimostrate esigenze della Regione richiedente, compatibili con l’unità della Repubblica e col principio di uguaglianza. Caratteri che non risultano presenti nelle richieste di Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna;
> sia portato rapidamente alla discussione in Senato il DDL di iniziativa popolare per la modifica degli artt. 116 e 117 Cost., lanciato dal CDC nazionale, non appena completata la raccolta firme nell’aprile 2023.
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RASSEGNA STAMPA 23.11.2022.
23 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem

La Rassegna stampa del 23 novembre 2022 (fonte S. Ceccanti e altro). Si segnalano: GOVERNO: Sabino Cassese sul governo Meloni: “Un bilancio a due facce” (Corriere della sera). Federico Fubini, “Il filo rosso della cautela, Ma ora serve un’idea per rafforzare il welfare e le imprese” (Corriere). Elsa Fornero, “La destra si piega alla linea europea” (La Stampa). Giuseppe Provenzano, “Questa manovra è da caccia ai poveri. E’ iniqua e pericolosa” (intervista a Repubblica). Linda Laura Sabbadini, “Non si risparmia su chi non ce la fa” (La Stampa). Chiara Saraceno, “Tagliano il reddito perché disprezzano i poveri” (intervista al manifesto). Ugo Magri, “Autonomia, la diga Mattarella: ‘Stessi diritti da Nord a Sud‘” (La Stampa). Lina Palmerini, “La prudenza di Giorgetti e la caccia al consenso di Salvini” (Sole 24 ore). PD: Stefano Folli, “Tre voci pessimiste sul futuro del Pd” (Repubblica). Stefano Ceccanti, “Lo scontro sulle primarie come quello tra bolscevichi e menscevichi” (intervista a Il Riformista). Daniela Preziosi, “Pd e M5s separati contro la manovra. Conte replica lo schema pacifista” (Domani). INOLTRE: Claudio Cerasa, “Il Mose, una diga anticialtroneria” (Foglio). Lettera al Foglio sul futuro del Terzo polo (Foglio). Stefano Feltri, “Ormai il caso Aboubakar è un problema per la sinistra” (Domani). Daniele Raineri, “La grande fuga da Kherson dei civili appena liberati e sotto bombe e gelo” (Repubblica). Caterina Soffici, “Tehran, stupro di Stato” (La Stampa).
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Chiara Saraceno: “Tagliano il reddito di Cittadinanza perché disprezzano i poveri”
Su il manifesto.
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Mercoledì 23 novembre 2022 navigando in rete

Mercoledì.
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RASSEGNA STAMPA 22.11.2022
22 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem.

La Rassegna stampa del 22 novembre 2022 (fonte: S. Ceccanti e altro). Si segnala: PD: Luca Diotallevi, “I nemici del Pd che indossano la casacca del Pd” (Messaggero). Luigi Zanda, “Il congresso costituente non ci sarà. Senza strategia il declino del Pd è sicuro” (intervista al Domani). Franco Monaco, “Moratti e il Pd senza identità” (Il Fatto). GOVERNO: Luigi Manconi, “Le sei bugie sulle Ong” (Repubblica). Claudio Tito, “Toni più bassi sulle Ong. La virata del governo dopo il monito della chiesa” (Repubblica). Andrea Marrone, “I problemi del regionalismo differenziato” (Domani). Veronica De Romanis, “Il Patto di Stabilità va cambiato con giudizio” (La Stampa). INOLTRE: Guido Crainz, “Solo il perdono salverà l’Europa” (intervista a La Stampa).
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Oggi a Cagliari dibattito sul decreto anti-rave
23 Novembre 2022
Ufficio Studi G.M. Angioy

Incontro – dibattito
Libertà di manifestazione e decreto anti – rave
Mercoledì 23 novembre via Marche n. 9
Sala CSS
Andrea Pubusa – Il quadro costituzionale
Efisio Pilleri – Tra diritti e sicurezza
Dibattito
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Il decreto antirave contro la lettera e lo spirito della Costituzione. Oggi dibattito a Cagliari
23 Novembre 2022
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
Oggi alle 17,30, in via Marche 9 – Cagliari, presso la sala della CSS, dibattito sul decreto anti-rave. Ecco alcune notazioni di ordine costituzionale sul testo approvato dal governo.
Le Costituzioni moderne hanno una superba pretesa: quella di vincolare il legislatore e l’interprete, quella, con la loro rigidità, di vincolare le generazioni future. […]
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Prossimamente a dicembre
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In giro sulla rete martedì 22 novembre 2022

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————————Dalla rete—————
Come sfamare tutti
di Carlo Petrini
[ripreso dal blog di Enzo Bianchi]

Undici anni fa il mondo tagliava il traguardo dei sette miliardi di abitanti, oggi siamo arrivati a otto.

E così, presto o tardi, si tornerà a discutere della presunta necessità di aumentare la produzione alimentare per poter sfamare l’intera popolazione della Terra. Di cibo, in verità, ce n’è in abbondanza: già oggi, quasi un terzo di quello che viene prodotto a livello globale va sprecato, buttato via senza essere stato consumato: dal campo alla pattumiera, potremmo dire. A volte scartato semplicemente perché in eccesso rispetto alle necessità; altre volte perché mal conservato lungo le rotte infinite sulle quali viaggia da una parte all’altra del mondo; spesso sprecato da noi consumatori dei Paesi ricchi, che non diamo valore al cibo.

Oggi se ne produce per 12 miliardi di persone. Il cibo c’è, eppure 800 milioni di persone ogni anno soffrono la fame.

Secondo la Fao, nel 2030 la percentuale di persone che ne patiranno sarà la stessa del 2015: l’8%.

Significa che, nonostante i discorsi, le tante parole pronunciate e le promesse, in quindici anni non sarà cambiato nulla. Un altro dato penso debba far riflettere: il 13% degli adulti che vivono nel mondo è obeso. Da una parte c’è chi muore di fame, dall’altra chi convive con malattie dovute alla sovralimentazione e alla cattiva alimentazione. La dolorosa constatazione è che si soffre di malnutrizione non per scarsità di cibo, ma per povertà.

Credo che il fallimento delle attuali politiche alimentari sia sotto gli occhi di tutti: il cibo, oggi, non è per tutti; non è pulito, considerato che un terzo delle emissioni di gas serra è legato alla filiera alimentare; e spesso non è nemmeno particolarmente buono.

Ma io sono convinto che otto miliardi di persone possano vivere e alimentarsi in modo sostenibile.

Dico sostenibile, intendendo di questo aggettivo il significato più autentico: utilizzando cioè le risorse in modo che possano continuare a essere disponibili in futuro. Alimentarsi in modo sostenibile (meglio in modo duraturo) significa allora far sì che ciò che noi sfruttiamo oggi possa continuare a essere sfruttato dai nostri figli, a partire dal suolo che è l’origine di tutto il cibo che mangiamo. Per essere sostenibile, ad esempio, l’agricoltura deve abbandonare i pesticidi: veleni che uccidono la fertilità dei terreni, oltre a far male alla salute.

Nel mondo esistono tante realtà virtuose: pensate che oltre la metà della popolazione viene alimentata da 500 milioni di produttori di piccola scala, imprese familiari oppure piccole cooperative. Un tessuto enormemente prezioso, da salvaguardare e tutelare, da difendere e promuovere, da sostenere, ma che invece si trova sempre più spesso strozzato in un sistema che privilegia le multinazionali, l’agroindustria, i big della chimica applicata al cibo, chi possiede i brevetti e i semi ibridi, gli stessi che incassano una grande fetta dei fondi stanziati a livello internazionale. Per sfamare otto miliardi di persone la strada è tanto chiara quanto rivoluzionaria: smettere di inseguire la produttività e cominciare a difendere la produzione alimentare. Il cibo dev’essere un diritto, non un bene da scambiare in Borsa, non una commodity grazie alla quale arricchirsi a discapito di qualcuno, della salute del pianeta e del futuro stesso dell’umanità.
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Ai figli si vuol garantire tutto tranne la fede la nuova religione adulti è la giovinezza
Un teologo fra i più attenti nello studiare l’epocale crisi nel rapporto tra giovani e il cristianesimo individua la causa principale nella rottura della catena generazionale nella trasmissione del credo. E scongiura la chiesa di creare le condizioni per permettere ai ragazzi di ritornare a Messa.

La Stampa – Tuttolibri – 19 Novembre 2022
di Enzo Bianchi [sul suo blog]
Mai come in questi ultimi anni i giovani sono al centro di studi sociologici, di ricerche antropologiche e di riflessioni filosofiche che concordi gettano un grido di allarme sulle condizioni del mondo giovanile, mostrando inquietudine per la complessità e drammaticità di problematiche che questa generazione manifesta. Anche la chiesa cattolica in questi ultimi tempi ha prestato molta attenzione all’universo giovanile, mentre constata l’estraneità dei giovani nei confronti del messaggio cristiano e il tracollo della loro presenza all’interno della sua vita. Gli oceanici raduni di giovani cattolici che dal 1986 hanno caratterizzato le “Giornate mondiali della gioventù” volute da Giovanni Paolo II e proseguite dai suoi successori si sono rivelate un miraggio: milioni di giovani che hanno riempito gli stadi ma che disertano in massa le chiese. Un fallimento? Di certo qualcosa di decisivo non ha funzionato. Neppure il Sinodo dei vescovi del 2018 interamente dedicato ai giovani sembra aver invertito la tendenza.

Ed è dai risultati di questo Sinodo che muove l’ultima di una nutrita serie di pubblicazioni che da anni Armando Matteo dedica alla condizione del mondo giovanile cattolico, mostrandosi come il teologo italiano che con maggiore lucidità riflette sulla epocale crisi nel rapporto tra i giovani e la fede. Nel suo ultimo saggio Riportare i giovani a Messa. La trasmissione della fede in una società senza adulti, Matteo formula l’ipotesi che la persistente fatica dei giovani nei confronti della fede sia essenzialmente da individuare nel fatto che il Sinodo sui giovani non abbia riflettuto fino in fondo sulla rottura della catena generazionale della trasmissione fede. Da qui il chiarissimo grido d’allarme: “Fatto il Sinodo, la trasmissione della fede ai giovani non rappresenta più, per i credenti e i loro pastori, un problema, un’urgenza, un tema cui dedicare altra attenzione e altra energia”.

Con questo volume Armando Matteo, teologo e segretario del Dicastero per la dottrina della fede, conclude la “triologia di Pete Pan”, cioè la riflessione da lui avviata con i saggi Pastorale 4.0 e Convertire Peter Pan sul fenomeno dell’ateismo giovanile e il suo strettissimo legame con la crisi degli adulti nell’attuale società occidentale, definita “società dell’eterna giovinezza”. La rimozione compiuta dal Sinodo sui giovani consiste essenzialmente per Matteo nella mancata cognizione della grande responsabilità che gli adulti hanno nei confronti dei giovani. Più esattamente l’incapacità di “pensare la crisi dell’iniziazione cristiana delle nuove generazioni in piena continuità con l’evoluzione della crisi di adultità specifica delle nostre società”. La nostra è con tutta evidenza una società senza adulti incapace di educare e che alimenta un solo mito: la giovinezza. Agli occhi dei cosiddetti “adulti” i giovani avendo la giovinezza hanno già tutto ciò che serve nella vita e non hanno bisogno di essere educati, e tanto meno necessitano di una iniziazione alla vita religiosa. La società dell’eterna giovinezza abbandona i giovani a una povertà umana e spirituale.

La crisi della fede nei giovani è in realtà per Armando Matteo la crisi dell’adultità degli credenti e della loro incapacità di educare i figli alla fede e di esserne testimoni credibili. L’effetto è sotto gli occhi di tutti: il grembo della chiesa è sterile e incapace di generare nuovi cristiani, e fino a quando non si avrà di nuovo la capacità di riavviare legami credibili e significativi con le nuove generazioni la chiesa in occidente diventerà, utilizzando parole di papa Francesco, “una chiesa da museo, bella ma muta, con tanto passato e poco avvenire”. Senza giovani la chiesa è destinata a morire dissanguata.

Armando Matteo invita, anzi scongiura la chiesa e i credenti a creare le condizioni attraverso le quali permettere ai giovani di diventare cristiani, intersecando la loro reale difficoltà a diventare adulti: “Riportare i giovani a Messa implica dunque l’onerosa fatica di aiutarli a diventare adulti, nel tempo in cui i loro genitori e adulti di riferimento vogliono unicamente essere e fare i giovani per sempre”.

Questo libro indica con estrema lucidità l’urgenza che si aprano nuovi modi di pastorale, di presenza in mezzo ai giovani, di vicinanza. Perché se manca quello e se manca anche la voglia generativa della chiesa verso la fede allora non ci sarà una generazione cristiana futura. Sì, non si diventa cristiani se non si diventa adulti.
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——————————————-Da Aladinpensiero———
In libreria
«Giovanni XXIII. Il Vaticano II un Concilio per il mondo», di Marco Roncalli ed Ettore Malnati, collega l’assise avviatasi l’11 ottobre 1962 al percorso sinodale: prefazione di Papa Francesco.
Dal Dossier Caritas 2022 (in allestimento)
(…) 8302ef74-53e3-4e69-87bc-5df492cc6029. Scegliamo, infine, di riprendere in sintesi la prefazione di Papa Francesco al libro “Il Vaticano II un Concilio per il mondo”, uscito di recente (8) nel quale definisce il Concilio un «evento di grazia per la Chiesa e per il mondo», «i cui frutti non si sono esauriti» e che «non è stato ancora interamente compreso, vissuto e applicato». E così lo collega al Sinodo: «Siamo in cammino, e una tappa fondamentale di questo cammino è quella che stiamo vivendo con il Sinodo e che ci chiede di uscire dalla logica del “si è sempre fatto così”, dall’applicazione dei soliti vecchi schemi, dal riduzionismo che finisce per voler inquadrare sempre tutto in ciò che è già risaputo e praticato». «Dal Concilio Ecumenico Vaticano II abbiamo ricevuto molto. Abbiamo approfondito, ad esempio, l’importanza del popolo di Dio, categoria centrale nei testi conciliari, richiamata ben centottantaquattro volte, che ci aiuta a comprendere il fatto che la Chiesa non è un’élite di sacerdoti e consacrati e che ciascun battezzato è un soggetto attivo di evangelizzazione. Non si comprenderebbe il Concilio e nemmeno l’attuale percorso sinodale, se non si mettesse al centro di tutto l’evangelizzazione». E continua, lodando il libro in questione: «[dobbiamo] riscoprire l’ispirazione del Concilio e come passo dopo passo questo evento abbia trasformato la vita della Chiesa, è l’occasione per affrontare meglio il percorso sinodale, che è fatto innanzitutto di ascolto, di coinvolgimento, di capacità di far spazio al soffio dello Spirito, lasciando a Lui la possibilità di guidarci».
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Che succede?

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Chiesa di tutti Chiesa dei poveri

Newsletter n.284 del 16 novembre 2022 (www.chiesadituttichiesadei poveri)
Newsletter n. 101 del 16 novembre 2022 (www.costituenteterra.it)
LA LEZIONE

Cari Amici,
naturalmente si può ammettere che il missile ucraino che ha colpito la Polonia, Paese la cui protezione è garantita dalla totalità degli armamenti convenzionali e nucleari di tutti i Paesi della NATO, non sia stato lanciato da Kiev per provocare una indignazione universale contro la perfida Russia (come peraltro è avvenuto), né per suscitare una ritorsione militare e politica contro di essa, né per bloccare i timidi tentativi americani di forzare Zelensky alla trattativa per un “cessate il fuoco”, ma che, come ha detto Erdogan a Bali, sia stato lanciato “per un errore tecnico”. Dunque nessuna volontà perversa, tutti possono sbagliare, tutti sono innocenti.
Resta il fatto che per molte ore l’ipotesi o addirittura l’opzione di una guerra mondiale nucleare è stata sui tavoli delle Cancellerie, dei Consigli di guerra, dei Comitati di difesa, dei Quartieri generali, dell’intera schiera dei Capi del mondo riuniti per tutt’altri motivi a Bali, oltre che essere avanzata nelle tifoserie dei nostri giornali e TV. Se questo fosse accaduto, sarebbe avvenuto contro l’intenzione, le previsioni e la volontà di tutti, perché tutti dicono, e con grandissima probabilità ne sono convinti, che una tale guerra non si deve fare. Tutti tranne uno, Zelensky, che addirittura voleva sciogliere l’ONU, perché di ostacolo a una guerra mondiale fatta ad uso dell’Ucraina. In ogni caso egli ci prova in altri modi: non per errore pone dieci condizioni impossibili come pregiudiziali a un negoziato con la Russia; né per errore si presenta a Kherson come “il condottiero” (Corriere della Sera) che si fa tributare il trionfo per la ritirata dei Russi dalla città, e con i soldati celebra le “vittorie sul campo grazie alle armi dell’Occidente e pagate col sangue ucraino”, con la mano sul petto e gli occhi alla bandiera, salendo, come diceva Joseph De Maistre, “su un mucchio di cadaveri da cui si vede più lontano”: 100.000 Ucraini, 100.000 Russi che sono i morti in questa guerra fin qui, e centinaia di migliaia di famiglie devastate; mentre altrettante e altrettanti ce ne saranno nei prossimi mesi, se questi saranno come quelli che abbiamo gestito finora. “Una inutile strage” secondo il lessico di un Papa come Benedetto XV, “fuori della ragione”, secondo il lessico di un Papa come Giovanni XXIII, “una sconfitta di fronte alle forze del male”, nel lessico di Papa Francesco, “una vittoria di David contro Golia” e “l’odio per l’invasore che non si placherà” nel lessico del Corriere della Sera.
Ce n’è abbastanza per dire che a una situazione parossistica come questa, capace di portarci per un errore alla fine del mondo, occorrerebbe porre al più presto rimedio.
Tutto ciò però oltre che farci misurare la portata etica della nostra delittuosa partecipazione, armi e bagagli, a tale assassinio di massa, si presta a una lettura geopolitica degli eventi come quella che si trova nelle riviste bene informate, e ci fornisce una lezione.
La lettura è che questa guerra europea, come tutte le guerre europee a cominciare dalla prima guerra mondiale e fino alla guerra della NATO per il Kosovo, in realtà ha come posta in gioco il potere mondiale: le guerre che si combattono in Europa non sono mai solamente delle guerre europee. Questa è in effetti solo un episodio, dislocato nella “martoriata Ucraina” (Francesco), della lunga partita che si è aperta con l’evento del 9 novembre 1989 di cui nel recente anniversario si sono impadroniti la nostra presidente del Consiglio e l’ignaro (di politica e storia) ministro della ex Pubblica Istruzione: la rimozione del muro di Berlino. La partita che allora si aprì non fu, come avevamo sperato, quella per instaurare un ordine non più nucleare e diarchico ma pluralistico e pacifico, ma quella per istituire un sovrano universale di un mondo ormai globalizzato e obbediente al modello unificato di “Libertà Democrazia e Libera Impresa”. Gli Stati Uniti avanzarono la pretesa di essere loro questo sovrano e l’hanno teorizzato nella loro “Strategia della sicurezza nazionale degli Stati Uniti”, “sicurezza” che venne ufficialmente identificata col governo del mondo. L’investimento americano a questo fine, (“nessuno deve avere una forza non solo superiore, ma nemmeno pari a quella degli Stati Uniti”), è di quasi 1000 miliardi di dollari l’anno per gli armamenti. Noi come Europa, divenuta area “euro-atlantica”, siamo chiamati a partecipare a questa sovranità, traendone vantaggio, al prezzo della perduta identità e del rinnovato rischio nucleare.
La lezione che ora si può trarre dalla guerra in corso, che tiene in scacco la Russia e dovrebbe intimidire la Cina, è che questo processo verso il dominio mondiale di una sola grande Potenza non si può fermare con la guerra. Esso pertanto deve essere fermato in un altro modo: con la politica, l’economia, le culture, il diritto, le fedi.
Con i più cordiali saluti,

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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E’ online Rocca n.23 del 1° dicembre 2022
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Tassiamo gli extraprofitti delle armi
Tonio Dell’Olio su Rocca

La lobby delle armi è sicuramente la più potente al mondo. I margini di utili che accumula le consentono di finanziare operazioni in grado di cambiare lo scenario politico, economico e militare in molte aree del pianeta. Influenza le decisioni di governi e istituzioni sovranazionali scongiurandone l’azione per evitare i conflitti armati, disinnescandone l’azione diplomatica, soffiando su rancori storici mai sopiti, alimentando pretese e diritti che possono alimentare guerre e azioni di terrorismo. D’altra parte è sempre più frequente registrare conflitti cosiddetti «minori» o a «bassa intensità» nei Paesi del sud del mondo che notoriamente non producono armi ma che le usano eccome! Né più né meno cercano di generare la domanda rispetto all’offerta, consapevoli che per questo comparto industriale la domanda si chiama guerra. Basterebbe constatare la pervicacia con cui negli Usa si continuano a vendere pressoché liberamente armi nonostante tutte le stragi di innocenti che si sono susseguite. E per guardare nella nostra casa europea, il dibattito in corso da nove mesi sulle armi da vendere o donare all’Ucraina, se sui giornali e nelle televisioni assume un significato etico o strategico, per il complesso industrial-militare rappresenta semplicemente un affare colossale. Un affare ancora più ghiotto perché coperto dai segreti di Stato che non consentono agli analisti di definire con certezza i profitti che le aziende di armi stanno maturando in questo conflitto sulla pelle delle vittime. Al punto che si deve poter parlare a tutti gli effetti di extraprofitti maturati dall’industria bellica così come si fa per la produzione energetica o per la campagna vaccinale o per la gestione della fase acuta della pandemia che ha fatto impennare le voci in entrata del settore farmaceutico. Sono ragioni sufficienti per proporre che la tassazione degli extraprofitti debba includere anche i produttori di armi in un tempo in cui il loro uso è maledettamente diffuso. Dal 2014 al 2020 la sola spesa militare europea è aumentata a 198 miliardi di euro facendo registrare un incremento del 25% e naturalmente non è contabilizzata la spesa determinante decisa negli ultimi mesi. Peraltro a differenza di un altro tipo di produzione, per le armi è fin troppo facile verificare il nesso diretto tra il loro uso e la morte, le distruzioni, la sofferenza, gli alti costi umani ed economici che includono anche lo spostamento di popolazioni intere che si trasformano in sfollati interni o richiedenti asilo all’estero. E allora non è nemmeno lontanamente immaginabile che le armi siano tassate allo stesso modo delle automobili, dei materiali edili o di arredamento. E non si capisce perché non debbano piuttosto concorrere alla riparazione dei danni che il loro stesso uso produce. E allora chiediamo che qualche solerte parlamentare presenti un progetto di legge o proponga un decreto che provveda quanto prima a riparare questo vulnus della legge e della coscienza.

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In libreria
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«Giovanni XXIII. Il Vaticano II un Concilio per il mondo», di Marco Roncalli ed Ettore Malnati, collega l’assise avviatasi l’11 ottobre 1962 al percorso sinodale: prefazione di papa Francesco

Che succede?

coordinamento-dcostdisperazione AladinLa tragicommedia dei porti semichiusi

Con un semplice tratto di penna sono stati evocati gli spettri della “selezione” fra “i sommersi ed i salvati”, ed è stata attuata una prima sperimentazione della cultura dello scarto, trasformando delle persone vive in materiale di scarto (carico residuo appunto) di cui sbarazzarsi, come si fa per i rifiuti tossici.
di Domenico Gallo (​11.11.2022)

Un provvidenziale certificato medico ha consentito lo sbarco a Catania di tutto il “carico residuo” rimasto a bordo della navi umanitarie Humaniti 1 e Geo Barents, dopo la prima “selezione” che aveva consentito lo sbarco di donne e minori e soggetti fragili. In questo modo il nuovo esecutivo è stato salvato dall’umiliazione di doversi rimangiare i due fantastici decreti con i quali, dopo due settimane di attesa, aveva concesso alle due navi ONG il permesso di: “sostare nelle acque territoriali italiane..(non) oltre il termine necessario per assicurare le operazioni di soccorso ed assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali ed in precarie condizioni di salute”, con l’obbligo di allontanarsi dalle acque territoriali con il “carico residuo”.

Con un semplice tratto di penna sono stati evocati gli spettri della “selezione” fra i meritevoli di essere salvati e quelli destinati ad essere rigettati all’inferno, in pratica una nuova versione de “i sommersi ed i salvati”, ed è stata attuata una prima sperimentazione della cultura dello scarto, trasformando delle persone vive in materiale di scarto (carico residuo appunto) di cui sbarazzarsi, come si fa per i rifiuti tossici.

Quello che conta è il linguaggio che, in questo caso, serve a definire un’identità. In un certo senso il nuovo esecutivo, con il decreto Rave e con i decreti sui porti semichiusi, ha indossato la camicia nera, pur essendo consapevole che stava realizzando una sceneggiata.

L’importante è mandare il messaggio, che “la musica è cambiata”, che questo governo è intransigente nella difesa dei confini, che è capace di imporre a tutti “il rispetto delle regole”, e di tutelare “l’interesse nazionale”. Consacrare una nuova “postura” (di bullismo) nei rapporti interni e nei rapporti internazionali è un’ottima arma di distrazione di massa rispetto ai problemi reali di governo del paese, che non si possono risolvere spezzando le reni a chicchessia.

Ovviamente una cosa è la narrazione, altra cosa è la realtà. Il Governo italiano non poteva prolungare il braccio di ferro con la Commissione Europea che più volte ha richiamato l’Italia, invitandola a «minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi» (da ultimo il 10 novembre con una nota ufficiale), come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014. Per questo è stato costretto ad assicurare un porto per lo sbarco. Né poteva impedire lo sbarco di tutti i naufraghi a bordo delle navi che hanno effettuato il salvataggio.

La pretesa di effettuare la “selezione” fra i salvati e i sommersi non avrebbe potuto trovare attuazione pratica perché inevitabilmente sarebbe stata stroncata dalla giurisdizione amministrativa e da quella ordinaria, se non dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

Vi è un catalogo di norme e principi di carattere nazionale, costituzionale e sovranazionale che non possono essere stracciati impunemente, neanche da un governo “forte”. A cominciare dallo stesso testo unico sull’immigrazione (art. 10 ter) che prevede che le persone salvate in mare devono essere condotte nei centri di prima accoglienza e devono essere informate del diritto di chiedere la protezione internazionale, essendo il diritto d’asilo un diritto fondamentale garantito dall’art. 10, comma 3 della Costituzione. Per non parlare dell’impossibilità di reinviare in acque internazionali il “carico residuo”, poiché l’espulsione collettiva di stranieri è vietata dall’art. 4 del Protocollo n. 4 della CEDU e dall’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Insomma il certificato medico è stato una manna dal cielo che ha tolto le castagne dal fuoco al Governo salvandolo da una imbarazzante retromarcia. A questo proposito la reazione stizzita del Presidente del Consiglio non si comprende se sia frutto più di inesperienza o di supponenza.

Resta il fatto che ostacolare l’attività di soccorso in mare effettuata dalle navi umanitarie, che intervengono in una zona di mare dove sono stati ritirati tutti gli assetti navali di Frontex, non è una forma di contrasto all’immigrazione illegale, né di “protezione” dei confini. Le navi ONG intercettano, infatti, solo una minoranza dei profughi che arrivano dal mare: poco più di 10.000 su 87.000 sbarcati negli ultimi 10 mesi, l’11,5% del totale. La maggior parte dei c.d. “migranti illegali” arriva su mezzi propri che non possono essere bloccati, né respinti in alto mare.

L’intervento delle navi ONG fa la differenza perché consente l’arrivo in Italia di quelle persone che con i mezzi propri non ce l’avrebbero fatta. In pratica c’è una selezione naturale fatta dal mare dove, secondo l’OIM, sono almeno 2.836 i morti e dispersi registrati nel Mediterraneo centrale dal 2021 al 24 ottobre 2022. Le navi delle ONG si intromettono in questa selezione naturale mitigandola, portando in salvo quel flusso di persone che non ce l’avrebbero fatta: o sarebbero annegati, o sarebbero stati catturati dalle motovedette libiche e riportate nell’inferno dei lager.

Impedire quest’attività di soccorso significa pianificare la morte per annegamento di migliaia di persone come strumento ordinario della politica di gestione dell’immigrazione. Evidentemente nei suoi primi vagiti il governo ha riesumato il motto dei franchisti: Viva la muerte!
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f4ab00b9-a793-4143-a334-bacfa6ae0dc6Tante piazze per la pace perché non possiamo stare a guardare
di Alfiero Grandi​
(11 Novembre 2022)

La manifestazione per la pace di Roma è andata molto bene, partecipata, multiforme e questo è un pregio non un difetto. Diversi orientamenti si sono uniti nella richiesta alta e forte di puntare con decisione ad una tregua e ad una trattativa che ponga fine alla guerra in Ucraina. Guerra che continua a diffondere germi pericolosi che possono spingere ad un conflitto mondiale, perfino nucleare.
Resta la grave responsabilità di Putin di avere scatenato l’aggressione all’Ucraina e di avere innescato un rilancio del riarmo a livelli mai visti dalla seconda guerra mondiale. Un solo esempio: la richiesta Nato di spendere per la cosiddetta difesa (parte degli armamenti vanno in Ucraina) almeno il 2 % dei bilanci pubblici dei suoi membri è praticamente un dato acquisito negli orientamenti dei vari governi, resta al massimo il problema dei tempi per arrivarci. La Germania ha addirittura messo in bilancio 100 miliardi di euro per armamenti.
La guerra ha travolto le relazioni tra gli Stati
Il cambiamento nei rapporti internazionali tra gli Stati è ben descritto dalla differenza (allarmante) tra il vertice di Glasgow (Cop26), avvenuto solo un anno fa per concertare a livello mondiale le iniziative contro il cambiamento climatico (con l’obiettivo di contenere l’aumento della temperatura del pianeta entro 1,5 gradi) e il vertice mondiale in Egitto (Cop27) che ha registrato assenze importanti (India, Cina, Russia), con difficoltà enormi nel gestire perfino gli impegni già presi e finora non realizzati, come il sostegno finanziario.
La guerra ha travolto nel mondo le relazioni tra stati e relegato la questione clima in secondo piano. La crisi climatica oggi non è più il centro, malgrado le sue conseguenze gravissime si susseguano sotto i nostri occhi, non ultime quelle economiche, in particolare sulla transizione dall’energia fossile a quelle rinnovabili, che era un punto centrale della discussione a Glasgow.
Non è il clima che è migliorato, è il consesso degli stati che ha relegato questo obiettivo vitale per il futuro dell’umanità in secondo piano. Non possiamo rassegnarci.
La risposta alla guerra non può essere proseguire nel riarmo, bruciando risorse e vite umane. E’ un errore mettere al centro la scelta tra Putin e l’Ucraina, come se si trattasse di una partita, perché è evidente che questo disgraziato paese sta subendo distruzioni e perdite di vite umane ma che la sua tragedia non troverà soluzione per via militare, con la guerra.
La guerra infinita non è una soluzione ma una crisi senza via d’uscita, per questo occorre invertire il precorso e creare nel mondo il clima e le iniziative che possono portare a tregua e trattative di pace. La conferenza di Helsinky del 1975 resta un riferimento importante.
Finora si è parlato molto e solo di guerra, ben pochi hanno parlato di pace, che anzi viene descritta come impossibile perché i diretti interessati – si dice – vorrebbero continuare la guerra e puntano a risolvere per via militare il conflitto.
La differenza è anzitutto qui. Può essere che Russia ed Ucraina non siano in grado di trovare da sole il modo per avviare una trattativa diretta. Per ora è stata mediata dalla Turchia la soluzione di singoli aspetti. Proprio per questo è il resto del mondo che deve trovare la forza e il coraggio per aiutare, convincere, costringere i contendenti ad affrontare le difficoltà di una trattativa per la pace.
Il resto del mondo non può ridursi a spettatore o a fornitore di armi ai contendenti, perché questo è un dramma umano e politico che riguarda tutta l’umanità e che potrebbe portare il pianeta, tutti noi, al disastro.
Essere per la pace non impedisce di avere chiare le responsabilità, ma vuol dire concentrarsi su questo obiettivo che è l’unico modo per non rimanere prigionieri delle difficoltà, per cercare una soluzione futura stabile ad una situazione che oggi è di guerra.
L’invio di armi non è l’unica via
Non sarà sufficiente la manifestazione del 5 novembre, che anzi ha bisogno di continuità, mettendo in campo altre e più ampie iniziative, come del resto hanno detto gli oratori nei discorsi in piazza San Giovanni: allargare alle altre capitali nel mondo le manifestazioni, diffonderle in modo sempre più ampio in Italia, convincere che le trattative non hanno alternative.
Allargare, estendere, intensificare, sono i compiti che la manifestazione di sabato ha affidato a tutti noi.
Non a caso contro questa manifestazione è iniziato preventivamente (e prevedibilmente) un tentativo di sminuirne la portata, proseguendo a raccontarla in modo strumentale. La critica di chi sostiene che l’invio delle armi è l’unica via per arrivare alla pace è semplicemente una coazione a ripetere, per di più fingendo di dimenticare che la Russia è una potenza nucleare. In altre parole questo vuol dire puntare a vincere la guerra costi quel che costi per umiliare l’avversario.
Questo è un dramma anzitutto per l’Ucraina, ormai diventata campo di sperimentazione di tutte le nuove diavolerie per uccidere, inventate e costruite per la guerra.
La foglia di fico dietro cui ci si è nascosti finora è stata avanti con le forniture di armi perché è l’Ucraina che deve decidere se ci sono le condizioni per la pace. L’Ucraina ha diritto a decidere per sé stessa, ma non può decidere di creare una situazione che può portare ad un conflitto mondiale e peggio ancora al conflitto nucleare. Sappiamo bene che questo è solo un alibi per giustificare la continuazione delle forniture di armi e la guerra.
Non si possono dipingere come filo Putin tutti quelli che parlano di pace, facendo risorgere un nuovo maccartismo, senza avere il coraggio e la forza di dire che per arrivare alla pace occorre pensare alla pace. Per di più con una sudditanza europea preoccupante e alla lunga pericoloso per il suo ruolo nel mondo e il suo futuro.
Lo slittamento verso una guerra senza fine e un suo potenziale allargamento al mondo rischia di diventare l’unica strada effettivamente percorribile. Durante la guerra fredda, ad esempio negli anni 60, si arrivò diverse volte vicini al dramma nucleare ma poi ci si fermò sulla base della convinzione che una guerra mondiale avrebbe portato l’umanità ad un disastro e che la coesistenza doveva per forza di cose riguardare regimi diversi tra loro. Altrimenti se le relazioni fossero solo con paesi più o meno simili si dovrebbe parlare di alleanze non di coesistenza.
Oggi va ricostruita questa semplice ma decisiva verità. Paesi diversi, con regimi diversi, che possono non piacerci e che abbiamo diritto di criticare, non possono essere l’obiettivo di un cambiamento politico dall’esterno, occorre evitare che la competizione tra sistemi diventi ragione di guerra, in particolare se dovesse coinvolgere paesi con armi atomiche, perché gli incubi peggiori potrebbero diventare una spaventosa realtà.
Quindi occorre che le sedi internazionali, a partire dall’ONU, svolgano a pieno il loro ruolo, coinvolgendo le potenze fondamentali che hanno una responsabilità nel governare le relazioni internazionali, partendo da una tregua nella guerra in Ucraina e insieme avviando una trattativa per la pace, difficile fin che si vuole ma che è l’unica via per uscire da questo cul de sac.
Chi con sicumera insiste sulla guerra senza fine dovrebbe ricordare che in Afghanistan gli Usa sono rimasti 20 anni, spendendo cifre incredibili e con una presenza militare diretta enorme, con perdite umane importanti, eppure ad un certo punto, senza neppure avvertire gli alleati, gli Usa hanno deciso che la guerra andava conclusa e sappiamo che è finita con l’abbandono delle speranze (e delle persone) al loro destino.
Nessun organo di informazione importante ha fatto la diretta della manifestazione di Roma, altri si sono dilettati in derisioni, critiche, insistendo sulle differenze, senza comprendere che la convergenza di diversi su una piattaforma é una forza non una debolezza. Tutto previsto e puntualmente arrivato.
Passare dal sostegno alla guerra, senza chiedersi quale possa esserne lo sbocco, alla iniziativa per la pace non è uno scherzo, richiede un cambio radicale di priorità e di atteggiamento verso i soggetti in campo.
Chi chiede solo armi deve sapere che non può continuare così. Chi continua la distruzione sistematica e provoca vittime deve sapere che non può continuare così. La coazione a ripetere è durata anche troppo. Ora basta, parliamo di pace come obiettivo principale.
Altra eredità decisiva della manifestazione sta nella testimonianza di chi ha contribuito come Sant Egidio a superare condizioni di guerra terribili nel mondo e oggi è di nuovo testimone della volontà di pace.
Mettere insieme le tante voci diverse
Ora occorre non solo estendere le manifestazioni ma iniziare concretamente a individuare le sedi, i percorsi e le soggettività che possono contribuire a creare un clima di fiducia sufficiente per avviare le trattative di pace. Sappiamo da tempo che l’autorità morale di papa Francesco può aiutare (anche se le sue divisioni militari non esistono) ma non è l’unica autorità che può contribuire. Sono diversi i pulpiti importanti che fanno capire di essere per la pace, malgrado questo la trattativa non si avvia, non scatta ancora il meccanismo positivo.
Estendere le manifestazioni ovunque e fare maturare più in fretta possibile la trattativa sono le due sfide che la manifestazione di Roma consegna a tutti noi.
Inoltre va detto che al di là dello sbracciarsi per attribuirsi primazie sulla manifestazione resta il fatto che i protagonisti che hanno organizzato e riempito il corteo e la piazza sono esponenti della società, sono associazioni e persone che sono determinate alla pace.
Se questa manifestazione fosse stata convocata da settori politici non avrebbe avuto lo stesso risultato, mentre la convocazione da parte di 600 associazioni grandi e piccole ha dato all’appello di convocazione la credibilità necessaria per mobilitare tanti, diversi tra loro, e questa è una forza non una debolezza.
Questo debbono ricordarlo tutti, sia quelli che hanno partecipato per non perdere il contatto con questo mondo, sia altri che si sono messi in evidenza per intestarsi il risultato.
Non ci sono ancora né iniziative, né credibilità della politica sufficienti per recuperare un rapporto di rappresentanza con la parte maggioritaria delle italiane e degli italiani che vogliono che questa guerra finisca prima possibile, senza umiliazioni e creando un clima giusto di convivenza tra diversi.
La società ha oggi una responsabilità enorme ed è l’unica che può mobilitare le persone e uscire dagli schemi fin qui percorsi, che hanno dimostrato di non essere in grado di indicare una via di uscita dal clima di guerra verso una difficile ma indispensabile pace.
Chi ha ascoltato i discorsi durante la manifestazione sa che la piattaforma di convocazione e le posizioni espresse dagli oratori, in particolare da don Ciotti, Riccardi e Landini hanno una valenza politica che gli esponenti politici non riescono ad avere perché la maggioranza dell’opinione pubblica del nostro paese sta con i protagonisti del 5 novembre.
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Che succede nel/al Pianeta?

cost-terra-logoCostituente Terra Newsletter n. 100 del 9 novembre 2022

LESSICO FAMILIARE

Cari Amici,
dice il Vangelo: “in quella notte, due si troveranno nello stesso letto: l’uno verrà portato via e l’altro lasciato; due donne staranno nello stesso luogo: l’una verrà portata via e l’altra lasciata”. Così fa il governo che dice di essere umanitario con quelli che prende, di usare la fermezza con gli altri. Solo che il Vangelo lo dice riguardo alla fine del mondo, il governo lo dice riguardo alla fine che vuol far fare ai naufraghi che salvati dal mare arrivano ai nostri porti. Non capisce che queste – le selezioni, gli scarti, i raduni permessi e vietati, le serate negate ai giovani che non sono in regola con Iva, Siae, Irpef e Tari – sono politiche della fine, ma anche della fine di un governo ragionevole. E quanto alla fermezza contro i migranti, è una parola che nel nostro lessico evoca quella di un altro governo che per la fermezza (non si tratta con le BR) mandò a morte l’on. Aldo Moro, o quella dell’irredento Zelensky che per fermezza non tratta con Putin e manda a morte l’Ucraina.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Riccardo Petrella sulla “guerra infinita”.
Cordiali saluti,

www.costituenteterra.it
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Informazioni
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Dal 6 al 18 novembre si terrà la 27a Conferenza delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (COP 27) durante la quale i cattolici avranno una nuova opportunità di occuparci della cura del creato e raggiungere un accordo per il mondo.
Ma cos’è la COP27? qual è la sua storia? E perché è così importante?
L’acronimo COP sta per Conferenza delle Parti. Le “parti” sono i firmatari della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), un trattato del 1994, composto da 197 parti (196 paesi e Unione Europea). Un anno dopo, nel marzo 1995, si tenne la prima COP a Berlino, in Germania.
La conferenza del 2022 sarà il 27° incontro delle Parti. Quest’anno si tiene nel continente africano, più precisamente nella città di Sharm El-Sheikh in Egitto.
Le Conferenze delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici sono tra gli incontri internazionali più importanti al mondo. I negoziati tra i governi sono complessi e coinvolgono funzionari di tutti i paesi, nonché rappresentanti della società civile e dei media.
Cosa accadrà in Egitto?
Ora è necessario e urgente agire immediatamente per la cura del creato e alzare la voce per attuare un’azione immediata.
Dopo la COP26 di Glasgow e i suoi “accordi insufficienti”, quest’anno stiamo cercando di accelerare l’azione verso gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
Una delegazione del Movimento Laudato Si’ sarà presente a Sharm el Sheikh sostenendo in particolare gli sforzi dei suoi membri e partner, concentrandosi su NDC (Nationally Determined Contributions) e mitigandoli. Inoltre presenteranno il film La Lettera per far conoscere l’enciclica Laudato Si’ e gli sforzi dei cattolici per prendersi cura della nostra casa comune.
La nostra casa comune e la nostra famiglia comune stanno soffrendo. L’emergenza climatica sta causando l’innalzamento dei mari, un pianeta più caldo e un clima più estremo.
Sta devastando la vita dei nostri fratelli e delle nostre sorelle più poveri. Allo stesso tempo, i biologi stimano che stiamo portando le specie all’estinzione a un ritmo compreso tra 100 e le 1.000 volte superiore al normale. “Non ne abbiamo il diritto” (LS 33).
Questo novembre, i paesi annunceranno i loro piani per raggiungere gli obiettivi dell’accordo di Parigi.
Considerando i vari rischi derivati ​​dalla crisi climatica, l’obiettivo di questa conferenza è che i paesi presentino obiettivi forti di riduzione delle emissioni per il 2030 (NDC) e mantengano l’aumento della temperatura a 1,5 gradi per raggiungere lo zero entro la metà del secolo .
È nostra responsabilità come cattolici alzare la voce dei più vulnerabili e difenderli. È necessario e urgente lavorare insieme per raggiungere questi obiettivi e trasformare le ambizioni in azioni, accelerando la collaborazione tra governi, imprese e società civile. Ecco perché come cattolici dobbiamo alzare la voce per prenderci cura della nostra casa comune.
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COP27: combattere i ricchi per salvare il pianeta

09.11.22 – Marco Bersani – Attac Italia – su Pressenza.

“We won’t pay your greed” (“Non pagheremo per la vostra avidità”)
Privatizzare i profitti e socializzare gli oneri è sempre stata la regola base del modello capitalistico, che nelle fasi di prosperità decanta il merito dell’iniziativa privata dei pochi e nelle fasi di crisi distribuisce colpe e sacrifici sulla vita dei molti.
Lo abbiamo ampiamente visto – e presto lo rivedremo – in merito alla crisi finanziaria e del debito: dopo aver esaltato per decenni il ‘self made man’, l’imprenditore di sé stesso, l’artefice del proprio destino, allo scoppio della bolla la responsabilità è diventata improvvisamente collettiva e il debito è stato narrato come conseguenza dell’aver vissuto per anni al di sopra delle nostre possibilità e dell’aver sperperato senza alcuna considerazione per le future generazioni.

É la stessa ideologia con cui viene oggi raccontata la crisi climatica: colpa di tutte e di tutti, responsabilità dell’umanità in quanto tale, al punto che si è mutuato il linguaggio dalla geologia per definire quest’epoca come ‘Antropocene’, esplicitando una visione che rimanda ad una generica e astratta relazione uomo-natura come causa dell’attuale crisi eco-climatica, in cui sono l’esistenza stessa e l’attività di una umanità del tutto indifferenziata a generare impatti negativi sull’ambiente naturale.

Sappiamo che non è così. Come ha da tempo dimostrato lo studio “Climate change & the global inequality of carbon emissions, 1990-2020” , realizzato dal “Laboratoire sur les Inégalités Mondiales dell’École d’économie de Paris”, anche sulle emissioni di gas serra regna la stessa diseguaglianza che attraversa la società.

Secondo questo studio, a livello globale, il 10% più ricco della popolazione mondiale (771 milioni di individui) emette in media 31 tonnellate di CO2 per persona all’anno ed è responsabile di circa il 48% delle emissioni globali. Dentro questa fascia, l’1% dei ricchissimi emette in media 110 tonnellate ed è responsabile del 17% delle emissioni. Per contro, il 50% più povero (3,8 miliardi di individui) emette 1,6 tonnellate per persona all’anno, raggiungendo solo il 12% delle emissioni globali.

É una polarizzazione dovuta a diseguaglianze geopolitiche e storiche, ma che diviene ancora più marcata se si guarda alle condizioni sociali interne a ciascun Paese. Nelle nazioni più ricche, le emissioni pro capite della metà più povera della popolazione sono addirittura diminuite dal 1990 ad oggi, mentre si sono moltiplicate esponenzialmente quelle della popolazione abbiente e soprattutto quelle dei super-ricchi.

I ricchi inquinano e lo fanno con il loro stile di vita, basato su un iper-consumo insostenibile. Ma il recentissimo rapporto “Carbon billionaires” presentato da Oxfam in occasione della Cop27 attualmente in corso in Egitto, dimostra come i super-ricchi inquinano anche con i propri investimenti finanziari.

Secondo il rapporto, le emissioni di CO2 in un anno associate agli investimenti in imprese inquinanti da parte dei 125 miliardari del pianeta “equivalgono a quelle prodotte nello stesso arco temporale da un paese come la Francia”.

Dallo studio emerge che la scala delle emissioni degli investimenti di questi super-ricchi equivale a 393 milioni di tonnellate di CO2 complessive. “In media, in un anno gli investimenti finanziari di ciascuno di questi super-ricchi in settori economici inquinanti “producono” una quantità di emissioni 1 milione di volte superiore a quella di una qualunque persona collocata nel 90% più povero della popolazione mondiale”. Facendo un ulteriore paragone “Ci vorrebbero 1,8 milioni di mucche per emettere gli stessi livelli di CO2 di ciascuno dei 125 miliardari”
Come si vede, siamo ben lungi dall’essere tutti ‘sulla stessa barca’, come la narrazione dominante vorrebbe farci credere. Siamo invece dentro un modello nel quale la ricchezza di pochi è direttamente responsabile tanto dell’ingiustizia sociale, quanto della crisi climatica in cui siamo drammaticamente immersi.

E, per uscirne, basti l’indicazione data, nel novembre 2021, ai delegati della COP26 riuniti a Glasgow dal direttore dell’Istituto di Potsdam (PIK), Johan Rockström: per mantenere il riscaldamento al di sotto di 1,5°C e nel rispetto della giustizia climatica, l’1% più ricco della popolazione mondiale dovrà dividere per trenta le sue emissioni entro il 2030; il 50% più povero, invece, potrà moltiplicarle per tre.

Quale governo applicherà un principio tanto drastico quanto elementare? Quale governo sarò capace, oltre che di chiudere gli allevamenti intensivi di bovini e suini, di chiudere con politiche economiche, sociali ed ecologiche anche l’allevamento intensivo dei super-ricchi?

L’articolo originale può essere letto qui
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OSSERVATORIO SULLA TRANSIZIONE ECOLOGICA – PNRR
Promosso da
coordinamento
Coordinamento per la Democrazia Costituzionale, Laudato Si’, Nostra

Una delle tante nefaste conseguenza del riarmo e della guerra è il rilancio dell’energia fossile, occorre una svolta radicale verso le rinnovabili. In proposito, ecco una chiara presa di posizione.

La transizione ecologica non è una scelta, è un obbligo che deriva dall’aggravarsi della crisi climatica- che provoca disastri ambientali e danni enormi alla vita delle persone – con costi economici inaccettabili. Per questo occorre accelerare il passaggio da un’economia e una vita sociale fondata sulle fonti fossili e sullo spreco delle risorse naturali verso una basata sulle fonti da energie rinnovabili e sulla circolarità del ciclo produzione/rifiuti.
Una transizione epocale, richiesta anche dall’accelerazione dell’esaurimento delle risorse naturali, conseguente alle aberranti logiche di spoliazione e sfruttamento, quale riportano i dati impressionanti dei rapporti UNEP. Sfruttamento e logiche dominate da interessi di parte, che, in concorso con aridità e siccità che investono aree sempre più estese del pianeta riguardano anche il drammatico ridursi dell’acqua, irrinunciabile bene comune dell’umanità. Questa transizione deve vedere il nostro Paese tra i protagonisti, con politiche mirate ed efficaci, con capacità tecnologica innovativa e con significative realizzazioni, come finora è accaduto purtroppo in modo parziale e inadeguato.
La guerra ha spinto in secondo piano l’impegno corale – faticosamente conquistato solo un anno fa – degli Stati del pianeta a convergere nello sforzo per limitare la crescita dell’aumento della temperatura entro 1,5 gradi, condizione indispensabile per contenere l’alterazione climatica in corso, pena prospettive disastrose.
Occorre che ogni Paese riprenda con determinazione e forza quel percorso, altrimenti sarebbe inevitabile l’estendersi di povertà e fame, in contrasto con gli obiettivi dell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, fino a livelli di inabitabilità di intere aree del pianeta. La stessa reazione alle conseguenze della guerra e della crisi energetica deve cambiare in profondità.
Il tragico conflitto scatenato dalle decisioni scellerate di Putin ha evidenziato, anche nel discorso pubblico, la necessità di sostituire le fonti energetiche gas e petrolio, e non solo limitatamente alle importazioni dalla Russia.Tuttavia fino ad ora deboli e perfino regressivi sono stati l’attenzione e gli interventi verso le fonti energetiche rinnovabili: le uniche in grado di garantire l’autonomia energetica del nostro Paese, disponibili e già oggi tecnologicamente mature, economicamente più convenienti e, socialmente, di uso sempre più esteso.
Al contrario, proprio su questo passaggio verso le rinnovabili, si registra il punto più debole delle scelte fatte (o non fatte) negli ultimi 20 mesi dal precedente governo e che non sembrano essere finora considerate dal nuovo.
Infatti, il 2022 si chiuderà con un aumento delle energie rinnovabili assolutamente al di sotto del necessario rispetto all’obiettivo 2030, cioè i nuovi 70 GW più volte confermati dal precedente Ministro della Transizione Ecologica. Peggio, con una preoccupante lontananza dalla richiesta di Next Generation EU di realizzare il 40% degli obiettivi energia-clima 2030 entro il 2025, che comporta 30 GW in più di rinnovabili entro quella data. Il nuovo Governo dovrà, allora,essere in grado di assicurare l’allaccio alla rete di almeno metà dei 60 GW di rinnovabili, che le industrie del settore si dichiarano pronte a realizzare entro i prossimi tre anni. Dai primi passi emerge, purtroppo, la scelta di investire ancora nella filiera del gas, procrastinando così il modello fossile e pagando, inoltre, un caro prezzo economico, ambientale e climatico anche alle difficoltà di approvvigionamento, costruzione di rigassificatori, acquisto di navi metaniere, nuove trivellazioni per quantitativi irrisori ma significativi rispetto al danno ambientale, che ipotecano per almeno un ulteriore decennio il modello che infrange i limiti di temperatura cui stiamo già pericolosamente vicini.
Sui risultati omogenei con Next generation EU e gli obiettivi al 2030, difficili ma non impossibili, si valuterà la credibilità del nuovo Governo nella battaglia contro la crisi climatica. E si metteranno al riparo le ulteriori destinazioni previste per l’Italia dal Recovery Fund, che non è affatto scontato siano erogate in assenza di fatti significativi, non surrogabili con promesse che, come quella sul ventilato ricorso all’energia nucleare, andrebbero ampiamente al di là del 2030.
A questo Governo chiediamo, come avevamo già fatto col precedente, di convocare rapidamente una conferenza nazionale per preparare un nuovo piano energetico nazionale con l’obiettivo di uscire dal giorno per giorno, dalla affannosa rincorsa alle emergenze. Giriamo la proposta al nuovo Ministro e al nuovo Governo: dimostrino di comprendere l’esigenza di una svolta epocale nella direzione delle energie rinnovabili.

Mario Agostinelli, Alfiero Grandi, Jacopo Ricci
Massimo Scalia coordinatore scientifico
Novembre 2022

Pace. «Una foresta di persone contro la logica delle armi»

fa129f14-d460-4d0e-be70-009765d9d6a1«Una foresta di persone contro la logica delle armi»
intervista a Giovanni Ricchiuti a cura di Luca Kocci
in “il manifesto” del 5 novembre 2022

Nel popolo che oggi scende in piazza contro la guerra ci sono anche molti cattolici. Il presidente della Cei, il cardinale Matteo Zuppi, giovedì scorso su Avvenire ha scritto una lettera aperta «a chi manifesta per la pace» per dire «liberi insieme dalla guerra». Pochi giorni prima i presidenti di 47 associazioni e movimenti cattolici hanno firmato un documento con cui chiedono non armi ma dialogo e diplomazia. Fra loro anche Giovanni Ricchiuti, vescovo di Altamura e presidente di Pax Christi.
Monsignore cosa risponde a chi dice che oggi c’è la solita manifestazione delle “anime belle” prive di realismo politico o dei filo-Putin?
Io continuo a preferire un’anima bella, anzi tante anime belle, a quanti invece sono senza anima, cioè sono talmente rassegnati e pessimisti che non vedono soluzioni se non quelle armate. E poi non sono anime, ma corpi e voci che in tante occasioni non si sono limitate a scendere in piazza, ma sono andati sui luoghi delle sofferenze e delle guerre, per esempio in Ucraina con le carovane per la pace. Inoltre nessuno di noi ha mai messo in dubbio che l’aggressore è la Russia, l’aggredito è l’Ucraina.
Il movimento per la pace si sta rianimando?
Penso e spero di sì. Molti, come al solito, ironizzano sui pacifisti. A me viene sempre in mente quel proverbio: fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce. Oggi in piazza ci saranno decine di migliaia di persone, questo significa che la foresta è silenziosamente cresciuta, in mezzo al rumore delle bombe di una guerra che da otto mesi sta insanguinando l’Europa. In questi anni le strade si sono un po’ svuotate, ma i pacifisti, anzi gli operatori di pace, hanno continuato a portare avanti tante iniziative, quindi forse il bilancio non è così negativo o fallimentare come qualcuno vuole far credere.
Il documento delle associazioni cattoliche chiede «un impegno più determinato nella ricerca della pace» perché «affidarsi esclusivamente alla logica delle armi rappresenta il fallimento della politica». In questi mesi però ci si è affidati alle armi, non alla diplomazia. Perché? Per almeno due motivi. Il primo è l’assenza di una cultura di pace in chi ha la responsabilità di orientare e guidare la politica. «Parlano di pace, ma hanno nel cuore hanno la guerra», dice un salmo. Noi abbiamo sentito pronunciare tante volte la parola pace, poi nelle azioni politiche abbiamo visto prevalere la logica delle armi. In questi otto mesi non ci sono stati seri tentativi di dialogo e di negoziato o proposte di interposizione non armata, l’unica risposta è stata quella di fornire armi all’Ucraina per la propria difesa.
E il secondo?
Interessi politici ed economici, spesso ben mascherati. Nel 2021 l’Italia ha esportato armi per oltre quattro miliardi e mezzo di euro. E poi l’aumento delle spese militari fino al 2% del Pil: ne vogliamo parlare? È un muro di interessi davvero difficile da abbattere.
Il nuovo governo italiano ha confermato la linea di fedeltà assoluta alla Nato, e quindi l’invio di armi. Non sembra emergere l’intenzione di farsi promotori di una seria iniziativa diplomatica per la pace…
Per niente! Del resto non c’era da sperare qualcosa di diverso rispetto al passato più recente. E purtroppo credo che a livello politico le cose non cambieranno nemmeno per il futuro.
Le associazioni cattoliche hanno rinnovato la richiesta al governo di ratificare il trattato Onu di proibizione delle armi nucleari, per affermare «che non vogliamo armi nel nostro territorio». Anche qui però non si vede una svolta. Anzi pare che gli Usa stiano potenziando gli arsenali atomici di Ghedi e Aviano.
Abbiamo voluto ricordare al governo che l’Onu, con un trattato entrato in vigore nel gennaio 2021, ha dichiarato illegali le armi nucleari. Oltre cinquanta Stati lo hanno ratificato. L’Italia no, perché siamo membri della Nato. Ci si difende ancora dietro il principio della deterrenza. Addirittura alcuni teologi hanno rispolverato la dottrina della guerra giusta. Poi per fortuna papa Francesco ha detto che il possesso delle armi nucleari non è solo illegale, ma anche immorale.
Con la guerra aumentano le disuguaglianze sociali, a pagare sono sempre gli ultimi, come diceva Brecht. Subito dopo le elezioni del 25 settembre, la Cei aveva dichiarato che avrebbe vigilato sui diritti dei più deboli. Il nuovo governo va in questa direzione?
I primi segnali destano molta preoccupazione. Continueremo a copertina_anello_deboledenunciare le ingiustizie e le ineguaglianze sociali. A dire che di fronte a cinque milioni e mezzo di poveri assoluti, secondo l’ultimo rapporto Caritas, occorrono misure di redistribuzione del reddito, di riduzione delle spese militari e aumento delle spese sociali. Ma temo che non ascolteranno.
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logo76Newsletter n.282 del 6 novembre 2022

TRAVISATI

Cari Amici,
sabato ci sono state le manifestazioni. Ci sono andati in centomila. A Roma e in Bahrein, per la pace, a Milano per la guerra. Il cardinale Zuppi per la pace: “Caino vide nel fratello Abele solo un nemico”, Francesco: “Amare tutti, amare i nemici”; Letta e Micromega per la guerra: “Solidarietà con l’Ucraina, Putin go home”, “Si alle armi, coerenti alle nostre posizioni dal 24 febbraio”. Interdette le bandiere di partito, cioè interdetto il discernimento delle ragioni, se ci sono, delle due parti.
Sabato c’è stato anche il blocco delle navi delle ONG, il divieto di sbarco, fuori dai porti negati.
C’è dunque una divergenza tra chi decide che la gente deve morire e chi pensa di salvarla, di preservarne la vita. Nel vocabolario la prima posizione si chiama assassinio, la seconda soccorso. Scongiurare la guerra significa buongoverno, sacrificare tutto alla vittoria significa terrore.
Se è un assassinio lasciare uomini, donne, bambini (quelli accompagnati , vispi e senza dissenteria) in mezzo al mare perché vadano alla deriva e muoiano non subito ma in differita, gli assassini sono travisati , perché si mascherano con la buona azione di “farsi carico delle emergenze sanitarie, di minori, donne incinte, donne con bambini piccoli, gente con la febbre”, e che gli altri si perdano.
Se è un assassinio mandare armi e sempre più armi perché i Russi siano scannati non meno degli Ucraini, gli assassini sono travisati perché si mischiano con il popolo della pace e con le sue bandiere.
Se la guerra, quella che una volta era dichiarata in buona e debita forma, è ordinata all’annientamento del nemico che va “debellato”, allora c’è una guerra che non mira all’annientamento dell’Ucraina ma è stata motivata dalla sua negata neutralità, e c’è una guerra che mira all’annientamento della Russia, a metterla “in condizioni di non poter mai più combattere” e a ridurla “con sanzioni mai viste prima” allo stato di paria.
Se la guerra è essa stessa un crimine, non essere equidistanti significa cercare i criminali di guerra sia ad Est che ad Ovest, compresa la NATO.
Se la difesa dei confini della Patria consiste nello sbarrare porti e coste contro Saraceni che non ci sono e naufraghi senz’armi, questa è una ragione di irreparabile rottura tra un Paese che ieri nella Resistenza ha lottato per un mondo accogliente per tutti e un governo dell’altro ieri che si mette in stato d’assedio sul mare, anche se la sua Presidente non ha simpatia per il regime dei Tribunali speciali per la difesa dello Stato che pregava Dio di “stramaledire gli Inglesi”.
Con i più cordiali saluti,

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Documento. Il mondo cattolico è pronto alla sfida: «Insieme a Francesco, per la pace»

I 54 firmatari sabato 29 ottobre 2022

A pochi giorni dalla grande manifestazione per la pace del 5 novembre a Roma e uniti a Papa Francesco, offriamo questo contributo di riflessione al dibattito e al confronto in corso sul drammatico problema della guerra e sulla necessità di avviare concreti percorsi di pace.

Dal 24 febbraio 2022 la Russia di Putin con l’invasione dell’Ucraina ha portato la guerra nel cuore dell’Europa. Una guerra che comporta in prevalenza vittime civili, tra cui in maggioranza donne, bambini e anziani, a causa di bombardamenti su abitazioni, scuole, ospedali, centri culturali, chiese, convogli umanitari. Questa guerra si pone accanto alle tante altre sparse per il mondo, per lo più guerre dimenticate perché lontane da noi.

Da quando è apparso sulla terra l’uomo ha cominciato a combattere contro i propri simili: Caino ha ucciso Abele. E poi tutta una sequela di guerre: di conquista e di indipendenza, guerre rivoluzionarie e guerre controrivoluzionarie, guerre sante e guerre di religione, guerre difensive e guerre offensive, crociate… fino alle due guerre mondiali. Con la creazione delle Nazioni Unite si pensava che la guerra fosse ormai un’opzione non più prevista, una metodologia barbara, dunque superata, per la soluzione dei conflitti. E invece no. Eccoci ancora con il dramma della guerra vicino a noi.

Don Primo Mazzolari, dopo l’esperienza drammatica di due guerre mondiali, era giunto alla conclusione, in “Tu non uccidere”, che la guerra è sempre un fratricidio, un oltraggio a Dio e all’uomo, e di conseguenza, tutte le guerre, anche quelle rivoluzionarie, difensive ecc., sono da rifiutare senza mezzi termini. È quanto aveva scritto ai governanti dei Paesi belligeranti anche Papa Benedetto XV nel pieno della prima guerra mondiale, indicandola come «una follia, un’inutile strage». E come non ricordare Paolo VI all’Onu nel 1965 con il suo grido rivolto ai potenti del mondo: «Mai più la guerra, mai più la guerra, lasciate cadere le armi dalle vostre mani. Non si può amare con le armi in pugno»?

Un grido, questo, ripetuto da Giovanni Paolo II nel tentativo di scongiurare la guerra in Iraq e l’invasione del Kuwait e da Benedetto XVI ad Assisi accanto ai leader religiosi mondiali.

Ora, di fronte al drammatico conflitto in corso in Ucraina, è papa Francesco a ricordarci costantemente che la guerra è «una follia, un orrore, un sacrilegio, una logica perversa»: «Quanto sangue deve ancora scorrere perché capiamo che la guerra non è mai una soluzione, ma solo distruzione? In nome di Dio e in nome del senso di umanità che alberga in ogni cuore, rinnovo il mio appello affinché si giunga subito al cessate il fuoco. Tacciano le armi e si cerchino le condizioni per avviare negoziati capaci di condurre a soluzioni non imposte con la forza, ma concordate, giuste e stabili. E tali saranno se fondate sul rispetto del sacrosanto valore della vita umana, nonché della sovranità e dell’integrità territoriale di ogni Paese, come pure dei diritti delle minoranze e delle legittime preoccupazioni» (Angelus di domenica 3 ottobre 2022).

Come realtà del mondo cattolico italiano e dei movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale, vogliamo unire la nostra voce a quella di Papa Francesco per chiedere un impegno più determinato nella ricerca della pace.

Affidarsi esclusivamente alla logica delle armi rappresenta il fallimento della politica. Il nostro Paese deve da protagonista far valere le ragioni della pace in sede di Unione Europea, di Nazioni Unite e in sede Nato. Il dialogo, il confronto, la diplomazia sono le strade da percorrere con determinazione.

Servono urgentemente concrete scelte e forti gesti di pace. Di fronte all’evocazione del possibile utilizzo di ordigni atomici, e dunque di fronte al terribile rischio dello scatenarsi di un conflitto mondiale, un gesto dirompente di pace sarebbe certamente la scelta da parte del nostro Paese di ratificare il “Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, armi di distruzione di massa, dunque eticamente inaccettabili. L’abbiamo già chiesto ad alta voce in 44 presidenti nazionali di realtà del mondo cattolico e come movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale, con la sottoscrizione, nella primavera del 2021, del documento “L’Italia ratifichi il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, e poi con un secondo documento del gennaio 2022. L’hanno chiesto centinaia di Sindaci di ogni colore politico. L’hanno chiesto in un loro documento i vescovi italiani. L’hanno chiesto associazioni e movimenti della società civile.

Rinnoviamo ora questa richiesta al nuovo Governo e al nuovo Parlamento affinché pongano urgentemente all’ordine del giorno la ratifica del “Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”, a indicare che il nostro Paese non vuole più armi nucleari sul proprio territorio e che sollecita anche i propri alleati a percorrere questa strada di pace. Purtroppo, anche dopo tante guerre, noi non abbiamo ancora imparato la lezione e continuiamo ogni volta ad armarci, a fare affari con la vendita di armi e a prepararci alla guerra.

Forse sarebbe opportuno con determinazione e coraggio percorrere altre strade. Forse sarebbe opportuno riempire di precise scelte e contenuti quella che Giorgio La Pira chiamava «l’utopia della pace ». Prima che sia troppo tardi.

«La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo e di impostare le relazioni internazionali» (papa Francesco, 24 marzo 2022).

Ecco tutti i firmatari dell’appello
[segue]

I giovani sardi alla riscossa. Se non ora quando?

Si terrà oggi domenica 6 novembre a Sant’Anna (OR), a partire dalle ore 10, presso il Centro polivalente Padre G.Vaira, una grande assemblea politica promossa con un appello firmato da quasi 80 under 40 provenienti da tutta la Sardegna e pubblicato sul sito www.sardegnachiamasardegna.eu. Attese quasi 300 persone, registratesi in soli 10 giorni grazie al passaparola e al tam-tam sui social network. Ottima iniziativa. Seguiamo con attenzione, speranza, ottimismo della volontà!
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12bd1b8e-bbaa-41b3-af68-a660e7b919e9Il 6 novembre iniziamo a cambiare la Sardegna, insieme
6 novembre / Sant’Anna (OR) / ore 10

Centro Polivalente “Padre G. Vaira”

Piazza Verona 2

Siamo sarde e sardi come te, di nascita o per scelta. Siamo giovani sotto i 40 anni, viviamo vite precarie e non ci sentiamo rappresentati dai gruppi politici da troppo tempo al governo della nostra isola. Ereditiamo da loro una Sardegna sempre più impoverita, spopolata e depressa.

Vogliamo costruire un’alternativa a tutto questo insieme a tutti coloro che – indipendentemente da età ed esperienze pregresse – vogliono una Sardegna più giusta, generativa di opportunità, democratizzata e autodeterminata. Per questo ti chiamiamo a un incontro in cui raccontarci la Sardegna che vorresti anche tu. Perché è arrivato il momento di unirci e cambiare tutto.

Il nostro appello
Perché ti chiamiamo

Siamo sardi e sarde come te, di nascita o per scelta: lavoratrici e lavoratori autonomi o dipendenti, in cerca di occupazione, studenti e studentesse.
Siamo giovani sotto i 40 anni, viviamo vite precarie e non ci sentiamo rappresentati dai gruppi politici da troppo tempo al governo della nostra isola. Una classe politica spesso clientelare e piena di arrivisti, che ignora esigenze e aspettative delle persone, che azzera dialogo e coinvolgimento, che sacrifica a interessi lontani le risorse della Sardegna. Una classe politica in larga parte corrotta da interessi opposti a quelli della stragrande maggioranza delle persone che vivono la nostra terra, ossia quelli di multinazionali, grandi aziende predatorie, fondazioni private e massoneria che decidono le sorti della Sardegna senza mai essere stati eletti da nessuno.
La Sardegna che ereditiamo da loro è a pezzi, sempre più spopolata e depressa. Una terra che sembra essere condannata a un presente e a un futuro di lavoro precario e sfruttato, disoccupazione, difficoltà a fare buona impresa, povertà, caro energia, inquinamento, servizi inefficienti e quindi, spesso, emigrazione forzata.
Eppure, nonostante tutto, ci impegniamo tutti i giorni, con passione e competenze, per vivere dignitosamente e rendere la nostra isola un posto migliore. Perché, diversamente da chi la governa, riusciamo a intravvedere le sue immense potenzialità.
C’è chi tra noi dedica quasi tutte le sue energie a studiare, a lavorare con passione o creare nuovo lavoro. C’è chi si impegna nelle amministrazioni locali, nell’associazionismo, nel mondo della cultura e del volontariato. C’è chi invece ha animato e anima i comitati per la difesa della sanità, le lotte per un prezzo giusto del latte, per la difesa dei posti di lavoro e i diritti, le proteste per i tagli dei servizi, le battaglia per scuole e università accessibili… e tante altre lotte giuste e necessarie che riempiono le cronache dei nostri giornali.

Sei con noi?

Allora sarai d’accordo sul fatto che questo impegno non può più bastare.
Non basta più se vogliamo arrestare il collasso della nostra terra sul piano economico, sociale, ambientale e demografico.
Non basta più perché la Sardegna sia finalmente un mosaico di luoghi in cui si possa vivere dignitosamente, dalle città al più piccolo dei paesi.
Non basta più se vogliamo opporre al collasso un’idea di Sardegna che investe nei giovani e nella loro istruzione, in un nuovo modello di sviluppo giusto socialmente ed ecologicamente sostenibile che generi ricchezza per chi vive questa terra, nella valorizzazione delle sue lingue e della sua storia, nel suo protagonismo politico ed economico in ambito euromediterraneo.
Non basta più se vogliamo una Sardegna coinvolta, democratizzata, autodeterminata e generativa di opportunità.
Per provare a realizzarla dobbiamo fare quello che chi governa da troppo tempo non vorrebbe: metterci insieme, facendo rete tra noi, per costruire un grande movimento di cambiamento politico e culturale, verso e oltre le prossime scadenze elettorali regionali e amministrative. Un movimento animato da chi tiene in piedi questa terra per riconquistare la possibilità di decidere su di essa.
Per questo ti chiamiamo a un incontro per raccontarci la Sardegna che vorresti anche tu. Il collasso non è inevitabile e il cambiamento possiamo costruirlo assieme, per il nostro bene e per quello di coloro che abiteranno la Sardegna del futuro.

La Sardegna che ereditiamo
Dai governi italiani, per decenni, abbiamo ricevuto solo le briciole, in termini di strade, trasporti, servizi e – quando ci sono stati – progetti occupazionali inquinanti o insostenibili che continuano a segnare il presente della nostra isola.
Dai palazzi della Regione Sardegna non ci è andata meglio, essendo occupati da troppo tempo da persone arriviste e arroganti, motivate dal solo fine di curare, senza intralci, le loro clientele. Al di fuori di alcune stagioni positive, i governi che si susseguono in via Roma si contraddistinguono per le loro scelte sbagliate, mancate o lontane dagli interessi della maggior parte dei cittadini. Interessi di gruppi di potere che decidono tanto delle sorti della Sardegna senza mai essere stati eletti da nessuno. Un esito scontato, se si coltiva una classe “dirigente” largamente incompetente e vecchia nelle idee, prima che anagraficamente, che non fa altro che alimentare la condizione di sottosviluppo dell’isola, piuttosto che guidare il suo sviluppo sociale ed economico.
Sia chiaro: ci sono tante persone di valore che si impegnano nel quadro politico esistente, ma alla fine chi prende le decisioni importanti sono sempre i soliti noti.
Ad ogni tornata elettorale, compresa quest’ultima, assistiamo a giochi di potere e a tante promesse di progettualità e sviluppo per la nostra isola che vengono puntualmente tradite.
Così, la nostra amata terra, sembra essere condannata a un presente e un futuro di lavoro precario e sfruttamento, disoccupazione, povertà, lavoro sommerso, spopolamento e quindi, spesso, emigrazione forzata. Condannata ad avere un’economia dipendente, poco dinamica e produttiva, segnata da svantaggi infrastrutturali, mancati investimenti in innovazione di processo e prodotto, una struttura produttiva sottodimensionata e frammentata su interi settori.

La Sardegna che vorremmo
Non è più il momento di delegare a chi ci ha portato a questa situazione le sorti della nostra terra. Per questo, vorremmo immaginare insieme a te e a tutte e tutti coloro che che ce l’hanno a cuore, quale Sardegna costruire nei prossimi decenni. Ti proponiamo soltanto una cornice di valori, da arricchire con il tuo contributo, sui quali ti chiamiamo a prendere parola e ad attivarti insieme a noi.
1. Vorremmo una Sardegna capace di combattere le disuguaglianze sociali definendo un nuovo modello di sviluppo più giusto e sostenibile, che parta finalmente dalle nostre peculiarità produttive e culturali da reinventare o innovare, per creare un tessuto economico robusto, diversificato e dinamico, in grado di competere nel mondo grazie alla qualità dei prodotti e dei servizi, alla cooperazione degli attori, agli investimenti in innovazione tecnologica e digitale, al benessere economico e alla formazione delle lavoratrici e dei lavoratori, alle produzioni e ai servizi ecologicamente sostenibili e socialmente impattanti.
2. Vorremmo una Sardegna che investa sui saperi, sul diritto allo studio e sul libero accesso alla cultura lungo tutto l’arco della vita, innalzando vertiginosamente il numero di diplomati e laureati, aumentando le conoscenze e competenze decisive per rinnovare il mondo del lavoro, per costruire una democrazia compiuta e accrescere il benessere sociale.
3. Vorremmo una Sardegna dove essere donne non sia uno svantaggio nel lavoro e nella quotidianità, con politiche sul lavoro innovative, nuovi servizi all’infanzia, alla cura degli anziani e delle persone con disabilità, servizi socio-sanitari territoriali, consultori e centri antiviolenza diffusi, un’educazione alla sessualità e all’affettività nelle scuole per sradicare alla radice la violenza di genere e omolesbotransfobica.
4. Vorremmo una Sardegna plurilingue, che parli orgogliosamente la propria lingua in ogni ambito della sfera pubblica e che conosca la sua storia di popolo, smettendo di percepirsi come periferia, bensì come un centro e parte integrante della storia europea e mediterranea.
5. Vorremmo una Sardegna come un mosaico di luoghi in cui si possa vivere dignitosamente, grazie a un’occupazione di qualità, la garanzia dei servizi e dei diritti sociali e civili, dalle città al più piccolo dei paesi. Perché non esistano più territori di serie A, B e Z.
6. Vorremmo una Sardegna 100% rinnovabile ed energeticamente indipendente, non al servizio di multinazionali del vento e del sole, ma delle comunità e delle imprese dell’isola.
7. Vorremmo una Sardegna che si prenda cura del territorio e che torni a valorizzarlo attraverso l’agricoltura multifunzionale e politiche volte alla chiusura delle filiere, al sostegno alla produzione, a percorsi formativi innovativi per un ricambio generazionale che faccia battere il cuore delle nostre campagne.
8. Vorremmo una Sardegna che permetta di dare risposte ai nuovi bisogni di chi la vive, con nuove infrastrutture e una Pubblica Amministrazione efficiente e trasparente che sostiene attivamente il processo di modernizzazione economica e di rafforzamento del tessuto sociale e culturale.
9. Vorremmo una Sardegna libera da vecchi e nuovi centralismi, che proceda a grandi passi verso la propria autodeterminazione politica e istituzionale in ambito euromediterraneo e che, sin da ora, sfrutti al massimo la sua Autonomia per far valere i propri interessi verso lo Stato e per riequilibrare i poteri a livello regionale a favore degli Enti Locali.

Quale movimento vorremmo
1. Aperto, plurale e inclusivo: capace di costruire legami, diffondere conoscenza, generare fiducia nell’azione collettiva. In una società dove il tempo libero è sempre meno, vogliamo restituire la bellezza della partecipazione politica a tutte e tutti.

2. Partecipato, dinamico e costruttivo: una piattaforma civica, in presenza e online, dove discutere, decidere, mettere in connessione idee, proposte programmatiche, formative e di attività, dando voce al contempo ai tanti che stanno fuori dall’isola ma che vogliono contribuire a cambiarla.

3. Coinvolgente, diffuso e presente nelle città e nei paesi: che risponda ai bisogni reali dei territori, a partire dal protagonismo di chi li vive, con l’aiuto di organizzatori di comunità che attivino processi di consapevolezza e cooperazione per lo sviluppo locale, la rigenerazione sociale, produttiva e culturale.

4. Al servizio dell’isola che già si muove nella giusta direzione, che offre strumenti, servizi e formazione per la promozione di nuove relazioni tra professionisti, progetti mutualistici contro vecchie e nuove povertà, sinergie tra imprese sane e innovative per migliorare e costruire nuove occasioni per i propri prodotti e servizi, momenti di condivisione di saperi e professionalità tra chi è sull’isola e chi sta fuori, la costruzione di momenti di confronto con esperienze di governo innovative in giro per il mondo.

Da dove veniamo
Vogliamo far germogliare una stagione di progetti di cambiamento e impegno civico per spazzare via la rassegnazione, la paura e il risentimento. Non vogliamo testimoniare di averci provato, ma convincere la maggioranza di chi vive questa terra a scegliere di percorrere insieme questo cammino.
C’è chi, spaventato da questa proposta innovatrice, proverà a cucirci addosso etichette vecchie e desuete per depotenziarla. Ma non ci riusciranno, perché a differenza dei colpevoli del collasso economico e sociale della Sardegna, da sempre impegnati nella conservazione dei propri posti e nel servire interessi lontani che hanno storicamente sfruttato persone e risorse, e inquinato e depredato territori, noi non abbiamo interessi da salvaguardare o posizioni di rendita da conservare.
Ci sentiamo figli e figlie della gente che ha tenuto in piedi quest’isola: siamo il ritorno al futuro dell’operosità e perseveranza contadina, del sacrificio di generazioni di pastori, minatori e operai, della versatilità dei nostri artigiani, della bellezza che nasce dalle mani di Costantino Nivola o di Maria Lai, della scommessa imprenditoriale di Francesca Sanna Sulis e di Amsicora Capra, dell’animo resistente alle ingiustizie di Paskedda Zau, dell’educazione sentimentale di Peppino Mereu, Montanaru e Sergio Atzeni, dello studio che emancipa ed esplora la nostra identità di Michelangelo Pira o Nereide Rudas, dell’anelito alla libertà e alla giustizia per la nostra terra di Eleonora d’Arborea e Giovanni Maria Angioy, dell’intelligenza, della volontà e dell’esempio di Antonio Gramsci.
Noi siamo nuove e nuovi, ma siamo quelle e quelli di sempre. Apparteniamo alla storia di un popolo intraprendente, ricco di grandi valori e risorse, da sempre in cammino per la propria dignità. Con nuovi sguardi e nuovi strumenti, vogliamo proseguirlo, aprendo una nuova stagione per la democrazia sarda animata da chi la ama davvero. Una presa di parola plurale e ambiziosa, armonica e potente, come il più bel canto a tenore ancora da immaginare.

Cosa vogliamo fare il 6 novembre
Cosa? Un giorno di discussione in assemblea e in laboratori di idee e progettualità in presenza e online.
Con chi? Con chiunque voglia, indipendentemente dall’età e dalle esperienze pregresse, condividere competenze, idee ed energie per costruire un’alternativa per la Sardegna.
Come? Con tavoli di lavoro che utilizzeranno metodi di discussione e deliberazione ad alta intensità democratica, sperimentando strategie di partecipazione attiva e progettazione partecipata da replicare in tutti i territori della Sardegna, per decidere assieme lungo l’anno che verrà un programma di progetti per cambiare l’isola e, insieme, migliorare le nostre vite.
Il gruppo promotore

Riccardo Angius, 33 anni, Guspini
Massimo Angius, 27 anni, Monserrato
Francesco Ara, 26 anni, Serramanna/Roma
Francesca Atzas, 27 anni, Sedilo
Simone Azzu, 28 anni, Bologna
Valentina Bazzi, 35 anni, Osidda/Gavoi
Cristiana Cacciapaglia, 28 anni, Bosa
Salvatore Cadeddu, 27 anni, Pattada
Riccardo Caoci, 26 anni, Sestu
Mirko Casiddu, 29 anni, Putifigari
Emilia Casula, 36 anni, Cagliari
Luana Cau, 31 anni, Cagliari
Laura Celletti, 33 anni, Cabras
Sofia Cheratzu, 23 anni, Ghilarza/Milano
Paolo Cherchi, 26 anni, Olbia
Pier Michele Chessa, 40 anni, Sassari
Carlo Coni, 34 anni, Laconi
Marco Contu, 28 anni, San Vero Milis
Paolo Costa, 31 anni, Sassari/Cagliari
Ivana Cucca, 33 anni, Dorgali
Agostino D’Antonio, 29 anni, Nuoro Gianfranco Delussu, 34 anni, Gavoi Stefania Dessì, 33 anni, Guspini
Mauro Falchi, 29 anni, Bosa
Ambra Floris, 37 anni, Seneghe
Valeria Floris, 37 anni, Sini/Cagliari
Nicoletta Galisai, 31 anni, Guspini
Riccardo Lai, 27 anni, Gergei
Tommaso Lai, 27 anni, Cagliari
Enrico Lallai, 38 anni, Cagliari
Danilo Lampis, 29 anni, Ortueri
Nicola Leo, 22 anni, Guspini
Claudia Licheri, 29 anni, Abbasanta
Michela Lippi, 23 anni, Cagliari
Alessia Loi, 23 anni, Quartu Sant’Elena
Samuele Loi, 28 anni, Ussassai
Omar Ruggero Manca, 30 anni, Elmas

Marco Meloni, 33 anni, Monserrato/Madrid/Southampton
Antonio Marras, 29 anni, Sorgono
Marco Mele, 31 anni, Atzara
Francesco Mereu, 31 anni, Orgosolo/Milano
Elena Mereu, 29 anni, Dorgali/Nuoro
Silvia Mocci, 33 anni, Gonnosfanadiga Maria Luisa Mura, 28 anni, Sassari
Alessandro Murgia, 28 anni, Cagliari
Roberta Murgia, 30 anni, Seulo
Ester Napolitano, 33 anni, Guspini/Cagliari
Luca Orunesu, 29 anni, Nuoro/Cagliari
Emanuele Perra, 32 anni, Assolo
Davide Piacenza, 26 anni, Sant’Antioco/Cagliari
Josephine Pilia, 33 anni, Monserrato/Villamassargia
Marika Pinna, 26 anni, Gonnostramatza
Eleonora Piras, 32 anni, Ilbono/Olbia
Niccolò Piras, 24 anni, Assago/Cagliari
Nicola Piras, 40 anni, Iglesias
Giorgio Pirina, 33 anni, La Maddalena/Venezia
Alessandra Pisu, 28 anni, Pimentel/Cagliari
Luigi Pisu, 33 anni, Cagliari
Giada Podda, 25 anni, Gonnostramatza
Nicoletta Pucci, 27 anni, Cagliari
Claudia Puligheddu, 32 anni, Cagliari
Andrea Pusceddu, 32 anni, Bruxelles
Andrea Rizzu, 31 anni, Simaxis Stefano Saderi, 35 anni, Ruinas
Caterina Vittoria Roselli, 25 anni, Sassari
Anita Secci, 26 anni, Ruinas
Luca Solinas, 30 anni, Siniscola
Francesco Riccardo Sotgiu, 27 anni, Selargius
Carla Spanu, 28 anni, Sassari
Lorenzo Tecleme, 21 anni, Sassari/Bologna
Sabrina Tomasi, 33 anni, Gonnosfanadiga
Nicola Usai, 33 anni, Cuglieri/Siamaggiore
Martina Vincis, 27 anni, Iglesias/Cagliari
Enrico Zanda, 34 anni, Cagliari
Giuseppe Zingaro, 32 anni, Alghero/Esporlatu
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Pace

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Come e quando la guerra finirà?

Il Presidente ucraino Zelensky ci ha fatto sapere che: “Solo quando la bandiera ucraina sventolerà di nuovo sulla Crimea liberata il mondo potrà sentirsi sicuro e dire che la guerra è finita.”

Domenico Gallo​
su il Fatto Quotidiano 1° novembre 2022

Ormai abbiamo superato gli otto mesi di guerra, senza che vi sia stato un solo giorno di tregua. Se alla controffensiva ucraina la Russia ha risposto mobilitando da trecentomila a un milione di coscritti e riprendendo bombardamenti in larga scala su Kiev ed altre città, diretti soprattutto contro le infrastrutture elettriche, l’Ucraina, dopo il ponte di Kerch, il 29 ottobre ha colpito un’altra volta in Crimea, con l’attacco alla base della flotta russa a Sebastopoli. Si è trattato dell’attacco più massiccio dall’inizio del conflitto, portato con armi particolarmente sofisticate, come i droni subacquei (forniti dalla Royal Navy), che ha provocato danni a quattro unità, compresa la nave ammiraglia. I russi hanno reagito sospendendo l’unico accordo negoziato con Kiev durante il conflitto, quello relativo alla creazione di un canale sicuro per l’esportazione del grano via mare. E’ evidente pertanto che il conflitto sta virando verso un’escalation incontrollabile, capace di provocare sofferenze inaudite alle popolazioni coinvolte e di avvicinare lo scontro diretto fra la NATO e la Federazione russa. In questi giorni, grazie alla crescente insofferenza dell’opinione pubblica europea ed italiana e ai ripetuti appelli del Papa, tutti invocano – a parole – la pace ma nessuno ci lascia intravedere come e quando questa guerra finirà. Intervenendo alle assise “il grido della pace” convocate dalla Comunità di Sant’Egidio, il Presidente francese, Emanuel Macron ha dichiarato che “la pace è possibile” ma sarà “quando e quella che loro decideranno (riferendosi agli ucraini) e che rispetterà i diritti del popolo sovrano (..) Non lasciamo che la pace oggi sia catturata dal potere russo. Oggi la pace non può essere la consacrazione della legge del più forte, né il cessate il fuoco che definirebbe uno stato di fatto”. Dal momento che -secondo la dottrina NATO-UE – dovranno essere gli ucraini a decidere quando e quale pace sarà possibile, è al Presidente Zelensky che dobbiamo guardare per capire quale sia la sua disponibilità a porre termine al conflitto. Ebbene Zelensky ce lo ha fatto sapere il 25 ottobre rivolgendosi ai partecipanti al vertice interparlamentare della “piattaforma di Crimea” svoltosi a Zagabria con la partecipazione di una quarantina di delegazioni, inclusa la speaker della Camera dei Rappresentanti del Congresso americano, Nancy Pelosi. Il Presidente dell’Ucraina si è espresso così: “Solo quando la bandiera ucraina sventolerà di nuovo sulla Crimea liberata il mondo potrà sentirsi sicuro e dire che la guerra è finita.” Orbene è fin troppo chiaro che per il Governo ucraino la guerra non deve limitarsi alla difesa, vale a dire a respingere le truppe d’invasione della Federazione russa ma deve spingersi oltre e ribaltare uno status quo consolidato dal 2014, consentendo alle forze armate ucraine di prendere possesso di un territorio che costituisce una Repubblica autonoma inserita nella Federazione russa. La penisola di Crimea fa parte della Russia da oltre 200 anni, nel 1954 Kruscev la “donò” all’Ucraina, ma si trattava di una mera unificazione amministrativa poiché l’Ucraina continuava a far parte dell’URSS. Nel 2014, dopo il traumatico cambio del regime politico a Kiev, il Consiglio Supremo della Repubblica di Crimea votò all’unanimità la dichiarazione d’indipendenza dall’Ucraina e chiese l’annessione alla Russia. Il 16 marzo del 2014 un referendum popolare approvò l’annessione alla Russia con il 96,77% di voti favorevoli, con la partecipazione dell’83,1% degli aventi diritto al voto. L’Ucraina non accettò l’annessione della Repubblica di Crimea alla Federazione russa. Anche l’Unione Europea rifiutò di riconoscere l’annessione ed applicò delle sanzioni commerciali alla Russia. Per la Crimea si verificò, a parti invertite, lo stesso processo che aveva portato all’indipendenza del Kossovo, che la NATO distaccò dalla Jugoslavia a seguito di un’azione di bombardamento durata 78 giorni. Quando il Kosovo, ormai separato di fatto, votò la propria indipendenza dalla Serbia il 17 febbraio 2008, quest’ultima dichiarò immediatamente di non riconoscerla. L’indipendenza del Kosovo è stata riconosciuta soltanto da una metà degli Stati membri dell’ONU, mentre l’altra metà non l’ha riconosciuta. Attualmente esiste una controversia internazionale sullo status del Kosovo, così come esiste una controversia internazionale sullo status della Repubblica di Crimea. La Costituzione italiana “ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Non v’è dubbio che se la Serbia decidesse di invadere il Kosovo per annullarne l’indipendenza, l’Italia dovrebbe “ripudiare” quest’azione perché non si possono risolvere le controversie internazionali con l’uso della forza. Lo stesso discorso vale per l’Ucraina, se volesse – come lascia intendere il suo governo – riprendere manu militari il controllo del territorio della Repubblica di Crimea per staccarla dalla Federazione russa, si tratterebbe di un’aggressione pura e semplice. Il fatto che gli ucraini siano stati aggrediti dalla Russia, che ha invaso una parte del loro territorio, giustifica la resistenza all’azione in corso, ma non può essere un valido pretesto per legittimare un’altra aggressione. Un’azione di forza per staccare la Crimea dalla Federazione russa, oltre ad essere inammissibile sul piano del diritto internazionale e ripudiabile, dal punto di vista della Costituzione italiana, rappresenta una provocazione che renderebbe la pace impossibile perchè la Russia, se non altro per ragioni strategiche, mai potrebbe rinunciare alla Crimea, se non a prezzo di una completa disfatta sul piano militare. Quanto sangue si deve ancora versare per consentire all’Ucraina di “vincere” la guerra con la Russia e risolvere tutte le controversie in corso? Quanti nuovi cimiteri si devono costruire? Siamo proprio sicuri che devono essere gli ucraini a decidere come e quando porre fine alla guerra?

(questo articolo è stato pubblicato in versione più breve su il Fatto Quotidiano del 1 novembre 2022 con il titolo: Un timido grido di pace nel deserto di guerra)
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COMITATO “NO ARMI -TRATTATIVA SUBITO”

Se amate la pace e siete per il cessate il fuoco subito e l’avvio immediato delle trattative tra l’Ucraina e la Russia sotto l’egida dell’ONU,
vi aspettiamo al SIT-IN,
promosso dal Coordinamento Prov.le “Prepariamo la Pace”
Sabato 5 novembre 2022 con inizio alle ore 17 in Piazza Garibaldi a Cagliari.
Partecipiamo numerosi. Fermiamo le armi!
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Lettera a chi manifesta per la pace

Di seguito il testo della lettera a chi manifesta per la pace firmata dal Card. Matteo Zuppi, Arcivescovo di Bologna e Presidente della CEI, e pubblicata il 3 novembre da Avvenire.

Cara amica e caro amico,
sono contento che ti metti in marcia per la pace. Qualunque sia la tua età e condizione, permettimi di darti del “tu”. Le guerre iniziano sempre perché non si riesce più a parlarsi in modo amichevole tra le persone, come accadde ai fratelli di Giuseppe che provavano invidia verso uno di loro, Giuseppe, invece di gustare la gioia di averlo come fratello. Così Caino vide nel fratello Abele solo un nemico.
Ti do del “tu” perché da fratelli siamo spaventati da un mondo sempre più violento e guerriero. Per questo non possiamo rimanere fermi. Alcuni diranno che manifestare è inutile, che ci sono problemi più grandi e spiegheranno che c’è sempre qualcosa di più decisivo da fare. Desidero dirti, chiunque tu sia – perché la pace è di tutti e ha bisogno di tutti – che invece è importante che tutti vedano quanto è grande la nostra voglia di pace. Poi ognuno farà i conti con se stesso. Noi non vogliamo la violenza e la guerra. E ricorda che manifesti anche per i tanti che non possono farlo. Pensa: ancora nel mondo ci sono posti in cui parlare di pace è reato e se si manifesta si viene arrestati! Grida la pace anche per loro!
Quanti muoiono drammaticamente a causa della guerra. I morti non sono statistiche, ma persone. Non vogliamo abituarci alla guerra e a vedere immagini strazianti. E poi quanta violenza resta invisibile nelle tante guerre davvero dimenticate. Ecco, per questo chiediamo con tutta la forza di cui siamo capaci: “Aiuto! Stanno male! Stanno morendo! Facciamo qualcosa! Non c’è tempo da perdere perché il tempo significa altre morti!”. Il dolore diventa un grido di pace.
La pace mette in movimento. È un cammino. “E, per giunta, cammino in salita”, sottolineava don Tonino Bello, che aggiungeva: “Occorre una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non è un dato, ma una conquista. Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo”. Le strade della pace esistono davvero, perché il mondo non può vivere senza pace. Adesso sono nascoste, ma ci sono. Non aspettiamo una tragedia peggiore. Cerchiamo di percorrerle noi per primi, perché altri abbiamo il coraggio di farlo. Facciamo capire da che parte vogliamo stare e dove bisogna andare. E questo è importante perché nessuno dica che lo sapevamo, ma non abbiamo detto o fatto niente. Non sei un ingenuo. Non è realista chi scrolla le spalle e dice che tanto è tutto inutile. Noi vogliamo dire che la pace è possibile, indispensabile, perché è come l’aria per respirare. E in questi mesi ne manca tanta.
È proprio vero che uccidere un uomo significa uccidere un mondo intero. E allora quanti mondi dobbiamo vedere uccisi per fermarci? “Quante volte devono volare le palle di cannone prima che siano bandite per sempre?”. “Quante orecchie deve avere un uomo prima che possa sentire la gente piangere?”. “Quante morti ci vorranno finché non lo saprà che troppe persone sono morte?”. “Quando sarà che l’uomo potrà imparare a vivere senza ammazzare?”. Io, te e tanti non vogliamo lutti peggiori, forse definitivi per il mondo, prima di fermare queste guerre, quella dell’Ucraina e tutti gli altri pezzi dell’unica guerra mondiale. Le morti sono già troppe per non capire! E se continua, non sarà sempre peggio?
Chi lotta per la pace è realista, anzi è il vero realista perché sa che non c’è futuro se non insieme. È la lezione che abbiamo imparato dalla pandemia. Non vogliamo dimenticarla. L’unica strada è quella di riscoprirci “Fratelli tutti”. Fai bene a non portare nessuna bandiera, solo te stesso: la pace raccoglie e accende tutti i colori.
Chiedere pace non significa dimenticare che c’è un aggressore e un aggredito e quindi riconoscere una responsabilità precisa. Papa Francesco con tanta insistenza ha chiesto di fermare la guerra. Poco tempo fa ha detto: “Chiediamo al Presidente della Federazione Russa, di fermare, anche per amore del suo popolo, questa spirale di violenza e di morte e chiediamo al Presidente dell’Ucraina perché sia aperto a serie proposte di pace”. Chiedi quindi la pace e con essa la giustizia.
L’umanità ed il pianeta devono liberarsi dalla guerra. Chiediamo al Segretario Generale delle Nazioni Unite di convocare urgentemente una Conferenza Internazionale per la pace, per ristabilire il rispetto del diritto internazionale, per garantire la sicurezza reciproca e impegnare tutti gli Stati ad eliminare le armi nucleari, ridurre la spesa militare in favore di investimenti che combattano le povertà. E chiediamo all’Italia di ratificare il Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari non solo per impedire la logica del riarmo, ma perché siamo consapevoli che l’umanità può essere distrutta.
Dio, il cui nome è sempre quello di pace, liberi i cuori dall’odio e ispiri scelte di pace, soprattutto in chi ha la responsabilità di quello che sta accadendo. Nulla è perduto con la pace. L’uomo di pace è sempre benedetto e diventa una benedizione per gli altri.
Ti abbraccio fraternamente.

Card. Matteo Zuppi

03 Novembre 2022
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Dal sito web della CEI