Editoriali

La guerra vicina, che già ci coinvolge

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Pagliarulo ANPI: “Siamo vicini a scenari catastrofici, dovremo essere in tanti alle nostre manifestazioni con Europe for Peace del 24/26 febbraio”
4 Febbraio 2023

Lettera del Presidente nazionale ANPI agli iscritti all’Associazione: “La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani”

Care amiche e cari amici iscritti all’ANPI, care compagne e cari compagni,

vi invio questo messaggio che, mi rendo conto, è piuttosto inusuale, perché vorrei farvi partecipi di una preoccupazione, meglio, di un vero allarme per quello che sta succedendo e che può succedere in un prossimo futuro nel nostro Paese, in Europa, nel mondo.

Come avevamo previsto nel nostro Congresso nazionale nel marzo dell’anno scorso, stiamo assistendo all’impazzimento della guerra avviata dalla irresponsabile invasione russa dell’Ucraina. Da quel momento abbiamo assistito a una continua escalation con una tragica espansione di vittime e di distruzioni.

Ma ciò che sta avvenendo da qualche settimana avvicina ancora di più la possibilità di scenari catastrofici. Da un lato la Federazione russa aumenta costantemente il numero di militari e di armamenti in Ucraina intensificando gli attacchi e i bombardamenti; dall’altro crescono i rifornimenti militari occidentali al governo ucraino con armamenti sempre più offensivi. Dall’Europa e dall’America arriveranno vari tipi di carri armati; Zelensky chiede i cacciabombardieri F16 e i sommergibili; si riparla sempre più in modo irresponsabile dell’uso di armi nucleari “tattiche”. In questa situazione il ministro della Difesa Crosetto si è spinto a dire che se i russi arrivano a Kiev scoppia la terza guerra mondiale.

Dall’Iran ad Israele ai territori palestinesi alla Siria vengono notizie di un incendio che dilaga.

Le spese di riarmo crescono in modo osceno ovunque, come avvenne prima delle due guerre mondiali, mentre i governi europei – compreso il nostro – diventano sempre più autoritari verso chiunque si permetta di criticare questa mostruosa deriva bellicista, nonostante i sondaggi dicano che la maggioranza degli italiani (e anche degli europei) è contraria all’invio di armi e all’intervento della NATO. Nelle carceri russe sono reclusi centinaia e centinaia di dissidenti ed una durissima repressione è in corso in Russia ormai da molto tempo.

Intanto a causa del gioco fra sanzioni e controsanzioni è aumentata l’inflazione a livelli sconosciuti nel nuovo secolo, il costo dell’energia ha generato difficoltà enormi ad imprese e famiglie ed in generale sono peggiorate le condizioni di vita e di lavoro dei cittadini europei e italiani.

Non basta: il presidente degli Stati Uniti e il segretario generale della NATO indicano nella Cina il prossimo e più potente nemico da affrontare, se necessario, anche sul piano militare.

Anche di questo discuteremo nell’assemblea nazionale dell’ANPI che svolgeremo fra pochi giorni a Cervia; ma ci tenevo ad anticiparvi un quadro drammatico a cui non si può rispondere né con la rassegnazione né col fatalismo. Occorre razionalmente prendere atto di questa realtà e di impegnarsi in ogni modo per contrastarla, per far andare indietro le lancette dell’ora X della guerra nucleare, che nei giorni scorsi gli scienziati del mondo hanno immaginato alla metaforica e ravvicinatissima distanza di 9 minuti.

C’è bisogno dell’impegno consapevole, piccolo o grande che sia, da parte di tutte e di tutti, per fermare il treno della follia e della morte che sta correndo a tutta velocità verso l’autodistruzione.

Per questo mi permetto di invitarvi a partecipare ad ogni iniziativa che abbia come obiettivo finale il ristabilimento della pace. L’impegno più immediato è per il 24 febbraio, primo anniversario dell’invasione russa, e per i due giorni successivi. Si svolgeranno manifestazioni in tante capitali europee. In queste tre giornate l’ANPI darà vita assieme a Europe for Peace a una rete di iniziative locali in tutta Italia. Ma non ci fermeremo qui. Cercheremo sempre la più larga unità con tutti coloro che, pur con opinioni diverse sulle responsabilità di questa guerra, sull’invio o meno di armi, sull’erogazione o meno di sanzioni, condividano il nostro allarme attuale: fermiamo la guerra.

L’ONU deve essere la sede istituzionale necessaria, il suo Consiglio di Sicurezza è lo spazio per tracciare la strada verso un trattato internazionale che ponga fine alla guerra e ristabilisca un pacifico ordine mondiale.

L’ANPI propone che il governo italiano e l’Unione Europea avanzino finalmente una seria proposta di avvio di negoziati, cosa mai avvenuta fino ad oggi, per trovare un realistico punto di incontro fra le parti e comunque per frenare la frenetica escalation in corso; propone una Conferenza internazionale per concordare la sicurezza di tutti i Paesi coinvolti; propone che si avvii la smilitarizzazione dei confini fra la Russia e gli altri Paesi europei con l’obiettivo di una progressiva diminuzione di tutti gli armamenti nucleari; propone, in sostanza, di ricostruire un clima di coesistenza pacifica e di collaborazione fra gli Stati e i popoli in Europa e nel mondo.

La pace, garantita in Europa per più di 70 anni, è stata il risultato di un lungo percorso politico, istituzionale e giuridico seguito alla devastazione di due guerre mondiali. Abbiamo bisogno di riprendere immediatamente quella visione e quel progetto, frutto della Resistenza al nazifascismo, e lascito dei nostri resistenti e dei nostri partigiani.

Lo ha detto Papa Francesco: “Questa guerra è una follia”. Aiutiamoci tutti, l’uno con l’altro, a fermarla. Ne va del futuro dell’umanità.

Un abbraccio,

Il Presidente nazionale dell’ANPI
Gianfranco Pagliarulo

1 febbraio 2023

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Non sono solo canzonette
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna

Da tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.

Proprio per questa sua funzione mediatico-popolare, ci inquieta profondamente apprendere che, in una delle serate clou dell’evento, presumibilmente sabato 11 febbraio, interverrà Volodymyr Zelenskij, capo di Stato di uno dei due paesi che oggi si affrontano in una guerra sanguinosa e atroce. Da Zelensky, impegnato in una guerra senza quartiere contro la Russia per conto della NATO e degli USA, possiamo attenderci solo parole di esaltazione della guerra e di odio mortale contro il nemico. Un odio così profondo da fargli rifiutare ogni negoziato e accettare qualunque sacrificio della sua gente per prolungare la guerra, inseguendo il sogno di una vittoria impossibile contro una potenza nucleare. In questo modo in una manifestazione di cultura popolare verrebbe innestata una assurda apologia della guerra. Durante il fascismo si educavano le giovani generazioni con lo slogan “libro e moschetto”, adesso rischiamo di orientare la cultura popolare verso l’esaltazione della guerra. Dal 24 febbraio dell’anno scorso i principali mass media hanno indossato l’elmetto e ogni giorno hanno cercato di anestetizzare nella coscienza collettiva l’orrore dei massacri, riabilitando la guerra come cosa buona e giusta, con una campagna martellante per arruolare l’opinione pubblica nel conflitto attraverso l’identificazione manichea amico/nemico. Questa propaganda di guerra a reti unificate non ha avuto un effetto travolgente se il popolo italiano, a differenza di altri popoli europei, resta in maggioranza contrario all’invio di armi e all’incremento delle spese militari. Sanremo, evidentemente, è un’occasione ghiotta per accrescere l’influenza del pensiero unico sulla guerra nella coscienza popolare.

Da più parti si sono levate voci contrarie alla partecipazione di Zelensky a Sanremo, anche da parte di esponenti del partito della guerra. La motivazione prevalente è che non è accettabile mischiare la guerra con i cugini di campagna, che non si può accostare il sacro (l’orrore della guerra) con il profano (le canzonette). Ebbene, non è questo il problema. Sanremo e gli altri eventi musicali non sono solo canzonette. Da sempre attraverso la musica (e le parole) vengono trasmessi sentimenti profondi che albergano nell’animo umano, non solo l’amore in senso erotico, ma anche l’amore per l’umanità, la compassione per le sofferenze causate dalle guerre, la speranza collettiva per una società liberata dagli oltraggi della violenza e del potere, l’aspirazione profonda alla pace che unisce gli umani al di là delle bandiere. Possiamo forse dimenticare che la lotta dei giovani americani contro la guerra nel Vietnam è stata scandita sulle note di Where have all the flowers gone, cantata da Joan Baez e di Blowing in the wind, cantata da Bob Dylan? Temi e sentimenti ripresi anche da interpreti italiani, come Gianni Morandi, con C’era un ragazzo, che ha portato il ripudio della guerra anche nel mondo delle canzonette. Possiamo dimenticare l’insegnamento poetico di Fabrizio De André con motivi intramontabili come La guerra di Piero o Se verrà la guerra? (Girotondo)
Gli stessi sentimenti sono stati interpretati e resi popolari dal poeta e cantautore Vladimir Semënovič Vysockij, con la sua canzone Dal fronte non è più tornato, mirabilmente interpretata in italiano da Eugenio Finardi, che esprime lo sgomento per la vita dei giovani sacrificati in guerra. Infine l’aspirazione dell’umanità alla pace e il sogno di un mondo libero da ogni oppressione non poteva essere meglio espressa che da Imagine di John Lennon, un vero inno internazionale alla pace.

In questi tempi oscuri in cui si costruiscono nuovi cimiteri a ritmo forsennato e due popoli fratelli sono precipitati in un vortice di distruzione e morte, da un evento musicale importante come Sanremo ci saremmo aspettati non messaggi preregistrati di propaganda bellica, ma parole di speranza, come quelle di Fabrizio De André: «Lungo le sponde del mio torrente / voglio che scendano i lucci argentati / non più i cadaveri dei soldati / portati in braccio dalla corrente».

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CHE FARE?
Il tempo delle rivolte

23-01-2023 – di: Marco Sansoè su Volerelaluna.

Anche qui come altrove nel mondo occidentale la democrazia sembra assumere le forme di un sistema ambiguo e vuoto di prospettive. Pare che la società contemporanea non abbia più bisogno delle garanzie della democrazia, anzi una democrazia autoritaria e armata pare lo strumento più efficace per dare forza all’accumulazione capitalista. La precarizzazione del lavoro, la frammentazione della società, le piazze digitali dei social media, le piazze fittizie dei centri commerciali, la gentrificazione delle città, i sistemi di videosorveglianza, tracciamenti telematici e Big Data, il daspo e i divieti preventivi alle manifestazioni politiche sembrano le normali pratiche di gestione della vita quotidiana dei cittadini: strumenti per il controllo personale, politico e sociale. La politica appare lo strumento di gestione di piani economici globali internazionali oppure l’operatrice del controllo sociale ravvicinato. Esibizione autoreferenziale di un potere che risponde a interessi economici diversi e si riproduce attraverso un consenso elettorale sempre più ristretto ma garantito dalle alchimie istituzionali dei premi di maggioranza.

Da qualche tempo partecipa alle elezioni poco più della metà degli aventi diritto; governano coalizioni che non rappresentano la metà +1 degli elettori, perché le leggi elettorali attribuiscono ai vincitori più peso parlamentare di quello che gli è stato dato dai cittadini. La coalizione che governa oggi in Italia non ha ottenuto il 50%+1 dei consensi ma occupa 2/3 del Parlamento; il partito di maggioranza relativa ha ottenuto più o meno il 16% dei consensi degli aventi diritto al voto, ma occupa un terzo circa dei seggi parlamentari. Se questi sono “i trucchi” per tenere in vita la democrazia rappresentativa è evidente che c’è qualcosa che non va. Se poi al Parlamento vengono sistematicamente sottratte le proprie funzioni, impedendo che sia il luogo della discussione e del confronto sulle leggi, relegando la discussione alle Commissioni parlamentari e ricorrendo poi al voto di fiducia (come sta avvenendo da molto tempo), di quale democrazia rappresentativa stiamo parlando?

La politica si avvita su se stessa, si associa, si separa, si mescola, si traveste con il solo obbiettivo della governabilità. Ha perso l’orizzonte del progetto di trasformazione o anche solo di riforma, si addestra esclusivamente alla gestione del compito prestabilito, che passa uguale di governo in governo, dando vita a un’oligarchia, solo in superficie multiforme, presente a vari livelli nelle istituzioni politiche, economiche e giudiziarie. Così la tecnica sostituisce la politica perché il suo compito è solo quello di soddisfare le compatibilità del sistema: la libertà del mercato, la competizione, la meritocrazia, l’identità nazionale, la fedeltà atlantica; e di far rientrare nei ranghi ciò e chi sta fuori, per mantenere intatto il quadro generale. Non serve nemmeno più lo sforzo di produrre una ideologia che giustifichi tutto questo, ci pensa il mercato con la sua forza di persuasione e il potere pervasivo dei media digitali. La politica è morta, sostituita da un meccanismo di comando che discende direttamente da quelli che vengono considerati gli interessi del sistema. Il popolo non è più il fondamento della democrazia, è una variabile dipendente dalle scelte dominanti, espresse da una vasta oligarchia senza cultura, omologata e modulare.

La crisi dei partiti ha aperto la crisi della democrazia rappresentativa: un processo irreversibile che ha bisogno di risposte coraggiose. Ormai sono molti quelli che pensano che l’unico “voto utile” sia quello di non andare a votare. Una decisione sofferta, soprattutto per chi crede nella forza culturale e politica della nostra Carta costituzionale, ma necessaria. Un ultimo grido di dolore e di rivolta nei confronti della politica così come si manifesta nei palazzi diffusi nel paese, nei quali si esercita in vario modo il potere.

Si deve avere il coraggio di dichiarare che si è chiuso un ciclo storico, quello nato dalla Rivoluzione francese, che ha dato vita ai partiti, alle istituzioni democratiche, alla democrazia rappresentativa. La politica deve essere riscritta, non può più essere intesa come uno strumento o una pratica di gestione del potere. Bisogna ricercare, con rigore e fantasia nuove forme di democrazia e percorrere strade, anche inesplorate, che possano garantire la democrazia attraverso la partecipazione dei cittadini alla vita politica. Ma non ci sono tavoli intorno ai quali si possa ricomporre un nuovo disegno democratico o ricostruire coalizioni politiche. Solo la pratica dei conflitti, capace di tenere insieme persone, bisogni e territori, può aprire spazi alla costruzione di nuove pratiche democratiche partecipate e disarmate. Solo le rivolte possono mettere fine al declino della democrazia e dare spazio ad esperienze capaci di riscrivere i contorni della politica. Ma le rivolte non si programmano, non hanno luoghi in cui si decidono, non hanno “gruppi dirigenti” né “avanguardie” che le guidino. Le rivolte stanno dentro le classi, dentro i gruppi sociali che vivono una comune condizione, che hanno un desiderio e/o uno scopo. Si possono mettere insieme le persone, averne cura, comprendere le condizioni comuni, far crescere i desideri, condividere le esperienze, praticare la critica della società contemporanea, dare vita ai conflitti, aprire vertenze, lottare, dare corpo alle rivolte. Questo si può fare. I tempi della politica che cambia sono lunghi, non hanno scorciatoie, sono da inventare, saranno difficili.

In testa, proposto da Volerelaluna: Honoré Daumier, La rivolta, 1860, olio su tela, Phillips Collection, Washington

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A 4 anni dal Documento di Abu Dhabi.

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di Brunetto Salvarani 
Quattro anni fa, il 4 febbraio 2019, la firma del documento sulla Fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune, oggi più noto semplicemente come Documento di Abu Dhabi. Protagonisti: papa Francesco, autodefinitosi nell’occasione «un credente assetato di pace», che giocava, in gergo sportivo, fuori casa, e il grande imam di al-Azhar, lo sheikh Ahmad Al-Tayyeb, filosofo e teologo, formatosi alla Sorbona e all’università di Friburgo, in Svizzera. Un evento, non c’è dubbio. Infatti, se documenti analoghi erano stati firmati in passato da leader cattolici e islamici, stavolta a sottoscrivere la comune dichiarazione erano delle delegazioni, sia pure di alto livello, ma il papa stesso e un esponente di punta islamico, che detiene un ruolo chiave unanimemente riconosciuto, nel quadro dell’islam sunnita. 

il disegno creatore di Dio  
Che significato ha quel documento? Ha ragione Francesco, quando, durante il viaggio di ritorno, in risposta alle domande dei giornalisti, ne aveva rivelato l’ermeneutica profonda: l’incontro, storico, si è posto sull’onda lunga del concilio, a oltre mezzo secolo dalla sua celebrazione. Ed è per questo che, comprensibilmente, quanti si pongono, nella chiesa cattolica, più o meno dichiaratamente all’opposizione del Vaticano II, hanno gridato e gridano allo scandalo e al tradimento. Chi ha introiettato, almeno a partire dall’11 settembre 2001, lo schema mentale dello scontro di civiltà, non può che trovarsi spiazzato, a fronte delle immagini, degli abbracci e delle parole di Abu Dhabi, che quello schema hanno definitivamente reso obsoleto. Fino a superare persino la stessa metodologia del dialogo, per adottare quella, ben più impegnativa, della fraternità, termine strategico nell’esperienza dello stesso Francesco d’Assisi che per primo decise di appellare i compagni fratres («Il punto di partenza – ha detto il papa al Founder’s Memorial – è riconoscere che Dio è all’origine dell’unica famiglia umana. Egli, che è il Creatore di tutto e di tutti, vuole che viviamo da fratelli e sorelle, abitando la casa comune del creato che Egli ci ha donato. Si fonda qui, alle radici della nostra comune umanità, la fratellanza, quale vocazione contenuta nel disegno creatore di Dio»). Poi, la condanna ferma e ripetuta del fondamentalismo e del terrorismo, oltre che di ogni violenza e persecuzione provocate dalla strumentalizzazione delle religioni, è letta qui non solo come una risposta all’emergenza odierna, ma come la tessera decisiva di un mosaico in cui viene sottolineata la funzione positiva e propositiva delle religioni stesse nell’attuale stagione storica. In effetti, il cuore del testo non è la questione astratta del rapporto tra fede e ragione, ma la concreta vocazione alla pace delle diverse religioni. 

riferimenti biblici e concetti politici 
Le gravi tensioni internazionali e i conflitti regionali in cui l’elemento etnico-religioso sembra tornare prepotentemente alla ribalta quale fattore di scontro forniscono alle espressioni del documento di Abu Dhabi una dimensione di sano realismo: più che sistemi e ordinamenti da conservare ci troviamo oggi di fronte alla tremenda responsabilità di preservare vite innocenti in un clima di convivenza e di collaborazione che, tra l’altro, è l’unica prospettiva in grado di frenare l’ondata di disperati che fuggono dalle loro terre e cercano di trovare asilo proprio in un’Europa che sta invecchiando (in fretta e male), tormentata da antiche paure che si ripresentano sotto forma di sovranismo e populismo: facili slogan grazie ai quali raccogliere consensi dal sapore populistico, ma ricette ben poco efficaci per la reale soluzione di qualsiasi problema sul medio e lungo periodo. Significativo, allora, è il fatto che – se la prefazione del testo richiama chiaramente l’incipit della dichiarazione conciliare Nostra aetate, dedicata ai rapporti fra la Chiesa e le religioni mondiali – all’inizio del testo l’espressione «in nome di» venga utilizzata ben undici volte: con i firmatari che intendono parlare in nome dei poveri, in nome degli innocenti, in nome degli orfani, in nome dei popoli, e così via. È un’assunzione del carico che portano i più piccoli e più diseredati, ma anche della speranza profonda di tutta l’umanità. Tale formula – in nome di – si ritrova sin dall’avvio. E se in arabo, avvertono gli specialisti, si tratta di un’espressione forte e peculiare (basmala), pure dal punto di vista cristiano, ovviamente, parlare in nome di Dio è quanto mai impegnativo. Ecco che, anche per reagire all’odierna situazione, il testo presenta alcune parole d’ordine, le principali delle quali sono cultura del dialogo, collaborazione, conoscenza reciproca, diritti, cittadinanza. La scelta del dialogo viene operata, in primo luogo, per superare l’odierno stato di conflitto permanente: essa, infatti, ci consente di progredire nella conoscenza reciproca per vincere le incomprensioni e la sottile svalutazione dell’altro che tende a ritrarlo negativamente, per rifiutarlo e trattarlo in modo ostile. È un fatto: solo conoscendosi meglio sarà possibile apprezzare i valori presenti nell’altro, individuando punti di convergenza e operando fruttuosi scambi culturali reciproci; e gli elementi comuni possono sempre aprire spazi di collaborazione, in vista del bene dei diversi popoli. Il centro del discorso, in effetti, non è una trattazione astratta del rapporto tra fede e ragione, bensì l’affermazione della concreta vocazione alla pace delle diverse religioni. Ecco perché il documento, da una parte, ricorre a riferimenti biblici come sfondo integratore (fratellanza, giustizia, misericordia…) e dall’altra lavora con concetti politici che trovano nelle diverse tradizioni religiose il loro contesto di giustificazione e di promozione (convivenza, cittadinanza, libertà, tutela dei diritti…). Mentre una sottolineatura specifica la merita il riferimento perentorio all’indispensabile necessità del riconoscimento del diritto della donna all’istruzione, al lavoro, all’esercizio dei propri diritti politici (si pensi all’effetto che può avere un passaggio del genere in buona parte della umma islamica, tanto più che il paragrafo prosegue con l’auspicio che si lavori per liberare la donna stessa dalle pressioni storiche e sociali contrarie ai principi della propria fede e della propria dignità). Assumere le categorie della politica moderna (non di rado avversate dalla chiesa cattolica e da altre chiese) come luoghi di evidenza fra tradizioni depositarie addirittura dell’autorità di Dio rappresenta una novità di notevole significato di Abu Dhabi. In un certo senso, la grande svolta che il Vaticano II ha elaborato con la costituzione Gaudium et spes e con la dichiarazione Dignitatis humanae diventa qui centrale in un rinnovato rapporto di alleanza e collaborazione tra la fede cristiana e quella musulmana. L’autorità di Dio si rivela nella dignità di ogni uomo e la libertà dell’uomo, in comunione con il prossimo e con Dio, diviene la via maestra con cui si manifesta la grazia di Dio e il dono della pace. 

da Francesco a Francesco 
Il discorso si illumina ulteriormente se posto nel contesto dell’intera azione riformatrice di papa Bergoglio (comunque si valuti la sua riuscita). Il documento di Abu Dhabi, come detto, rappresenta il punto di arrivo di un percorso lungo che ha le proprie origini nel Vaticano II. Ma c’è di più. Esso, infatti, può esser letto anche, e soprattutto, come un punto di partenza che inaugura un processo, come frequentemente ama dire lo stesso Francesco (Evangelii gaudium n. 223). Fra le tante interpretazioni che sono state date e che si sarebbero potute dare dell’evento di Abu Dhabi, ne scelgo un paio. Il viaggio papale negli Emirati, breve quanto intenso, si è svolto, per esplicito richiamo da parte del suo protagonista, sullo sfondo integratore del filo di una memoria ottocentenaria, non di rado evocata soprattutto negli ultimi anni, quale cifra di un incontro possibile fra cristiani e musulmani in dar al Islam. Otto secoli fa, infatti, nel 1219, dopo un capitolo della sua fraternità focalizzato sulla missione in Europa e agli infedeli, Francesco d’Assisi ebbe buon gioco nel riprendere in esame il suo vecchio sogno missionario sino ad allora abortito, imbarcandosi finalmente da Ancona il 24 giugno e raggiungendo, dopo qualche mese, la terra d’Egitto. Giunto a Damietta nel campo crociato che assediava la città di cui assisterà alla presa, egli tentò innanzitutto di far cessare i combattimenti: «di fronte alla cristianità in armi– commenta Chiara Frugoni in Vita d’un uomoche solo con la forza pensa di poter riscattare i luoghi santi, di fronte alla Chiesa che chiude il dissenso con la violenza e la morte, Francesco ha parole diverse e dissonanti, anche se tratte come sempre dal Vangelo». Molte sono le chiavi di lettura di quel soggiorno, che concordano però sul fatto che il santo si sarebbe recato, con il confratello fra Illuminato, approfittando della tregua d’armi estiva, presso il sultano Al-Malik alKamil, il Sultano perfetto: con l’intenzione di convertirlo, o arso da «sete del martiro», come si esprime Dante nel Paradiso (Canto XI, v. 100), oppure per chiedere la cessazione delle ostilità. Nessuna delle tre cose avverrà, in realtà: ma le fonti sono concordi nel descrivere il trattamento benevolo con cui i due frati sarebbero stati ricevuti e persino una certa ammirazione del sultano nei confronti delle parole – che pure non conosciamo – pronunciate da Francesco. Un episodio che è considerabile il contesto più adeguato del sedicesimo capitolo della Regola non bollata, scritta di lì a poco, intitolato «Di coloro che si recano tra i saraceni e altri infedeli»: «I frati che vi si recano, in due modi, in mezzo a loro, possono comportarsi spiritualmente. Un modo è che non suscitino liti o controversie, ma siano sottomessi a ogni umana creatura per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che è gradito al Signore, annuncino la parola di Dio, affinché essi credano in Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito santo, creatore di ogni cosa, nel Figlio redentore e salvatore, e siano battezzati e si facciano cristiani, poiché chi non sarà rinato dall’acqua e dallo Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio». Parole che saranno significativamente chiosate dal cardinal Martini, nel suo discorso intitolato Noi e l’islam (6 dicembre 1990).

il pluralismo e la volontà di Dio 
Tornando sul documento di Abu Dhabi, vi si recita che «la fede porta il credente a vedere nell’altro un fratello da sostenere e da amare», e che è la stessa volontà di Dio (qui, probabilmente, si riecheggia la Sura della Mensa, Corano V,48) che si dia il pluralismo e ogni diversità, di religione, genere, lingua. In una prospettiva che, si direbbe, supera addirittura il paradigma inclusivista, nel rapporto fra cristianesimo e religioni (quello inauguratosi di fatto con la Nostra aetate), aprendo così le porte, più o meno consapevolmente – ma a mio parere, del tutto consapevolmente –, a quello pluralista. Nel testo, infatti, il pluralismo non è subìto quale dato di fatto purtroppo inestirpabile o come una resa incondizionata al processo di secolarizzazione in atto, come non di rado fa la pubblicistica cattolica, ma valorizzato in quanto dono di Dio e base adeguata a fondare la libertà religiosa («La libertà è un diritto di ogni persona: ciascuno gode della libertà di credo, di pensiero, di espressione e di azione»). Ecco il passaggio chiave del documento su questo versante: «Il pluralismo e le diversità di religione, di colore, di sesso, di razza e di lingua sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani. Questa Sapienza divina è l’origine da cui deriva il diritto alla libertà di credo e alla libertà di essere diversi. Per questo si condanna il fatto di costringere la gente ad aderire a una certa religione o a una certa cultura, come pure di imporre uno stile di civiltà che gli altri non accettano». Il teologo (e arcivescovo di Modena) Erio Castellucci, nel recensire un volume postumo di Jacques Dupuis, Il mio caso non è chiuso (EMI 2019) teologo docente per oltre un decennio all’Università Gregoriana, fa riferimento a tale passaggio segnalandone la novità indubbia nel campo della teologia cattolica, e presentandola come «un’affermazione audace, che supera il semplice pluralismo de facto, ossia la mera presa d’atto dell’esistenza delle differenze, ma non arriva ad affermare un pluralismo de iure che depotenzierebbe la missione» (Avvenire, 19/ 2/2020). Personalmente, non posso che augurarmi che tale passaggio rappresenti un’opportunità per una discussione franca e aperta, di cui si sente il bisogno, su un versante che costituisce il futuro – ma anche il presente – della fede cristiana nel tempo del pluralismo. L’ultimo rilancio in ordine di tempo, da parte del papa, c’è stato in Bahrein, nello scorso novembre, in occasione del Bahrein Forum for dialogue, con parole ancora una volta capaci di andare al cuore dei problemi, invitando «ad abitare la crisi senza cedere alla logica del conflitto». Perché «la logica del conflitto ci porta sempre a una distruzione. La crisi ci aiuta a pensare e a maturare. È infatti indegno della mente umana credere che le ragioni della forza prevalgano sulla forza della ragione, utilizzare metodi del passato per le questioni presenti, applicare gli schemi della tecnica e della convenienza alla storia e alla cultura dell’uomo. Ciò richiede di interrogarsi, di entrare in crisi e di saper dialogare con pazienza, rispetto e in spirito di ascolto; di imparare la storia e la cultura altrui. Così si educa la mente dell’uomo, alimentando la comprensione reciproca. Perché non basta dirsi tolleranti, occorre fare veramente spazio all’altro, dargli diritti e opportunità. È una mentalità che comincia con l’educazione e che le religioni sono chiamate a sostenere». Parafrasando Giovanni XXIII in riferimento al Vaticano II, anche nel campo largo delle relazioni interreligiose tantum aurora estBrunetto Salvarani 
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27 gennaio Giorno della Memoria. Memoria e Impegno

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di Mariano Borgognoni*
Il 27 gennaio, quando gran parte dei nostri abbonati staranno per ricevere Rocca, io e mia sorella avremo ricevuto la Medaglia d’onore conferita dal Presidente della Repubblica, alla memoria di mio padre come internato militare italiano in un lager nazista vicino Vienna.
Mio padre fu chiamato alle armi il primo febbraio 1940 e fu rimpatriato il 20 agosto 1945. Come scritto nel suo foglio matricolare con asciutto linguaggio militare: anni 5, mesi 6, giorni 19, di cui anni 2 e giorni 7 di prigionia. Cinquant’anni dopo tornammo a Kassos, nella piccola isoletta del Dodecaneso, nella quale, venendo dal natio borgo selvaggio sorvegliato a distanza dai monti dell’Appennino, vide per la prima volta il mare e, con i suoi commilitoni, conobbe un piccolo popolo di pescatori, di pastori, di contadini e piccoli artigiani che, come loro amava la musica, il canto, il ballo: la stessa stoffa umana. L’imbecillità nazionalista aveva ribattezzato quell’isola Caso, e gli era andata pur bene! L’isola vicina Karpatos era violentata in Scarpanto. Quella gente pregava nelle piccole chiesette bianche e azzurre in lingua greca, quella in cui è stato scritto l’intero Nuovo Testamento e una parte dell’Antico. In quella lingua fu scritto e soprattutto pensato il Credo e forse lo stesso Gesù che parlava usualmente in aramaico o in ebraico nei riti cari al suo popolo, qualche volta avrà potuto recitare la preghiera che ci ha insegnato nella koinè greca. Ma se di questo non vi può essere alcuna certezza è del tutto sicuro che i «suoi» annunciarono in questa lingua comune la buona notizia (anche a Roma nei primi secoli dell’era volgare). Se qualcuno considera quasi sacro il pur meraviglioso latino dovrebbe considerare il greco sacro del tutto! Liturgia è un termine di derivazione greca come una parte importante della nostra lingua, anche se spesso non ce ne accorgiamo. Dalle mie parti, ma forse anche dalle vostre, si narra che una signora in visita turistica ad Atene raccontasse al ritorno che era stata in Chiesa per la Messa ma che non aveva capito un accidenti, solo due parole in latino: kirie eleison!
In quei pochi giorni a Kassos incontrammo Stavrullis, l’amico calzolaio di mio padre e la moglie di Karalampos l’amico pescatore morto qualche anno prima. Ma la cosa più sorprendente fu l’incontro iniziale al «Kikkis Restaurant» proprio sul porto. Scoprimmo parlando che si trattava del figlio di Giuseppe Chicchi un abruzzese, commilitone di mio padre che aveva sposato un’isolana ed era tornato a vivere lì.
Tuttavia anche in quella bella occasione di un insperato ritorno, mio padre censurò quel giorno, il 13 Settembre del 1943, ormai ricostruito per tabulas, quando i nostri soldati furono fatti prigionieri dai tedeschi e posti di fronte ad un bivio terribile.
Anche lui è stato tra quel novanta per cento di militari italiani che di fronte alla scelta tra aderire alla Repubblica Sociale e combattere a fianco dei «camerati» tedeschi o essere internati senza alcuna tutela e schiavi da lavoro nei lager germanici hanno fatto la scelta giusta.
Un’obiezione di coscienza al fascismo che aveva portato il Paese alla guerra e alla miseria e un rifiuto di combattere sotto il giogo hitleriano.
A proposito della ferma decisione di questi 650.000 soldati, uno di loro, Alessandro Natta (colui che succederà ad Enrico Berlinguer, come Segretario del P.c.i.), nel 1954, scrisse un libro dal titolo «L’altra Resistenza». La casa editrice vicina al partito, gli Editori Riuniti, decise di non pubblicarlo. Come a dire: la Resistenza è solo quella fatta dalle formazioni partigiane. Ed è del tutto comprensibile che coloro che scelsero la via della lotta anche armata contro il nazifascismo furono la parte che più contribuì alla Liberazione dell’Italia, alla difesa del suo onore tra le nazioni, alla fondazione della Repubblica e all’approvazione della Costituzione. Tuttavia «l’altra Resistenza», quella di coloro che tornarono a casa pelle e ossa, stremati dal lavoro forzato, dalla fame e dalle vessazioni subite, ebbe una sua parte nel contrasto al nazismo e al fascismo e poi nella ricostruzione morale, civile, economica e democratica dell’Italia. Quando alla conferenza di pace a Parigi, il 10 agosto del ’46, Alcide De Gasperi usò quella straordinaria frase verso i suoi colleghi delle potenze vincitrici: «tutto, tranne la vostra personale cortesia, è contro di me», forse aveva presente che ci fu una parte del nostro Paese che in ogni caso autorizzava a tenere alta la fronte e rendeva possibile quella cortesia.
È giusto quindi che anche gli internati militari italiani nei campi di lavoro nazisti vengano ricordati, in questo giorno della memoria che certo allude ad altre situazioni di più radicale orrore. A cominciare da quanti hanno vissuto l’immane abominio della «soluzione finale», ai milioni di ebrei: bambini, donne, anziani, persone di ogni età ed estrazione sociale massacrati o gasati nei campi di sterminio. Una memoria che dovrebbe spingerci a costruire un cammino antropologico e politico di tabuizzazione della guerra, tanto più quando essa finisce per colpire soprattutto la popolazione civile. Uno sforzo lungo che merita la nostra energia e la nostra perseveranza.
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PS
Abbiamo voluto dedicare la copertina di questo numero a Biagio Conte, l’operatore di pace e di solidarietà palermitano morto in questi giorni, nella città dove, quasi contemporaneamente, si è manifestata la dimensione estrema del bene e del male. Per lui, come per Francesco d’Assisi da cui ha tratto ispirazione, si può parlare di una rottura epistemologica, di una spoliazione, di un cambiamento del punto di osservazione del mondo. Nell’abbraccio ai lebbrosi d’oggi Biagio ha sentito, come Francesco allora, una dolcezza d’animo e di corpo. Non è facile declinare la radicalità di questa scelta in termini politici. Anche la miglior politica deve costruire nuovi diritti sociali e civili mettendo in campo la forza di soggetti ben organizzati. Qui si va oltre, ci si fa carico dell’ultimo, del periferico, del senza forza, del malato, dello sventurato. È un punto-limite in cui la profezia sfida e indica un orizzonte a qualsiasi politica. Non è solo la logica del Vangelo ma soprattutto il suo paradosso. Mi viene in mente, proprio nel centenario della sua nascita, la lettera di don Lorenzo Milani al suo giovane amico comunista Pipetta: «Il giorno che avremo sfondato insieme la cancellata di qualche parco, installato insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordati Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò la con te. Io tornerò nella tua casetta piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso».

* Editoriale ROCCA 1 FEBBRAIO 2023
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f13cae62-ded5-4979-83a0-54a9039f4003Porsi Domande su di Dio.
di Giancarlo Morgante
Edith Bruck lo apprese dalla Madre, cremata nei forni di Auschwitz. Il pane preparato per la povera famiglia e mai cotto per l’irrompere all’alba dei nazisti. Questa fu l’inizio della via crucis di Edith.
Lettera a Dio, parte finale del libro “Il pane perduto”. Il libro narra i sentimenti (senza odio alcuno) e l’esperienza di una ragazza ebrea sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti.
[segue]

Che succede?

202ca1cc-5f9e-40d6-965a-05baf2933b6fAutonomia differenziata, fermate quel treno
20-01-2023 – di: Domenico Gallo

Secondo l’ultimo comunicato di Palazzo Chigi, il Consiglio dei Ministri ha «definito il percorso tecnico e politico per arrivare, in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, all’approvazione preliminare del disegno di legge sull’autonomia differenziata». In questo modo è stato messo sui binari il treno che porterà all’approvazione dell’insano progetto dell’autonomia differenziata sulla base della proposta di “legge di attuazione” dell’art. 116, 3 comma Costituzione presentata dal ministro Calderoli. Grazie all’attivismo del ministro leghista, il dibattito sull’autonomia differenziata è uscito fuori dalla clandestinità ed è diventato di pubblico dominio. Per questo è importante chiarire all’opinione pubblica in cosa consista l’autonomia differenziata e quali sono i pericoli che si prospettano.

La possibilità di concedere alle Regioni non a statuto speciale «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia», la cosiddetta “autonomia differenziata” trova origine nella riforma del titolo V della Costituzione approvata nel 2001. La riforma ampliò notevolmente l’autonomia legislativa delle Regioni. L’art. 117 definì (nel secondo comma) gli ambiti riservati alla legislazione esclusiva dello Stato e assegnò (nel terzo comma) alle Regioni la competenza concorrente in 23 materie, precisando che «nelle materie di legislazione concorrente spetta alle Regioni la potestà legislativa, salvo che per la determinazione dei principi fondamentali, riservata allo Stato». Gli effetti di questa riforma hanno determinato un contenzioso, che ha tenuta impegnata la Corte Costituzionale per oltre un ventennio, per tracciare i confini esatti fra la competenza delle Regioni e quella dello Stato per ciascuna materia. E tuttavia nella riforma c’è un criterio che rende modificabile il confine per le Regioni che siano interessate ad acquisire maggiori forme di autonomia, cioè più potere. L’art. 116, terzo comma, infatti, recita: «Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate nel secondo comma del medesimo articolo alle lettere l, limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n ed s, possono essere attribuite ad altre regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la regione interessata». È bene precisare che si tratta di una mera facoltà e non di un obbligo costituzionale, che non può essere avulsa dalla tela dei rapporti fra organi costituzionali e diritti dei cittadini come delineati nel testo costituzionale. Se le Regioni ottenessero la competenza piena in tutte le materie di competenza concorrente e nelle materie di competenza esclusiva dello Stato (norme generali sull’istruzione, tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali), verrebbe surrettiziamente ribaltata la norma che ha tracciato i confini fra i poteri dello Stato e quelli delle Regioni, senza ricorrere al procedimento di revisione della Costituzione, di cui all’art. 138. Verrebbe pregiudicata anche l’eguaglianza dei cittadini, in aperto contrasto col principio fondamentale di cui all’art. 3. Per non parlare dell’istruzione dove la possibilità di attribuire alle Regioni la competenza sulle norme generali si scontra con la disposizione di cui all’art. 33, che statuisce: «La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione».

2.

Le disposizioni di cui al terzo comma di cui all’art. 116, sono compatibili con l’impianto costituzionale solo ove se ne dia un’interpretazione restrittiva. Vi sono materie che non possono essere parcellizzate per esigenze specifiche di un territorio: scuola, autostrade, ferrovie, salute, tutela e sicurezza del lavoro, grandi reti di produzione e trasporto dell’energia, chiamano in causa un indivisibile interesse nazionale. Invece, le richieste delle Regioni capofila – Veneto, Lombardia e, in misura ridotta, Emilia Romagna – hanno di mira tutte e 23 le materie di competenza concorrente e persino le due o tre materie che rientrano nella competenza esclusiva dello Stato. In altre parole si è aperto un processo politico che mira ad utilizzare il “baco” inserito nell’art. 116 della Costituzione come una breccia per squarciare l’intero impianto costituzionale e ribaltare il principio fondamentale dell’unità della Repubblica, trasformando l’Italia in una serie di repubblichette semi-indipendenti. Non a caso la legge Calderoli è stata denominata “lo spacca Italia”. Si tratta di un progetto “sovversivo” dal punto di vista della legalità costituzionale e particolarmente insidioso per le sue modalità procedurali. Infatti l’autonomia differenziata, una volta concessa, sarà potenzialmente irreversibile. Questo perché il processo di determinazione dell’autonomia differenziata si fonda sulle intese stipulate fra il Governo e la Regione richiedente e, raggiunta l’intesa, il Parlamento non può modificarla, ma solo approvarla in blocco o rigettarla. Una volta deliberata, inoltre, la legge che approva le intese non può essere sottoposta a referendum abrogativo. Né l’intesa potrebbe essere modificata con una nuova legge perché occorrerebbe il consenso della Regione interessata, senza il quale l’intesa raggiunta è destinata a durare in eterno.

L’art. 117 della Costituzione, inoltre, precisa che spetta alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (LEP) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale». Sono passati oltre venti anni e questa funzione non è stata mai esercitata per ragioni oggettive, visto che in Italia ci sono forti differenziazioni nella erogazione delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, per cui trovare un punto di equilibrio accettabile per tutti imporrebbe di mobilitare ingenti risorse che, in tempi di austerità, sarebbe stato difficile trovare. Ora, l’esigenza di procedere alla determinazione dei LEP è stata considerata un presupposto necessario per poter attribuire alle Regioni le risorse necessarie per l’esercizio delle nuove competenze trasferite dallo Stato. Per risolvere questo problema, che si trascina da vent’anni, il Ministro Calderoli ha innestato il turbo, facendo inserire nella legge di bilancio una decina di commi con i quali si prevede una procedura accelerata che, entro il dicembre del 2023, dovrebbe portare alla determinazione dei LEP, che avverrà con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM). Come si è visto, la Costituzione prevede che devono essere le assemblee elettive, con legge, a determinare quali prestazioni e quali livelli essenziali devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Nel disegno Calderoli, inserito nella legge di bilancio, invece, è il Governo che stabilisce i diritti che devono essere garantiti ai cittadini e il loro ambito di applicazione. Quello che è ancora più assurdo è che si pretende di fare questa operazione a costo zero. Il risultato sarà che l’asticella dei diritti civili e sociali sarà necessariamente determinata a un livello piuttosto basso. In questo modo verranno cristallizzate le disuguaglianze che affliggono il nostro paese, soprattutto a svantaggio del Meridione e delle Isole. Questo perché lo stesso disegno di legge Calderoli, nella norma relativa al trasferimento delle funzioni e delle risorse (art. 4), stabilisce che «le risorse necessarie per le funzioni relative a ciascuna materia o ambito di materia sono determinate in base al criterio della spesa destinata a carattere permanente (cioè la spesa storica) sostenuta dallo Stato nella Regione per l’erogazione dei servizi pubblici corrispondenti». Secondo gli ultimi dati, la spesa pubblica pro capite è pari a poco meno di 19.000 euro in Lombardia, viaggia sui 16.000 in Veneto, mentre si ferma a poco più di 14.000 in Sicilia, in Calabria a 15.000, in Campania a 13.700 euro. La determinazione dei LEP a costo zero non inciderà su questa situazione di disuguaglianza, ma la consoliderà. Pertanto il finanziamento della maggiore autonomia prefigura un drenaggio di risorse a favore delle regioni economicamente più forti. In sintesi, la proposta di legge di attuazione presentata da Calderoli apre la via, da un lato, alla frammentazione del paese in repubblichette semi-indipendenti e, dall’altro, a un sicuro aumento delle diseguaglianze e dei divari territoriali, tra cui in specie quello strutturale Nord-Sud.

Se il processo di spostamento della competenza legislativa dallo Stato alle Regioni venisse portato a compimento, per tutto ciò che riguarda le scelte fondamentali inerenti il sistema produttivo e la vita civile nel nostro paese, come l’istruzione, i trasporti, le comunicazioni, le reti dell’energia, le condizioni di lavoro e dei lavoratori, l’ecologia, l’ambiente, la sanità, al posto di una disciplina legislativa ne dovremmo avere venti, ognuna con efficacia territoriale limitata. Al posto del contratto collettivo di lavoro, torneremo alle gabbie salariali. Di fronte a una nuova pandemia, avremo l’impossibilità di determinare delle regole di profilassi comuni. Non sarà possibile programmare una politica energetica per la transizione ecologica e la decarbonizzazione dell’economia. Venti mini Stati regionali faranno decollare la spesa pubblica legata al costo degli apparati amministrativi. Si tratta di una scelta insensata, inefficiente, costosa e caotica.

3.

L’insieme delle considerazioni fin qui svolte ha indotto il Coordinamento per la democrazia costituzionale a presentare una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare, sostenuta da circa 120 costituzionalisti, docenti universitari di varie discipline, studiosi, sindacalisti, esponenti della società civile, recante una modifica degli art. 116, comma 3, e 117.

La scelta di una legge di iniziativa popolare trova la sua ragione in una recente (2017) modifica del regolamento del Senato (art. 74) che assicura si giunga al dibattito in aula. Un riscontro si è avuto da ultimo con la legge costituzionale n. 2 del 7 novembre 2022, che ha introdotto nell’art. 119 il riconoscimento dell’insularità, iniziando il suo percorso in Senato come legge di iniziativa popolare sostenuta da 200.000 firme raccolte in Sicilia e Sardegna. Dunque, è oggi possibile creare un contesto in cui le forze politiche siano chiamate a prendere chiara e pubblica posizione sull’autonomia differenziata nella sede appropriata, dove un confronto sul tema non c’è finora mai stato, pur essendo il tema dal 2018 una priorità nell’agenda di tutti i governi. E sarebbe battuto il tentativo del ministro Calderoli di ulteriormente emarginare il Parlamento.

Nel merito, la proposta punta a correggere i punti deboli prima evidenziati nell’impianto degli articoli 116, comma 3, e 117, togliendo così il fondamento normativo alle scelte perseguite dal ministro Calderoli. Quanto all’art. 116, comma 3, viene cancellata la natura pattizia, causa della potenziale irreversibilità dell’autonomia una volta concessa, recuperando una opportuna flessibilità. Viene altresì sottolineata la connessione a specificità proprie del territorio, per evitare la bulimia di competenze che nulla hanno a che fare con la regione richiedente, e viene introdotta la possibilità di referendum nazionali sia approvativi nel momento della concessione dell’autonomia che successivamente abrogativi. Nell’art. 117 vengono spostate dalla potestà legislativa concorrente a quella statale esclusiva le materie strategiche per il sistema-paese, l’unità e l’eguaglianza nei diritti, dalla scuola e università alla tutela della salute e al Servizio sanitario nazionale, al coordinamento della finanza pubblica, al lavoro, alla previdenza, alle professioni, all’energia, alle grandi reti di trasporto e navigazione, ai porti e aeroporti di rilievo nazionale e interregionale. Inoltre, i livelli “essenziali” delle prestazioni vengono ridefiniti come livelli “uniformi”. Infine, si introduce una clausola di supremazia riferita all’unità giuridica ed economica della Repubblica e all’interesse nazionale.

Il treno dell’autonomia differenziata lanciato da Calderoli ormai è partito ma può essere ancora fermato. Bisogna far conoscere a cittadini/e cosa c’è in fondo a questo processo: se lo conosci, lo eviti. La proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare può essere firmata con lo SPID sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Che succede?

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Cosa pensare cosa fare di fronte alle migrazioni dai Paesi africani?
13 Gennaio 2023 by Giampiero Forcesi | su C3dem

Siamo scandalizzati quando Giorgia Meloni parla di “blocco navale” (ora, sembra, non più), o quando il ministro Piantedosi rende dura la vita alle Ong. Ma cosa pensiamo veramente che si debba e possa fare? Porre un argine alle migrazioni, accompagnato da una impegno complessivo di tutta la comunità nazionale per aprirci a un’accoglienza seria e di reciproco vantaggio e ad una cooperazione stabile, senza interventi predatori o complici di classi dirigenti locali corrotte, è un obiettivo ineludibile. (Nella foto una pietra ricorda il massacro di 1.500 cristiani copti compiuto dall’esercito italiano nel maggio 1937 in Etiopia)

Critichiamo i decreti sicurezza, quelli di Minniti prima, poi di Salvini, oggi di Piantedosi, ed è giusto. Questo ultimo, con la sua dichiarata ostilità alle Ong che operano i salvataggi in mare, appare davvero irricevibile. Però stentiamo ad assumere un punto di vista complessivo su questo grande e drammatico problema.

Mi sembra che, mano mano che passa il tempo, ci si accorge che una risposta che sia in qualche misura adeguata, o comunque ragionata e responsabile, è davvero difficile. Di qui parto per qualche considerazione personale.

Sappiamo che ciò che spinge tante persone, dall’Africa sub-sahariana, come dal Nord Africa e dal Medio Oriente, è un insieme enorme di problemi. Da un lato, in alcuni casi, conflitti armati gravi oppure oppressione insostenibile da parte di governi dittatoriali (un esempio l’Eritrea); dall’altro lato, la perdurante povertà, lo sconvolgimento di intere regioni provocato dai cambiamenti climatici, la mancanza di speranza di una vita migliore in Paesi che sembrano condannati ad avere classi dirigenti per lo più incapaci o corrotte (talvolta anche per colpa di imprese multinazionali se non anche di governi occidentali).

Questa distinzione . certo spesso difficile a farsi – tra profughi e cosiddetti migranti economici penso che non possa essere elusa. Innanzitutto perché ci mette di fronte a un preciso dovere, quello di dare asilo ai profughi, secondo le sacrosante norme del diritto internazionale. Su questo punto si dovrebbe essere assai più chiari, a livello di consapevolezza, di normative ad hoc e di organizzazione per un’accoglienza intelligente e davvero solidale. L’asilo politico è una cosa seria e va fatta con altrettanta serietà

Per quanto riguarda coloro che chiamiamo “migranti economici” la questione è diversa. Non solo non ci sono obblighi di diritto internazionale all’accoglienza, ma c’è un gigantesco problema di numeri. Quanti? Quanti sono? Quanti potranno essere? E c’è un altrettanto grande problema di tenuta sociale da parte delle comunità civili europee, e quella italiana già in affanno, chiamate ad affrontare le difficoltà dell’accoglienza, dell’integrazione, della convivenza (certo non ci sono solo le difficoltà, ci sono anche esperienze e prospettive di arricchimento umano, e non solo…).

Dicevo che, a fronte dei migranti economici, non ci sono norme di diritto internazionale (ci sono però certo quelle che impongono di salvarli in mare!). E però ci rendiamo conto che il desiderio di dare una chance alla propria vita e a quella dei propri figli è forte, è umanissimo, e non può essere ignorato. A questo desiderio corrisponde un’istanza fondamentale di libertà: gli uomini sono liberi di cercare una vita diversa e migliore, di tentare di farlo; e i confini tra le nazioni non debbono essere muri invalicabili.

Questo desiderio e questa libertà spingono molti – generalmente non i più poveri, ma quelli con qualche minima risorsa – a tentare ogni strada possibile. E qui veniamo alla questione dei cosiddetti trafficanti e degli scafisti. Una questione scabrosa. Mi stupisco che non si rifletta sul fatto che, certamente, queste persone che fanno traffici per consentire ai migranti di attraversa migliaia di chilometri e poi il mare per giungere in Europa sono per lo più gente immorale, che sfrutta, che a volte tortura, gente talvolta disumana, ma sono anche l’unico e indispensabile mezzo che hanno i migranti per fare il loro viaggio. Sono, diciamo le cose come stanno, necessari per chi vuole affrontare un’impresa così difficile. Impresa che non si potrebbe certo tentare di fare ricorrendo alle norme in vigore (passaporti, visti d’ingresso, biglietti aerei etc.). Avere, quindi, come obiettivo politico la lotta ai trafficanti e agli scafisti significa poco, e ha la sua parte di ipocrisia.

Io credo che, in ogni caso, qualsiasi misura si riuscirà a prendere per affrontare, in modo che sia almeno serio e coraggioso, il problema, questo tentativo illegale di migrare proseguirà nel tempo. E, per quanti scappano per salvare la vita, è una “fortuna” che possano trovare un trafficante che consenta loro di mettersi in salvo. Però, la responsabilità nostra di provare ad affrontare il problema in modo, appunto, serio resta.

Mi sono sempre venuti i brividi quando sento parlare certi esponenti della destra di come affrontare questo problema. Fino all’altro giorno si sentiva parlare di blocchi navali. Ma a sinistra, mi sembra, si dice poco. E anche in Europa si dice poco di convincente. La parola “blocco” è dura, semplifica; e poi, fatto in mare dalle navi, il blocco è impresa è impensabile e rovinosa. Ma, se andiamo al cuore del problema, l’idea che si debba porre un argine a questa migrazione disperata è valida. Ma è un argine che va costruito con infinita cura e pazienza nei luoghi più vicini ai Paesi di migrazione, e soprattutto nella consapevolezza delle popolazioni locali e delle loro istituzioni. Va posto con una presenza – costosa, impegnativa – di uomini e mezzi, non solo in funzione di polizia e di repressione, ma soprattutto di dialogo, di informazione e anche di capacità di portare sollievo nei casi personali più delicati.

Questo argine deve andare insieme, strettamente e contestualmente, a una presa di coscienza, nel nostro Paese, nella nostra società, nell’opinione pubblica, del fatto che abbiamo sia il bisogno sia la possibilità di accogliere e integrare ogni anno decine di migliaia di migranti stranieri nella nostra comunità. Bisogno, perché sappiamo bene quanti lavori cosiddetti umili non trovino più i nostri cittadini disponibili a svolgerli; bisogno, perché abbiamo una bassa natalità e stanno venendo a mancare le nuove leve di lavoratori, in tutti i campi, necessari tra l’altro per portare in equilibrio il sistema pensionistico. E, per questa accoglienza, abbiamo le possibilità. Siamo un Paese sufficientemente ricco e benestante, con comunità territoriali in grado di far posto ai nuovi venuti. Vi sono molteplici esperienze positive in questo senso. Certo, vi sono anche quelle negative. Ma per questo parlo di una “presa di coscienza” collettiva, necessaria per affrontare con serietà questo grande problema, questa realtà non eludibile. Certo, ci vuole una classe politica più coraggiosa, che promuova questa presa di coscienza, che ne faccia un suo obiettivo imprescindibile.

Il modo per consentire che migliaia di migranti, provenienti dai paesi africani, possano venire in Italia è quello dell’incremento dei numeri di accessi legali. Una misura, questa, che va studiata insieme al mondo produttivo, alle istituzioni locali e al terzo settore, e che va accompagnata da concrete iniziative che consentano inserimenti dignitosi nei vari territori, tempi e luoghi di formazione e di prima integrazione.

Infine, l’argine di cui ho detto, e che a mio avviso va posto, ha un altro grande fondamento, altrettanto indispensabile: quello della costruzione di una nuova stagione delle politiche di cooperazione e di dialogo con i Paesi africani e del Vicino Oriente. Ora Giorgia Meloni parla di “piano Mattei”, nel senso di una cooperazione industriale paritaria e non vessatoria. Posizione sensata, che tocca un aspetto importante. Ma la questione è più complessa. Cooperare con buona parte dei Paesi dell’Africa, sia a nord che a sud del Sahara, è estremamente difficile perché le loro classi dirigenti sono scarsamente affidabili. Certo non si può aggirarle andando a stabilire rapporti diretti con le comunità locali (è difficile anche per le Ong di cooperazione allo sviluppo); ma si possono stabilire dialoghi con le classi dirigenti locali (franchi e senza sconti), porre condizioni, offrire stimoli e opportunità di formazione ai vari livelli.

E bisogna molto investire in questa direzione, con la consapevolezza che molto del nostro futuro avrà a che vedere con questa capacità di porsi con coraggio e intelligenza in dialogo con il mondo a sud del Mediterraneo, e che saperlo fare darà all’Italia un ruolo di rilievo nell’Unione europea. E ci farà crescere in umanità. Ci farà anche perdonare, almeno un po’, quella stagione imperialistica che ci ha portati, a fine ‘800 e nella prima metà del ‘900, a compiere misfatti e crimini in tante parti del Corno d’Africa (Eritrea, Etiopia, Somalia) e in Libia. Certo, non abbiamo compiuto solo crimini; abbiamo anche fatto alcune cose buone (che sono state ricordate a lungo dalle popolazioni locali); ma poi, una volta venuti via, ci siamo per lo più dimenticati di quella storia, di quei legami, di quelle responsabilità, ed oggi assistiamo a, anche proprio in quei Paesi, a un totale disfacimento politico e civile, e a continue tragedie. Dovremmo tornare, in modo nuovo, sui nostri passi.

Giampiero Forcesi
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Gli italiani e lo Stato: un rapporto da decifrare meglio
15 Gennaio 2023 by c3dem_admin | su C3dem

Non è così vero che gli italiani siano sempre più sfiduciati nei confronti della cosa pubblica e delle sue istituzioni. Un recente rapporto di ricerca mostra dati ancora certamente preoccupanti, ma anche segnali significativi di una certa risalita rispetto agli anni scorsi. Servirebbe un dibattito meno catastrofista da parte di mass media e opinione pubblica per cogliere questi esili segnali positivi e impegnarsi a rafforzarli. Il Paese ha un grande bisogno di recuperare fiducia e generare speranze attive

Sulla base di quali informazioni possiamo provare a comprendere la situazione del comune sentire dei cittadini del nostro Paese, per coglierne lo spirito, le idee, gli orizzonti, le visioni e per poter poi valutare, almeno per accenni, cosa fare per una politica lungimirante? Detto che è comunque (oggi più che mai) un’operazione complicata, proviamo a farlo a partire da alcune ricerche e sondaggi (fatti con criterio) che possano dare utili coordinate. Di sicuro il XXV Rapporto su “Gli italiani e lo Stato”, pubblicato a dicembre 2022 e curato della società di ricerche Demos&Pi (http://www.demos.it/), del sociologo Ilvo Diamanti, è fra questi. Anche se, è bene precisare, le letture che ne sono seguite nei giorni a ridosso dell’uscita, non sempre hanno colto bene alcuni aspetti.

Intanto emerge il dato al momento forse più “politicamente” rilevante, e abbondantemente rimarcato da alcuni articoli: una larga maggioranza dei cittadini (62%) afferma che il Paese dovrebbe essere guidato da un “leader forte”. E inoltre più dei due terzi dei cittadini esprimono apertamente il proprio favore verso l’elezione diretta del Presidente (69%). Segno, questo, che si viene così palesemente a confermare la sfiducia verso le tradizionali forme del nostro sistema politico che abbiamo condiviso dalla Costituzione in poi? Non direi. Vediamo altri dati.

Vediamone prima due di carattere più generale, ma che mi sembrano significativi e che sono stati un po’ trascurati dalle veloci esigenze della cronaca.

La fiducia? Non è cosa rara…

Partiamo da una non secondaria “soddisfazione per la democrazia”. Dopo il crollo che ha visto passare dal 42% di soddisfatti del marzo 2008, a un misero 28 del marzo 2013, vi è stata una costante risalita fino ad un sorprendete 53 del novembre 2022. Poco? Forse, ma è comunque un trend che sembra contraddire il pensiero diffuso della “crisi drammatica” della democrazia. Certo, sono questi anche gli effetti delle cattive “prestazioni” delle cosiddette autocrature di alcuni Paesi ben noti, ma di fronte a questo dato (soprattutto perché frutto di un percorso in crescita) occorre riflettere, invece della sterile lamentela, per consolidarlo e farlo crescere.

Secondo elemento, in un certo senso collegato al primo: il tema della cosiddetta “tecnocrazia” (che richiama il tema del merito). Alla domanda se un governo di tecnici sia da preferire a quello di politici (convinzione che per lo più porta a delegittimare partiti e istituzioni, ritenuti incapaci di fare scelte giuste perché affidate a criteri di alleanze e fedeltà politiche) il risultato, se non proprio sorprendente, lascia spazio a qualche interrogativo: sono pari al 47 per cento sia i cittadini che preferiscono che a governare siano i tecnici sia quelli che preferiscono i politici (a fronte di un 6% che non ha risposta). Come dire: da un lato, la democrazia deve essere fondata sul valore, ma dall’altro il meccanismo di scelta tramite il voto popolare è un elemento non rinunciabile

Le istituzioni riemergono dal tunnel?

Poi ci sono le domande esplicite che riguardano il tasso di fiducia dei cittadini nei confronti dei principali soggetti della scena pubblica. Non viene dato direttamente un giudizio, ma lo si fa intendere.

Vengono rilevati due dati rispetto a questo tasso di fiducia: uno relativo alla variazione tra il 2022 e l’anno precedente, l’altro riferito alla variazione tra il 2012 e il 2022. Ebbene, non manca qualche sorpresa. In particolare, per i dati sulla fiducia in partiti e istituzioni.

Cresce la fiducia per il Presidente della Repubblica, sia nel primo che nel secondo raffronto (facile aspettarselo visto il consenso che riscuote Sergio Mattarella ad ogni uscita). Ma cresce anche la fiducia verso istituzioni sempre apparentemente “sotto schiaffo”. Il Comune: solo +3% nella prima rilevazione, ma +10% nella seconda nel secondo). L’Unione Europea: +1% in entrambe. Cresce persino la fiducia nella Regione: ben +17% nel dato “storico”. Ma ecco una vera sorpresa: cresce persino la fiducia che riguarda il tanto vituperato Parlamento: +16% dal 2012 (seppure un tasso sempre bassissimo, il 23%, rispetto ai dati di altre istituzioni). E persino, udite udite, la fiducia nei partiti: una briciola, +1 per cento, nel dato ad un anno di distanza e ben +8% sul 2012 (dati sempre assai bassi – solo un complessivo 14 per cento, segno che i tanto decantati anni “ruggenti” forse sono proprio lontani, o andrebbero riletti bene).

Passiamo allo Stato. Rispetto all’anno scorso la fiducia decresce dell’1 per cento, ma dal 2012 è in risalita del 14%, ottenendo un alto gradimento per il 36 per cento del campione dei cittadini. Poco, per fare massa positiva, vero, ma continuerei a sottolineare il percorso, troppo trascurato da una “legenda” sempre incline al pessimismo. Un dato, inoltre, che fa il paio con il riscontro relativo al gradimento di alcuni importanti servizi: assistenza sanitaria pubblica, scuola pubblica, ferrovie, trasporti urbani, che per tanti cittadini danno volto alle istituzioni nella vita privata. Tutti in crescita rispetto agli inizi del decennio, ma in leggero calo per Assistenza e Scuola pubblica, rispetto al 2021. Qui pandemia e il relativo lockdown hanno lasciato il segno, è bene tenerne conto. Ma complessivamente ci si può chiedere: il settore pubblico, allora, può ancora ottenere consensi? Certo, va fatto funzionare bene….

Il cittadino non appare distratto

Altri campi di indagine, significativi per chi si occupa di società civile, sono quelli relativi al tema della partecipazione. Si era registrata una comprensibile contrazione dovuta alla paura del virus e ancor più al lockdown. Ora, però, riprende la voglia di esserci. Scrivono i curatori del Rapporto: «È vero che la partecipazione elettorale ha sofferto dell’astensione più alta della storia repubblicana, ma su altri fronti si osserva un certo dinamismo. Se si confronta il quadro di oggi con quello pre-pandemico, la distanza appare ancora importante, ma gli italiani stanno recuperando in termini partecipativi. Il volontariato è tra le attività più praticate (42%). Le tematiche ambientali, del territorio e della città hanno mobilitato un cittadino su tre (32%). Anche le azioni più esplicitamente politiche, come partecipare a manifestazioni di partito, proteste e flashmob, hanno coinvolto una componente non trascurabile di italiani (17%). Più dello scorso anno, ma un po’ meno del 2019». Ma allora: sullo stato della democrazia nel nostro Paese perché i giudizi sono sempre scettici e preoccupati? C’è una “narrazione” diffusa e assecondata che vuole lasciare in mano di alcuni (esperti? tecnici? facoltosi? potenti?) le leve del potere? Leggiamo ancora (da Democrazia e (tiepido) orgoglio nazionale di Fabio Bordignon e Alice Securo): «Nonostante tutto, la soddisfazione sul funzionamento della democrazia è cresciuta, negli ultimi anni. Per la prima volta diventa maggioranza (53%) la quota di intervistati che si esprime positivamente. (…) Analizzando i dati del rapporto, tuttavia, sembra mancare una definizione comune di cosa intendiamo, quando pensiamo alla democrazia. (…) È significativo notare come il favore per il governo tecnico cresca soprattutto fra gli under trenta. Sono gli stessi giovani a dichiararsi, in percentuale più ampia, a favore di un “leader forte”. (…) Si intiepidiscono, per contro, i sentimenti di orgoglio nazionale. Tanti gli intervistati che passano dal dirsi “molto” (44%) orgogliosi di essere italiani al più incerto “abbastanza” (39%). Il rapporto era di 65 a 29 all’ingresso nel nuovo millennio. Segno che, anche ai tempi della destra di governo, l’identità italiana non risulta ancora così solida (…) Su una cosa, però, le persone interpellate sembrano essere d’accordo: siamo un Paese dalla corruzione politica endemica, tenace. I cittadini che la percepiscono come più (o ugualmente) diffusa rispetto a Tangentopoli non sono mai scesi sotto l’80% in tutti gli anni di rilevazione»-

Conclusioni

Abbiamo, infine, lasciato da parte il giudizio relativo alla fiducia “concessa” alla istituzione Chiesa. Già non era molto alta nell’anno di rilevazione 2012, (44% per cento), non alta almeno rispetto ad altre istituzioni, scuola, presidente, forze dell’ordine; sebbene più alta di stato, magistratura e sindacati), ma in ulteriore calo del 3 per cento nel 2022. Scandali? Controversie interne? Desacralizzazione degli eventi? O cos’altro? Ci si rifletta su nell’anno del Cammino sinodale.

Ma così come occorrerebbe riflettere con più attenzione anche riguardo alle istituzioni civili. Le modalità di discussione e dibattito andrebbero affrancate da quel giudizio “comodamente” negativista che impregna spesso i nostri pensieri sul comune sentire, e adeguatamente rinforzate da una visione più fiduciosa e possibilista (seppure non scevra dallo spirito critico). Di certo faticosa e responsabilizzante, ma proprio per questo, forse, corretta e foriera di speranze attive.

Vittorio Sammarco

Internazionale e non solo

39bbdcae-c64f-42ad-866b-9a570327b12bDemocrazia, autoritarismo, neoliberismo: Bolsonaro e non solo
16-01-2023 – di Alessandra Algostino su Volerelaluna.
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L’attacco ai luoghi delle istituzioni democratiche avvenuto a Brasilia l’8 gennaio (e il suo inevitabile parallelismo con l’assalto al Congresso degli Stati Uniti il 6 gennaio 2021, per tacere del nostrano attacco alla sede della CGIL del 9 ottobre 2021), mostra il volto violento della lacerazione del Paese uscita dalle urne. Il modello Bolsonaro è tutt’altro che perdente, in Brasile, ma come non pensare anche all’Ungheria, alla Polonia, alla Svezia, all’Italia, a Israele, al trumpismo? È una macchia nera che sta dilagando. Nuovi fascismi? Non lo so, ma in ogni caso si registra un’unione avvelenata di autoritarismo e neoliberismo, ammantata da evocazioni nazionaliste e conservatrici (la triade “Dio, patria e famiglia”), utili a compattare e neutralizzare anche solo l’idea del conflitto sociale.

Il “modello Bolsonaro” suggerisce quattro brevi spunti.

Primo. Si diffonde il ricorso alla necropolitica (Mbembe, Necropolitica, Ombre corte, 2016), come politica che ha il sapore della lotta di classe al contrario. La necropolitica in Brasile si concretizza nelle politiche nei confronti dei popoli indigeni così come nella gestione del Covid-19; in Italia e in Europa riguarda in prima battuta le politiche migratorie, il genocidio dei migranti (nel Mediterraneo, nella rotta balcanica, nell’esternalizzazione delle frontiere e delocalizzazione della tortura). La necropolitica si declina anche come aparofobia, paura e odio verso i poveri: in Brasile in particolare nei confronti della popolazione nera e degli abitanti delle favelas; in Italia, per limitarsi ad un esempio, verso i percettori del reddito di cittadinanza. è necropolitica, in senso ampio, l’indifferenza alla sorte delle “vite di scarto” (Bauman), per cui – mi limito ad un esempio – si definanzia la sanità, favorendo la privatizzazione e la diseguaglianza sanitaria; ovvero, si abbandona ogni progetto di emancipazione sociale, pur prescritta, in Italia, dall’art. 3, comma 2, Costituzione. La regressione nella garanzia dei diritti sociali è, appunto, lotta di classe al contrario. Infine è necropolitica (e il Brasile di Bolsonaro ne è emblema, anche se non il solo) la devastazione ambientale, la corsa suicida al riscaldamento climatico, la distruzione della biodiversità. La necropolitica è una lotta di classe, a partire dalla considerazione che «l’oppressione etnica e razziale non è accidentalmente correlata al capitalismo, è strutturalmente integrata a esso» (Fraser), così come ogni forma di estrattivismo.

Secondo. Alla necropolitica si accompagna la colpevolizzazione dei poveri, come dei migranti, dei popoli indigeni; al più si tollera un capitalismo neoliberale compassionevole, quando non tout court un filantrocapitalismo che lucra sulla povertà (Dentico, Ricchi e buoni? Le trame oscure del filantrocapitalismo, EMI, 2020). Si allontanano così le responsabilità delle diseguaglianze e il “rischio” che esse generino rivolte, si espellono (Sassen) le classi subalterne, ovvero si negano le contraddizioni e il lato oscuro del modello neoliberista e si reprime il dissenso, arroccando la democrazia in una cittadella vieppiù autoritaria.

Terzo. In questo contesto, il nazionalismo e la triade “Dio, Patria e famiglia” (brasiliana e nostrana: si pensi all’insistenza sul termine nazione nel discorso sulla fiducia di Meloni del 25 ottobre 2022) e non solo, forniscono una copertura identitaria che riempie il vuoto, riscalda il freddo del neoliberismo con la sua competitività sfrenata e la solitudine dell’imprenditore di se stesso, fornisce una identità artificiale contro la materialità degli interessi comuni del conflitto sociale, distraendo dalle diseguaglianze e dalle loro origini.

Quattro. Il modello Bolsonaro, come accennato, unisce autoritarismo e neoliberismo. In altri termini, riprendendo Polanyi e Gramsci, ricorda l’assonanza tra il fascismo e la plutocrazia, ovvero, restando in America Latina, richiama come emblematico il golpe neoliberista di Pinochet, la sperimentazione dei Chicago Boys contro Allende. È un modello che porta al grande interrogativo della compatibilità tra capitalismo e democrazia. Il capitalismo può convivere con la democrazia, ma vive meglio in una autocrazia? o in una democrazia vuota, che mantiene il passaggio elettorale come un rito sterile? La rivoluzione passiva ci sta conducendo a un neoliberismo autoritario? Mentre la democrazia contiene in sé l’uguaglianza, il neoliberismo produce strutturalmente diseguaglianza, si fonda su sopraffazione e dominio e, creando diseguaglianze, depredando e devastando l’ambiente, ha bisogno di altra sopraffazione e dominio per garantire la propria autoconservazione. La via per invertire la rotta è sempre la stessa: radicare una alternativa, dal basso. Senza una trasformazione effettiva, profonda, consapevole, anche le vittorie sono fragili ed effimere. Affidarsi all’uomo del destino, chiunque sia, non è la soluzione: non a caso l’unione fra neoliberismo e autoritarismo è benedetta da un populismo facile preda di false suggestioni, cieco (neanche una necropolitica grossolana come quella di Bolsonaro è bastata per aprire gli occhi), Ricordiamolo, quando (cioè, ora), riforme presidenzialiste aleggiano su una democrazia già sufficientemente martoriata da una pratica quotidiana che la neutralizza.

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IN PRIMO PIANO
I paradossi della democrazia: da Teheran a Brasilia
13-01-2023 – di Domenico Gallo su Volerelaluna.

«Un giorno che tornavamo dal lavoro vedemmo tre forche drizzate sul piazzale dell’appello […]. Tre condannati incatenati, e fra loro il piccolo Pipel, l’angelo dagli occhi tristi. Le S.S. sembravano più preoccupate. Più inquiete del solito. Impiccare un ragazzo davanti a migliaia di spettatori non era un affare da poco. [...] Tutti gli occhi erano fissati sul bambino. Era livido, quasi calmo, e si mordeva le labbra. L’ombra della forca lo copriva. I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. «Viva la libertà!» gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. [...] A un cenno del capo del campo le tre seggiole vennero tolte. […] Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più. La lingua pendula, ingrossata, bluastra. Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora. […] Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi. E noi dovevamo guardarlo bene in faccia. Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti».

Le notizie delle impiccagioni che si susseguono in Iran, che derubano della vita i giovanissimi manifestanti, come il 22enne Mohammad Karami e il 20enne Mohammad Hosseini, accusati di “inimicizia contro Dio”, mi hanno fatto tornare alla mente l’episodio terribile riportato da Elie Wiesel nel libro La notte in cui rende testimonianza della sua esperienza di deportato ad Auschwitz. Mi sono chiesto quanto è durata la resistenza alla morte di questi giovani, se anch’essi sono restati a lottare fra la vita e la morte sotto gli occhi impassibili del loro boia. La crudeltà del regime iraniano, non ha niente a che invidiare rispetto a quella praticata dalle S.S. Anche nella prigione di Teheran deve essere risuonata la domanda di Auschwitz: «Dio dov’è?». La risposta è la stessa che avvertì il giovane Wiesel: «Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca».

Malgrado la brutalità della repressione operata dal regime nazi-islamico degli Ayatollah, la resistenza del popolo iraniano, che non accetta più di essere soggiogato dalla struttura autoritaria e disumana del potere teocratico, non è stata spezzata. In questa parte del mondo si lotta e si affrontano sofferenze inaudite per smantellare quelle strutture autoritarie del potere che soffocano i diritti umani e oltraggiano la dignità della persona. In altre parole è in atto una lotta, analoga alla Resistenza, per conquistare la libertà e insediare delle istituzioni democratiche.

Invece, in altre parti del mondo, dove la libertà è stata insediata e garantita da Costituzioni democratiche, in vario modo realizzate nella Storia, la democrazia viene erosa da un male oscuro, vilipesa, infamata; esplodono delle vere e proprie ribellioni popolari che aggrediscono le istituzioni e i simboli stessi della democrazia costituzionale. L’episodio più eclatante è stato l’assalto squadristico compiuto domenica scorsa dai seguaci di Bolsonaro, che hanno assaltato il Parlamento, la Corte costituzionale e il palazzo del Governo per cercare di rovesciare un governo democraticamente eletto, guidato da persone di provata fede democratica. Si è trattato di una replica della “marcia su Roma”, che non ha ottenuto l’effetto sperato perché in Brasile mancava un Re, che potesse dare una mano ai golpisti. Quello che è avvenuto in Brasile, però non è un fatto isolato, basti pensare all’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021.

Un po’ dappertutto ci sono rigurgiti di fascismo che assediano democrazie consolidate e mettono in discussione i valori fondamentali portati dalle Costituzioni e dalle carte dei diritti. Il sentimento di dispregio della democrazia è penetrato anche nel ridotto dell’Unione Europea, dove stiamo sperimentando, in Ungheria e in Polonia, un nuovo modello di “democrazia illiberale”, che rischia di essere imitato dai nuovi governi di Svezia e Italia. Il paradosso è che, mentre in alcune parti del mondo si lotta per abbassare le forche, in altre parti del mondo, dove la civiltà giuridica le ha abbassate, si lotta per ripristinarle. Dobbiamo chiederci da dove viene questo male oscuro, quali sono le sue cause profonde? Quando è cominciato questo percorso di indebolimento della democrazia e cosa lo ha generato? Forse quando abbiamo accettato l’unione incestuosa fra la democrazia e la guerra!

L’articolo è pubblicato anche su Il Fatto quotidiano del 13 gennaio con il titolo : “Le democrazie: il male oscuro”.

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La Chiesa spaccata
La Repubblica – 16 Gennaio 2023 – Blog di Enzo Bianchi.
di Enzo Bianchi
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Questi sono giorni in cui emergono in modo molto più evidente i contrasti, le conflittualità e le “guerre” all’interno della chiesa cattolica. La morte di Benedetto XVI, l’incauta rivelazione postuma di alcune delle sue parole e dei suoi sentimenti da parte del segretario particolare e lo svelamento dell’identità dell’autore del memoriale attribuito al Cardinal Pell – vero grido di allarme sulla situazione della chiesa –, sono fatti che hanno scosso e scuotono i credenti quotidiani, che non sempre comprendono la materia diventata tanto conflittuale, ma soffrono di questa situazione così nuova per “la gente cattolica”, in balìa del chiacchiericcio delle sacrestie e delle denunce fatte dai media.

L’esito – va detto – non sarà il tanto temuto e paventato “scisma” di una porzione di cattolici, perché questo non è più tempo di fondazioni, ma sarà un silenzioso abbandono della chiesa da parte di molti che si sentono frustrati, stanchi e sovente amareggiati da tante liti fraterne che si consumano con schizofrenia ipocrita: da un lato una corsa al dialogo con i non cattolici, con i credenti delle altre religioni, e si realizzano cooperazioni tra chiese mai viste nella storia del cristianesimo; dall’altro lato c’è intolleranza, non sopportazione di chi, pur cattolico, condivide la stessa fede con uno stile diverso nella liturgia o nel modo di collocarsi nel mondo. Qui la lotta, l’antagonismo sono feroci con delegittimazione reciproca e impossibilità di riconoscere la fraternità che pure ha fondamento nell’unico battesimo.

In una vita ecclesiale così attraversata da polarizzazioni c’è però una novità: gli attacchi, il rigetto, l’insulto verso il papa, attualmente Francesco. La critica al papa era già presente nella chiesa degli ultimi tempi, critica aperta almeno dal pontificato di Paolo VI e poi dei suoi successori, ma le accuse o erano morali (e a tanto si giunse con l’integro papa Montini!), o erano critiche per il governo. Con Papa Francesco invece gli attacchi sono diretti alla sua fede, viene attaccato proprio quello che è il suo carisma: confermare nella fede i fratelli, e si arriva fino alla delegittimazione e all’insulto.

Perché ci si spinge fino ad affermazioni che lo dicono papa eretico, idolatra della dea pagana Pachamama, un papa che distrugge la chiesa? C’è una sola risposta: perché papa Francesco ha osato e osa essere solo un servo del Signore, un cristiano obbediente unicamente all’Evangelo, un esperto di umanità, un uomo che non ha paura dei potenti di questo mondo! Quanto più Francesco fa apparire il Vangelo nella sua nudità tanto più scatenerà le potenze avverse contro di lui e contro la chiesa della quale è al servizio della quale è pastore e servo della comunione.

Nessuna adulazione! Anche papa Francesco, come ogni uomo, ha i suoi difetti, il suo carattere che può non piacere, il suo modo di parlare che può essere più o meno attraente, il suo modo di governare la chiesa che può essere criticato, ma per i cattolici è il successore di Pietro, è colui per il quale Gesù ha assicurato di pregare, è l’uomo fragile e limitato che va giudicato solo per come annuncia il Vangelo e presiede alla comunione plurale della chiesa. Lo sappiamo dai Vangeli: colui che è la “Pietra”, cioè il fondamento della fede, può diventare un fuscello, ma sappiamo anche che ci sarà un gallo che canterà e lo richiamerà.
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Quale Dio? Quale Cristianesimo? L’IDEA DEL “POST-TEISMO”

samaritanaQuale Dio? Quale Cristianesimo?
L’IDEA DEL “POST-TEISMO”
11 GENNAIO 2023 / EDITORE / DICONO I DISCEPOLI /
Una intensa riflessione di Enrico Peyretti in un convegno dedicato al dibattito sulle tesi del cosiddetto “post-teismo”

di Enrico Peyretti

La proposta di riflessione chiede: è possibile oltrepassare il teismo, cioè “l’idea di un Dio assolutamente separato dal mondo che interviene dall’esterno per salvarlo”. E chiede anche di andare “oltre le religioni”

Molte religioni, una sola luce

La verità dai molti raggi

tocca ciascuno

con un raggio appena.

Io sarò fedele

a questo mio

che sia piccolo o grande.

Se invidiassi il tuo raggio

e lasciassi questo

forse cadrei nel buio.

Solamente salendo

sulla scala di luce

nella mia verità

incontrerò la tua.

Vedi quanta pace

con milioni di raggi

stende il sole sul prato

e nessun fiore offende l’altro.

Luca Sassetti (26 marzo 1992) (dal mensile il foglio, n. 190, maggio 1992)

1 – Anche Maradona!

C’è un vero bisogno di superare il teismo! È bene, è interessante, che ogni immagine di Dio sia sempre da superare, correggere, affinare. Dio non è mai un oggetto circoscrivibile da una teologia conclusa . È realtà grande.

Il teismo pensa un dio magico, onnipotente, separato dal mondo, padrone, giudice arbitrario, facile modello dei tiranni, che vuole salvarci da fuori di noi. Il Dio della legge, del premio e della pena. Nel Dies irae era detto Rex tremendae maiestatis. Un Dio Terrore, non Amore. Non ci fa felici. Ci facciamo continuamente idoli falsi: anche Maradona era detto “dios”. Se ci svegliamo, ce ne liberiamo.

Tra i tanti profili di Dio, netti o sfumati, c’è una proposta, onesta e chiara, nel cuore del vangelo arrivatoci da Gesù di Nazareth: «Dio nessuno l’ha mai visto» (2 volte nel NT, Bibbia cristiana). Il vangelo parte dall’ignoranza nostra su Dio, dalla necessità di rompere l’immagine dominante, e di rivedere continuamente la sua immagine, perché sia più vera.

2 – Il più forte post-teista

«Dio nessuno l’ha mai visto». Significa due cose, nel vangelo:

1) – Giovanni 1,8 : Gesù ha “spiegato” Dio, (έξηγήϭατο), lo ha presentato, nella propria persona; Gesù è in relazione viva, filiale, intima, con Dio, è animato in pienezza dal suo Spirito. Dio si manifesta nell’uomo Gesù, in lui si è fatto carne umana. Dio è umano in Gesù .

2) – Prima lettera di Giovanni 4,12 . Nessuno ha mai visto Dio, ma se ci amiamo tra noi, è qui, lo sperimentiamo presente, è realtà vivente, ben oltre i concetti.

Gesù è persona umana, e manifesta, in sé, un Dio umano e personale. Il Dio di Gesù è solidale con noi, è persona co-vivente, amico, spirito animatore intimo di libertà, presente nelle relazioni di amore e giustizia, stimolatore e sostegno di continua ripresa nella via del bene. A me sembra chiaro: Gesù è il più forte e chiaro post-teista.

3 – In spirito e verità

Io sento questo da Gesù: Dio è umano. Qualcuno dice di no, che sarebbe troppo umano. L’abbiamo fatto troppo umano?

È giusto correggere l’immagine metafisica di Dio, ben comoda alle religioni padronali. La riportiamo all’umano vicino, come fa Gesù anche nel dialogo molto trasparente con la Samaritana.

A questa donna Gesù si rivela in modo privilegiato, e le dice che la relazione con Dio non è nel tempio sacro, ma è “in spirito e verità”, cioè 1) è relazione intima e alta, vicina ed essenziale, nello spirito, e 2) è relazione orizzontale, umana, nel quotidiano della vita giusta tra fratelli e sorelle umani.

Anche la scienza della natura e le scienze umane ci sollecitano a ripensare la vecchia immagine e il vecchio rapporto con Dio. Arrivano risposte che io accolgo col punto interrogativo: Dio è una energia? È come la forza di gravità e il risveglio della primavera? E’ un fenomeno nella natura? È la natura stessa nella sua mirabile vitalità?

Oppure: Dio è soltanto una parte di noi? La parte profonda di noi?

Credo invece che Dio è un Tu, Altro ma Intimo a noi. Va bene rifiutare l’immagine di un essere lontano, strapotente e irraggiungibile, ma Dio non può essere dissolto nella nostra psicologia: è un Tu, di fronte. Le parole più essenziali del messaggio di Gesù «sentiamo che entrano in sintonia profonda col nostro essere, ma intuiamo che vengono da altrove, e proprio per questo sono grazia, dono, da accogliere con stupore e gratitudine, e da far fiorire» (Emanuela Buccioni, Rocca, 1 marzo 2022, p. 15). L’immagine intollerabile di Dio è superata dalla rivelazione di Gesù, ma non ridotta a una parte di noi: Dio è vita grande, assolutamente nuova, altra, e nello stesso tempo presenza intima. È Altro, e Intimo. Dio grandezza buona e vicinanza intima.

Certo, l’immagine più vera non è un nostro possesso imperdibile. Se scaccio il vecchio Dio tremendo posso poi trovarmi davanti altre maschere di Dio: il sistema che mi include e mi detta i miti illusori, di una breve stagione; figure umane potenti, anche religiose, anche di noi stessi che coprono l’orizzonte ed esigono omaggio; il nostro potere sulle forze naturali, illusi di farle nostre. Gesù continua ad operare come vero post-teista anche di questi dèi.

4 – Vita-che-dà-vita

In questa ricerca stimolante incontro una difficoltà: si pensa Dio non-persona. Dio non sarebbe personale. Cosa significa? Pensarlo come persona sarebbe farlo troppo umano, su modello nostro? Ma se non è persona, come può essere relazione?

Nel vangelo di Gesù, Dio è Amore, effusione di vita, di bene, di resistenza, di crescita evolutiva. Se lo riconosciamo così, Dio è persona cosciente di sé, non è un fenomeno che accade e non riflette, che non sa nulla di sé, che non è cosciente. Pensare Dio come fenomeno, energia cosmica, è panteismo, è cosmologia, non è né religione né fede. La fede è relazione intima, di fiducia, di affidamento, di comunicazione. Ma una relazione avviene solo come scambio tra coscienze e volontà personali.

La fede cristiana è “oltre le religioni”, perché non è culto, non è debito, non è dottrina, ma comunione di vita. Dio lo conosciamo ad immagine nostra perché siamo noi immagine di lui. Lo pensiamo a nostra immagine, perché Dio ha pensato noi a immagine sua. Perciò la guerra è “sacrilegio” (dice papa Francesco), perché la violazione dell’uomo è violazione di Dio. È qui il massimo fondamento della dignità della persona umana.

Poi noi pecchiamo facendo Dio strumento nostro, l’immagine peggiore di noi: dominio delle coscienze, «fondamento dei troni» (Ernst Bloch), cappellano militare degli eserciti. Dio ci è così familiare che lo usiamo, lo offendiamo, lo perdiamo. Se fosse “tutt’altro” non riusciremmo ad offenderlo: l’Atto Puro di Aristotele non si occupa di noi e a noi non interessa: è solo scritto in un trattato di metafisica, non ha relazione con noi. Divenendo umano, Dio si mette nelle nostre mani, a rischio, ma anche è sempre altro, imprendibile. Lo inchiodiamo dentro i nostri sistemi, ma la sua vita non si fissa come vogliamo noi. È vita-che-dà-vita, e non è ingoiata e tutta contenuta nella nostra vita. Dio somiglia a noi perché noi somigliamo a lui. Gesù, mi dico di nuovo, è il più grande post-teista.

5 – Facciamo una civiltà dell’ascolto

Conosciamo Dio nella relazione, non nell’essenza. Se è da intendere alla lettera che «noi siamo soli», come ho sentito qui, Dio non c’è per noi, né in una immagine né nell’altra, tanto meno con una presenza. Non ci sarebbe nulla da cui andare “post”. Dio sarebbe un’idea regolativa, un’immagine mentale, mutevole come ci piace, appunto non una persona, non una realtà. Allora il post-teismo così inteso sarebbe una forma gentile, non aggressiva, non apodittica, di a-teismo: «siamo soli».

Proviamo ad ascoltare; facciamo una civiltà dell’ascolto. Facciamo prima il silenzio che sgombra la mente dai rumori, ma poi esercitiamo l’ascolto: ascolto reciproco, e ascolto universale. La Bibbia è una richiesta di ascolto: «shemà Israel» (Deuteronomio 4). Ogni altro suggerimento di significato è una richiesta di ascolto.

I poeti ascoltano. Capiscono e dicono ciò che ascoltano. Solo i distratti, occupatissimi da troppe cose, non ascoltano, non sono poeti. Anche chi ha già definito tutto, non ascolta. Qualcuno attento ad ascoltare, si accorge, in qualche esperienza, che altri ascolta: «Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze» (Esodo 3, 7-10). Osserva, ascolta, conosce. Si rivela agli schiavi uno che sa vedere, ascoltare, conoscere. Ci accorgiamo che possiamo essere in una storia di liberazione.

Ci arrivano storie lontane nelle quali riconosciamo i nostri sentimenti. Qualcuno palpitava come me. Certo, uomini e donne come noi. Ma non solo. Trovo possibilità di vita che sono nascoste in me, che ho dimenticato, qui c’è un vento che le risveglia. Qualcuno ha i nostri sentimenti: forse li abbiamo noi appresi da lui, quando eravamo senza sentimenti?

6 – Senza confini

Questo programma di ricerca dice anche “Oltre le religioni”. Perché abbiamo bisogno di scappare? Ci fanno tanto male? A me ha fatto molto più male la politica-guerra, l’antropologia machiavellica-hobbesiana, l’uomo nemico dell’uomo, e noi destinati ad ucciderci, la scienza a servizio dei padroni: questo mi fa più male delle religioni, perché, se è vero che le religioni ci compattano troppo, l’antropologia bellica ci separa e ci oppone radicalmente, sotto il divino potere dell’uccidere, che regna e decide. Questo sì che è un legame-religione disperante e condannante, trascendente-incombente.

A me, invece, la religione di cielo e terra, di Dio e umanità, ha detto: c’è respiro. Ho ascoltato Gandhi: «vedo che in mezzo alla morte persiste la vita, in mezzo alla menzogna persiste la verità, in mezzo alle tenebre persiste la luce». Perciò, dice Gandhi: «…vi è una forza vivente, immutabile, che tiene tutto assieme, crea, dissolve e ricrea. Questa forza o spirito informatore è Dio (…). E questa forza la vedo esclusivamente benevola», perché in mezzo al male persiste il bene. (Gandhi, Antiche come le montagne, Edizioni di Comunità, Milano 1965, p. 100). Il bene è più del male: confido e vedo.

Poi ho ascoltato Aulo Gellio (Roma, 125 circa – 180 circa): «Religiosus esse nefas, religentes oportet» (Noctes Atticae). Cioè, è cosa nefasta essere religioso, legato; bisogna essere di quelli che collegano. Vedo le religioni come collegamenti, reti di comunicazioni, anche con dei nodi troppo stretti, ma anche con dei flussi aperti da cui arriva e parte aria, respiro, libera comunanza. La religione può essere vissuta come libertà, come incontro amicale, e le religioni insieme come civiltà inter-culturale, mega-spiritualità. Fanno difficoltà le dottrine troppo definite, che arrancano dietro la luce, come per ingabbiarla in definizioni.

In Michele Do, in David Turoldo, in Benedetto Calati, in Adriana Zarri “religione” suonava “amicizia”, e voleva dire mistero-meraviglia del seme che cresce nella zolla oscura: lo stesso che accade in te, in me. Con questi amici la religione faceva bene, dava uno spazio totale e vicino. Lo capivano dei non-religiosi come Rossana Rossanda, come Pietro Ingrao. La religione è amicizia, rete di amicizie. Ma può essere anche mania di superstiziosi impauriti. Dipende da cosa incontri, da cosa puoi ascoltare.

Prima di questa amicizia, la religione, nel senso negativo, mi ha anche tormentato, ma io sono stato più furbo e libero: ha preso lo spirito buono, ho scosso via le catene, ho trovato fratelli a tutte le latitudini umane in questo respiro.

Una religione unica, totalitaria? No! ho trovato maestri Simone Weil, Pier Cesare Bori (quacchero e cattolico), Raimon Panikkar (cristiano e buddhista), Gandhi («Dio è anche pane e burro per chi ha fame»), ho trovato cattolici come Arturo Paoli, che dice: «opporre religione vera e religioni false è una dichiarazione di guerra!». Come non voglio la guerra che ammazza, non voglio la religione che esclude. Quella che dichiara guerra non è la mia religione. Si può bene scegliere, no?

Ho ascoltato Bibbia, Corano, Talmud, Buddha, Confucio, Seneca… Non da studioso specializzato, ma da una persona che vive. Il vangelo mi parla più di tutti. Parla la lingua che aspettavo. La poesia è religione e la religione è poesia. Siamo tutti poeti, se ci liberiamo.

La religione è libertà; oltre la necessità dell’aria e del pane, comincia la libertà: ammiro la natura, cerco la fonte di bellezza e pace, cerco alimento allo spirito, che non debba disperare, morire, e peggio uccidere per saziarsi.

Le religioni siano modeste e serene, non si vantino del loro sapere, di essere “vicari di Dio in terra”, di chiudere Dio nei loro templi e ricordino quel che disse Gesù alla Samaritana (Giovanni 4), fatta degna della più alta confidenza, assai più che a teologi e sacerdoti.

E con i dogmi, come la mettiamo? Sono momenti, chiarezze viste. Troppo irrigidite? Va bene, andiamo avanti. Tutto cammina, camminiamo. Senza rinunciare. Scriveva a Gandhi sorella Maria di Campello: «Io sono creatura selvatica e libera in Cristo, e voglio con Lui, con te, con voi, con ogni fratello cercatore di Dio, camminare per i sentieri della verità» (24 agosto 1928). La sua è una chiesa “senza confini”: «Io sono riconoscente e in venerazione per la Chiesa della mia nascita e della mia famiglia, ma la chiesa del mio cuore è l’invisibile chiesa che sale alle stelle. Che non è divisa da diversità di culti, ma è formata da tutti i cercatori della verità» (11 luglio 1932).

7 – Sono riconoscente

Per concludere, la mia perplessità sul post-teismo è, modestamente, questa: se perdiamo in Dio il carattere personale, di un Tu vivo, con cui abbiamo relazione di conoscenza, simpatia (sentire-soffrire insieme), dialogo, ascolto ed espressione, perdiamo semplicemente Dio, tutto Dio. C’è un ateismo serio, che dobbiamo rispettare e stimare. Un ateismo di ritorno, riduttivo, è troppo poco. Se Dio è solo una energia, una forza, io che sono appena «un vapore» (Pascal, 347) sono più di lui, perché ho coscienza di persona: so di essere.

Ascolto la storia delle sapienze umane: parlano la nostra lingua, le sapienze ascoltano, non creano, ma raccolgono la voce delle cose perché le ascoltano. Confucio dice: «Io trasmetto, non creo». Tutto in noi è ricevuto. Io sono riconoscente.

Enrico Peyretti
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https://www.famigliacristiana.it/blogpost/domenica-21-febbraio—ii-domenica-di-quaresima-della-samaritana.aspx

Che succede? Nel Mondo e nella Chiesa.

c3dem_banner_04IL RUOLO DELLE DEMOCRAZIE NEL DISORDINE MONDIALE
9 Gennaio 2023 su C3dem
Mykhaylo Podolyak, “Fate presto, le forniture servono per salvarci dai russi” (intervista a Repubblica). Antonio Tajani, “Da Mosca nessuna apertura. Dialoghi in corso con la Francia sullo scudo aereo all’Ucraina” (intervista al Corriere della sera). Marco Imarisio, “Negoziati o guerra totale. Il dilemma di uno Zar sempre più solo e confuso” (Corriere della sera). Guido Olimpio, “Polonia e Finlandia pronte al ‘salto’: carri armati pesanti per la difesa dell’Ucraina” (Corriere della sera). Gianluca De Feo, “Il dilemma dei militari italiani: se le armi hi-tech vanno a Kiev il rischio è restare indifesi” (Repubblica). Matteo Zuppi, “Non ci si può abituare alla guerra. Il riarmo? Non sai mai dove porta” (intervista a Il Fatto). Marco Rovelli, “Quel grido di pace da Verona” (Corriere della sera). MONDO: Stefano Stefanini, “Il virus del trumpismo non è finito e contagia i Paesi più deboli” (La Stampa). Maurizio Molinari, “E’ l’Adriatico il segreto dell’Europa” (recensione libro di R. Kaplan – Repubblica). Robert Kagan, “Difendere il mondo libero” (Foglio). Niall Ferguson, “Terza guerra mondiale?” (Foglio). Sergio Fabbrini, “Il ruolo delle democrazie nel disordine mondiale” (Sole 24 ore). Giorgio Barba Navaretti, “Dalla globalizzazione non si torna indietro, ma servono regole comuni” (Repubblica). Mauro Calise, “Stati (dis)uniti, ma la corda non si spezza” (Mattino). Fabiana Magrì, “Iran. Senza difesa al patibolo” (La Stampa). Dacia Maraini, “La libertà vince se siamo tutti uniti” (intervista a La Stampa). Lucia Capuzzi, “Il triplete di Lula, enorme sfida nel Brasile diseguale” (Avvenire). Andrea Bonanni, “Il 2023 dirà chi vince tra interesse nazionale e interesse europeo” (Repubblica).

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L’ITALIA, LO SPIRITO REPUBBLICANO, IL SENSO DEL LIMITE
9 Gennaio 2023 su C3dem
Ezio Mauro guarda dentro la società italiana e chiede a Meloni che prenda le distanze da alcuni disvalori della sua cultura politica: “Che cosa rimane della religione repubblicana?” (Repubblica). GOVERNO: Claudio Cerasa, “Avere il senso del limite è la forza della destra italiana a guida Meloni” (Foglio). Maurizio Ferrera, “Noi e l’Unione europea: l’intesa possibile sui migranti” (Corriere della sera). Alessandro Campi, “Le nomine di vertice e l’interesse del Paese” (Messaggero). Gaetano Quagliariello, “Il modello semipresidenziale francese può essere un antidoto al populismo” (Qn). Marco Tarchi, “Il Covid l’ha messo all’angolo, ma il populismo ritornerà” (intervista a La Verità). Innocenzo Cipolletta, “L’imbroglio dell’autonomia che dà troppi poteri a Regioni inutili” (Domani). Gianfranco Pasquino, “La sanità è al collasso e adesso l’autonomia minaccia l’istruzione” (intervista al Fatto). Alessandro Cavalli, “Lo stato della scuola” (rivista il mulino). Fondazione Rocca, “Scuola: i numeri da cambiare” . PARTITO DEMOCRATICO: Norberto Dimore e Michele Salvati, “Non facciamo tavola rasa del Partito democratico” (libertà eguale). Enzo Bianco, “Il vero Pd riparta dalle città non dalle correnti” (Repubblica). Massimo Cacciari, “Il congresso Pd è il nulla. Meloni cos’ governerà a lungo” (intervista al Fatto). Mario Giro, “La sinistra deve provare a ritrovare l’unità profonda della società” (Domani).

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LO STALLO DELLA SOCIETA’ ITALIANA
8 Gennaio 2023 su C3dem
Sabino Cassese, “Italia, tre ragioni di uno stallo” (Corriere della sera). Gaetano Quagliariello, “Sulla nostra politica ancora bonaccia. Cambio in vista con le ellezioni regionali” (Gazzetta del Mezzogiorno). PARTITO DEMOCRATICO: Maurizio Molinari, “Diritti e sicurezza per rinnovare il campo progressista” (Repubblica). Gianni Cuperlo, “Basta renzismo. Il Pd va rifondato. I gazebo esercizio di democrazia” (intervista a La Stampa). Stefano Bonaccini, “Lontano da Roma” (intervista all’Espresso). Elly Schlein, “Non sono un’aliena” (intervista all’Espresso). GOVERNO: Stefano Ceccanti, “La riforma alla francese non serve. Partiamo dalla sfiducia costruttiva” (intervista a Qn). Carlo Calenda, “Riforme, sì al dialogo, ma le vere emergenze sono scuola e sanità” (intervista a Qn). Franco Bassanini, “Spoil system, un diritto del governo. Più che il machete serve prudenza” (intervista a La Stampa). Gianni Trovati, “L’autonomia prova a ripartire 1.904 giorni dopo il referendum” (Sole 24 ore). Roberto Napoletano, “La farsa dell’autonomia differenziata” (Il Quotidiano). Franco Monaco, “Prepotenza e impotenza, le bussole del governo” (Il Fatto). Alessandra Ziniti, “Migranti dirottati sul Pd” (Repubblica). Veronica De Romanis, “Bce e inflazione, parole in libertà” (La Stampa) Romano Prodi, “Inflazione. La Bancca centrale europea e la politica alla giornata” (Messaggero).

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RUSSIA-UCRAINA, UN NEGOZIATO CHE APPARE IMPOSSIBILE
7 Gennaio 2023 su C3dem
Anne Applebaum, “Dobbiamo immaginarci una vittoria ucraina. Sarà la fine di Putin” (intervista al Corriere della sera). Marta Dassù, “Il negoziato impossibile” (Repubblica). Michael Ignatieff, sulla proposta di tregua di Putin ieri, “Solo uno stratagemma. Lo Zar usa la religione con una logica imperiale” (intervista al Corriere della sera). Wesley Clark, “E’ un imbroglio tattico. Mosca sta perdendo dul terreno. Rifiutarlo è la risposta giusta” (intervista a Repubblica). Gianluca De Feo, “Il timore delle cancellerie: dopo la nuova offensiva la Russia si sgretolerà” (Repubblica). Bernard-Henri Levy, “Sogno e spero una terza rivoluzione russa che scacci i demoni” (Corriere della sera). Stefano Folli, “Lo slogan russo che spiega bene la guerra ucraina” (Robinson). Domenico Quirico, “Non c’è tregua nella quarta guerra mondiale” (La Stampa). MONDO: Stefano Cingolani, “Protagonisti e retroscena del nuovo miracolo americano” (Foglio). Siegmund Ginzberg, “Cina, l’impero delle bugie” (Foglio). Marco Valzania, “Migranti. Biden rafforza i confini, ma offre 30mila ingressi legali al mese” (Sole 24 ore).

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LA FEBBRE DEL PD. I FRONTI APERTI DI MELONI
7 Gennaio 2023 su C3dem
Elena Lowenthal, “Said annegato a 8 mesi. L’angelo di Lampedusa” (La Stampa). Pd: Enrico Morando, “Abbiamo la vocazione del grande partito. Il Pd abbandoni le coalizioni ‘contro’” (Repubblica). Leoluca Orlando, “Il Mezzogiorno misura la febbre del Pd: o il partito cambia subito o dovrà scomparire” (Domani). Pino Pisicchio, “Giovani e riforme, le questioni aperte per i nuovi dem” (Repubblica). Emilia Patta, “Regionali, test tra Pd e M5S con vista sul Congresso” (Sole 24 ore). Marcello Sorgi, “L’ennesima divisione della sinistra” (La Stampa). Adriana Lagroscino, “Primarie. Il voto online spacca i dem” (Corriere della sera). Nadia Urbinati, “Troppe lotte interne, anche il prossimo segretario sarà un’anitra zoppa” (intervista a Il Riformista). GOVERNO/ECONOMIA: Francesco Verderami, “Tutti i fronti aperti di Meloni” (Corriere della sera). Carlo Bastasin, “L’inflazione sfida il governo” (Repubblica). Pietro Garibaldi, “I sacrifici da affrontare dopo la superinflazione” (La Stampa). Nathalie Tocci, “Meloni e l’Europa, la via obbligata” (La Stampa). GOVERNO/SPOIL SYSTEM: Federico Fubini, “Nomine. Via allo spoil system anche nella squadra del Pnrr. Il negoziato con Bruxelles” (Corriere della sera). Guido Crosetto, “Il governo ha diritto di scegliere chi nominare” (intervista al Corriere della sera). Giambattista Fazzolari, “Spoil system, gli elettori vogliono che il Paese cambi” (intervista al Corriere della sera). Sabino Cassese, “Il ricorso allo spoil system tradisce merito e imparzialità” (intervista a Repubblica). GOVERNO/AUTONOMIE: Giovanna De Minico, “Perché il ddl Calderoli supera il confine della legittimità costituzionale” (Sole 24 ore). Gianpaolo Manzella, “La lezione Usa e l’impegno per i territori” (Messaggero). Giulia Merlo, “L’autonomia è una spina nel fianco del Pd” (Domani). Gianluca De Rosa, “‘Caro Pd, l’autonomia differenziata è di sinistra. Parla Giani” (Foglio). GOVERNO/VARIE: Giovanni Guzzetta, “Ma il decreto sicurezza non è incostituzionale, l’obiettivo è coordinare i salvataggi” (intervista a La Stampa). Rita Bernardini, “Meno carcere più diritti. Un altro anno dalla parte di Caino” (Il Riformista). Filippo Bianchi, “Il negazionismo climatico dietro alla reazione alla vernice sul Senato” Domani). Luigi Manconi, “Quella vernice spray che copre il vuoto dell’ambientalismo in salsa italiana” (Repubblica). P. Becchi e G. Palma, “Giustizia e presidenzialismo, due sfide per Meloni” (articolo della rivista di destra ‘Nazione futura’).

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L’INFERNO AL FRONTE DEI SOLDATI RUSSI. SCENARI 2023
5 Gennaio 2023 su C3dem
Bernard Guetta, “Il 2023 potrebbe essere l’anno più pericoloso del dopoguerra, ma le democrazie hanno una chance” (Repubblica). Maurizio Molinari, “C’è una luce oltre la collina”(Repubblica). UCRAINA/RUSSIA: Guido Olimpio, “I comandi dello Zar sotto tiro. Kiev colpisce e attende la reazione della Russia” e “Ucraina, i tre assi attuali del conflitto” (Corriere della sera). Marta Ottaviani, “Putin vuole Backhmut per coprire le sconfitte, ma i russi non sfondano. Un’inutile strage” (Qn). Luciano Capone, “Putin pensa a una nuova mobilitazione, ma mobilitare costa” (Foglio). Cecilia Sala, “La prevedibilità dei soldati russi rende la loro vita al fronte un inferno” (Foglio). Adriano Sofri, “Il fattore umano, invisibile all’occhio, che fa la differenza a Kiev” (Foglio). Anna Zafesova, “Dialogo a salve” (la Stampa). Stefano Stefanini, “Putin, Xi, Zelensky e la pace difficile” (La Stampa). Lorenzo Prezzi, “Cirillo prigioniero dell’ideologia della guerra” (settimana news), USA: Paolo Mastrolilli, “Camera ostaggio dei trumpiani” (Repubblica). Alan Friedman, “Così la destra di Trump dilania i Republican”(La Stampa). MONDO : Fabrizio Onida, “Era globale finita? Una notizia esagerata” (Sole 24 ore). Ezio Mauro, “Il bilancio dell’Unione è una scommessa” (Repubblica). Romano Prodi, “Il futuro del Paese nello scenario che cambia” (Messaggero). Marco Ludovico, “La Svezia avverte: nessun patto sui migranti nel 2023” (Sole 24 ore). Cecilia Sala, “Ansia di guerra in Iran” (Foglio). Riccardo Cristiano, “L’Occidente e l’Iran” (settimana news). Gianni Oliva, “Croazia nell’euro. Una riconciliazione contro i torti della storia” (La Stampa). Bill Emmott, “Scioperi e salari bassi, il lungo inverno inglese” (La Stampa). Maurizio Stefanini, “Lula s’insedia in Brasile con un governo equilibrista” (Foglio).

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MATTARELLA E L’EREDITÀ DI SASSOLI. COME DARE PIÙ STABILITÀ AL GOVERNO
5 Gennaio 2023 su C3dem
Claudio Cerasa, “Mattarella ricorda ai pavidi (e ai cattolici silenti) i nostri valori” e “Difendere la pace, la giustizia e i diritti: Mattarella ratzingeriano” (Foglio). Claudio Tito, “Sassoli e la nuova Europa” (Repubblica). Lina Palmerini, “Mattarella e il ricordo di Sassoli: ‘La Ue non torni indietro sulle sue sfide’” (Sole 24 ore). David Sassoli, “L’Europa deve tessere la trama della pace” (dal libro dei suoi discorsi europei). GOVERNO/RIFORME ISTITUZIONALI: Francesco Clementi, “Alla ricerca di stabilità. Sul tavolo quattro sistemi di governo” (Sole 24 ore). Paolo Pombeni, “Il dibattito politico sulla riforma costituzionale” (Il Quotidiano). Carlo Fusi, “Presidenzialismo? Maneggiare con (molta) cura” (La Ragione). Giovanni Guzzetta, “Sorpreso dai no della sinistra. Serve un presidenzialismo alla francese” (intervista Il Giornale). Marcello Sorgi, “Giorgia e l’incognita della Bicamerale” (La Stampa). Pier Francesco De Robertis, “Sulle riforme il Pd rischia l’isolamento” (Qn). GOVERNO/AUTONOMIE REGIONALI: Alessandro Di Matteo, “Autonomia, crepe nel governo” (La Stampa). Roberto Calderoli, “Ecco perché l’autonomia non spacca in due l’Italia” (intervista al Corriere della sera). Giovanni Orsina, “Il debito è un problema. Sull’autonomia si parli con le opposizioni” (intervista a Il Dubbio). Ermes Antonucci, “L’autonomia differenziata tra falsi miti e pericoli. Parla Cottarelli” (Foglio).

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LE MINE (E LA SCOPA) DI MELONI
5 Gennaio 2023 su C3dem
Stefano Folli, “Governo Meloni e la Ue, la sindrome dell’assedio” (Repubblica). Claudio Cerasa, “Tre quiz antisovranisti per Meloni” (Foglio). Roberto Napoletano, “Liberare Meloni dai feticci ideologici” (Il Quotidiano). Nicola Rossi, “Il rapporto della destra con la Bce è una questione di identità” (Foglio). Walter Galbiati, “Criticare non delegittimare” (Repubblica). Emilia Patta, “Riforme, alleati e Colle: le mine per Meloni” (Sole 24 ore). Alessandra Ziniti, “Schiaffo a Meloni dalla Svezia sovranista” (Repubblica). NOMINE: Federico Fubini, “Ministeri e agenzie statali: ondata di cambi ai vertici” (Corriere della sera). Simone Canettieri, “Mef, Aifa, terremoto: il gioco delle nomine e la scopa di Meloni” (Foglio). ECONOMIA: Lucrezia Reichlin, “L’economia sta reggendo e il disavanzo è ancora gestibile” (intervista a Repubblica). Leonardo Becchetti, “Transizione anti inflazione” (Avvenire). Veronica De Romanis, “E’ finito il tempo della spesa facile” (La Stampa). Francesco Giavazzi, “Un’idea di debito europeo” (Corriere della sera). Chiara Saraceno, “La povertà e i limiti del nuovo reddito” (La Stampa). PD: Anna Maria Furlan, “Il Pd archivi le correnti e conservi le radici” (intervista ad Avvenire). IDEE: Angelo Panebianco, “Diverso parere. A proposito del neoliberismo” (rivista il mulino).
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“Si continua sempre a parlare di chiesa…”
di Enzo Bianchi, dal suo blog.
Siamo in molti a interrogarci sul futuro della fede cristiana in quest’epoca di crisi profonda e alcuni di noi tentano con grande umiltà e senza pretese di intravvedere cammini per un rinnovamento e una ripresa del cristianesimo, soprattutto nell’occidente europeo.

Facilissimo per ora ricercare le cause e le responsabilità di tale situazione, individuate in diversi mali ecclesiali dei quali la mia generazione è stata testimone: mi riferisco agli scandali finanziari, agli scandali della pedofilia, allo stile clericale che continua a essere presente nella chiesa. E poi certamente vengono sempre citate le condizioni storiche esterne che hanno portato a questo tramonto… Ma io credo che sia necessario scavare più a fondo, interrogarci sul nostro modo di vivere la fede cristiana se vogliamo comprendere maggiormente la crisi e imboccare delle strade per superarla.

Da decenni, mentre nella vita ecclesiale si sceglie di meditare sull’evangelizzazione (o “nuova evangelizzazione”) da mettere in atto, io continuo a dire che ciò che rimane più urgente è salvaguardare il primato, l’egemonia della Parola di Dio nella vita ecclesiale. Questa operazione di conversione e sottomissione al Vangelo non è stata ancora attuata in modo adeguato nella vita della chiesa. E il Vangelo è la Parola! E Gesù Cristo è il Vangelo! Questa deve essere la certezza rocciosa su cui vivere la vita cristiana che è nient’altro che sequela del Signore fino alla morte di croce.

Perché ciò avvenga, l’abbiamo detto e scritto più volte, occorre però volgere lo sguardo a lui, il Signore, senza distoglierlo, e non concentrarlo solo sulla chiesa. Perché a me pare che molto, se non tutto, dal concilio in poi resti, appaia ordinato alla chiesa. La chiesa è costantemente oggetto di attenzione e di ogni discorso, chiesa che certamente è segno del Regno veniente e del Regno già presente tra di noi in aenigmate, ma non può pretendere di porsi come il grande esempio per il mondo, il luogo dal quale provengono solo moniti e insegnamenti all’umanità.

C’è qualcosa che non persuade in questa persistente attenzione, che a volte sfocia in un’esaltazione della chiesa.

La chiesa è segno, non è il fine, e non può far nulla a proprio vantaggio perché è solo portatrice di un disegno non suo che è tenuta ad assecondare. Abbiamo bisogno di una chiesa umile, che non cerchi di apparire, che non si affanni a creare eventi per attestare che lei c’è ed è viva, che non chieda costantemente di essere riconosciuta in autorevolezza tra gli esseri umani.

Altrimenti non saprà sottrarsi alla tentazione di essere Domina nella storia umana, e smentirà una santità che possiede in abscondito per presentare al mondo il volto di una chiesa meritoria.

Certamente una chiesa del genere oscura il volto di Gesù Cristo per mostrare il proprio volto; non invita a guardare a lui, il Signore, ma attira l’attenzione su ciò che lei opera; non annuncia più il Vangelo che è Cristo Gesù, ma finisce per presentare se stessa, la propria immagine che si vuole senza peccati, per ottenere riconoscimenti dagli altri!

Per quel che mi è dato di osservare è proprio questo ciò che non permette alla fede cristiana di dilatarsi, ciò che oggi rende sterile la missione, con l’eccezione di quando, raramente, succede di suscitare l’adesione di persone devote e pie, militanti perché convinte di trovare gratificazione.

Meno attenzione alla chiesa, più attenzione a Gesù Cristo il Signore!
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Ratzinger, Papa della parola
Gli incontri nei giardini vaticani anche dopo le dimissioni, gli scontri e il rispetto reciproco per un pontefice che guardò alla Chiesa più che a se stesso

La Repubblica – 02 Gennaio 2023
di Enzo Bianchi
[segue]

L’anno che verrà

c6698b66-2582-4fbb-8476-1022c7ebc08eL’anno che verrà non si presenta sotto i migliori auspici.
Tuttavia se il barometro del tempo politico volge a tempesta, non è questo il momento di abbandonarsi allo sconforto. Al contrario è proprio nelle situazioni più disperate che nei popoli può venire fuori un’energia insospettata.

di Domenico Gallo

L’avvento dell’anno nuovo generalmente viene accompagnato da un’aspettativa esistenziale che ogni anno si ripete. Ai piedi dell’anno che verrà si depongono tutte le illusioni, le amarezze ed i dolori che ci hanno accompagnato nell’anno appena trascorso col desiderio di sbarazzarcene ed iniziare una nuova vita sotto il segno della speranza.
Quest’anno è difficile ripetere i soliti riti propiziatori perché all’orizzonte infuria una tempesta che non accenna a placarsi. Il 2002, con nostro grande stupore, ha visto ritornare la guerra in Europa. Dalla fine della seconda guerra mondiale (esclusa la parentesi dei Balcani) la guerra non aveva fatto più capolino in Europa. Dopo 77 anni è ritornata con grande fragore di armi e squilli di tromba.
All’alba del 2023, dopo 10 mesi di combattimenti ininterrotti, non se ne intravede la fine dato che entrambi i contendenti sono determinati a combattersi fino alla “vittoria”.
Anche gli altri scenari internazionali sono oscuri e grondano di sangue. Così la Turchia può permettersi impunemente di bombardare la popolazione curda del Rojava, mentre in Iran prosegue il martirio del popolo iraniano, esposto alla repressione più crudele da parte di un regime intenzionato a reprimere le proteste “senza pietà”, come ha dichiarato il Presidente Ebrahim Raisi.
Nei Balcani la ferita sempre aperta provocata dalla separazione manu militari del Kosovo dalla Serbia, grazie all’intervento della NATO, sta provocando rinnovate tensioni sul fronte della tutela della minoranza serba, oggetto di minacce e discriminazioni.
In Israele l’insediamento del nuovo governo Netanyahu, ostaggio della destra religiosa per la presenza dei suoi esponenti più estremisti come Itamar Ben Gvir (alla Pubblica sicurezza) e Bezalel Smotrich (alle Finanze), lascia presagire un incremento della violenza e dei trattamenti disumani nei confronti della popolazione palestinese. Inoltre il nuovo Governo punta a limitare i poteri dei giudici e la libertà di espressione, perché vorrebbe fare della religione sempre di più il fondamento dello Stato.
Sul fronte interno l’orizzonte non è meno cupo. Con l’avvento del nuovo governo quelle forze politiche che hanno vissuto la Costituzione come l’esito di una loro sconfitta storica, adesso hanno la possibilità di prendersi la rivincita e demolire i tratti distintivi della democrazia repubblicana.
L’attacco si muove su tre fronti: “presidenzialismo”, “riforma della giustizia” e “autonomia differenziata”. Con l’introduzione del sistema presidenziale di tipo francese, si cancella una garanzia politica che svolge un ruolo di equilibrio e si mortifica ulteriormente il ruolo del Parlamento.
Con la c.d. “riforma della giustizia” si mira a stravolgere il sistema costituzionale di indipendenza della magistratura e a raccordare il giudiziario con i poteri di governo, intaccando il principio del “potere diviso”.
Con l’autonomia differenziata diventerebbero oggetto di differenziazione beni pubblici essenziali come l’istruzione, la sanità, il lavoro, demolendo di fatto il principio fondamentale che la Repubblica è una e indivisibile.
Se questo processo riformatore venisse portato a compimento sbarcheremmo in un altro pianeta, che non è più quello della Repubblica fondata sulla Costituzione nata dalla Resistenza.
Nel 2023, l’incrocio fra i venti di guerra, che infuriano feroci e il vento sovranista che soffia nel nostro paese produce le condizioni ideali per una “tempesta perfetta”.
Se il barometro del tempo politico volge a tempesta, non è questo il momento di abbandonarsi allo sconforto. Al contrario è proprio nelle situazioni più disperate che in ciascuno di noi può venire fuori un’energia insospettata.
Oggi che la pace nel continente europeo è perduta, la coscienza del pericolo estremo di una guerra nucleare e la consapevolezza delle sofferenze e dei danni irreparabili prodotti dal conflitto, può far rinascere nel profondo della coscienza collettiva quel sentimento di ripudio della guerra, che ha trovato espressione nella Carta dell’ONU e nella Costituzione italiana.
Se nel 2022 l’opinione pubblica è rimasta irretita dalla narrazione bellicista, nel 2023 in questa narrazione possono aprirsi delle crepe e può crescere il dissenso verso le èlite politiche, nazionali ed europee, che hanno indossato l’elmetto della NATO per correre alla guerra.
Parimenti sul fronte interno, il consenso riscosso con le elezioni del 25 settembre può rapidamente appassire man mano che questa maggioranza porterà avanti i suoi progetti di manomissione della democrazia costituzionale. Che possono essere respinti dal popolo italiano, com’è già avvenuto nel 2006 e nel 2016. L’anno che verrà ci chiama all’azione per la pace, i diritti, la democrazia.
Non dobbiamo farci cogliere impreparati.
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È online
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Che succede?
DI NUOVO LA SAGGEZZA, LA SENSIBILITA’ E LA GUIDA DI MATTARELLA
3 Gennaio 2023 su C3dem
Luigino Bruni, “La rivoluzione è un’eredità. Tre benedizioni per il nuovo anno” (Avvenire). IL DISCORSO DI MATTARELLA: Sergio Mattarella, “Il messaggio di fine anno” (Foglio). Ugo Magri, “Il futuro secondo Mattarella” (La Stampa). Angelo Picariello, “Ma non è stato un ‘controcanto’” (Avvenire). Emilia Patta, “Mattarella avvia la fase della coabitazione” (Sole 24 ore). Paolo Pombeni, “Il richiamo di Mattarella sul divario tra Nord e Sud” (Messaggero). Marcello Sorgi, “Quell’invito a liberarsi delle polemiche” (La Stampa). Claudio Cerasa, “Un governo contro i giovani. Il discorso di Mattarella e i rimproveri sottesi” (Foglio). PARTITI: Giovanni Orsina, “I veri vantaggi di una destra post-populista” (La Stampa). Piero Ignazi, “Il sistema dei partiti è instabile. Sarà un 2023 ricco di novità” (Domani). Dario Di Vico, “Il declino di Salvini e le chance di ritrovare la pancia del Nord” (Foglio). Gabriele Segre, “Con Cuperlo per rinnovare il Pd. E’ ora di superare il liberalismo” (intervista al Riformista). Ernesto Galli Della Loggia, “Il nuovo governo, una novità da non sprecare” (Corriere della sera). GOVERNO E SOCIETA’: Sergio Harari, “Cambiare il servizio sanitario per investire sul futuro” (Corriere della sera). Eugenia Tognotti, “Tre anni di Covid. Ecco i dieci errori che abbiamo fatto” (La Stampa). Salvatore Curreri, “Il decreto contro le Ong è incostituzionale” (Il Riformista). Juan Matias Gil, “Ma noi delle Ong non ci fermeremo” (La Stampa). PRESIDENZIALISMO: Gaetano Azzariti, “L’attacco alla Costituzione e la sinistra non c’è” (Manifesto). Stefano Folli, “Dietro la frattura del presidenzialismo” (Repubblica). Mauro Calise, “Presidenzialismo, scelta gollista di palazzo” (Mattino). Carlo Galli, “Non è la riforma che serve all’Italia” (Repubblica). Montesquieu, “Presidenzialismo, le garanzie minime” (La Stampa). Erasmo Palazzolo, “Presidente o premier? Casellati: ‘Parta il confronto’” (Sole 24 ore).
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I SETTE VIZI DI MELONI
2 Gennaio 2023 su C3dem
La Rassegna del 31/12. Claudio Cerasa, “I sette vizi di Meloni” (Foglio). Marco Follini, “Il gattopardo del popolo Conte costringe gli avversari a somigliargli” (“Politica) Giuseppe De Rita, “L’Italia sembra un’eterna bimba. Finora è mancato uno scossone” (intervista al Corriere della sera). Silvio Garattini, “Siamo in grado di armarci per la guerra ma non per affrontare la pandemia”(intervista a La Stampa). Nando Pagnoncelli, “FdI cresce ancora, il M5S consolida il secondo posto, cala ancora il Pd” (Corriere della sera). Domenico Quirico, “Migranti, le verità scomode” (La Stampa). Miguel Gotor, “Perché provano a riscriverel’identità del Msi” (Repubblica). Stefano Folli, “L’Italia e la democrazia incompiuta” (un libro di Piero Craveri – Robinson). MELONI/UE Francesco Verderami, “L’operazione Europa a cui lavora la premier: un patto con il Ppe per isolare i socialisti” (Corriere della sera). Valerio Valentini, “Meloni congela anche l’asse con la Germania” (Foglio). DECRETO ONG: Alessandro Barbera, “Meloni difende il decreto contro le On: ‘Nel diritto non c’è la spola con gli scafisti’” (La Stampa). Giovanni Maria Flick, “Assurde le nuove regole sulle Ong” (intervista a Avvenire). Roberto Napoletano, “Mediterraneo e Africa, i due assi di Giorgia” (Il Quotidiano). Matteo Piantedosi (ministro), “In Libia svuoteremo i centri di detenzione” (intervista a Repubblica). Luca Casarini, “Pronto un piano di Roma e Tripoli per sbaragliare i profughi” (Il Riformista). PRESIDENZIALISMO: Massimo Giiannini, “Elisabetta Alberti Casellati: ‘Faremo la riforma presidenziale. Chiedo il massimo sforzo ai partiti’” (La Stampa). Alessandro Di Matteo, “Sabino Cassese: ‘Si assicuri la durata dei governi. Il capo dello Stato resti però garante’” (La Stampa). Massimo Villone, “Presidenzialismo, per Meloni basta la parola” (Manifesto). Vittorio Ferla, “Presidenzialismo. Giorgia Meloni lancia la sfida. Una mossa a rischio da leader visionaria” (Il Quotidiano). Giovanni Guzzetta, “Presidenzialismo? Senza una spinta dal basso resta una chimera” (Il Dubbio).
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Chiesadituttichiesadeipoveri
Newsletter n.287 dell’11 gennaio 2023
BUON ANNO 2023
Carissimi,
a tutti un fervido augurio di buon anno, che almeno si esca dalla guerra insensata. Vi segnaliamo nel sito un’analisi da non perdere di Daniele Menozzi sulle ragioni delle dimissioni dell’ex papa defunto Benedetto XVI dal suo alto ufficio, e una riflessione di Enrico Peyretti sul “post-teismo”.
Con i più cordiali saluti,

www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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XII Dossier Caritas 2022. Verso una nuova economia.

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Proseguiamo con la pubblicazione dei contributi contenuti nel XII Dossier Caritas 2022, ospitando quello di Franco Manca sulla situazione economico-sociale dell’Italia, con uno sguardo particolare sulla situazione sarda. Franco Manca parte dai dati che purtroppo registrano crescenti disuguaglianze e un pauroso aumento della povertà, per proporre soluzioni nuove, capaci di perseguire il superamento del neo capitalismo, dell’economia che uccide, verso un’economia basata sull’ecologia integrale al servizio dell’umanità e del creato. Lo fa appoggiandosi alla Dottrina sociale della Chiesa e alle sollecitazioni del magistero pontificio, che evidentemente lasciano all’attività politica le scelte concrete sul “che fare”. Si apre conseguentemente uno spazio enorme di rinnovato impegno dei cattolici in politica e nella società civile. Come? L’articolo di Franco Manca al riguardo rilancia un dibattito non più eludibile.
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9d09f2b5-c971-4551-a509-88c226fdf31dCrisi economica: crescono inflazione e povertà, ricchezza sempre più nelle mani di pochi. Quali misure mettere in campo?

di Franco Manca
Economista Referente Centro Studi Caritas Diocesana.

“L’attività dell’economia è al servizio dell’essere umano, non solo di pochi, ma di tutti, specialmente dei poveri, non è al di sopra della natura, ma deve prendersene cura, perché da questo dipendono le generazioni future”. (Papa Francesco)
“La povertà deve essere combattuta con il lavoro”. (Papa Francesco)

Qualche numero sulla condizione economica del nostro Paese
Una recente indagine (ottobre 2022) del Censis, in collaborazione con Confcooperative, stima che tra povertà assoluta e povertà relativa in Italia ci sono più di 4,8 milioni di famiglie pari a oltre 14 milioni di persone. Il numero di famiglie in povertà assoluta è 1.960.000, l’equivalente di 5.571.000 persone. Mentre sono 2.895.000 le famiglie (8.775.000 persone) che vivono in condizioni di povertà relative. L’indagine evidenzia che vi sono tantissime persone che, pur lavorando, non riescono ad arrivare alla fine del mese. Su un totale di 22.500.000, il 21,7% (pari a 4.900.000) svolge “lavori non standard” (lavoratori dipendenti a termine, part time, part time involontario, collaboratori). Sono soprattutto i giovani compresi tra i 15 e i 34 anni ad essere penalizzati. Rileva il fatto che il 38,7% di essi ha un basso livello di istruzione e risiede soprattutto al Sud.
Il lavoro nero è stimato in 3,2 milioni, e il 60 % dei pensionati non raggiunge i 10mila euro all’anno. Sul piano delle imprese, più di 100.000 sono a rischio default e 200.000 quelle considerate vulnerabili. Gli effetti sul piano occupazionale sarebbero pesantissimi, considerando che potrebbero coinvolgere circa 3 milioni di lavoratori.

L’ultima indagine pubblicata dall’Istat (ottobre 2022) sulle “Condizioni di vita e reddito delle famiglie in Italia”, ci dice che il 25,4% della popolazione è a rischio povertà o di esclusione sociale: si tratta di oltre un quarto dell’intera popolazione italiana. Naturalmente, la povertà non è distribuita in maniera uniforme. Nel Mezzogiorno, gli individui a rischio di povertà o esclusione sociale sono il 41,2%. Il reddito delle famiglie tra il 2007 e il 2021 si è contratto del 6,2%, più al Sud che nel resto del Paese. Tutto ciò accade nonostante il massiccio intervento delle integrazioni salariali: nel 2020 ne hanno beneficiato circa 6 milioni di persone, per una spesa complessiva di 9 miliardi.
Questo accadeva tra il 2019 e il 2021. Ovviamente non tiene conto di quanto, in termini peggiorativi, è successo e sta accadendo. La guerra in Europa, la questione energetica, l’inflazione, tutte situazioni esplose nel 2022 che hanno contribuito e contribuiranno a rendere sempre più precarie le condizioni della popolazione non solo italiana, dato che direttamente o indirettamente è coinvolto tutto il mondo. È da anni che Papa Francesco parla della terza guerra mondiale in atto.
Considerate queste situazioni, non è difficile sostenere che il governo della politica, dell’ambiente, dell’economia, della salute e le loro conseguenze sulla società siano state un autentico fallimento. Naturalmente non per tutti, dato che la ricchezza continua a concentrarsi, grazie anche al ruolo che ha svolto e che continua a svolgere la finanza internazionale, la quale gestisce leve le cui manovre sono in grado di coinvolgere milioni di persone.
Nell’arco di questi ultimi decenni, gli interventi della Chiesa sul tema della povertà, della giustizia sociale, dell’economia e dell’ambiente sono stati diversi e hanno indicato anche dei percorsi alternativi che, però, hanno trovato poco ascolto e poca operatività anche tra i cattolici. Non è compito della Chiesa fornire nuove teorie economiche ma è compito dei cattolici, soprattutto dei laici, saper declinare operativamente le indicazioni che provengono dal Magistero.
La visione magisteriale, a mio modo di vedere, ci dice fondamentalmente che il modello capitalistico funziona male e si possono individuare altri percorsi che potrebbero, forse, meglio rispondere alle necessità dell’intera umanità. In cima a questi percorsi, l’ecologia integrale rappresenta lo scenario di base anche dell’agire economico, meglio se riferito o connesso con l’economia civile.

L’approccio all’economia
Attraverso la Dottrina Sociale (Dsc), la Chiesa è intervenuta ripetutamente riaffermando il proprio punto di vista circa il rapporto che i cristiani devono avere con l’economia. Non si è trattato di definire una nuova teoria economica, quanto la riaffermazione di quei valori che indicano ai cristiani il giusto modo di rapportarsi ad un fenomeno, quello economico, che sta assumendo dimensioni totalizzanti. Un primo elemento è rappresentato dalla considerazione che la razionalità dei fatti umani non è gestita da una qualche oscura mano invisibile suscettibile solo di regolazioni tecniche. Queste regolazioni mettono sempre in gioco la vita delle persone e i loro progetti. Per questo occorre, in una certa misura, rifuggire dalle tecnicalità dato che spesso le scelte tecniche creano disagi sociali ed economici a intere popolazioni e favoriscono poche persone che, grazie alle tecnicalità, continuano ad arricchirsi. I tecnicismi non possono essere la giustificazione del malessere di milioni di persone. D’altro canto, molte scelte giustificate su basi tecnico-scientifiche si sono rivelate sbagliate, non rispettose dell’ambiente, della difesa dei più fragili dei più poveri, anzi in molti casi hanno addirittura accentuato le sofferenze, come peraltro è stato riconosciuto nel caso della Grecia.
Ecco perché è necessario riscoprire chiavi di lettura diverse che facciano in primo luogo perno sulla persona umana e sulla condivisione dei problemi sociali ed economici. In questa direzione, le encicliche pongono alla riflessione approcci diversi che si declinano con la ricerca del bene comune, con la fraternità, con la gratuità, con il dono, con la solidarietà e costituiscono la cifra con cui guardare all’economia. L’economia non può essere identificata, come spesso accade, con l’obiettivo di incrementare il livello del reddito. “La vita economica è luogo di passioni, di ideali, di sofferenze e di amore; non solo di ricerca di interessi, di invidia, di avarizia, di speculazioni e di profitti”.1
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Lo sviluppo
La DSC affronta il tema dello sviluppo sotto diversi angoli visuali, fornendo suggestioni e percorsi molto alternativi rispetto a quanto l’economia ha fin qui proposto. “Lo sviluppo è il nuovo nome della Pace”, dice Paolo VI. “Nella DSC la parola sviluppo è intrinsecamente dinamica: non indica un punto di arrivo, ma un percorso che ha un senso che segue una precisa direzione in crescendo dal meno al più di realizzazione dell’umano”.2
Lo sviluppo si origina in un’esperienza stupefacente del dono (Caritas in Veritate CV). “O lo sviluppo è per tutti o non è veramente sviluppo” (Centesimus Annus). In tutta la Dsc il termine sviluppo non è mai legato o connesso a dimensioni di tipo quantitativo e ha al proprio centro l’Uomo nella sua singolarità ma anche nella dimensione sociale planetaria, dato che lo sviluppo deve essere per ciascun uomo e per tutti gli uomini. In questa configurazione antropologica, i sistemi economici vigenti non sono stati ancora in grado di concepire uno sviluppo adeguato alle esigenze dell’umanità. “Lo sviluppo dei popoli è legato intimamente a quello di ogni singolo uomo” e “degenera se l’umanità confida solo nella tecnica per risolvere i suoi problemi”3, per queste ragioni lo sviluppo deve configurarsi come una “vocazione” che chiama in primo luogo i Paesi più sviluppati perché a loro consegna un triplice dovere: il dovere della solidarietà (sostenere lo sviluppo), della giustizia sociale (nelle relazioni economiche e finanziarie), della carità universale (nella promozione di un mondo più umano per tutti).
Il mercato
Oggi questa società è costruita prevalentemente su un modello culturale basato sull’ideologia del mercato che concepisce l’Uomo in modo individualista, materialista, chiuso alla trascendenza e centrato su se stesso. Una società incapace di pensare e tanto meno di attuare il bene comune, scopo della società giusta. «Il bene comune – dice il Cardinal Bagnasco – comporta tutte le dimensioni costitutive dell’uomo, quindi anche la sua dimensione religiosa che non costituisce un problema per la società moderna ma al contrario una risorsa e una garanzia [...] anche in relazione al fatto che i cristiani sono diventati nella società civile massa critica capace di visione e di reti virtuose per contribuire al bene comune [...] attraverso il patrimonio di dottrina e di sapienza che costituisce la terra solida e la bussola per il cammino indicati dalla dottrina sociale della Chiesa».4
“Non deve stupirci se il mercato, e la logica economica, oggi vengono visti come realtà che si collocano agli antipodi del territorio della gratuità, perché fondati sul calcolo strumentale (e) autointeressato”.5
Il mercato potrebbe funzionare bene se irrorato dalla linfa della gratuità. “Nella nostra società di mercato, disincantata e anoressica di ideali e di spiritualità, è molto difficile vedere nella vita economica, nelle imprese e nei mercati, qualcosa di più e di diverso da denaro, profitto e ricerca di un tornaconto sempre più individualista”.6 “Il mercato lasciato al solo principio dell’equivalenza di valore dei beni scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per ben funzionare. “Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato non può pienamente espletare la propria funzione economica”. (CV)
La CV ci “offre la possibilità di prendere posizione a favore di quella concezione del mercato, tipica della tradizione di pensiero dell’economia civile, secondo cui si può vivere l’esperienza della socialità umana all’interno di una normale vita economica e non già al di fuori di essa o a lato di essa come suggerisce il modello dicotomico di ordine sociale”.
“L’economia civile si pone in alternativa nei confronti dell’economia di tradizione smithiana che vede il mercato come l’unica istituzione davvero necessaria per la democrazia e per la libertà. La Dsc ci ricorda invece che una buona società è frutto certamente del mercato e della libertà, ma ci sono esigenze, riconducibili al principio di fraternità, che non possono essere eluse, né rimandate alla sola sfera privata o alla filantropia”.7
La Dsc “propone piuttosto un umanesimo a più dimensioni nel quale il mercato non è combattuto o controllato ma è visto come momento importante della sfera
pubblica (che è assai più ampio di ciò che è statale) che, se concepito e vissuto come luogo aperto anche ai principi di reciprocità e del dono, può costituire la città”.8
Tuttavia, “la categoria del dono non andrebbe assunta come regolatrice del mercato, una sorta di fattore o quid etico interno al mercato in grado di equilibrarlo. Diversamente il dono appare come quella indispensabile dimensione del vivere che rende autenticamente umani i rapporti e di conseguenza, autenticamente umana l’esistenza”.9
Per costruire la città c’è perciò bisogno di fraternità, dato che la solidarietà non è elemento sufficiente. “Non è capace di futuro la società in cui si dissolve il principio di fraternità: non è capace di progredire quella società in cui esiste solamente il dare per avere oppure il dare per dovere. [...] Ecco perché né la visione liberal- individualista del mondo in cui tutto o quasi è scambio, né la visione statocentrica della società in cui tutto o quasi è doverosità, sono guide sicure per farci uscire dalle secche in cui le nostre società sono oggi impantanate”.10
Forse è anche questa la ragione per la quale negli ultimi 35 anni è rientrato prepotentemente, grazie soprattutto alla dottrina sociale della Chiesa, il concetto di bene comune che rappresenta la vera e propria guida etica della Chiesa stessa in ambito socioeconomico come Giovanni Paolo II ha, in più occasioni, rimarcato. In questa concezione, il mercato è dunque soltanto uno dei campi importanti dell’agire politico ma non è “il campo”. L’invito dunque è a non abbandonare questo terreno ai tecnici, ma impegnarsi per una riflessione che sia capace di porre l’Uomo e i suoi bisogni, anche quelli economici, al centro della società.
Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è anche la dignità di noi stessi. Le previsioni catastrofiche oramai non si possono più guardare con disprezzo e ironia. Il ritmo di consumo, di spreco e di alterazione dell’ambiente ha superato le possibilità del pianeta. Lo stile di vita attuale, essendo insostenibile, può sfociare solamente in catastrofi, come di fatto sta già accadendo in molte aree.
La difficoltà a prendere sul serio questa sfida è legata ad un deterioramento etico e culturale che accompagna quello ecologico. Si corre il rischio di diventare profondamente individualisti. Ciò dipende anche dal fatto che vi è una ricerca egoistica della soddisfazione immediata. Si è di fronte ad un consumo eccessivo alimentato anche dai modelli educativi e miopi che coinvolgono genitori e figli. Non perdiamoci ad immaginare i poveri del futuro, è sufficiente che ci ricordiamo dei poveri di oggi che non possono continuare ad aspettare.

Quale prospettiva
Pensare di fornire una linea guida circa le prospettive che attendono i cristiani impegnati nel sociale, è questione molto difficile e complessa e non abbiamo la presunzione di provarci. Possiamo fornire qualche chiave di lettura che parte dalla considerazione che il campo dell’economia non può e non deve essere lasciato ai tecnici. I quali, come abbiamo già sottolineato, non sono per così dire “neutri”. Dietro le tecnicalità sono sempre presenti interessi e gruppi di interesse il cui principale obiettivo è quello di garantire in primo luogo se stessi. È quindi necessario che i cristiani siano sempre più impegnati in economia, si potrebbe dire anche in politica, come Sua Santità Benedetto XVI ha più volte affermato e come anche la Conferenza episcopale italiana ha ampiamente ribadito. Il “manuale” per una presenza dei cattolici nella società e nelle questioni economiche è fornito dalla Dsc, che ci invita a contribuire a ritrovare radici profonde, valorizzare ogni risorsa umana e soprattutto dare senso all’attesa di futuro delle giovani generazioni, richiamare ciascuno alla fedeltà ai propri doveri personali, professionali, sociali, costruire a partire dal territorio e nell’ottica della sussidiarietà una società accogliente e non emarginante, a praticare l’esercizio del dono e della gratuità, a costruire una società fraterna rielaborando un nuovo umanesimo, sostenendo la solidarietà tra gli uomini.
Queste ed altre ancora sono le vie che contribuiscono a determinare il grado di civiltà di un popolo e che ci possono consentire di costruire la città nella carità e nella verità. Cosa tutt’altro che semplice.
Avvertiamo il disagio derivante anche dal nostro stare alla finestra, dal nostro mancato coinvolgimento nei processi che potrebbero portare a migliorare il rapporto con la sempre maggiore emarginazione di larghe fasce sociali. Potrebbe essere interessante lo sforzo di elaborazione e di approfondimento culturale su alcune tra le tematiche più importanti, come:
- le modalità di una più equa ridistribuzione della spesa pubblica (ruolo della politica);
- più equa ridistribuzione del lavoro;
- l’obbligo morale di operare investimenti;
- la più vasta partecipazione delle strutture sociali per favorire l’espansione dell’ideale democratico nei differenti campi della vita;
- promuovere dal basso sforzi sempre più ampi di iniziativa sociale e di cooperazione intesi al superamento dei modelli eccessivamente conflittuali-
competitivi delle società avanzate;
- favorire comportamenti concreti ed elaborazioni culturali che concorrano alla formazione di un senso di comunità e di destino comune della famiglia umana.
È evidente che vi è un carattere utopistico in queste indicazioni. Ma forse possono fornire una traccia per una ricerca coraggiosa e creativa in risposta anche alle sfide dell’innovazione. Tutto ciò implica uno sforzo profondo di revisione dell’esistente sia nella teoria che nella pratica economica, cercando di trovare un nuovo equilibrio “etico” delle nostre società. Uno sforzo che deve anche stimolare e osare nuovi esperimenti di democrazia economica. Non è certamente facile; fortunatamente, sono già presenti esempi virtuosi da imitare, e sappiamo che ci vorrà del tempo, dell’informazione, della formazione, ma svolgendo il proprio ruolo come cristiani forse si può provare. Non bisogna spaventarsi se si ha un progetto per governare i processi. Spaventa se questa progettualità è assente. La Dsc ci offre davvero tanti percorsi e tante indicazioni: sarebbe molto utile e importante cercare di renderle concrete, e questo penso sia uno dei compiti più sfidante per i laici cattolici.
La sorte di milioni di persone non può essere circoscritta solo a dispute riguardanti l’incremento o il decremento di mezzo punto percentuale del Pil. Il futuro è aperto e governabile, e chiama i cattolici ad impegni più coinvolgenti, di maggiore responsabilità, di sacrificio, insomma di portare anche noi la nostra croce per praticare il Vangelo nella nuova fase di ricristianizzazione che ci chiama come testimoni praticanti la parola di Gesù Cristo.
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Note
1 S. Zamagni, L’economia del bene comune, Città nuova, Roma, 2007, pag. 15
2 S. Beretta ,in Amore e verità, cit.
3 S. Beretta, cit.
4 A. Bagnasco, Intervento di apertura del cardinale Presidente della Conferenza Episcopale Italiana al Forum del mondo del lavoro, Todi lunedì 17 ottobre 2011.
5 L. Bruni, A. Smerilli, Benedetta economia, Città Nuova Editrice, Roma, 2009.
6 Ibidem
7 S. Zamagni in Amore e verità, cit.
8 S. Zamagni, cit.
9 S. Zamagni, cit.
10 S. Zamagni, cit.

UN NATALE DI GUERRA E DI SPERANZA. Per tutti noi: analisi, riflessioni e proposte di Domenico Gallo e Luigi Ferrajoli

68a03d5c-9979-4d4d-9e31-58c2528238f9Costituente Terra, Newsletter n. 103 del 14 dicembre 2022

UN NATALE DI GUERRA E DI SPERANZA

Cari amici,
per la prima volta, dopo molti anni, ci troviamo a celebrare un Natale di guerra. Siamo sgomenti per questa determinazione di tutti gli attori protagonisti a perpetuarla, da Putin che pur dichiara “inevitabile” l’accordo con l’Ucraina e intanto la bombarda, a Zelensky che lo rifiuta sdegnosamente e ora chiede, oltre alle armi, due miliardi di metri cubi di gas per protrarre al suo Paese il lungo suicidio, a Biden che gode del successo del suo Impero, al G7 che infierisce anche da remoto, fino al nostro piccolo governo che assicura le sue armi per la guerra fino a tutto il 2023.
Non si vede come se ne possa uscire; anche la Santa Sede è ora esclusa da una possibile mediazione, per l’errore del Papa che ha addossato crudeltà solo a Russi, Ceceni e Buriati, dopo aver sempre condannato quella di tutti.
Non ci si può rassegnare tuttavia a un sindacalismo della sconfitta. A noi tocca comunque continuare a promuovere l’alternativa politica della pace impegnando nella ricerca di possibili soluzioni questa piccola impresa che è “Costituente Terra”. Per darle impulso convocheremo a breve, pensiamo entro gennaio, la sua assemblea annuale, a cui tutti sono invitati, sia per rinnovare gli organi sociali e approvare il bilancio, sia per avanzare proposte e precisare le nostre prospettive rispetto al fine per il quale questa Associazione è nata: un costituzionalismo mondiale, “perché la storia continui”.
La dura replica della storia, con la perentorietà della guerra in corso, non ci permette di continuare come se nulla fosse, riproponendo illuministicamente le nostre elaborazioni concettuali. Non è pensabile che quegli stessi Stati che ora si stanno dilaniando come lupi rapaci per il dominio del mondo (la “Global domination” di cui già vent’anni fa parlava Zbigniew Brzezinski, l’ex consigliere per la sicurezza nazionale di Carter, che però non fu rieletto) si mettano ora attorno a un tavolo e d’amore e d’accordo varino un’unica Costituzione della Terra. Noi, con Ferrajoli, ne avevamo concepito una bozza, che tuttavia non intendeva essere un progetto già definito proposto da Costituente Terra ma, come ha esplicitato lo stesso Ferrajoli, aveva il solo scopo di mostrare che esiste un’alternativa alla selvaggia situazione presente e insieme offrire una base per una concreta discussione.
Si tratta ora di ridisegnare il nostro percorso e gli obiettivi finali, riaprendo un dibattito a tutto campo su quale possa essere un assetto pacifico del mondo, da stabilire sul ripudio della guerra e un rinnovamento del diritto internazionale. Ma perché questo sia un percorso realistico, esso dovrà fondarsi sull’ordinamento già esistente che è quello dell’ONU (rovinosamente assente in questa crisi), e costruirsi su basi pluralistiche (l’armonia delle differenze, dismesso ormai anche il “proselitismo religioso”!), universalistiche e antinazionaliste.
Alla prossima assemblea occorrerà pertanto formulare una proposta politica per l’oggi, e discutere una proposta a più lungo termine in prospettiva antropologica e giuridica. Questa dovrà presupporre il pluralismo delle culture, la diversità, libertà ed eguaglianza delle persone e delle formazioni sociali nelle quali si sviluppano le rispettive identità, e un ordinamento costituzionale locale e internazionale che nella diversità dei reggimenti politici sancisca i diritti fondamentali e istituisca le relative garanzie.
La proposta politica da discutere riguarda la decisione per la fine della guerra russo-atlantica in Europa. Essa non può essere lasciata nelle mani dell’Ucraina e della sua attuale guida sacrificale, né alla discrezionalità delle armi della NATO, non può pretendere né un’umiliazione dell’Ucraina né una resa incondizionata della Russia, dovrà assicurare l’esistenza, l’indipendenza e l’integrazione europea dell’Ucraina e la sicurezza della Russia inclusa in essa la Crimea, nonché statuti concordati con le relative autonomie per i popoli del Donbass.
Quanto al futuro ordine mondiale, esclusa l’aberrazione di un’unica lingua e un unico impero, non potrà essere concepito che come una convivenza di identità diverse, di libera circolazione delle persone, di eguaglianza fondamentale e di pace originaria e realizzata.
Sarebbero questi i temi della nostra prossima assemblea romana, a cui partecipare in presenza o da remoto, aperta a quanti siano iscritti o si iscrivano mediante versamento del contributo associativo, fissato, come indicato nell’Appello istitutivo, nella misura da 0 a 100 euro, da accreditare sul conto BNL intestato a “Costituente Terra”, IBAN IT94X0100503206000000002788.

Nel sito pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo [lo riportiamo anche noi di Aladinpensiero, di seguito]: “Come l’Italia ha fomentato le guerre della NATO” e un articolo di Luigi Ferrajoli sulla rivista Giano in cui, già nel 1993, si avanzava la proposta di un costituzionalismo internazionale in alternativa alle spinte verso un imperialismo mondiale.

Con i più cordiali saluti,

www.costituenteterra.it
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COME L’ITALIA HA FOMENTATO LE GUERRE DELLA NATO
14 DICEMBRE 2022 / COSTITUENTE TERRA / LE FRONTIERE DEL DIRITTO /
L’Alleanza atlantica si è arrogata il diritto di guerra con l’intervento in Jugoslavia nel 1999. In Italia c’è voluta anche una crisi di governo

di Domenico Gallo

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gallo al libro “La NATO nei conflitti europei: ex Jugoslavia ieri, Ucraina oggi” (Biagio di Grazia & Delta 3 Edizioni, 2022) del Gen. Biagio di Grazia che ha servito nella NATO ed è stato addetto militare presso l’ambasciata italiana a Belgrado.

Un mondo impazzito.
Nel volgere di sei mesi l’orizzonte di vita dei popoli europei è cambiato bruscamente. Il 24 febbraio 2022 si è fatto buio all’improvviso. Una guerra feroce e catastrofica è scoppiata sul confine orientale dell’Europa, travolgendo i destini di milioni di persone e riverberando i suoi effetti nefasti, a cominciare dall’Europa, in tutto il mondo. La guerra fra l’Ucraina (armata e diretta dalla NATO) e la Russia ha superato i 200 giorni e all’orizzonte non si intravede alcuna possibilità di porre termine ai combattimenti con un accordo di pace. La guerra, le tensioni geostrategiche e la conseguente corsa al riarmo stanno rendendo ancora più acuta la crisi ecologica prodotta dal riscaldamento del pianeta. Le timide misure per la riconversione dell’economia miranti alla riduzione delle emissioni da fonti fossili si stanno trasformando nel loro contrario con la programmata riapertura delle centrali a carbone. La siccità e la crisi energetica prodotta dalla guerra stanno provocando un’impennata dell’inflazione ed una penuria di beni essenziali, destinata ad incidere profondamente sulla vita di milioni di persone. Ci stiamo preparando ad un inverno di razionamenti, di freddo e di fame, come non avveniva dalla Seconda Guerra Mondiale. Dal 1945 gli orizzonti non sono mai stati così cupi. Durante la guerra fredda, anche nei periodi di maggiore tensione, sono sempre entrati in vigore dei meccanismi di raffreddamento, sono scattati dei freni d’emergenza, che adesso non ci sono più. In quel periodo la speranza della distensione non è mai venuta meno, è stata sostenuta da robusti movimenti popolari di massa ed ha consentito a paesi di frontiera come l’Austria, la Svezia e la Finlandia di prosperare mantenendosi indipendenti dai blocchi militari contrapposti. Adesso quei movimenti popolari che si battevano per espellere la guerra dall’orizzonte della politica non ci sono più, i sindacati tacciono, i diversi partiti politici europei fanno a gara ad indossare l’elmetto e a recitare litanie di fedeltà alla NATO e alla sua politica volta ad alimentare la guerra in Ucraina, fino alla vittoria (?). Quello che ci prospettano gli architetti dell’ordine mondiale è un futuro spaventoso, fatto di riarmo, di disastri climatici ed economici, di sfide continue nei confronti della Russia e della Cina, in fondo alle quali l’unica via d’uscita è una nuova guerra mondiale.

E’ questo il volto del nuovo ordine mondiale annunciato dal Presidente degli Stati Uniti, George Bush senior, nel settembre del 1990, preconizzando un nuovo ruolo degli Stati Uniti destinati a modellare l’ordine internazionale grazie alla loro superiorità economica, tecnologica e militare?

L’opinione pubblica internazionale si è resa conto del deteriorarsi irrimediabile delle relazioni internazionali soltanto quando la TV ha mostrato i lampi delle prime esplosioni, ma l’orizzonte di guerra in cui siamo immersi ha avuto una lunga incubazione, è frutto di una politica a guida USA che ha cercato tenacemente la costruzione di un nemico: alla fine, dopo un processo durato oltre venti anni, il nemico si è materializzato e la parola è stata affidata alle bombe.

Superato lo stupore per questo brusco cambiamento degli orizzonti internazionali, dobbiamo chiederci dove questo processo ha avuto inizio e quali sono le cause che lo hanno determinato, quando si è determinata la svolta nella storia che ci ha fatto imboccare il sentiero in discesa che ci ha portato ai drammatici avvenimenti di questi ultimi mesi.

A questi interrogativi, offre una risposta sensata e autorevole il generale Biagio di Grazia, avvalendosi della sua esperienza professionale maturata in Germania nel Comando della Forza di Reazione Rapida della NATO, e poi a Bruxelles, a Zagabria, a Sarajevo e infine a Belgrado, come addetto militare dell’ambasciata italiana.

L’autore è stato testimone privilegiato di quell’inspiegabile evento che è stata la campagna di bombardamento condotta dalla NATO per 78 giorni, diretta a disgregare quello che restava della ex Jugoslavia, “guerra umanitaria”, la cui memoria è stata velocemente rimossa e cancellata dall’immaginario collettivo. Eppure è in quell’evento, come ci avverte il generale di Grazia nella prefazione, che vanno ricercati gli antecedenti di quello che sta succedendo oggi nel teatro di guerra dell’Ucraina.

Con l’intervento armato della NATO contro la Jugoslavia sono state poste le basi per un cambiamento della Storia, è stato introdotto un nuovo paradigma nella vita della Comunità internazionale, di cui adesso raccogliamo i frutti velenosi.

Per comprendere la portata di questo cambiamento della Storia bisogna risalire ad un altro evento che convenzionalmente viene considerato un momento di passaggio da un’epoca ad un’altra: il crollo del muro di Berlino, il 9 novembre 1989.

Il crollo del muro: l’annuncio di una nuova epoca.
Fu una notte di festa straordinaria a Berlino quando i vopos si ritrassero ed una folla sterminata si precipitò a scavalcare quel muro che per 28 anni aveva diviso in due il cielo dei berlinesi; diviso le famiglie; separato i destini di chi si trovava al di là o al di qua del muro. Una barriera luttuosa non solo in senso metaforico, se si considera che furono uccise dalla polizia di frontiera della DDR almeno 133 persone mentre cercavano di superare il muro verso Berlino Ovest; una ferita sanguinosa inferta nel corpo vivo del popolo tedesco che, improvvisamente, spariva nel corso di una sola notte.

Il crollo del muro di Berlino fu lo sbocco di un processo di distensione dovuto allo straordinario rinnovamento delle relazioni internazionali introdotto dalla perestroika quando l’Unione Sovietica guidata da Gorbaciov depose le armi del confronto militare facendo franare la reciprocità violenta dell’equilibrio del terrore e restituendo la libertà di autodeterminazione ai popoli che teneva assoggettati al suo controllo. Il crollo del muro fu vissuto in tutto il mondo come l’epifenomeno che annunciava la fine di un’era, quella della guerra fredda che aveva ingessato l’ordine pubblico mondiale. L’epoca dei muri, del confronto brutale fondato sulla forza, della corsa agli armamenti, dell’equilibrio del terrore franava sotto i nostri occhi come sotto l’effetto del terremoto della storia. Al suo posto nasceva la speranza di una nuova epoca in cui si potesse avverare la profezia della Carta della Nazioni Unite, di un’umanità liberata per sempre dal flagello della guerra, dove le relazioni internazionali ed interne agli Stati fossero regolate dal diritto e dalla giustizia. In quell’epoca furono stipulati accordi sul disarmo impensabili fino a qualche anno prima, furono delegittimate le alleanze militari contrapposte, fino al punto che si arrivò allo scioglimento del patto di Varsavia. In quell’epoca si riducevano in tutto il mondo le spese militari e i popoli confidavano di ricevere i dividendi della pace ristabilita. In questa breve stagione l’Onu, finalmente scongelata, cominciò a svolgere efficacemente il ruolo per il quale era stata istituita e riuscì a risolvere alcune delle più incancrenite situazioni di conflitto (come quelle della Namibia, della Cambogia, del Salvador) e il suo segretario generale Butros Ghali concepì un’ambiziosa Agenda per la pace. In altre parole, si respirava un clima di euforia che vedeva l’umanità finalmente sottratta al ricatto della violenza bellica e incamminata lungo quel binario, prefigurato dalla carta dell’ONU, che portava alla pace attraverso il diritto. Questa speranza di un futuro radioso e pacifico è stata smantellata rapidamente dagli architetti dell’ordine mondiale che hanno agito coerentemente per porre fine al clima di cooperazione pacifica generato dalla fine della guerra fredda.

Le speranze tradite.
Nei circoli occidentali la fine della guerra fredda venne interpretata come una vittoria e il ritiro dell’Unione Sovietica dalla competizione militare come il frutto di una sconfitta determinata dalla forza delle armi dell’Occidente. La lezione che gli architetti dell’ordine mondiale trassero dagli eventi del 1989 fu che dal mondo bipolare si potesse passare all’avvento di un mondo monopolare in cui un’unica superpotenza avrebbe garantito la pace e l’ordine pubblico internazionale. E fu proprio questa l’interpretazione ufficiale di quegli eventi che anche in Italia il ministro degli esteri dell’epoca, Gianni De Michelis, fornì alla camera il 20 marzo 1990. In quest’ottica la logica di potenza non subiva nessun ripensamento, anzi veniva esaltata, la NATO non perdeva la sua ragione di essere, malgrado lo scioglimento del patto di Varsavia, gli strumenti militari non correvano il rischio di essere condizionati dalla spinta globale al disarmo. In questo contesto intervenne il discorso del Presidente Bush che, nel settembre del 1990, reagendo all’invasione irachena del Kuwait annunciò la nascita di un “nuovo ordine mondiale”, basato, non sui principi della convivenza pacifica dettati dalla Carta dell’ONU, bensì sulla capacità della superpotenza americana, non più contrastata dall’Unione Sovietica, di assicurare in tutto il mondo un “ordine” confacente ai propri interessi. Il documento più significativo a questo proposito appare quello pubblicato dal New York Times l’8 Marzo 1992, Defense Planning Guidance for years 1994-1999, redatto da uno staff di funzionari del dipartimento di Stato e del ministero della difesa, presieduto dal sottosegretario alla difesa Paul D. Wolfowitz. Il documento parte dal riconoscimento che gli Stati Uniti, a seguito della scomparsa del blocco sovietico, hanno acquistato lo statuto di superpotenza unica: “tale statuto deve essere perpetuato attraverso un comportamento costruttivo ed una forza militare sufficiente per dissuadere qualunque nazione o qualunque gruppo di nazioni dallo sfidare la supremazia degli Stati Uniti”. Il rapporto si sofferma a lungo sull’esigenza di privilegiare la potenza militare come strumento per garantire la preponderante egemonia internazionale americana. La preoccupazione fondamentale di conservare agli Stati Uniti lo statuto di superpotenza unica non valeva soltanto per gli antichi o i potenziali avversari ma anche per gli alleati: “Noi dobbiamo agire – recita il documento – in vista di impedire l’emergere di un sistema di difesa esclusivamente europeo che potrebbe destabilizzare la NATO.”

La prima guerra del Golfo (16 gennaio-28 febbraio 1991), fu l’occasione per imporre un cambio di passo nelle relazioni internazionali e rilegittimare il ricorso alla violenza bellica come strumento di tutela degli interessi di alcune nazioni e di riaffermare il ruolo egemonico degli Stati Uniti, come unica potenza dotata di una indiscutibile superiorità militare e della volontà di usarla, senza remora alcuna, per perseguire i propri obiettivi.

Tuttavia, l’esperienza della prima guerra del Golfo presentava ancora un tasso di ambiguità perché la coalizione a guida USA aveva agito dopo aver ricevuto il consenso di quasi tutta la Comunità internazionale e del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, che aveva autorizzato l’uso della forza per ottenere la liberazione del Kuwait con la Risoluzione 678 del 29 novembre 1990. In quest’esperienza fu osservato che gli USA avevano utilizzato l’ONU come un negozio di abbigliamento giuridico per ammantare di legalità il ricorso al linguaggio della guerra che, nel clima del dopo guerra fredda, veniva pur sempre considerato un tabù da una gran parte dell’opinione pubblica internazionale. Da più parti venne osservato che si trattava di una guerra di “sdoganamento” della guerra.

Questo processo di rilegittimazione della guerra come strumento ordinario della politica di potenza (dell’Occidente), e di delegittimazione dell’ordine giuridico fondato sulla Carta dell’ONU, per realizzarsi compiutamente aveva bisogno di compiere un balzo in avanti. L’occasione propizia fu offerta dal conflitto che portò alla dissoluzione della ex Jugoslavia.

Il retroterra del conflitto
Il generale di Grazia delinea in alcuni capitoli di questo libro gli elementi fondamentali della storia della Jugoslavia ed i passaggi che hanno determinato il crollo della Federazione, la guerra in Bosnia, conclusa con il Trattato di Dayton, e la successiva crisi del Kosovo, mettendo in evidenza la responsabilità degli opposti nazionalismi e l’interazione con gli interventi delle Cancellerie occidentali e della NATO.

Il retroterra dell’attacco della NATO alla Jugoslavia, scattato il 24 marzo 1999, era costituito dal nuovo ruolo strategico militare che gli Stati Uniti avevano concepito per la NATO dopo la fine della guerra fredda e che venne ufficialmente proclamato a Washington il 24 aprile dello stesso anno, proprio mentre veniva sperimentato in vivo.

Pochi ricordano che nell’estate del 1993, durante una delle fasi più oscure del conflitto in Bosnia si verificò un durissimo braccio di ferro fra la NATO (che minacciava di intervenire in Bosnia con bombardamenti contro le forze Serbo-bosniache) e l’UNPROFOR (i caschi blu dell’ONU) che si opponeva con tutte le sue forze ad azioni di bombardamento autonomamente decise dalla NATO. Il braccio di ferro si concluse con la stipula di un memorandum d’intesa, siglato nell’agosto dall’ammiraglio americano Jeremy Borda (Comandante delle operazioni NATO) e dal gen. Francese Jean Cot (Comandante delle forze UNPROFOR) con quale fu stabilito il principio che la NATO non poteva bombardare senza il consenso della missione dell’ONU, sebbene astrattamente autorizzata all’intervento dalle Risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che avevano stabilito alcune misure interdittive della guerra e coercitive per i belligeranti. E quando la NATO finalmente intervenne nella fase finale della guerra in Bosnia, nella notte fra il 29 ed il 30 agosto del 1995, ciò accadde soltanto per effetto di una legittima (ma inopportuna) richiesta di intervento dell’ONU, che faceva seguito allo sconcerto ed all’indignazione provocata dalla strage del mercato di Sarajevo occorsa il giorno precedente (28 agosto), della quale non fu mai possibile conoscere i responsabili.

Furono proprio le vicende della guerra di Bosnia e la possibilità – e per un limitato verso anche l’esigenza – che la NATO giocasse un ruolo nel contesto delle garanzie della sicurezza internazionale a far sì che venisse messa a punto nell’ambito della NATO una strategia operativa di intervento per la gestione delle crisi, svincolata dai limiti, dai principi e dalle procedure dell’ONU. In questo contesto, per la decisa posizione assunta all’Italia, durante il Governo Dini (1995), fu stabilito che la NATO non aveva legittimità a ricorrere a misure comportanti l’uso della forza senza la preventiva autorizzazione del Consiglio di Sicurezza, come del resto prevede la Carta delle Nazioni Unite. Addirittura in questo periodo il ministro degli esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli, diede platealmente uno schiaffo agli Stati Uniti, vietando – per qualche tempo – che fossero dislocati ad Aviano i cacciabombardieri invisibili Stealth, (che saranno i principali protagonisti della guerra del 99), fino a quando l’Italia non fu inclusa nel Gruppo di Contatto, da cui l’amministrazione americana voleva tenerla fuori. Questa posizione assunta dal Governo Dini fu ereditata dal Governo Prodi e lo stesso Dini, come ministro degli esteri la mantenne in piedi, come posizione ufficiale della Farnesina, in dichiarazioni pubbliche e comunicati stampa, fino al settembre del 1998.

Nel frattempo la crisi della convivenza interetnica fra serbi ed albanesi nel Kosovo si aggravò in quanto qualcuno decise di soffiare sul fuoco del conflitto armato, appoggiando una banda armata (l’UCK) che aveva avuto oscure origini e che fino a quel momento non aveva giocato un ruolo effettivo.

E’ il 1° marzo 1998 la data che segnò l’inizio della guerriglia dell’UCK, con l’uccisione di due poliziotti serbi a Drenica, a cui fece seguito una reazione inconsulta che provocò la morte di 20 albanesi. Nella primavera del 1998 si accesero i fuochi di sporadiche azioni di guerriglia a cui fecero seguito drastiche azioni di repressione.

A questo punto la NATO, sotto la spinta dell’amministrazione americana, decise di intervenire “politicamente” nel conflitto lanciando, con un comunicato del Consiglio atlantico del 28 maggio, un duro monito a Belgrado, in cui lasciava intravedere la possibilità di un intervento militare. Questa posizione, in realtà, più che favorire un self restraint da parte dell’apparato militare jugoslavo, non poteva che incoraggiare l’UCK sulla strada della guerriglia che, seppure perdente sul terreno, in prospettiva diventava vincente, potendo giocare un ruolo di detonatore per l’intervento militare occidentale. I furiosi combattimenti che ne sono seguiti durante l’estate del 98 e la durissima repressione scatenata dalle forze di sicurezza serbe (peraltro ingigantita dalla stampa internazionale con la fabbricazione di notizie false) hanno sollecitato lo sdegno dell’opinione pubblica internazionale, creando l’humus politico favorevole per l’intervento della NATO. C’era, però, un problema da risolvere.

La carta delle Nazioni Unite non consente che gruppi di Stati possano ricorrere all’uso della forza per regolare le crisi internazionali e, conseguentemente, la NATO non aveva alcuna legittimità per effettuare un intervento militare per regolare la crisi del Kosovo, aggredendo una delle parti in conflitto ed alleandosi con l’altra.

Nel corso della primavera, dell’estate e del mese di settembre del 1998, si sviluppò un dibattito sulla possibilità che la NATO intervenisse militarmente nel Kosovo, anche in assenza di una formale autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza. Tale dibattito nascondeva un conflitto politico durissimo fra Stati Uniti e Gran Bretagna (che sostenevano la tesi della legittimità del ricorso alla forza) e l’Italia che continuava ad opporsi. Tale posizione, peraltro, non era affatto scontata all’interno del Governo italiano, in quanto il Ministro della Difesa Beniamino Andreatta, propugnava l’allineamento totale dell’Italia alle esigenze degli Stati Uniti, secondo la tradizionale politica di “fedeltà atlantica”, tuttavia gli equilibri politici di maggioranza escludevano che il Governo Prodi potesse assumere una posizione differente senza rischiare una crisi.

E’ sorta a questo punto per l’Alleato americano l’esigenza di provocare un mutamento di Governo in Italia per ottenere una maggioranza più omogenea alle esigenze belliche della NATO. Poiché non si poteva correre il rischio di nuove elezioni, il cui esito non sarebbe stato prevedibile, è sorta l’esigenza di trovare una maggioranza di ricambio che potesse fare accrescere il tasso di “fedeltà atlantica” dell’Italia, sostituendo Rifondazione comunista con forze più omogenee alla NATO. A questo punto è stato attivato il più autorevole dei terminali della CIA nel sistema politico italiano, l’ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, l’uomo di Gladio. Cossiga, fino all’inizio del 1998 aveva svolto un ruolo di tutore del centro destra e sembrava che volesse contendere a Berlusconi la leadership della destra. Nella primavera del 1998 Cossiga fece una brusca inversione ed, utilizzando la sua influenza politica occulta ma reale sul sistema politico italiano, riuscì a staccare una frazione di deputati e senatori dal centro destra, fondando l’Udeur, con il dichiarato scopo di far nascere una nuova maggioranza politica che sostituisse quella basata sull’alleanza dell’Ulivo più Rifondazione e guidata da Prodi.

Quasi tutti hanno commentato l’operazione Udeur guidata da Cossiga come una manifestazione del peggiore costume trasformistico italiano. Ed invece tale operazione, che si avvaleva della tendenza al trasformismo esistente nel sistema politico italiano, aveva uno specifico significato ed un preciso obiettivo di natura internazionale: quello di provocare un mutamento della posizione internazionale dell’Italia e di ottenere la legittimazione della NATO al ricorso alla guerra, come strumento della politica di potenza americana.

Operazione perfettamente riuscita.

Perso il condizionamento di Rifondazione comunista, indeboliti i Verdi, indebolita la posizione autonomistica di Dini, il 12 ottobre 1998 il Governo Prodi, sebbene sfiduciato, compì l’atto politicamente più rilevante dalla sua nascita, e più gravido di conseguenze per il futuro, accettando l’adesione dell’Italia all’activation order.

In sede politica la svolta dell’Italia sulla liceità del ricorso all’uso della forza da parte della NATO era stata propugnata dall’allora segretario del partito dei DS – l’on. Massimo D’Alema – e dal Sottosegretario alla Difesa, Massimo Brutti, i quali si erano affrettati a dichiarare che la concessione dell’uso delle basi italiane (nella imminente guerra contro la Jugoslavia) costituiva un “atto dovuto” ed un effetto “automatico” della partecipazione italiana alla NATO.

Era ormai alle porte un Governo D’Alema, che nacque il 21 ottobre 1998 con la benedizione di Cossiga e con l’uomo giusto, Carlo Scognamiglio, al posto giusto, il Ministero della Difesa.

Sul Foglio del 4 ottobre 2000 proprio Carlo Scognamiglio, polemizzando con James Rubin, l’ex portavoce di Madeleine Albright, si lasciò sfuggire:

“A Rubin sfugge che in Italia avevamo dovuto cambiare governo proprio per fronteggiare gli impegni politici-militari che si delineavano in Kosovo…Prodi ad ottobre aveva espresso una disponibilità di massima all’uso delle basi italiane, ma per la presenza di Rifondazione nella sua maggioranza non avrebbe mai potuto impegnarsi in azioni militari. Per questo il senatore Cossiga ed io ritenemmo che occorreva un accordo chiaro con l’on. D’Alema” In che cosa consisteva questo accordo? “Due parti. La prima era il rispetto dell’impegno per l’euro (.) la seconda era il vincolo di lealtà alla NATO:l’Italia avrebbe dovuto fare esattamente ciò che la NATO avrebbe deciso di fare.” Questo è esattamente ciò che l’Italia ha fatto.

Le modalità dell’intervento NATO e la partecipazione italiana.
“Il messaggero del Male, coperto dal manto nero intessuto di buio e di morte, si è fermato stamattina alla mia porta, poco prima delle otto.” Così la scrittrice serba Tijana Djerkovic descrive il suo risveglio, la mattina del 24 marzo 1999, con la notizia che nella notte sono iniziati i bombardamenti della NATO sulla Jugoslavia (Il cielo sopra Belgrado, Besa editrice, 2018).

Nel 1999 dopo oltre 50 anni di pace in un paese europeo è ritornata la guerra; di nuovo, come una volta, le città sono state lacerate dal suono delle sirene, di nuovo nella notte i cieli sono stati solcati dai traccianti della contraerea e i vetri delle finestre infranti dai boati delle esplosioni. Ancora una volta le madri hanno aspettato con terrore la notte scrutando il cielo. I bombardamenti si sono susseguiti ininterrottamente per 78 giorni. Qualche anno dopo il Ministro della Difesa dell’epoca, ci ha informato che: “All’operazione hanno partecipato oltre 900 velivoli appartenenti alle nazioni della NATO. I velivoli NATO hanno effettuato oltre 37.000 sortite, di cui 14.000 di attacco. Sono stati lanciati 23.000 fra missili e bombe” (Carlo Scognamiglio Pasini, La guerra del Kosovo, Rizzoli 2002).

Nell’appendice del libro c’è anche un rapporto dettagliato del contributo del nostro Paese. L’Italia, senza saperlo e senza che ne venisse informato il Parlamento, ha partecipato ai bombardamenti con l’impiego di 50 velivoli dell’aeronautica militare che hanno impiegato “115 missili Harm, 517 bombe GB MK82, 39 bombe a guida IR Opher, 79 bombe a guida laser GBU 16.” Peccato che un rapporto così dettagliato abbia omesso di indicare quanti morti sono stati provocati dalle nostre bombe umanitarie e quanti da quelle dei nostri alleati. L’elenco degli obiettivi colpiti dall’aviazione della NATO (scuole, ospedali, alberghi, stazioni termali e sciistiche, industrie meccaniche, chimiche, agricole, impianti petroliferi, acquedotti, ponti, centrali elettriche, strutture di telecomunicazione, etc.) dimostra – come osserva l’autore in questo libro – che l’azione militare non aveva per oggetto il Kosovo, ma la Jugoslavia, non aveva per oggetto un determinato regime politico, ma un intero popolo. I risultati dell’azione militare si sono tradotti in una punizione collettiva ai danni del popolo serbo. Con la guerra nei Balcani si è realizzata una sperimentazione in vivo del nuovo concetto strategico che la NATO ha proclamato ufficialmente a Washington il 24 aprile 1999 e del pensiero strategico che, a partire dal 1990 ha orientato la politica degli Stati Uniti. Queste scelte strategiche sono state supportate con entusiasmo dal primo ministro inglese, Tony Blair, che rivendicò la legittimità dell’intervento armato – un’azione che fuoriusciva da ogni schema legale – invocando una superiore ragione etica, che non poteva essere giudicata dal diritto. In realtà sul piano politico – come osserva giustamente il generale di Grazia – la guerra non realizzò alcun obiettivo umanitario. Mettendo in ginocchio la Jugoslavia, la NATO agì per staccare il Kosovo dalla Jugoslavia e consegnarlo nella mani di una banda di guerriglieri islamici (l’UCK) che, penetrati nel Kosovo dopo l’accordo di pace sancito dalla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza n. 1244 (10/06/1999), misero in atto massicce vendette contro la popolazione serba, che le forze internazionali della Kfor riuscirono con grande fatica e solo in parte ad arginare.

Una svolta nella Storia.
La sera del 24 marzo 1999, quando si sono levati in volo i bombardieri della NATO e sono partiti i primi missili cruise dalle navi militari americane schierate nell’Adriatico, si è consumato un evento che ha segnato una drammatica rottura dell’ordine internazionale, come delineato dalla Carta delle Nazioni Unite. Un gruppo di potenze, unite sotto la “leadership” degli Stati Uniti, attraverso una avventura bellica, ha aperto una nuova avventura nelle relazioni internazionali, rivendicando, manu militari, il “diritto” della c.d. “ingerenza umanitaria”. In realtà il diritto di regolare unilateralmente le situazioni di crisi internazionale attraverso la coercizione fondata sulla geometrica potenza delle armi occidentali.

Quando il pomeriggio del 24 marzo il Parlamento italiano è stato informato dal Governo che l’azione della NATO era iniziata, i bombardieri erano già in volo, la macchina da guerra si era messa in moto secondo un progetto predisposto da USA e GB e reso operativo da tempo, e la politica non avrebbe potuto fare niente per arrestarla: ormai si era consumato un evento politicamente irreversibile.

Il filosofo del diritto Luigi Ferrajoli a suo tempo osservò che si trattava di un vero colpo di stato internazionale, volto a sostituire la Nato all’Onu come garante dell’ordine internazionale, descrivendone gli aspetti inaccettabili di illegalità: “Innanzitutto la violazione della Costituzione italiana che all’articolo 11 bandisce la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e all’articolo 78 richiede che la guerra (di difesa) sia deliberata dalle Camere. In secondo luogo la violazione della Carta dell’Onu, che non solo vieta la guerra ma prescrive i “mezzi pacifici” volti “a conseguire la composizione e la soluzione delle controversie internazionali”: a cominciare dal negoziato ad oltranza, che non è stato neppure tentato non potendosi considerare tale l’ultimatum di Rambouillet, proposto sotto la minaccia dei bombardamenti in violazione dell’articolo 52 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati che vieta e dichiara nullo ogni trattato concluso sotto costrizione. In terzo luogo la violazione del Trattato istitutivo della Nato, che configura l’alleanza come esclusivamente difensiva e vincolata alla Carta dell’Onu. In quarto luogo quella dello statuto della Corte penale internazionale approvato a Roma nel luglio scorso, che prevede l’aggressione tra i delitti di competenza della corte. Infine le violazioni delle convenzioni di Ginevra, in base alle quali sono crimini di guerra i bombardamenti delle popolazioni civili, i quali hanno provocato come “danni collaterali” non imprevedibili migliaia di vittime innocenti e – almeno in un caso, il bombardamento della tv serba – l’uccisione intenzionale e rivendicata dalla Nato di undici giornalisti (n.d.r. in realtà 16 persone)”.

“Infine – proseguiva Ferrajoli – la guerra ha riedificato il muro, abbattuto dieci anni fa, che separava l’Europa dal blocco dell’Est, alimentando il nazionalismo e l’antioccidentalismo non solo in Serbia ma anche in Russia e in Cina e uccidendo la credibilità dell’occidente e dei suoi valori democratici. Giacché l’Occidente fa oggi esattamente ciò che ha sempre rimproverato al comunismo sovietico: l’imposizione con la violenza dei propri valori. Ieri l’imposizione con la forza del socialismo, oggi l’imposizione con la forza della democrazia e del rispetto dei diritti umani: vorrebbe dire, a rigore, portare la guerra in ogni angolo del pianeta, inclusi molti paesi occidentali.(.) Dobbiamo allora domandarci se stiamo assistendo a un’esplosione di follia o a una pur folle ma calcolata strategia: l’affermazione delle ragioni della forza su quelle del diritto e la squalificazione dell’Onu e del diritto internazionale, in vista di un nuovo ordine (e disordine) mondiale basato sul dominio non solo economico ma militare delle potenze occidentali. (..) La sola condizione per uscire dal disastro, anche culturale e politico da essa provocato, è che essa sia stigmatizzata e ricordata come una tragica e gravissima colpa. La guerra non riuscirà ad essere un atto costituente di un nuovo ordine/disordine mondiale e il colpo di stato con essa tentato fallirà soltanto se si prenderà atto che essa ha segnato una disfatta morale, giuridica e politica dell’Occidente, riparabile solo con un rinnovato mai più alla guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.” (il Manifesto, 12 giugno 1999).

Un nuovo disordine mondiale.
Purtroppo, nessuno in Occidente ha preso atto della disfatta morale e giuridica rappresentata dalla guerra di aggressione della NATO contro la Jugoslavia, quindi quest’esperienza ha assunto i caratteri di un vero e proprio atto costituente dell’ordine mondiale, che ha messo definitivamente fuori gioco l’ONU ed ha affidato alla forza delle armi la regolazione delle crisi internazionali e la gestione dell’ordine pubblico internazionale. Se si aboliscono le leggi che regolano la convivenza pacifica fra i popoli, se il criterio della convivenza deve essere la legge della giungla, cioè il criterio che quelli che sono più forti prevalgono sui più deboli, allora si pongono le basi per l’innalzamento di nuovi muri e la nascita di nuovi conflitti. Il primo effetto sarà la ripresa della corsa agli armamenti e la sostituzione della cooperazione con il confronto e lo scontro politico-militare. Infatti, proprio nel 1999, in concomitanza non casuale con la guerra contro la Jugoslavia, si verificano due eventi che determineranno il nuovo corso delle relazioni internazionali, che ci ha portato alle drammatiche vicende attuali. La NATO cambia la sua natura di Alleanza meramente difensiva e sottoposta alle decisioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, formalizzando, nel Summit tenuto a Washington il 23/25 aprile 1999, il nuovo ruolo assunto nei Balcani. Il Summit vara il “nuovo concetto strategico” che consente alla NATO di compiere operazioni al di fuori dell’art. 5 (che sancisce il ricorso alla forza solo come risposta ad un attacco armato nell’esercizio del diritto di difesa collettivo di cui all’art. 51 della Carta ONU). Il secondo evento è la scelta di costruire un nuovo nemico sostituendo la Federazione Russa (e in prospettiva la Cina, la cui ambasciata fu bombardata a Belgrado) al posto della scomparsa Unione Sovietica. La promessa solenne fatta a Gorbacev in occasione dell’unificazione della Germania di non spostare gli armamenti della NATO ad est dell’Elba viene stracciata senza ritegno alcuno. E’ in quel momento che inizia il processo di allargamento ad est della NATO, che il 12 marzo 1999 sancisce l’ingresso di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria. Allargamento che è proseguito fino ad inglobare i paesi ex sovietici e gli ex neutrali, attivando una nuova cortina di ferro che circonda la Russia dall’Artico al mar Nero. Ed è stata proprio la pretesa della NATO di penetrare anche nel territorio della Ucraina, assieme al conflitto etnico fomentato contro la componente russofona della popolazione, la causa principale che ha determinato lo scoppio della guerra, iniziato con l’aggressione della Russia contro l’Ucraina il 24 febbraio del corrente anno. Adesso questo nuovo Ordine/disordine mondiale ci ha portato ad un passo dalla guerra nucleare, che porrebbe fine alla vita dell’Umanità sulla Terra, e ci tiene immersi in una estenuante guerra d’attrito che gli USA hanno intenzione di alimentare fino ad ottenere la disgregazione del “nemico”. E tuttavia è stato osservato che pretendere la disgregazione di una potenza nucleare è un po’ come giocare a scacchi con la morte.

Domenico Gallo
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GOVERNO MONDIALE O DEMOCRAZIA INTERNAZIONALE?
14 DICEMBRE 2022 / COSTITUENTE TERRA / IL PROCESSO COSTITUENTE /
Un articolo del 1993 pubblicato in un dossier della rivista Giano dal titolo “Per un’ONU dell’età globale” in vista di una rifondazione del diritto internazionale dopo la rimozione del muro di Berlino
di Luigi Ferrajoli

Pubblichiamo un articolo del prof. Ferrajoli in cui, già nel 1993, si discutevano le prospettive di un costituzionalismo mondiale dopo la fine dell’età dei blocchi.

[segue]

IMMIGRAZIONI

843f680a-f9e3-4fc1-b968-4d01693efe9eBasta propaganda,
l’Europa ritrovi la sua anima

di Fiorella Farinelli
su ROCCA 15 DICEMBRE 2022*
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Tempi bui quando chi fugge da guerre, dittature, catastrofi climatiche, povertà estreme diventa cinico strumento, e perfino ostaggio, di ambizioni e strategie politiche. Non esseri umani da proteggere ma vittime da usare per riconferme identitarie, posizionamenti in ambito europeo, alleanze nazionali o internazionali. Inquieta e scandalizza ma non è una novità assoluta. Il Mediterraneo e le sue «rotte», il luogo di migrazione più fatale al mondo, è diventato da tempo il campo privilegiato di politiche di esternalizzazione, confinamento e respingimento dei migranti mosse dall’ossessione della riduzione dei flussi, e non dall’esigenza etica, politica e perfino economica di salvare, accogliere, includere, integrare. Nell’Unione europea ora ci si divide su se e come redistribuire tra tutti i Paesi (con i più nazionalisti e «sovranisti» che si sottraggono) i profughi che hanno diritto all’asilo e i minori «non accompagnati» coperti fino ai 18 anni da protezione internazionale. È alla fine del 2014, con la non proroga dell’operazione «Mare nostrum» in capo alla Marina militare italiana – vennero allora portate in salvo, in un anno, ben 160.000 persone – che c’è stata la svolta, la decisione di puntare unicamente al contrasto dell’immigrazione definita «irregolare» e dei «trafficanti» di esseri umani.

i dati di una catastrofe
Dati ufficiali dicono che dal 2014 all’agosto 2022 i morti o dispersi in mare nel tentativo di attraversarlo sono oltre 24.000, di cui 19.800 nella rotta centrale (LibiaItalia soprattutto), 2.700 in quella occidentale (Marocco-Spagna, Africa occidentale Canarie), 1.900 in quella orientale (TurchiaGrecia). Una catastrofe umanitaria probabilmente sottostimata e sicuramente evitabile. All’azzeramento dei soccorsi su larga scala, attivati cioè anche oltre le acque italiane come era stato con Mare Nostrum, si sono affiancati, a seguito dell’accordo nel 2017 dell’Italia con la Libia che ne ha fatto un «luogo sicuro di sbarco», i respingimenti cosiddetti «per procura». Oltre 100.000 sono stati i respinti per mano libica verso le coste di Tripoli tra il 2017 e il 2021, col supporto di ingenti finanziamenti italiani ed europei a un Paese politicamente instabile, e spietatamente indifferente al rispetto dei diritti umani. Si tratta, oltre che di migranti «forzati» che hanno, come i minori non accompagnati, diritto all’asilo o a specifiche protezioni, anche di migranti che in altri tempi si sarebbero definiti «per lavoro» (proprio come i nostri giovani che scelgono di vivere e lavorare all’estero) ma ormai derubricati a migranti «illegali», visto che in molti Paesi tra cui l’Italia gli ingressi per lavoro vengono autorizzati solo per lavori stagionali o altre attività specifiche (l’ultimo decretoflussi del governo Draghi, fortemente contrastato da Fratelli d’Italia e Lega, fu per poco più di 69.000 postazioni lavorative, molte meno di quelle richieste dal nostro sistema economico-produttivo stressato dall’invecchiamento della popolazione e dal gran rifiuto dei più giovani a lavori non qualificati e malpagati). Chi non ottiene l’autorizzazione a restare (i dinieghi viaggiano attorno al 50-60%) viene «respinto», ma i respingimenti sono di fatto poco praticabili – neanche Salvini ministro dell’interno è riuscito a farne più di qualche migliaio – e così molti restano in condizione di illegalità, esposti ad ogni tipo di sfruttamento e al rischio di coinvolgimento nei mercati nerissimi della piccola criminalità, in attesa di sanatorie che da anni non si fanno più o di «migrazioni secondarie» in Paesi con normative più favorevoli. A cosa serve tutto ciò? Dov’è finita l’Europa dei diritti universali? Quali sono gli effetti sulle democrazie europee di questo smarrimento dei valori e dei principi del Trattato di Roma e del diritto internazionale?

soffia un brutto vento
In Europa e in altre parti del mondo, Usa compresi, il vento che soffia è livido.
Se via terra si innalzano chilometri di barriere contro i migranti, c’è chi, oltre a limitare al massimo i soccorsi mettendo in mora l’antica «legge del mare», vorrebbe anche «chiudere i porti». Non si vuole prendere atto dell’inevitabilità di più o meno consistenti flussi migratori (la sola recente eccezione, in Europa, è stata per i profughi dall’Ucraina), un fenomeno che non può essere più visto come un’emergenza ma che è evidentemente di natura strutturale. Non si vuole decidere né di dedicare strategie e risorse allo sviluppo delle aree più disgraziate del pianeta, tra cui quelle dell’Africa centrale tormentate oltre che da guerre, dittature e sottosviluppo, anche dai rovinosi impatti del cambiamento climatico, né di dotarsi di regole condivise con cui governare con generosità e lungimiranza il fenomeno. Sinistre e destre si contrappongono dividendosi al loro interno, ma sono le opinioni pubbliche, in particolare i più poveri e i meno istruiti che temono la presunta concorrenza dei migranti nel mercato del lavoro e nel welfare, a guardare con crescente contrarietà alle migrazioni, e i governi di ogni colore politico, sia pure con approcci e modalità diverse, non possono non tenerne conto. Alcuni, anzi, è proprio di queste contrarietà che hanno spregiudicatamente fatto la scala per salire al potere. In questo quadro, e in una logica di piccoli passi, non c’è dubbio che sia indispensabile la definizione di una nuova governance europea delle migrazioni, con nuove regole su asili e rimpatri, basata su una maggiore cooperazione e solidarietà tra i Paesi dell’Unione. E che occorra superare il vecchio Trattato di Dublino sottoscritto nel 1990 – quando le migrazioni erano poca cosa e in Europa c’erano ancora le frontiere interne – secondo cui è lo Stato di primo arrivo del migrante che deve far fronte all’accoglienza e alla gestione delle domande di asilo, con le disparità di oneri che possono derivarne, secondo le circostanze geopolitiche e di altro tipo, tra i più e i meno investiti dai flussi di primo arrivo. Non è questo però né il solo né il vero centro del problema. In Europa sono tanti – i governi, e anche i cittadini che vorrebbero solo che i migranti restassero confinati nei loro Paesi e, se non lì, in altri disposti dietro generoso compenso a sequestrarli in luoghi che impediscano di partire. È anche per questo che sono difficili nuove politiche. Ma la disumanità rimbombata negli atti e nelle parole dei giorni di novembre in cui in Italia si è tentato di impedire l’approdo a tre imbarcazioni umanitarie, sono stati imposti grotteschi e offensivi sbarchi selettivi, sono volate tra Italia e Francia accuse di disumanità e di violazione del diritto internazionale offrendo un deprimente spettacolo di discordia in un momento in cui l’Europa dovrebbe essere più che mai unita a fronte della guerra fratricida in Ucraina, impongono anche altro. C’è una coscienza da ritrovare, da coltivare, da far prevalere. Un’anima da recuperare e da far vivere come senso distintivo dell’Unione europea. Non solo. Ci sono anche verità da ricostruire perché i sentimenti negativi nei confronti dell’immigrazione vengono alimentati e gonfiati dalla voluta alterazione dei fatti e dei dati.

una verità da ricostruire
È d’obbligo, per esempio, chiedersi cosa c’è di vero nella narrazione fragorosamente vittimistica di un’Italia che sosterrebbe da sola il peso di gran parte dei flussi migratori provenienti dall’Africa. Sono i 90.000 sbarchi dall’inizio del 2022 che vengono rinfacciati dal governo italiano a un’Unione Europea che non riesce a rendere impegnativi per tutti i suoi membri gli accordi di ricollocazione dei migranti, e in cui anche gli Stati firmatari li hanno finora attuati con il più avaro dei contagocce. Tutte giustificate, dunque, le proteste dell’Italia, anche se non si può non osservare che il governo italiano è curiosamente molto amico proprio di quei governi e di quelle forze politiche che gli accordi di ricollocazione li rifiutano. Ma non è questo il punto. Il fatto è che non sono le cifre degli sbarchi a dare da sole il quadro effettivo degli «oneri» dell’accoglienza, del setaccio dei sommersi e dei salvati, dei respingimenti, ma occorre guardare anche alle cifre delle domande di asilo e di protezione internazionale nei diversi Paesi. Gli sbarchi sono infatti solo una parte degli arrivi, l’altra è quella che arriva dalla rotta balcanica, la più battuta in questa fase come dimostrano i 106.396 migranti «balcanici» intercettati da gennaio ad ottobre 2022, di più dunque dei 90.000 arrivati via mare. E poi ci sono i flussi che arrivano via terra, con i treni, i Tir, gli aerei, a piedi. Tra gli stessi arrivi via mare, ce ne sono peraltro di non registrati, quelli che viaggiano con piccole imbarcazioni non segnalate o che sfuggono al controllo delle autorità portuali. Non solo. Come sanno benissimo le polizie e gli abitanti di frontiera di tutta Europa, sono imponenti le «migrazioni secondarie», quelle dei migranti che aggirano le regole di Dublino tentando il prima possibile di passare in altri Paesi europei e di presentare là la domanda di asilo. Secondo Eurostat, ma tutte le fonti istituzionali concordano, le 537mila richieste d’asilo (+28% rispetto al 2020, il primo e più duro anno della pandemia) pervenute nel 2021 ai governi europei si sono ripartite con impatti molto diversi tra i Paesi. In testa, come sempre, la Germania, con 148.000 domande, seguita dalla Francia con 104.000, dalla Spagna con 62.000. Mentre l’Italia è al quarto posto con 45.000, meno della metà di quelle della vicina Francia. Se si guarda poi al rapporto tra le domande e i numeri della popolazione, ad essere in testa è la Svezia, con 25 richieste d’asilo ogni 1000 abitanti, seguita dall’Austria (15 domande su 1000 abitanti), dalla Francia (6), mentre il rapporto per l’Italia scende a 3,5. Numeri che dicono due cose essenziali. La prima è che l’impatto dei flussi non viene solo dal Mediterraneo, e dal suo corridoio centrale, quello che punta al più vicino approdo di Lampedusa e di altri porti siciliani e calabresi. La seconda è che sono molto consistenti i «movimenti secondari» che dai luoghi di primo arrivo passano ad altri, preferiti per vari motivi. Alcuni Paesi, tra cui l’Italia, sono da molti considerati solo di passaggio, le mete vere sono altrove, non a caso tra le frontiere più calde c’è, tra l’Italia e la Francia, Ventimiglia, come c’è Calais tra la Francia e il Regno Unito. Chi, tra i governi, oggi batte i pugni sul tavolo e si lascia andare a sguaiate proteste per «essere stato lasciato solo», i numeri veri li sa. E non dovrebbe, per poter lucrare ancora sulle paure e sulle contrarietà popolari, inventare un’invasione che non c’è, o gonfiarne la portata. Anche sulla demonizzazione delle imbarcazioni che fanno riferimento alle Organizzazioni non governative – i «taxi del mare», ironizzavano i 5Stelle nella fase in cui non erano né di destra né di sinistra – ci sarebbe molto da puntualizzare. Non sono, come si dice, «navi pirata», o «complici dei trafficanti di uomini». Non solo perché sono tenute a segnalare i salvataggi alle Guardie Costiere e a chiedere l’autorizzazione agli sbarchi alle autorità portuali ma perché, con le loro attività coerenti con la normativa internazionale del mare (cioè l’obbligo per chiunque di soccorrere e salvare i naufraghi), suppliscono alla drastica riduzione o all’assenza di operazioni gestite dagli Stati. Una supplenza numericamente modesta, del resto, visto che i loro salvataggi nel Mediterraneo non sono più del 10% del totale. Sono una flotta «civile» con missione umanitaria, appartenente a ciò che in Italia chiamiamo «privato sociale» o Terzo settore. Le Ong che la finanziano, in larga misura tedesche, fanno riferimento a chiese cristiane come la Federazione delle Chiese evangeliche, a enti laici transnazionali come Medici senza Frontiere e Emergency, a singoli filantropi. In Germania godono di finanziamenti pubblici, deliberati dal Bundestag, in base al patto di governo tra i Verdi e i Socialdemocratici tedeschi. Regolamentarne le attività è giusto, demonizzarle è una delle tante modalità di costruzione di una narrazione vittimistica e complottista dell’immigrazione. Che aggiunge veleni a un clima sociale e politico già avvelenato. Non è di questo che c’è bisogno per ottenere una più lungimirante e più condivisa gestione europea del dramma dei profughi, e dei tanti disposti a rischiare la vita per cercare nell’Europa delle democrazie e delle opportunità per tutti una vita migliore. Sulla fiancata di una imbarcazione umanitaria di Emergency campeggia la scritta «i diritti che non sono di tutti sono solo privilegi», parole di Gino Strada.

* Fiorella Farinelli
su ROCCA 15 DICEMBRE 2022

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Pace, Pace, Pace

Rocca è online!
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Quando viene Natale.
L’editoriale di Mariano Borgognoni*

Capisci che s’avvicina il Natale da qualche timida luminaria davanti alla casa di gente frettolosa e impaziente o dinanzi ad un negozio ruffiano ed ingenuo. Ma soprattutto lo avverti dal saltibeccare nei vari pollai televisivi di Vespa e Mieli, Veltroni e Vattelapesca a propinarti la politica in un pragmatismo che lobotomizza l’anima. Eppure una crescente disuguaglianza sul piano globale e dei singoli Paesi e una benedetta inquietudine antropologica chiama a responsabilità. Non basta la forza cieca del mercato ad aggiustare il mondo. L’assorbimento della politica nell’economia non può produrre che libri da intorto per dirla col mitico Maestrone, signore di Pavana e coltivatore dei nostri sentimenti migliori.

E anche dal fatto che cambia il tempo e c’è nebbia in Val di Tara. Ma di questo non voglio parlare: sarebbe umiliante entrare nel merito. Poi c’è la guerra qui da noi, in Europa. E Gesù bambino se proprio al freddo e al gelo ha da nascere, non può farlo che lì. Se ne accorgeranno in pochi, more solito. Non ne parlerà nessuno come nessuno parla di pace. Chi ne parla poi non ha divisioni da mettere in campo. Eppure dovremmo cercare di combattere per una pace giusta anche dentro questo senso di impotenza che tende a paralizzarci, nella consapevolezza che, come amava ripetere Paolo De Benedetti citando i maestri d’Israele: «Non sta a te compiere l’opera, ma non sei libero di sottrartene».
Come dovremmo fare di più per sostenere la grande, eroica lotta delle donne iraniane contro la tirannia fondamentalista che nega i diritti essenziali ad una vita dignitosa e libera. È di grande conforto vedere insieme a loro tanti uomini, nelle vie di Teheran e di altre città. E quel silenzio dei calciatori iraniani al momento dell’inno vale più di un mondiale. A queste donne e a questi uomini abbiamo voluto dedicare l’ultima copertina dell’anno, con un titolo che vorrebbe far riflettere su come anche le regole del linguaggio, figlie di una lunga storia, possano essere ribaltate dalla forza di una speranza difficile che, quella storia, cerca di cambiare. «Sorelle tutti» può diventare in tante circostanze il modo più profondo per dire «Fratelli tutti».
In ogni caso quello che sembra mancare a questi piccoli e grandi fronti e gesti di lotta per alleggerire il mondo dall’ingiustizia
è un orizzonte. Un ideale e una convinzione che si possano costruire società diverse: più libere e più ugualitarie. Pesa il fallimento dei vecchi sogni e il chiudersi del caos, convulse costellazioni di «particulari» che non fanno sintesi. La profezia di Fukuyama sulla fine della storia giunti, dopo l’89, al migliore dei mondi possibile, sta mostrando la corda. Bisognerà immaginare una radicalità di pensiero e di azione che torni, in modo nuovo, sulle grandi speranze che continuano a covare in quel «guazzabuglio del cuore umano». Sono affezionato ad antichi nomi cristiani e socialisti ma se ne cerchino pure di nuovi, se si vuole, per dare gambe e forza ad un cammino di umanizzazione.
In questo tempo di Avvento, che ci porta verso il Natale, noi cristiani siamo invitati a cogliere e vivere la dimensione dell’attesa. Un’attesa vigile, attenta, perseverante, fiduciosa, operosa. Attesa che è anche attendere qualcosa, non solo attendere Qualcuno. Attesa è non addormentarsi ma continuare a pensare, a fare, a costruire. Sapendo che questo è «il cammino dell’uomo» per dirla con il titolo di un magnifico libretto di Martin Buber. Non sentirsi mai arrivati, mantenere un’apertura, che è un grimaldello critico per scardinare ogni ossificazione ideologica e ogni sacralizzazione del presente.
C’è una fecondità laica nella cifra dell’Avvento che, nella storia, resta un orizzonte irraggiungibile e per questo prezioso, perché muove speranze e al contempo marca un limite. Ed è proprio dentro questo limite che donne e uomini definiscono la loro identità.
Infine, per noi cristiani, in questo cammino comune con le donne e gli uomini del nostro tempo, resta da sussurrare la fede che il Regno verrà nella sua pienezza per tutti, ma soprattutto per gli umiliati e gli offesi di ogni tempo. Quelli che nessuna rivoluzione potrebbe salvare. Quelli senza il cui riscatto nessuna giustizia sarebbe possibile. Buon Natale!

*ROCCA 15 DICEMBRE 2022
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logo76cost-terra-logoCostituente Terra – Chiesadituttichiesadeipoveri.
Newsletter n.285 del 1 dicembre 2022
LE ARMI NON FINISCONO MAI. GLI UCRAINI INVECE SÌ.
di Raniero La Valle
Cari Amici,
mentre nell’azione di governo i “valori dell’Occidente” appaiono in via di estinzione, in nome dei “valori dell’Occidente” governo e Parlamento si apprestano a mandare altre armi all’Ucraina, Questo vuol dire che la guerra non finirà mai perché, come dice Lucio Caracciolo, America Russia e Cina si sono messe d’accordo di non usare l’arma atomica e perciò, data questa garanzia, la guerra può continuare all’infinito. Infatti una guerra può finire o con un negoziato, o con la vittoria o perché finiscono le armi, o perché finiscono i soldati. Nel nostro caso il negoziato è escluso da Zelensky, e la Russia, che pur ne avrebbe bisogno per la catastrofe che le sta procurando una guerra incauta e sbagliata, ci deve rinunziare. Con la vittoria non può finire, perché nessuno ne è capace e chiunque vincesse, perderebbero tutti e si innescherebbe una tragedia senza pari. Quanto alle armi, all’Ucraina non possono finire, perché l’America e tutto l’Occidente ne rimpiazzano continuamente gli arsenali, mentre Ursula von Der Leyen, Stoltenberg e tutto il corteggio dei loro seguaci non fanno altro che attizzare l’odio per la Russia, necessario per la guerra ad oltranza. Ma se non finiscono le armi, saranno gli Ucraini a finire. E continuare la guerra finché non finiscono gli Ucraini, a quali “valori” corrisponde? Che valori sono quelli per i quali si manda a morire un popolo intero sull’altare di un sacrificio i cui officianti si gloriano della loro laicità, per i quali l’icona del condottiero si innalza su città distrutte, bambini uccisi, eserciti decimati, speranze infrante, per i quali senza esclusione di colpi si combatte la lotta tra “democrazie” e “autocrazie”?
Dovremmo avere qualche remora ad appellarci ai valori dell’Occidente, non solo per il loro cattivo uso, ma perché proprio nell’affermarli, essi si dissolvono. Essi sono fatti consistere nella loro superiorità e differenza rispetto a quelli dell’Oriente, e anzi del resto del mondo. E ciò succede fin da quando si sono messi a confronto con quelli delle Indie appena scoperte, dei “popoli della natura” contro “i popoli dello spirito”, secondo le classifiche di Hegel. Dovrebbero essere invece i valori dell’universalità, che quando si rivendicano come propri, antagonisti ed esclusivi, proprio allora in quello stesso istante si perdono.
Dovrebbero essere infatti i valori semplicemente umani: quelli per i quali padre Balducci diceva che chi aveva bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentazioni sul proscenio delle culture non lo cercasse, perché non era che un uomo, e Alberto Einstein costretto ad emigrare negli Stati Uniti, scrisse: razza umana, sul formulario che alla dogana gli chiedeva di denunciare di che razza fosse, e Kant affermava che gli eserciti sono in se stessi, ancor prima del loro uso, minaccia agli altri popoli.
Essi intanto sono valori in quanto non rinnegano e non discriminano nessuno, non il nemico, non i paria, alla cui condizione Biden vuole ridurre i Russi. Ci sarebbe un modo invece per finire la guerra: non mandare più armi e in contropartita chiedere alla Russia di congelare le sue, e allora la guerra si esaurirebbe da sé. Ma purtroppo questa ipotesi è ben lontana dal potersi realizzare, ed è per questo che ci viene promessa una guerra infinita. Ma fino a quando?
Nel sito pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo sull’invito alla guerra da parte dei Parlamenti dell’UE e della NATO.
Un cordiale saluto,
www.chiesadituttichiesadeipoveri.it
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Martedì a Cagliari bella assemblea con il Presidente dell’ANPI Pagliarulo: ecco l’intervento.

a4ea3026-9d25-44c4-8910-9865b77c9a37Si è svolta martedì 29 cm a Cagliari un’affollata assemblea con il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo. Sono intervenuti, oltre ai dirigenti sardi dell’Anpi, il segretario regionale della CGIL e quello dell’Arci, dando vita ad un interessante confronto sui temi del lavoro, della guerra e della pace nonché della crisi socio-culturale del Paese. Ha concluso il presidente nazionale dell’ANPI, con un intervento, di cui pubblichiamo una sintesi, ricordando che Pagliarulo ha tralasciato i temi già trattati negli interventi di apertura.

L’intervento di Gianfranco Pagliarulo

e07b0772-9e52-4546-ba04-b2aa58ad39cdSvolgiamo questo incontro in un tempo drammatico, quello di una sconfitta di portata storica. E ha fatto bene chi mi ha preceduto a porsi e a porre una serie di interrogativi, a cominciare dal fatto che è cambiato il mondo. Mi permetto di aggiungere a queste riflessioni qualche parzialissima considerazione.
Credo che occorra ragionare su due parole: sovranisti e conservatori. Il termine sovranismo di estrema destra è un neologismo che richiama immediatamente la più classica parola nazionalismo. Certo, è cambiato il contesto: non siamo più all’inizio del Novecento o negli anni 20 o negli anni 30. Il sovranismo attuale mi pare in gran parte motivato da una reazione ad alcuni aspetti della globalizzazione. Non prevale per ora la violenta aggressività politica e anche militare del nazionalismo novecentesco. Al contrario il sovranismo sembra caratterizzato dall’idea di una chiusura nei propri confini come a definire una priorità di valori e di interessi: “American first” o “Prima di tutto gli italiani” sono slogan di chi si immagina in una fortezza assediata con il nemico alle porte, a cominciare dall’UE che di per sé non gode affatto di buona salute.
Eppure del nazionalismo classico l’attuale sovranismo sembra conservare alcuni tratti distintivi, come la propensione all’autoritarismo, la tendenza a superare i confini costituzionali, l’idea spesso inespressa della presunta superiorità di quel determinato popolo, di quella patria, di quell’insieme di terra e sangue – terra e sangue! – nel cui nome fu scatenato il più drammatico conflitto della storia dell’umanità, la Seconda guerra mondiale.
Conservatori è invece una parola antica e non a caso Giorgia Meloni è presidente dei Conservatori riformisti europei. Ma il significato di questa parola è molto cambiato. Conservatore è l’ex leader inglese Johnson, conservatrice è Liz Truss, entrambi caratterizzati da una radicalità molto lontana dal tradizionale costume dei tories. Neocon, neoconservatori, è il nome di quella corrente americana che si incarnò nel governo di Bush Junior e nella teoria dell’esportazione manu militari della democrazia. A suo modo conservatore è Donald Trump, portatore di una politica protezionista e isolazionista. In sostanza oggi la parola conservatore è relativamente indefinita e sovente si sposa con le parole oscurantista, nazionalista e, spesso, isolazionista. C’è un grumo di idee, emozioni, giudizi e pregiudizi diverso da Paese a Paese ma comune in tanti Paesi che racchiude una miscela composita di “ismi”: oscurantismo e nazionalismo, come già detto, e assieme razzismo, autoritarismo, neofascismo, neonazismo, con una spiccata propensione al rifiuto delle conquiste della scienza, all’irrazionalismo, qualche volta al misticismo religioso o profano, quella cosa premoderna che alcuni chiamano “pensiero magico”.
Conservazione in questa nuova indefinita accezione e sovranismo come una sorta di novello nazionalismo sono quindi, a mio avviso, le parole chiave dell’estrema destra attuale nel mondo e in Italia.
Tutto ciò non è nato da ieri a oggi, non è una Minerva che nasce miracolosamente dal cervello di Giove, ma ha una lunghissima incubazione, presumo quantomeno una trentina d’anni. Da quanti decenni la Lombardia è in mano al centrodestra? Tutte le regioni del nord Italia sono in mano alle destre dal 2020. 14 regioni sono dal 2020 al centrodestra e cinque al centrosinistra. E i Comuni? E ancora: quanto è cambiato il Paese dal 1994 con Silvio Berlusconi che vinse le elezioni? Voglio dire che la Meloni non è frutto del destino cinico e baro, ma l’esito di una lunga fase preparatoria e assieme – penso – l’avvio di una nuova fase.
Questa lunghissima incubazione coincide con eventi che hanno profondamente cambiato il mondo e che sono interconnessi: dalla rivoluzione tecnologica-informatica ai cambiamenti dell’organizzazione e in alcuni casi del lavoro. Se questo processo ha assunto forme diversissime da Paese a Paese, in un punto è relativamente costante: il progressivo e sempre più veloce aumento delle diseguaglianze sociali. Non è un mistero che la maggioranza degli elettori popolari si riconosce nei partiti di destra in Italia, o che a maggior ragione negli Stati Uniti il consenso di Trump è acquartierato di gran lunga nella grande provincia.
La politica che chiamiamo democratica e di sinistra ha in gran parte smarrito i legami sociali e la connessione sentimentale con gran parte del suo popolo e si è allontanata dal mondo del lavoro, che a mio avviso rimane il cuore del problema. Se ci avviciniamo al nostro Paese osserviamo che i partiti costituenti sono tutti scomparsi; il più vecchio partito oggi presente in Parlamento è la Lega; i partiti attuali hanno smarrito la funzione fondativa che avevano svolto dal dopoguerra fino agli anni 70, e che era fondamentalmente duplice: erano l’anello di congiunzione fra la società e lo Stato, fra il popolo e le istituzioni operando così una virtuosa correzione a un difetto storico del nostro Paese fin dai tempi dell’unità. E svolgevano anche un ruolo fondamentale di formazione civile educando alla politica milioni e milioni di persone in particolare attraverso i grandi partiti di massa. Tutto questo non c’è più e oggi siamo, per così dire, nudi alla meta nella inedita circostanza del primo governo repubblicano a guida di estrema destra post fascista. Aggiungo a questo proposito che non mi pare corretto parlare di un governo fascista tout-court e anche di un partito fascista tout-court, Fratelli d’Italia. Uso le parole di Alberto Olivetti quando ha parlato di Fratelli d’Italia come di un partito con elementi di fascismo in sospensione. Il che non esclude affatto né la presenza di vocazioni autoritarie, come si più leggere nell’infelicissimo decreto cosiddetto anti-rave e nelle dichiarazioni programmatiche sul semipresidenzialismo e sull’autonomia differenziata, né esclude possibili future degenerazioni. Questa nuova conformazione dei partiti rende spesso asfittiche, parziali o del tutto assenti le loro capacità di proporre analisi articolate della realtà, com’era invece costume dei partiti di massa.
Il mondo dell’associazionismo, che per sua natura non tende ad essere né partito né istituto di ricerca, si trova nella particolare condizione di provare a riempire questo vuoto dando vita a momenti o a luoghi di riflessione e di analisi come per esempio state provando a fare voi, come stiamo provando a fare noi, come stanno provando a fare altri soggetti associativi.
Ma nella particolarissima situazione attuale, nel pieno di una guerra che sembra sempre più pericolosa e vicina, quando tutti sentiamo che possono essere messi in discussione i pilastri del vivere comune, e cioè la Costituzione e i suoi princìpi di libertà e di eguaglianza, si ridefinisce nella realtà quotidiana anche una parte dei nostri compiti: per ciò che riguarda l’ANPI agli obblighi legati alla memoria e anche ai sacrosanti riti laici ad essa legati, come le commemorazioni, i giri con le corone, l’ossequio commosso alle lapidi, si aggiunge – sottolineo: si aggiunge, non si sostituisce – un plus di impegno civile e sociale teso sia all’attività di formazione civica – le scuole – e culturale, sia alla ricostruzione di un rapporto di fiducia fra popolo e istituzioni democratiche. A quest’ultimo proposito la drammatica consumazione di quel rapporto di fiducia si manifesta sia con quanto di protesta c’è stato nel voto per l’estrema destra, sia in quel 40% di elettori che non ha votato o che ha annullato la scheda. Credo, in sostanza, che questa sia la grande sfida a cui noi, voi, l’intero mondo dell’associazionismo, sia pur con toni diversi a seconda della natura delle Associazioni, siamo chiamati.
In questa situazione una più generale prospettiva di unità deve rapidamente passare dal libro dei sogni al sogno che si concretizza, anche perché a ben vedere il Novecento ci ha insegnato questo nel male e nel bene. Nel male quando il fascismo prevale dal ’22 in poi anche grazie alla divisione fra le forze antifasciste del tempo. Nel bene quando dal ’43 in poi la politica dei Comitati di Liberazione Nazionale fu alla base della vittoria della Resistenza e dei primi anni successivi alla Liberazione.
Finisco.
Nella nebbia che da tempo ci avvolge, il tema della deportazione politica, come giustamente ha detto chi mi ha preceduto, troppo spesso è stato oscurato o addirittura dimenticato. Forse c’è un punto di malizia politica in questa rimozione, connessa ai tentativi di delegittimare la Resistenza. Si tratta di un ulteriore argomento di riflessione tutto sommato proprio dell’insieme delle Associazioni antifasciste e resistenziali a cominciare dall’ANPI. Ricordo anch’io la grande importanza della costituzione del Forum delle associazioni perché per la prima volta dopo tanti decenni stiamo provando a mettere a valore tutto ciò che ci unisce e senza dubbio, con tutte le difficoltà e le contraddizioni della vita reale, questo processo andrà avanti in una prospettiva unitaria di cui non conosciamo tempi e modalità ma che è oramai tracciata. Voi tutti siete una parte essenziale e insostituibile di questo processo unitario ed è interesse non solo vostro, ma dell’ANPI, del Forum, del mondo dell’associazionismo, del nostro Paese, che il vostro patrimonio non vada disperso. Perché? Perché prima d’essere un pezzo di storia d’Italia è un pezzo di storia degli italiani; è un patrimonio di sofferenza, di vita e di pensiero, unico e insostituibile.

Carissime compagne e compagni, buon lavoro!
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Sempre e comunque contro la guerra per la Pace

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Newsletter n.285 del 1 dicembre 2022
LE ARMI NON FINISCONO MAI. GLI UCRAINI INVECE SÌ.
di Raniero La Valle
Cari Amici,
mentre nell’azione di governo i “valori dell’Occidente” appaiono in via di estinzione, in nome dei “valori dell’Occidente” governo e Parlamento si apprestano a mandare altre armi all’Ucraina, Questo vuol dire che la guerra non finirà mai perché, come dice Lucio Caracciolo, America Russia e Cina si sono messe d’accordo di non usare l’arma atomica e perciò, data questa garanzia, la guerra può continuare all’infinito. Infatti una guerra può finire o con un negoziato, o con la vittoria o perché finiscono le armi, o perché finiscono i soldati. Nel nostro caso il negoziato è escluso da Zelensky, e la Russia, che pur ne avrebbe bisogno per la catastrofe che le sta procurando una guerra incauta e sbagliata, ci deve rinunziare. Con la vittoria non può finire, perché nessuno ne è capace e chiunque vincesse, perderebbero tutti e si innescherebbe una tragedia senza pari. Quanto alle armi, all’Ucraina non possono finire, perché l’America e tutto l’Occidente ne rimpiazzano continuamente gli arsenali, mentre Ursula von Der Leyen, Stoltenberg e tutto il corteggio dei loro seguaci non fanno altro che attizzare l’odio per la Russia, necessario per la guerra ad oltranza. Ma se non finiscono le armi, saranno gli Ucraini a finire. E continuare la guerra finché non finiscono gli Ucraini, a quali “valori” corrisponde? Che valori sono quelli per i quali si manda a morire un popolo intero sull’altare di un sacrificio i cui officianti si gloriano della loro laicità, per i quali l’icona del condottiero si innalza su città distrutte, bambini uccisi, eserciti decimati, speranze infrante, per i quali senza esclusione di colpi si combatte la lotta tra “democrazie” e “autocrazie”?
Dovremmo avere qualche remora ad appellarci ai valori dell’Occidente, non solo per il loro cattivo uso, ma perché proprio nell’affermarli, essi si dissolvono. Essi sono fatti consistere nella loro superiorità e differenza rispetto a quelli dell’Oriente, e anzi del resto del mondo. E ciò succede fin da quando si sono messi a confronto con quelli delle Indie appena scoperte, dei “popoli della natura” contro “i popoli dello spirito”, secondo le classifiche di Hegel. Dovrebbero essere invece i valori dell’universalità, che quando si rivendicano come propri, antagonisti ed esclusivi, proprio allora in quello stesso istante si perdono.
Dovrebbero essere infatti i valori semplicemente umani: quelli per i quali padre Balducci diceva che chi aveva bisogno di un cristiano per completare la serie delle rappresentazioni sul proscenio delle culture non lo cercasse, perché non era che un uomo, e Alberto Einstein costretto ad emigrare negli Stati Uniti, scrisse: razza umana, sul formulario che alla dogana gli chiedeva di denunciare di che razza fosse, e Kant affermava che gli eserciti sono in se stessi, ancor prima del loro uso, minaccia agli altri popoli.
Essi intanto sono valori in quanto non rinnegano e non discriminano nessuno, non il nemico, non i paria, alla cui condizione Biden vuole ridurre i Russi. Ci sarebbe un modo invece per finire la guerra: non mandare più armi e in contropartita chiedere alla Russia di congelare le sue, e allora la guerra si esaurirebbe da sé. Ma purtroppo questa ipotesi è ben lontana dal potersi realizzare, ed è per questo che ci viene promessa una guerra infinita. Ma fino a quando?
Nel sito pubblichiamo un articolo di Domenico Gallo sull’invito alla guerra da parte dei Parlamenti dell’UE e della NATO.
Un cordiale saluto,
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Martedì a Cagliari bella assemblea con il Presidente dell’ANPI Pagliarulo: ecco l’intervento.

a4ea3026-9d25-44c4-8910-9865b77c9a37Si è svolta martedì 29 cm a Cagliari un’affollata assemblea con il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo. Sono intervenuti, oltre ai dirigenti sardi dell’Anpi, il segretario regionale della CGIL e quello dell’Arci, dando vita ad un interessante confronto sui temi del lavoro, della guerra e della pace nonché della crisi socio-culturale del Paese. Ha concluso il presidente nazionale dell’ANPI, con un intervento, di cui pubblichiamo una sintesi, ricordando che Pagliarulo ha tralasciato i temi già trattati negli interventi di apertura.

L’intervento di Gianfranco Pagliarulo

e07b0772-9e52-4546-ba04-b2aa58ad39cdSvolgiamo questo incontro in un tempo drammatico, quello di una sconfitta di portata storica. E ha fatto bene chi mi ha preceduto a porsi e a porre una serie di interrogativi, a cominciare dal fatto che è cambiato il mondo. Mi permetto di aggiungere a queste riflessioni qualche parzialissima considerazione.
Credo che occorra ragionare su due parole: sovranisti e conservatori. Il termine sovranismo di estrema destra è un neologismo che richiama immediatamente la più classica parola nazionalismo. Certo, è cambiato il contesto: non siamo più all’inizio del Novecento o negli anni 20 o negli anni 30. Il sovranismo attuale mi pare in gran parte motivato da una reazione ad alcuni aspetti della globalizzazione. Non prevale per ora la violenta aggressività politica e anche militare del nazionalismo novecentesco. Al contrario il sovranismo sembra caratterizzato dall’idea di una chiusura nei propri confini come a definire una priorità di valori e di interessi: “American first” o “Prima di tutto gli italiani” sono slogan di chi si immagina in una fortezza assediata con il nemico alle porte, a cominciare dall’UE che di per sé non gode affatto di buona salute.
Eppure del nazionalismo classico l’attuale sovranismo sembra conservare alcuni tratti distintivi, come la propensione all’autoritarismo, la tendenza a superare i confini costituzionali, l’idea spesso inespressa della presunta superiorità di quel determinato popolo, di quella patria, di quell’insieme di terra e sangue – terra e sangue! – nel cui nome fu scatenato il più drammatico conflitto della storia dell’umanità, la Seconda guerra mondiale.
Conservatori è invece una parola antica e non a caso Giorgia Meloni è presidente dei Conservatori riformisti europei. Ma il significato di questa parola è molto cambiato. Conservatore è l’ex leader inglese Johnson, conservatrice è Liz Truss, entrambi caratterizzati da una radicalità molto lontana dal tradizionale costume dei tories. Neocon, neoconservatori, è il nome di quella corrente americana che si incarnò nel governo di Bush Junior e nella teoria dell’esportazione manu militari della democrazia. A suo modo conservatore è Donald Trump, portatore di una politica protezionista e isolazionista. In sostanza oggi la parola conservatore è relativamente indefinita e sovente si sposa con le parole oscurantista, nazionalista e, spesso, isolazionista. C’è un grumo di idee, emozioni, giudizi e pregiudizi diverso da Paese a Paese ma comune in tanti Paesi che racchiude una miscela composita di “ismi”: oscurantismo e nazionalismo, come già detto, e assieme razzismo, autoritarismo, neofascismo, neonazismo, con una spiccata propensione al rifiuto delle conquiste della scienza, all’irrazionalismo, qualche volta al misticismo religioso o profano, quella cosa premoderna che alcuni chiamano “pensiero magico”.
Conservazione in questa nuova indefinita accezione e sovranismo come una sorta di novello nazionalismo sono quindi, a mio avviso, le parole chiave dell’estrema destra attuale nel mondo e in Italia.
Tutto ciò non è nato da ieri a oggi, non è una Minerva che nasce miracolosamente dal cervello di Giove, ma ha una lunghissima incubazione, presumo quantomeno una trentina d’anni. Da quanti decenni la Lombardia è in mano al centrodestra? Tutte le regioni del nord Italia sono in mano alle destre dal 2020. 14 regioni sono dal 2020 al centrodestra e cinque al centrosinistra. E i Comuni? E ancora: quanto è cambiato il Paese dal 1994 con Silvio Berlusconi che vinse le elezioni? Voglio dire che la Meloni non è frutto del destino cinico e baro, ma l’esito di una lunga fase preparatoria e assieme – penso – l’avvio di una nuova fase.
Questa lunghissima incubazione coincide con eventi che hanno profondamente cambiato il mondo e che sono interconnessi: dalla rivoluzione tecnologica-informatica ai cambiamenti dell’organizzazione e in alcuni casi del lavoro. Se questo processo ha assunto forme diversissime da Paese a Paese, in un punto è relativamente costante: il progressivo e sempre più veloce aumento delle diseguaglianze sociali. Non è un mistero che la maggioranza degli elettori popolari si riconosce nei partiti di destra in Italia, o che a maggior ragione negli Stati Uniti il consenso di Trump è acquartierato di gran lunga nella grande provincia.
La politica che chiamiamo democratica e di sinistra ha in gran parte smarrito i legami sociali e la connessione sentimentale con gran parte del suo popolo e si è allontanata dal mondo del lavoro, che a mio avviso rimane il cuore del problema. Se ci avviciniamo al nostro Paese osserviamo che i partiti costituenti sono tutti scomparsi; il più vecchio partito oggi presente in Parlamento è la Lega; i partiti attuali hanno smarrito la funzione fondativa che avevano svolto dal dopoguerra fino agli anni 70, e che era fondamentalmente duplice: erano l’anello di congiunzione fra la società e lo Stato, fra il popolo e le istituzioni operando così una virtuosa correzione a un difetto storico del nostro Paese fin dai tempi dell’unità. E svolgevano anche un ruolo fondamentale di formazione civile educando alla politica milioni e milioni di persone in particolare attraverso i grandi partiti di massa. Tutto questo non c’è più e oggi siamo, per così dire, nudi alla meta nella inedita circostanza del primo governo repubblicano a guida di estrema destra post fascista. Aggiungo a questo proposito che non mi pare corretto parlare di un governo fascista tout-court e anche di un partito fascista tout-court, Fratelli d’Italia. Uso le parole di Alberto Olivetti quando ha parlato di Fratelli d’Italia come di un partito con elementi di fascismo in sospensione. Il che non esclude affatto né la presenza di vocazioni autoritarie, come si più leggere nell’infelicissimo decreto cosiddetto anti-rave e nelle dichiarazioni programmatiche sul semipresidenzialismo e sull’autonomia differenziata, né esclude possibili future degenerazioni. Questa nuova conformazione dei partiti rende spesso asfittiche, parziali o del tutto assenti le loro capacità di proporre analisi articolate della realtà, com’era invece costume dei partiti di massa.
Il mondo dell’associazionismo, che per sua natura non tende ad essere né partito né istituto di ricerca, si trova nella particolare condizione di provare a riempire questo vuoto dando vita a momenti o a luoghi di riflessione e di analisi come per esempio state provando a fare voi, come stiamo provando a fare noi, come stanno provando a fare altri soggetti associativi.
Ma nella particolarissima situazione attuale, nel pieno di una guerra che sembra sempre più pericolosa e vicina, quando tutti sentiamo che possono essere messi in discussione i pilastri del vivere comune, e cioè la Costituzione e i suoi princìpi di libertà e di eguaglianza, si ridefinisce nella realtà quotidiana anche una parte dei nostri compiti: per ciò che riguarda l’ANPI agli obblighi legati alla memoria e anche ai sacrosanti riti laici ad essa legati, come le commemorazioni, i giri con le corone, l’ossequio commosso alle lapidi, si aggiunge – sottolineo: si aggiunge, non si sostituisce – un plus di impegno civile e sociale teso sia all’attività di formazione civica – le scuole – e culturale, sia alla ricostruzione di un rapporto di fiducia fra popolo e istituzioni democratiche. A quest’ultimo proposito la drammatica consumazione di quel rapporto di fiducia si manifesta sia con quanto di protesta c’è stato nel voto per l’estrema destra, sia in quel 40% di elettori che non ha votato o che ha annullato la scheda. Credo, in sostanza, che questa sia la grande sfida a cui noi, voi, l’intero mondo dell’associazionismo, sia pur con toni diversi a seconda della natura delle Associazioni, siamo chiamati.
In questa situazione una più generale prospettiva di unità deve rapidamente passare dal libro dei sogni al sogno che si concretizza, anche perché a ben vedere il Novecento ci ha insegnato questo nel male e nel bene. Nel male quando il fascismo prevale dal ’22 in poi anche grazie alla divisione fra le forze antifasciste del tempo. Nel bene quando dal ’43 in poi la politica dei Comitati di Liberazione Nazionale fu alla base della vittoria della Resistenza e dei primi anni successivi alla Liberazione.
Finisco.
Nella nebbia che da tempo ci avvolge, il tema della deportazione politica, come giustamente ha detto chi mi ha preceduto, troppo spesso è stato oscurato o addirittura dimenticato. Forse c’è un punto di malizia politica in questa rimozione, connessa ai tentativi di delegittimare la Resistenza. Si tratta di un ulteriore argomento di riflessione tutto sommato proprio dell’insieme delle Associazioni antifasciste e resistenziali a cominciare dall’ANPI. Ricordo anch’io la grande importanza della costituzione del Forum delle associazioni perché per la prima volta dopo tanti decenni stiamo provando a mettere a valore tutto ciò che ci unisce e senza dubbio, con tutte le difficoltà e le contraddizioni della vita reale, questo processo andrà avanti in una prospettiva unitaria di cui non conosciamo tempi e modalità ma che è oramai tracciata. Voi tutti siete una parte essenziale e insostituibile di questo processo unitario ed è interesse non solo vostro, ma dell’ANPI, del Forum, del mondo dell’associazionismo, del nostro Paese, che il vostro patrimonio non vada disperso. Perché? Perché prima d’essere un pezzo di storia d’Italia è un pezzo di storia degli italiani; è un patrimonio di sofferenza, di vita e di pensiero, unico e insostituibile.

Carissime compagne e compagni, buon lavoro!
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Roma, la pace, l’abbraccio, l’Anpi
Gianfranco Pagliarulo

La nostra associazione è stata protagonista di una mobilitazione memorabile, partecipando con migliaia di iscritte, iscritti, dirigenti. E insieme alle altre realtà promotrici, si è confermata soggetto politico ineludibile sulla questione guerra, oltre che sulla difesa della democrazia e della Costituzione
Costituzione Democrazia Guerra e Pace

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Roma, 5 novembre. In migliaia le donne e gli uomini dell’Anpi hanno sfilato da piazza della Repubblica fino a piazza San Giovanni
È avvenuto un grande abbraccio. Chi c’era, sa. Chi ha visto la diretta sui social, sa. Chi ha letto i più importanti quotidiani del giorno successivo o ha visto le tv a reti (quasi) unificate, probabilmente non sa, o non sa bene.

Si è svolta a Roma una manifestazione di dimensioni straordinarie, con più di 100mila persone, con una sola parola d’ordine: pace. Dietro questa parola, ovviamente, una sorta di decalogo. Cessate il fuoco, trattativa e negoziato, intervento pacificatore delle Nazioni Unite, ruolo di intermediazione dell’Unione Europea, conferenza di pace, smilitarizzazione, messa al bando delle armi nucleari, stop alla corsa al riarmo, sicurezza reciproca condivisa, liberazione dalla guerra. Un percorso – oggi è di moda dire road map – che porti a una nuova coesistenza pacifica in un mondo multipolare. Questa manifestazione, promossa da Europe for Peace, è stata diretta e organizzata da un cartello di centinaia di associazioni, movimenti, sindacati dei più diversi orientamenti, con una fortissima e significativa presenza del mondo cattolico. Il Presidente della CEI, Cardinale Zuppi, ha inviato un autorevolissimo messaggio di adesione e partecipazione.

L’Anpi è stata fra le protagoniste di una giornata indimenticabile, partecipando fra l’altro con migliaia di iscritte e iscritti, attiviste e attivisti, dirigenti. Una giornata memorabile, che restituisce speranza ed entusiasmo ai tanti che sembravano rassegnati al silenzio davanti a un vero e proprio terrorismo mediatico scatenatosi fin dall’invasione. Quando chiunque si permetteva di contraddire sia pur parzialmente il verbo del mainstream dominante veniva messo alla gogna come putiniano, in un delirio bellicista teso a militarizzare l’opinione pubblica. Come se fossimo in guerra. E forse lo siamo. Lo specchio deformante è stato infranto, e questo è merito di quei centomila e passa, che hanno rappresentato un’altra Italia, quella che, proprio perché condanna senza remissione l’invasione russa e le sue sanguinose conseguenze, da tempo pensa che occorre agire diplomaticamente per far cessare l’inutile strage, avviare una de-escalation, allontanare l’ombra mostruosa di un conflitto nucleare, restituire al mondo una dimensione di umanità che sembra smarrita.

Questi i fatti. La rappresentazione dei grandi media, invece, ha ridotto il grandissimo peso politico e civile della manifestazione a una controversia fra segretari di partiti, imponendo un grottesco paragone fra il popolo che si è riversato a Roma e qualche centinaio di attivisti di partito, parlamentari e quant’altro che si è riunito a Milano in ostentata polemica con la manifestazione nazionale. In sostanza l’immagine che è stata data di un corteo grandioso e pulsante di aspettativa e dei brevissimi comizi che si sono succeduti in modo tambureggiante, con decine di migliaia di persone che non sono riuscite ad arrivare in piazza San Giovanni, tanto imponente era il corteo, ebbene, tutto ciò è stato ridotto a un confronto polemico fra Conte, Letta, Calenda, ignorando così la funzione straordinaria (letteralmente, cioè al di fuori dell’ordinario) dell’associazionismo democratico nella sua più ampia declinazione: associazioni, movimenti, sindacati. Quale funzione? La funzione fondamentale della rappresentanza democratica di quelle che la Costituzione chiama formazioni sociali, in questo caso del pensiero e della volontà di pace di una parte rilevantissima della società italiana, che sino a oggi era stato espresso soltanto nei sondaggi in clamoroso contrasto con le scelte governative, e che dal 5 novembre si conferma, per così dire, autorevole soggetto politico nel senso più ampio del termine.

L’associazionismo democratico laico e cattolico è stato e rimarrà un soggetto politico ineludibile sulla questione della pace e della guerra, ma anche – aggiungo – sui temi della difesa della democrazia e della Costituzione, oggi più che mai centrali alla luce di alcuni segnali incontrovertibili: il contrasto alla diseguaglianza, tema propriamente costituzionale come recitato dall’articolo 3, il programma semipresidenzialista del governo Meloni, il recente decreto legge cosiddetto anti-rave “portatore – com’è scritto in una presa di posizione della segreteria nazionale Anpi – di una gravissima e intollerabile ambiguità che può far emergere una propensione autoritaria”.

La scesa in campo di un nuovo movimento per la pace a Roma evoca uno scenario nuovo e allude alla possibilità che esso si replichi a Berlino, Londra, Parigi, Madrid. Per ciò che riguarda il nostro Paese, ancora bisogna evitare la trappola delle polemiche, dello scontro, peggio, delle invettive e del tifo da stadio, che fanno soltanto il gioco dei circoli più bellicisti. Perché ancora? Perché costoro hanno dato le carte per mesi, impedendo manu militari che si aprisse un vero dibattito pubblico sui temi della guerra e della pace, riducendolo al teatrino dei talk show, con tanto di aggressioni a chi si permetteva di dissentire. Costoro hanno subito il colpo del 5 novembre, ma di certo non si rassegneranno. Viceversa, occorre allargare il campo del negoziato e della pace, essere instancabili nella prospettiva unitaria, rifiutando ogni degrado della discussione, accogliendo punti di vista diversi ma convergenti sull’urgenza di un’iniziativa politica verso la trattativa.
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Roma, 5 novembre, Piazza San Giovanni. Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, durante l’intervento dal palco di Europe For Peace

In conclusione il 5 novembre è un punto di non ritorno e un punto di (ri)partenza, che fa onore a tutte e tutti coloro che hanno partecipato alla manifestazione, che, a costo della fatica di un viaggio spesso lungo, hanno consegnato all’intero Paese la possibilità di una speranza di pace. È avvenuto un grande abbraccio di popolo. Aggiungo qui ed ora il mio, se me lo consentite: uno speciale abbraccio alle compagne e ai compagni dell’Anpi che hanno risposto con responsabilità ed entusiasmo all’appello alla partecipazione che abbiamo lanciato. La poetessa Alda Merini ha scritto: “Ci si abbraccia per ritrovarsi interi”. Ecco, un abbraccio ai mille e mille e mille dell’Anpi. Perché così ci ritroviamo interi. Persone. Cuore e cervello. Sogni e saggezza. Avanti!

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi
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RASSEGNA 30.11.2022. IL DOPPIO VOLTO DELLA MANOVRA
30 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem
La Rassegna del 30 novembre 2022 (fonte Ceccanti e altro). Si segnala: Angelo Panebianco riflette sul Terzo polo: “Scommesse centriste tra destra e sinistra” (Corriere della sera). Veronica De Romanis commenta la manovra di governo: “Il doppio volto della manovra” (La Stampa). Claudio Cerasa rimprovera la Meloni: “Meloni e la surreale e pericolosa demonizzazione del POS” (Foglio). Gustavo Zagrebelsky commenta criticamente il ministro Valditara: “Altro che merito e umiliazioni, in aula si cresce insieme” (intervista a La Stampa). Rosalba Carbutti annota: “Schlein quasi candidata. E nasce nel Pd la corrente laburista” (Qn). Giulia Merlo sul dialogo Calenda-Meloni: “Calenda è l’alleato occulto di Meloni per gestire Forza Italia” (Domani). Giovanna Vitale e Tommaso Ciriaco: “Armi a Kiev per il 2023. Il governo ora farà un decreto” (Repubblica). Gianfranco Cerea, “Se al Nord la scuola passa alle regioni” (lavoce.info). PARTITO DEMOCRATICO: Matteo Lepore, “Compagni, chiamiamolo partito del lavoro” (Repubblica). MONDO: Nello Scavo, “Via da Odessa un’altra volta. Prima le bombe ora il gelo” (Avvenire). Stefano Zamagni, “Per punire Putin si rischia di sacrificare gli ucraini” (intervista a Il Fatto). Paola Peduzzi, “Le ingerenze virtuose. I casi di Iran e Cina” (Foglio). David Carretta, “Sulla Cina la Ue vuole una linea sua, non quella di Biden” (Foglio).
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Prossimamente a dicembre
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Impegnati per la Pace, ostinatamente, sempre e comunque!

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Martedì a Cagliari bella assemblea con il Presidente dell’ANPI Pagliarulo: ecco l’intervento.

a4ea3026-9d25-44c4-8910-9865b77c9a37Si è svolta martedì 29 cm a Cagliari un’affollata assemblea con il Presidente dell’Anpi Gianfranco Pagliarulo. Sono intervenuti, oltre ai dirigenti sardi dell’Anpi, il segretario regionale della CGIL e quello dell’Arci, dando vita ad un interessante confronto sui temi del lavoro, della guerra e della pace nonché della crisi socio-culturale del Paese. Ha concluso il presidente nazionale dell’ANPI, con un intervento, di cui pubblichiamo una sintesi, ricordando che Pagliarulo ha tralasciato i temi già trattati negli interventi di apertura.

L’intervento di Gianfranco Pagliarulo

e07b0772-9e52-4546-ba04-b2aa58ad39cdSvolgiamo questo incontro in un tempo drammatico, quello di una sconfitta di portata storica. E ha fatto bene chi mi ha preceduto a porsi e a porre una serie di interrogativi, a cominciare dal fatto che è cambiato il mondo. Mi permetto di aggiungere a queste riflessioni qualche parzialissima considerazione.
Credo che occorra ragionare su due parole: sovranisti e conservatori. Il termine sovranismo di estrema destra è un neologismo che richiama immediatamente la più classica parola nazionalismo. Certo, è cambiato il contesto: non siamo più all’inizio del Novecento o negli anni 20 o negli anni 30. Il sovranismo attuale mi pare in gran parte motivato da una reazione ad alcuni aspetti della globalizzazione. Non prevale per ora la violenta aggressività politica e anche militare del nazionalismo novecentesco. Al contrario il sovranismo sembra caratterizzato dall’idea di una chiusura nei propri confini come a definire una priorità di valori e di interessi: “American first” o “Prima di tutto gli italiani” sono slogan di chi si immagina in una fortezza assediata con il nemico alle porte, a cominciare dall’UE che di per sé non gode affatto di buona salute.
Eppure del nazionalismo classico l’attuale sovranismo sembra conservare alcuni tratti distintivi, come la propensione all’autoritarismo, la tendenza a superare i confini costituzionali, l’idea spesso inespressa della presunta superiorità di quel determinato popolo, di quella patria, di quell’insieme di terra e sangue – terra e sangue! – nel cui nome fu scatenato il più drammatico conflitto della storia dell’umanità, la Seconda guerra mondiale.
Conservatori è invece una parola antica e non a caso Giorgia Meloni è presidente dei Conservatori riformisti europei. Ma il significato di questa parola è molto cambiato. Conservatore è l’ex leader inglese Johnson, conservatrice è Liz Truss, entrambi caratterizzati da una radicalità molto lontana dal tradizionale costume dei tories. Neocon, neoconservatori, è il nome di quella corrente americana che si incarnò nel governo di Bush Junior e nella teoria dell’esportazione manu militari della democrazia. A suo modo conservatore è Donald Trump, portatore di una politica protezionista e isolazionista. In sostanza oggi la parola conservatore è relativamente indefinita e sovente si sposa con le parole oscurantista, nazionalista e, spesso, isolazionista. C’è un grumo di idee, emozioni, giudizi e pregiudizi diverso da Paese a Paese ma comune in tanti Paesi che racchiude una miscela composita di “ismi”: oscurantismo e nazionalismo, come già detto, e assieme razzismo, autoritarismo, neofascismo, neonazismo, con una spiccata propensione al rifiuto delle conquiste della scienza, all’irrazionalismo, qualche volta al misticismo religioso o profano, quella cosa premoderna che alcuni chiamano “pensiero magico”.
Conservazione in questa nuova indefinita accezione e sovranismo come una sorta di novello nazionalismo sono quindi, a mio avviso, le parole chiave dell’estrema destra attuale nel mondo e in Italia.
Tutto ciò non è nato da ieri a oggi, non è una Minerva che nasce miracolosamente dal cervello di Giove, ma ha una lunghissima incubazione, presumo quantomeno una trentina d’anni. Da quanti decenni la Lombardia è in mano al centrodestra? Tutte le regioni del nord Italia sono in mano alle destre dal 2020. 14 regioni sono dal 2020 al centrodestra e cinque al centrosinistra. E i Comuni? E ancora: quanto è cambiato il Paese dal 1994 con Silvio Berlusconi che vinse le elezioni? Voglio dire che la Meloni non è frutto del destino cinico e baro, ma l’esito di una lunga fase preparatoria e assieme – penso – l’avvio di una nuova fase.
Questa lunghissima incubazione coincide con eventi che hanno profondamente cambiato il mondo e che sono interconnessi: dalla rivoluzione tecnologica-informatica ai cambiamenti dell’organizzazione e in alcuni casi del lavoro. Se questo processo ha assunto forme diversissime da Paese a Paese, in un punto è relativamente costante: il progressivo e sempre più veloce aumento delle diseguaglianze sociali. Non è un mistero che la maggioranza degli elettori popolari si riconosce nei partiti di destra in Italia, o che a maggior ragione negli Stati Uniti il consenso di Trump è acquartierato di gran lunga nella grande provincia.
La politica che chiamiamo democratica e di sinistra ha in gran parte smarrito i legami sociali e la connessione sentimentale con gran parte del suo popolo e si è allontanata dal mondo del lavoro, che a mio avviso rimane il cuore del problema. Se ci avviciniamo al nostro Paese osserviamo che i partiti costituenti sono tutti scomparsi; il più vecchio partito oggi presente in Parlamento è la Lega; i partiti attuali hanno smarrito la funzione fondativa che avevano svolto dal dopoguerra fino agli anni 70, e che era fondamentalmente duplice: erano l’anello di congiunzione fra la società e lo Stato, fra il popolo e le istituzioni operando così una virtuosa correzione a un difetto storico del nostro Paese fin dai tempi dell’unità. E svolgevano anche un ruolo fondamentale di formazione civile educando alla politica milioni e milioni di persone in particolare attraverso i grandi partiti di massa. Tutto questo non c’è più e oggi siamo, per così dire, nudi alla meta nella inedita circostanza del primo governo repubblicano a guida di estrema destra post fascista. Aggiungo a questo proposito che non mi pare corretto parlare di un governo fascista tout-court e anche di un partito fascista tout-court, Fratelli d’Italia. Uso le parole di Alberto Olivetti quando ha parlato di Fratelli d’Italia come di un partito con elementi di fascismo in sospensione. Il che non esclude affatto né la presenza di vocazioni autoritarie, come si più leggere nell’infelicissimo decreto cosiddetto anti-rave e nelle dichiarazioni programmatiche sul semipresidenzialismo e sull’autonomia differenziata, né esclude possibili future degenerazioni. Questa nuova conformazione dei partiti rende spesso asfittiche, parziali o del tutto assenti le loro capacità di proporre analisi articolate della realtà, com’era invece costume dei partiti di massa.
Il mondo dell’associazionismo, che per sua natura non tende ad essere né partito né istituto di ricerca, si trova nella particolare condizione di provare a riempire questo vuoto dando vita a momenti o a luoghi di riflessione e di analisi come per esempio state provando a fare voi, come stiamo provando a fare noi, come stanno provando a fare altri soggetti associativi.
Ma nella particolarissima situazione attuale, nel pieno di una guerra che sembra sempre più pericolosa e vicina, quando tutti sentiamo che possono essere messi in discussione i pilastri del vivere comune, e cioè la Costituzione e i suoi princìpi di libertà e di eguaglianza, si ridefinisce nella realtà quotidiana anche una parte dei nostri compiti: per ciò che riguarda l’ANPI agli obblighi legati alla memoria e anche ai sacrosanti riti laici ad essa legati, come le commemorazioni, i giri con le corone, l’ossequio commosso alle lapidi, si aggiunge – sottolineo: si aggiunge, non si sostituisce – un plus di impegno civile e sociale teso sia all’attività di formazione civica – le scuole – e culturale, sia alla ricostruzione di un rapporto di fiducia fra popolo e istituzioni democratiche. A quest’ultimo proposito la drammatica consumazione di quel rapporto di fiducia si manifesta sia con quanto di protesta c’è stato nel voto per l’estrema destra, sia in quel 40% di elettori che non ha votato o che ha annullato la scheda. Credo, in sostanza, che questa sia la grande sfida a cui noi, voi, l’intero mondo dell’associazionismo, sia pur con toni diversi a seconda della natura delle Associazioni, siamo chiamati.
In questa situazione una più generale prospettiva di unità deve rapidamente passare dal libro dei sogni al sogno che si concretizza, anche perché a ben vedere il Novecento ci ha insegnato questo nel male e nel bene. Nel male quando il fascismo prevale dal ’22 in poi anche grazie alla divisione fra le forze antifasciste del tempo. Nel bene quando dal ’43 in poi la politica dei Comitati di Liberazione Nazionale fu alla base della vittoria della Resistenza e dei primi anni successivi alla Liberazione.
Finisco.
Nella nebbia che da tempo ci avvolge, il tema della deportazione politica, come giustamente ha detto chi mi ha preceduto, troppo spesso è stato oscurato o addirittura dimenticato. Forse c’è un punto di malizia politica in questa rimozione, connessa ai tentativi di delegittimare la Resistenza. Si tratta di un ulteriore argomento di riflessione tutto sommato proprio dell’insieme delle Associazioni antifasciste e resistenziali a cominciare dall’ANPI. Ricordo anch’io la grande importanza della costituzione del Forum delle associazioni perché per la prima volta dopo tanti decenni stiamo provando a mettere a valore tutto ciò che ci unisce e senza dubbio, con tutte le difficoltà e le contraddizioni della vita reale, questo processo andrà avanti in una prospettiva unitaria di cui non conosciamo tempi e modalità ma che è oramai tracciata. Voi tutti siete una parte essenziale e insostituibile di questo processo unitario ed è interesse non solo vostro, ma dell’ANPI, del Forum, del mondo dell’associazionismo, del nostro Paese, che il vostro patrimonio non vada disperso. Perché? Perché prima d’essere un pezzo di storia d’Italia è un pezzo di storia degli italiani; è un patrimonio di sofferenza, di vita e di pensiero, unico e insostituibile.

Carissime compagne e compagni, buon lavoro!
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Roma, la pace, l’abbraccio, l’Anpi
Gianfranco Pagliarulo

La nostra associazione è stata protagonista di una mobilitazione memorabile, partecipando con migliaia di iscritte, iscritti, dirigenti. E insieme alle altre realtà promotrici, si è confermata soggetto politico ineludibile sulla questione guerra, oltre che sulla difesa della democrazia e della Costituzione
Costituzione Democrazia Guerra e Pace

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Roma, 5 novembre. In migliaia le donne e gli uomini dell’Anpi hanno sfilato da piazza della Repubblica fino a piazza San Giovanni
È avvenuto un grande abbraccio. Chi c’era, sa. Chi ha visto la diretta sui social, sa. Chi ha letto i più importanti quotidiani del giorno successivo o ha visto le tv a reti (quasi) unificate, probabilmente non sa, o non sa bene.

Si è svolta a Roma una manifestazione di dimensioni straordinarie, con più di 100mila persone, con una sola parola d’ordine: pace. Dietro questa parola, ovviamente, una sorta di decalogo. Cessate il fuoco, trattativa e negoziato, intervento pacificatore delle Nazioni Unite, ruolo di intermediazione dell’Unione Europea, conferenza di pace, smilitarizzazione, messa al bando delle armi nucleari, stop alla corsa al riarmo, sicurezza reciproca condivisa, liberazione dalla guerra. Un percorso – oggi è di moda dire road map – che porti a una nuova coesistenza pacifica in un mondo multipolare. Questa manifestazione, promossa da Europe for Peace, è stata diretta e organizzata da un cartello di centinaia di associazioni, movimenti, sindacati dei più diversi orientamenti, con una fortissima e significativa presenza del mondo cattolico. Il Presidente della CEI, Cardinale Zuppi, ha inviato un autorevolissimo messaggio di adesione e partecipazione.

L’Anpi è stata fra le protagoniste di una giornata indimenticabile, partecipando fra l’altro con migliaia di iscritte e iscritti, attiviste e attivisti, dirigenti. Una giornata memorabile, che restituisce speranza ed entusiasmo ai tanti che sembravano rassegnati al silenzio davanti a un vero e proprio terrorismo mediatico scatenatosi fin dall’invasione. Quando chiunque si permetteva di contraddire sia pur parzialmente il verbo del mainstream dominante veniva messo alla gogna come putiniano, in un delirio bellicista teso a militarizzare l’opinione pubblica. Come se fossimo in guerra. E forse lo siamo. Lo specchio deformante è stato infranto, e questo è merito di quei centomila e passa, che hanno rappresentato un’altra Italia, quella che, proprio perché condanna senza remissione l’invasione russa e le sue sanguinose conseguenze, da tempo pensa che occorre agire diplomaticamente per far cessare l’inutile strage, avviare una de-escalation, allontanare l’ombra mostruosa di un conflitto nucleare, restituire al mondo una dimensione di umanità che sembra smarrita.

Questi i fatti. La rappresentazione dei grandi media, invece, ha ridotto il grandissimo peso politico e civile della manifestazione a una controversia fra segretari di partiti, imponendo un grottesco paragone fra il popolo che si è riversato a Roma e qualche centinaio di attivisti di partito, parlamentari e quant’altro che si è riunito a Milano in ostentata polemica con la manifestazione nazionale. In sostanza l’immagine che è stata data di un corteo grandioso e pulsante di aspettativa e dei brevissimi comizi che si sono succeduti in modo tambureggiante, con decine di migliaia di persone che non sono riuscite ad arrivare in piazza San Giovanni, tanto imponente era il corteo, ebbene, tutto ciò è stato ridotto a un confronto polemico fra Conte, Letta, Calenda, ignorando così la funzione straordinaria (letteralmente, cioè al di fuori dell’ordinario) dell’associazionismo democratico nella sua più ampia declinazione: associazioni, movimenti, sindacati. Quale funzione? La funzione fondamentale della rappresentanza democratica di quelle che la Costituzione chiama formazioni sociali, in questo caso del pensiero e della volontà di pace di una parte rilevantissima della società italiana, che sino a oggi era stato espresso soltanto nei sondaggi in clamoroso contrasto con le scelte governative, e che dal 5 novembre si conferma, per così dire, autorevole soggetto politico nel senso più ampio del termine.

L’associazionismo democratico laico e cattolico è stato e rimarrà un soggetto politico ineludibile sulla questione della pace e della guerra, ma anche – aggiungo – sui temi della difesa della democrazia e della Costituzione, oggi più che mai centrali alla luce di alcuni segnali incontrovertibili: il contrasto alla diseguaglianza, tema propriamente costituzionale come recitato dall’articolo 3, il programma semipresidenzialista del governo Meloni, il recente decreto legge cosiddetto anti-rave “portatore – com’è scritto in una presa di posizione della segreteria nazionale Anpi – di una gravissima e intollerabile ambiguità che può far emergere una propensione autoritaria”.

La scesa in campo di un nuovo movimento per la pace a Roma evoca uno scenario nuovo e allude alla possibilità che esso si replichi a Berlino, Londra, Parigi, Madrid. Per ciò che riguarda il nostro Paese, ancora bisogna evitare la trappola delle polemiche, dello scontro, peggio, delle invettive e del tifo da stadio, che fanno soltanto il gioco dei circoli più bellicisti. Perché ancora? Perché costoro hanno dato le carte per mesi, impedendo manu militari che si aprisse un vero dibattito pubblico sui temi della guerra e della pace, riducendolo al teatrino dei talk show, con tanto di aggressioni a chi si permetteva di dissentire. Costoro hanno subito il colpo del 5 novembre, ma di certo non si rassegneranno. Viceversa, occorre allargare il campo del negoziato e della pace, essere instancabili nella prospettiva unitaria, rifiutando ogni degrado della discussione, accogliendo punti di vista diversi ma convergenti sull’urgenza di un’iniziativa politica verso la trattativa.
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Roma, 5 novembre, Piazza San Giovanni. Il presidente nazionale Anpi, Gianfranco Pagliarulo, durante l’intervento dal palco di Europe For Peace

In conclusione il 5 novembre è un punto di non ritorno e un punto di (ri)partenza, che fa onore a tutte e tutti coloro che hanno partecipato alla manifestazione, che, a costo della fatica di un viaggio spesso lungo, hanno consegnato all’intero Paese la possibilità di una speranza di pace. È avvenuto un grande abbraccio di popolo. Aggiungo qui ed ora il mio, se me lo consentite: uno speciale abbraccio alle compagne e ai compagni dell’Anpi che hanno risposto con responsabilità ed entusiasmo all’appello alla partecipazione che abbiamo lanciato. La poetessa Alda Merini ha scritto: “Ci si abbraccia per ritrovarsi interi”. Ecco, un abbraccio ai mille e mille e mille dell’Anpi. Perché così ci ritroviamo interi. Persone. Cuore e cervello. Sogni e saggezza. Avanti!

Gianfranco Pagliarulo, presidente nazionale Anpi
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RASSEGNA 30.11.2022. IL DOPPIO VOLTO DELLA MANOVRA
30 Novembre 2022 by Giampiero Forcesi | su C3dem
La Rassegna del 30 novembre 2022 (fonte Ceccanti e altro). Si segnala: Angelo Panebianco riflette sul Terzo polo: “Scommesse centriste tra destra e sinistra” (Corriere della sera). Veronica De Romanis commenta la manovra di governo: “Il doppio volto della manovra” (La Stampa). Claudio Cerasa rimprovera la Meloni: “Meloni e la surreale e pericolosa demonizzazione del POS” (Foglio). Gustavo Zagrebelsky commenta criticamente il ministro Valditara: “Altro che merito e umiliazioni, in aula si cresce insieme” (intervista a La Stampa). Rosalba Carbutti annota: “Schlein quasi candidata. E nasce nel Pd la corrente laburista” (Qn). Giulia Merlo sul dialogo Calenda-Meloni: “Calenda è l’alleato occulto di Meloni per gestire Forza Italia” (Domani). Giovanna Vitale e Tommaso Ciriaco: “Armi a Kiev per il 2023. Il governo ora farà un decreto” (Repubblica). Gianfranco Cerea, “Se al Nord la scuola passa alle regioni” (lavoce.info). PARTITO DEMOCRATICO: Matteo Lepore, “Compagni, chiamiamolo partito del lavoro” (Repubblica). MONDO: Nello Scavo, “Via da Odessa un’altra volta. Prima le bombe ora il gelo” (Avvenire). Stefano Zamagni, “Per punire Putin si rischia di sacrificare gli ucraini” (intervista a Il Fatto). Paola Peduzzi, “Le ingerenze virtuose. I casi di Iran e Cina” (Foglio). David Carretta, “Sulla Cina la Ue vuole una linea sua, non quella di Biden” (Foglio).
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Giovedì 1 dicembre 2022
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Prossimamente a dicembre
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