Editoriali
News Costituente Terra Chiesadituttichiesadeipoveri. Le guerre promesse.
Costituente Terra Newsletter n. 109 del 22 marzo 2023
Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n. 290
del 22 marzo 2023.
Le guerre promesse
Cari amici,
Ci sono molte “ultime notizie” che prefigurano un mondo a perdere.
La prima è che nella pianificazione nucleare degli Stati Uniti pubblicata dal Pentagono si dice: “abbiamo condotto un’analisi approfondita di un’ampia gamma di opzioni per la politica nucleare, comprese le politiche No First Use (non ricorso alle atomiche prima di un attacco nucleare altrui) e Single Purpose (uso limitato a una singola finalità) e abbiamo concluso che tali approcci si tradurrebbero in un livello di rischio inaccettabile alla luce della gamma di capacità non nucleari di concorrenti che potrebbero infliggere danni a livello strategico agli Stati Uniti e ai suoi alleati e partner”. Al riparo della minaccia nucleare si potrà invece “proiettare potenza” e combattere guerre convenzionali senza arrivare all’uso dell’atomica.
La viceministra inglese della Difesa, Annabel Goldie ha annunciato la volontà di Londra di fornire a Kiev proiettili all’uranio impoverito per la guerra anticarro, Putin ha risposto che se l’Inghilterra manderà “armi con componenti nucleari la Russia sarà costretta a rispondere”. Dunque la guerra nucleare è stata sdoganata.
Biden ha respinto le proposte della Cina per un “cessate il fuoco” in Ucraina e un dialogo per un nuovo ordine mondiale, dando inizio di fatto all’annunciata “competizione” a tutto campo degli Stati Uniti e del campo atlantico con la Cina.
La Corte Penale Internazionale ha spiccato un mandato contro Putin condannandolo di fatto agli arresti domiciliari: se lascerà la Russia per andare in qualsiasi Paese, tranne quelli che non riconoscono la giurisdizione della Corte, verrà imprigionato e processato.
: “l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della Corte Penale Internazionale deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi”. La Russia è uno dei membri permanenti del Consiglio di sicurezza: l’incriminazione di Putin di fatto sopprime, e in ogni caso sospende, l’ONU.
In Israele il governo Netanyahu ha rilanciato la colonizzazione in Palestina e legalizzato nuovi insediamenti “selvaggi”. Il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, del partito “Sionismo religioso” ha affermato in un discorso a Parigi che “i palestinesi non esistono”, sono “un’invenzione di meno di 100 anni fa”. “Non esistono i palestinesi perché non esiste un popolo palestinese”. Gli Stati Uniti hanno redarguito l’esponente sionista e l’Unione europea, tramite il capo della sua diplomazia Josep Borrell ha invitato il governo israeliano a sconfessare il suo ministro.
La Presidente italiana Giorgia Meloni ha per la seconda volta detto di “avere la coscienza a posto” per la strage dei migranti a Cutro, ma non ha receduto dalle politiche di cui essi sono vittima, “la difesa dei confini” e la lotta contro la “sostituzione etnica”. Ma la sostituzione etnica è quella che ha fatto l’Europa e le due Americhe, mentre quelle politiche sono rivolte contro gruppi di profughi più o meno numerosi solo in ragione della loro provenienza da terre straniere. Ma la Convenzione contro il genocidio vieta non solo gli atti che colpiscono tutti i membri di un gruppo, ma anche una parte di loro in quanto appartenenti a “un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso” come tale. Pertanto le politiche che conducono alla loro “distruzione fisica, totale o parziale”, e fanno del Mediterraneo un cimitero, sono, coscienti o no, politiche di genocidio.
Con queste politiche e questi “che sono considerati i governanti delle nazioni e dominano su di esse” (Marco 10, 42), abbiamo di che temere il futuro, l’esilio del diritto, e il bando della pace.
Con i più cordiali saluti,
Costituente Terra (Raniero La Valle)
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QUEL MANDATO D’ARRESTO PER PUTIN BLOCCA LA PACE
22 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / LA CONVERSIONE DEL PENSIERO /
L’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della Corte Penale Internazionale perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra e a tutti i suoi delitti
di Domenico Gallo
Fiat Justitia et pereat mundus (si faccia Giustizia e perisca il mondo) oppure Fiat Justitia ne pereat mundus (si faccia Giustizia affinchè non perisca il mondo), è questo il dilemma di fronte al quale ci pone la notizia che la Corte penale Internazionale, su richiesta del Procuratore Karim Khan, ha spiccato un mandato di cattura contro il presidente russo Vladimir Putin per un presunto crimine, consistente nella deportazione di numerosi bambini dai territori occupati dell’Ucraina. Non v’è dubbio che la feroce guerra in corso farà lavorare per anni la Corte penale internazionale per prendere conoscenza della valanga di oltraggi all’umanità che sono stati commessi dai belligeranti e che verranno commessi ancora fino a quando non si porrà fine al conflitto. Non dimentichiamo che “la guerra è un assassinio di massa”, così come l’ha definita crudamente Hans Kelsen nella prefazione al suo libro Peace Through Law (1944). La guerra è la madre di tutti i delitti, crea l’ambiente umano nel quale si possono sviluppare tutte le peggiori perversioni generate dalla paura, dall’odio e dalla “disumanizzazione” del nemico. E’ vero che gli atti più atroci sono vietati dal diritto bellico, che li bolla come crimini di guerra e crimini contro l’umanità, però quella del diritto è una barriera molto fragile. Ci è stato insegnato che se il diritto internazionale è il punto di evanescenza del diritto pubblico, il diritto bellico è il punto di evanescenza del diritto internazionale (Antonio Cassese). L’istituzione della Corte penale Internazionale, frutto del Trattato di Roma del 1998, mirava a rafforzare il fragile diritto umanitario, assicurando la garanzia di una giurisdizione universale a sua tutela. Proprio per questo, hanno rifiutato la giurisdizione della Corte quegli Stati che sono più adusi a commettere crimini internazionali e/o che non accettano limitazioni alla propria sovranità (USA, Israele, Iran, Turchia, Russia e Cina).
Pochi giorni fa è stato reso noto il rapporto di una Commissione Internazionale Indipendente sull’Ucraina, redatto da un gruppo di esperti nominati dall’ONU, che fa emergere una serie impressionante di crimini di guerra, che includono uccisioni volontarie, attacchi a civili, reclusione illegale, torture, stupri, trasferimenti forzati e deportazione di bambini. Si tratta di fatti atroci, non dissimili (esclusa la deportazione di bambini) da quelli compiuti dalle forze armate americane durante la seconda guerra del Golfo, come documentati, almeno in parte, da Julian Assange, che per questo “crimine di verità” rischia di essere sepolto vivo in un carcere americano. Tuttavia all’epoca nessuno pensò di incriminare George Bush, responsabile politico di quella tragedia, né di inviare armi al paese aggredito per consentirgli di difendersi dall’aggressore. L’esperienza della guerra in Jugoslavia ci ha fatto toccare con mano come la giustizia internazionale possa essere strumentalizzata ai fini della guerra, per delegittimare ed indebolire l’avversario. Così la NATO, dopo aver impedito alla Corte penale internazionale per l’ex Jugoslavia di indagare sui crimini commessi dalle sue forze militari durante la campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia del 1999, si è arrogata la funzione di polizia giudiziaria della Corte, pretendendo la consegna di Milosevic. In definitiva, grazie anche all’attitudine filoatlantica del suo Procuratore (la svizzera Carla del Ponte) la Corte per l’ex Jugoslavia finì per diventare un organo gregario della NATO.
Orbene, l’incriminazione di Putin è un passo falso compiuto dal Procuratore della CPI perché mette la legittima esigenza di repressione dei crimini di guerra in contraddizione con l’esigenza di porre fine alla guerra (e quindi ai crimini che della guerra sono un sottoprodotto). Quali che siano le responsabilità di Putin, questo non giustifica l’emissione di un mandato d’arresto contro un capo di Stato in carica. Nell’esercizio della sua discrezionalità il Procuratore della CPI deve essere coerente con i fini delle Nazioni Unite, che consistono essenzialmente nel mantenimento e nel ristabilimento della pace, tanto più che nello Statuto della Corte penale internazionale non vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale. Non si può pretendere di fare giustizia a costo della pace. Incriminando Putin, mentre la guerra è in corso, si tagliano i ponti rispetto alla possibilità di un negoziato e si impedisce alla Russia di tornare sui suoi passi.
Non vi è chi non veda come il mandato di arresto spiccato contro Putin sia un formidabile atout nelle mani della Santa Alleanza occidentale per delegittimare l’avversario e rafforzare la versione del conflitto come una sorta di guerra santa contro il male, secondo la vulgata di Zelensky. Una guerra che dovrà proseguire fino alla “vittoria”, cioè alla sconfitta della Federazione Russa e all’arresto dei suoi capi.
In questo modo è stato compiuto un altro passo nel girone infernale della guerra e le lancette dell’orologio atomico si sono avvicinate ancora di più alla mezzanotte.
Noi continuiamo a pensare che la giustizia non deve avvicinare la fine del mondo, al contrario, auspichiamo che si faccia giustizia per evitare che il mondo perisca.
Domenico Gallo
(articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 21 marzo 2023 con il titolo: Quel mandato d’arresto per Putin blocca la pace)
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Rocca. A sessant’anni dalla PACEM IN TERRIS
Il quindicinale Rocca della Pro Civitate Christiana, a cui siamo legati da un rapporto di amicizia e collaborazione, nell’ultimo numero (n.7 del 1 aprile 2023) dedica un servizio speciale sull’enciclica Pacem in terris emanata da Giovanni XXIII il 13 aprile 1963. Sono passati 60 anni ma il messaggio dell’enciclica è anche oggi straordinariamente valido. Chiara e netta la condanna della guerra che mai può essere giustificata: non è esiste nessuna “guerra giusta”. Lo rammentiamo a maggior ragione oggi, nel tempo in cui la guerra sconvolge molte parti del mondo, a partire dalla guerra Ucraina/Russia che si combatte in piena Europa, con il rischio sempre più pericolosamente possibile di un coinvolgimento planetario in conflitto atomico.
D’accordo con il direttore di Rocca, che ringraziamo, rilanciamo alcuni contributi del numero 7, già pubblicato online, condividendo in particolare la scelta strategica della nonviolenza come alternativa alle politiche guerrafondaie. Ostinatamente e convintamente per la Pace!
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La guerra tornata nella ragione?
di Raniero La Valle su Rocca
C’è un ripudio della guerra che sta nella Costituzione italiana, a cui non siamo rimasti fedeli (dalla partecipazione alla guerra contro l’Iraq, poi contro la Jugoslavia, al profluvio di armi inviate ad alimentare il conflitto in Ucraina) e c’è un ripudio della guerra proclamato da Giovanni XXIII nella «Pacem in terris» a cui la Chiesa è rimasta sempre fedele: dal «mai più la guerra!» gridato da Paolo VI dalla tribuna dell’Onu, all’opposizione frontale di Giovanni Paolo II alla guerra del Golfo, a papa Francesco che ha definito la guerra come una «mistica della distruzione». E se papa Giovanni aveva scritto che in questa età, che si gloria della potenza atomica, la guerra era uscita fuori della ragione (bellum alienum a ratione), e perciò non appartiene più all’umano, papa Francesco è andato oltre non solo definendo la guerra come «una pazzia», ma qualificando l’industria delle armi, «che le sta dietro», come «diabolica». Purtroppo con la guerra d’Ucraina e con tutte le altre che l’accompagnano le cose sono ancora peggiorate: l’industria delle armi ha talmente aumentato la produzione di armi che ci vorranno ancora più guerre per smaltirle; tutti i giornali parlano oggi della guerra come della cosa più normale del mondo e nessun negoziato è intrapreso per porre fine al sacrificio dell’Ucraina e alla guerra in Europa. Dunque assistiamo a un rovesciamento totale: quello che è diabolico è benedetto da chi ne trae profitti sempre più alti, la guerra che non apparteneva più all’umano vi è stata reintrodotta come congeniale alla natura stessa dell’uomo e quella che era uscita dalla ragione come mezzo atto a risarcire i diritti violati vi è stata rimessa senza che sia consentita altra ragione che la vittoria. Lo scacco della ragione è tanto maggiore perché per tutto il periodo della guerra fredda l’incompatibilità tra la guerra e la ragione era stata tenuta ferma, e anzi era stata presidiata dal terrore (la «deterrenza»), dato il rischio di una guerra nucleare. È stato con la prima guerra del Golfo, passata la paura dell’atomica grazie alla rimozione del muro di Berlino, che la guerra è stata recuperata, con la complicità dell’Onu, come ragionevole e anzi giusta e salutare, e da allora se ne è fatto uso più volte. Oggi la guerra non solo è combattuta in più continenti (papa Francesco ha citato «la Siria che da 13 anni è in una guerra terribile, lo Yemen, Myanmar e dappertutto in Africa»), ma è stata posta come struttura dell’ordine internazionale e cardine della nuova visione del mondo: i prossimi dieci anni, secondo gli Stati Uniti, saranno di «competizione strategica» tra le grandi Potenze e potrebbero finire in una guerra con la Cina. Il mondo è visto come «un campo di gioco globale» in cui le Nazioni si scontrano e lottano per la supremazia. La storia non ha insegnato niente. Ben prima della «Pacem in terris», in piena seconda guerra mondiale, Angelo Roncalli nell’omelia di Pasqua del 1942 nella cattedrale di Santo Spirito a Istanbul, essendo egli allora delegato apostolico in Turchia, aveva denunciato la causa di tutte le guerre: «Ciascuno di noi ama giudicare ciò che avviene dal punto di vista del pugno di terra sulla quale appoggia i piedi, cioè dal punto di vista della propria nazione. È una grande illusione. Bisogna elevarsi e abbracciare coraggiosamente l’insieme; bisogna elevarsi fino a perdere di vista le barriere differenziali che separano tra loro i combattenti» e, già Papa, nel messaggio di Natale del 1959 spiegava che «l’amore del prossimo, e verso la propria nazione, non deve ripiegarsi su se stesso, in una forma di egoismo chiuso e sospettoso del bene altrui, ma deve allargarsi ed espandersi per abbracciare tutti i popoli e con essi intrecciare relazioni vitali». La «Pacem in terris» non è stata dunque un bagliore improvviso, che irrompe nella storia e subito si spegne. Ma la storia aspetta ancora di esserne illuminata. ❑
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La guerra è illogica e immorale efficace e etica è la nonviolenza
di Mao Valpiana su Rocca
La guerra doveva diventare un tabù: vietata, proibita, inimmaginabile, persino impronunciabile. Invece, rieccola, accettata e idolatrata come mezzo per risolvere le controversie internazionali. «Noi popoli delle Nazioni Unite, decisi a salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità»: inizia così il preambolo alla Carta delle Nazioni Unite. Stiamo dunque assistendo al fallimento dell’Onu che non è riuscita nel suo intento principale? Secondo Papa Francesco siamo già in piena terza guerra mondiale, non più «a pezzi». Dopo il primo e il secondo conflitto mondiale l’umanità sta rivivendo il flagello: «Oggi è in corso la terza guerra mondiale di un mondo globalizzato, dove i conflitti interessano direttamente solo alcune aree del pianeta, ma nella sostanza coinvolgono tutti». Anche la Costituzione italiana si era data l’obiettivo supremo di ripudiare la guerra, ma oggi c’è dentro in pieno, producendo ed esportando nel mondo le armi che servono ad alimentare i conflitti in corso. Il complesso militare-industriale italiano, Leonardo, il cui maggior azionista è il Ministero dell’Economia, rappresenta la più grande impresa militare europea, con fatturati in continua crescita e armi disseminate su tutto il pianeta, Paesi dittatoriali e in conflitto compresi. Dunque, proprio le istituzioni repubblicane, che la Costituzione dovrebbero rispettare, ne negano la missione fondamentale di ripudio della guerra, orecchie sorde al monito di Francesco: «I governanti capiscano che comprare armi e fare armi non è la soluzione del problema». il tempo stringe Il tempo sta per scadere nonostante gli avvertimenti dati già sessant’anni fa dall’Enciclica Pacem in Terris di S. Giovanni XXIII, all’indomani della costruzione del Muro di Berlino e della crisi dei missili di Cuba: «In un tempo come il nostro, che si gloria della potenza atomica, è alieno ad ogni ragione che la guerra possa essere uno strumento adeguato per ripristinare diritti violati» (n. 67). Papa Giovanni XXIII si poneva nel solco già tracciato dal Mahatma Gandhi pochi giorni dopo l’utilizzo per la prima volta nella storia della bomba atomica su Hiroshima e Nagasaki: «La morale legittimamente da trarre dalla tragedia suprema della bomba è che essa non sarà annullata da una contro bomba, così come la violenza non può essere combattuta da una controviolenza. L’umanità può uscire dalla violenza solo attraverso la nonviolenza. L’odio può essere vinto solo con l’amore». Anche don Lorenzo Milani si mette nella scia della Pacem in Terris e due anni dopo, nella sua Lettera ai giudici del 1965, ne trae le conseguenze politiche: «È noto che l’unica difesa possibile di una guerra di missili atomici sarà quella di sparare 20 minuti prima dell’aggressore, ma nella lingua italiana sparare prima si chiama aggressione, e non difesa. Oppure immaginiamo uno stato onestissimo che per sua difesa spari 20 minuti dopo, cioè spari con i suoi sommergibili, unici superstiti di un paese ormai cancellato dalla geografia. Ma nella lingua italiana, questo si chiama vendetta, non difesa. Mi dispiace se il discorso prende un tono di fantascienza. Ma Kennedy e Krusciov si sono lanciati l’un l’altro pubblicamente minacce del genere. Siamo dunque tragicamente nel reale. Allora la guerra difensiva non esiste. Dunque non esiste più una guerra giusta. La guerra difensiva non esiste più, né per la Chiesa, né per la Costituzione. Gli scienziati ci hanno avvertito che è in gioco la sopravvivenza della specie umana…». Oggi ai nomi di Kennedy e Krusciov, evocati da don Milani, possiamo sostituire quelli di Zelensky e Putin, e dalla storia precipitiamo nella tragica attualità. «Alienum est a ratione» significa fuori di testa, roba da matti. È l’impazzimento del tempo che stiamo vivendo. Papa Bergoglio, in piena continuità pastorale, osserva: «L’umanità era a un passo dal proprio annientamento, se non si fosse riusciti a far prevalere il dialogo, consapevoli degli effetti distruttivi delle armi atomiche. Purtroppo, ancora oggi la minaccia nucleare viene evocata, gettando di nuovo il mondo nella paura e nell’angoscia. Non posso che ribadire in questa sede che il possesso di armi atomiche è immorale». Dunque gli stati atomici sono stati immorali: Russia, Stati Uniti, Francia, Regno Unito, Israele, Cina, India, Pakistan, Corea del Nord, a cui bisogna aggiungere – è l’elenco dell’immoralità – Germania, Italia, Belgio, Paesi Bassi, Turchia, che ospitano e accettano sul loro territorio le armi nucleari della Nato. Pazzi e immorali, questo siamo. Il tempo sta per scadere. Siamo a 90 secondi dalla mezzanotte secondo l’orologio dell’apocalisse della rivista Bulletin of the Atomic Scientists. È possibile fermare quelle lancette? La soluzione facile non c’è, altrimenti non saremmo qua a piangere, a temere per il futuro stesso del pianeta; ma se non la cerchiamo subito non ci sarà alternativa alla guerra con le sue annunciate drammatiche conseguenze globali. L’antidoto è prendere sul serio la nonviolenza. Il pensiero di Gandhi era chiaro fin dal 1939: «Voi volete eliminare il nazismo, ma non riuscirete mai ad eliminarlo con i suoi stessi metodi» e propose alle nazioni occupate da Hitler di ottenere la vittoria con la resistenza nonviolenta: «L’Europa eviterebbe lo spargimento di fiumi di sangue innocente e l’orgia di odio a cui oggi assistiamo». Aldo Capitini, che conobbe le conseguenze del secondo conflitto mondiale, dopo l’uso del nucleare militare sulla popolazione inerme, con la prima Marcia Perugia-Assisi del 1961 volle lanciare anche in Italia il metodo della nonviolenza politica come alternativa alla guerra: «Tanto dilagheranno violenza e materialismo che ne verrà stanchezza e disgusto; e salirà l’ansia appassionata di sottrarre l’anima ad ogni collaborazione con quell’errore», così scriveva nel 1936 prevedendo i massacri bellici del nazifascismo che incendieranno l’Europa. Alexander Langer si trovò ad affrontare concretamente il dilemma dell’alternativa alla guerra nel 1993 in pieno assedio di Sarajevo: «Oggi penso che davvero occorra un uso misurato e mirato della forza internazionale, e quindi nel quadro dell’Onu. Per fare cosa? Non certo per appoggiare alcuni dei contendenti contro altri, ma per fermare alcune azioni particolarmente intollerabili e far capire che c’è un limite», che la logica della guerra non paga. Gandhi, Roncalli, Milani, Langer, Bergoglio, sono le voci di un vasto movimento mondiale che dal 1945 in poi lavora per costruire l’alternativa alla guerra. Il tema che il pacifismo pone da oltre mezzo secolo è quello della messa al bando di tutte le armi nucleari, dell’abolizione della guerra dall’orizzonte del genere umano e della costruzione di un sistema di difesa e sicurezza non offensivo. Non è un’utopia, ma la proposta razionale e conseguente al diritto internazionale di una politica estera alternativa al modello imposto dai blocchi militari, la revisione di un modello di difesa basato su criteri di sostenibilità, razionalizzazione, riconversione. È la politica nonviolenta di prevenzione dei conflitti di oggi e del futuro. fermare subito la guerra in Ucraina tra resa e vittoria c’è una terza via? Per fermare la guerra bisogna non farla. Per ottenere il cessate il fuoco bisogna non sparare. Ma è morale, in una guerra di aggressione, chiedere all’aggredito di non prendere le armi? È possibile cercare una soluzione diversa che non sia la vittoria della vittima e la sconfitta del carnefice? Qui si entra in un terreno molto scivoloso, dove l’ideologia rischia di prevalere. La propaganda bellicista annulla ogni sfumatura e appiattisce: «o con me o contro di me», o con un esercito o con l’altro, o con il bene o con il male, senza se e senza ma. La nonviolenza, invece, ha tanti se e tanti ma da esprimere, e soprattutto vuole cercare una via praticabile e concreta, per salvare vite umane, con metodi compatibili con gli obiettivi di giustizia e libertà. La via unica di contrasto dell’aggressione è stata perseguita fino ad oggi solo con le armi, sempre più armi, inviate da Stati Uniti e Europa, ma non ha ancora ottenuto lo scopo desiderato. E la guerra continua. Esprimere una posizione critica all’invio di armi in Ucraina è una valutazione di contesto, fondata sull’esperienza e sui risultati negativi di trent’anni di guerre in tutto il mondo: Afghanistan, Iraq, Siria, Libia, Cecenia: dove sono finite le armi? che uso ne è stato fatto? con quali conseguenze? chi erano i buoni e chi i cattivi? chi ha vinto, chi ha perso? libertà e democrazia hanno prevalso? la vita di chi doveva essere liberato, è migliorata o peggiorata? Bisogna rispondere a queste domande prima di seguire lo stesso copione, come una coazione a ripetere. Bisogna capire qual è lo schema di gioco imposto dalle armi stesse: misurarsi con la distruzione del Paese, le migliaia di morti, feriti, invalidi e milioni di profughi. Lo scenario più terribile è quello di uno scontro generalizzato e permanente nel cuore d’Europa. È una prospettiva accettabile, o non conviene perseguire già oggi una strada diversa, che ponga le basi per un futuro di pace? Ci si può impegnare per l’invio di armi sempre più potenti, oppure ci si può impegnare per sostenere la resistenza nonviolenta, oggi minoritaria, ma che proprio per questo ha bisogno di solidarietà e aiuto. L’industria bellica costruisce i fucili; la nonviolenza i fucili li spezza. Sono due scelte diverse, forse entrambe legittime, ma incompatibili. Anche in Ucraina, in Russia, in Bielorussia (dove c’è il rischio concreto dell’apertura di un secondo fronte contro l’Ucraina, da parte del dittatore Lukashenko su pressione di Putin) c’è chi crede nella nonviolenza come possibilità di resistenza civile. Ci vuole ancora più forza per difendersi senza armi in mano, per amare la propria patria senza odiare quella altrui. Il movimento pacifista e nonviolento ha scelto di stare dalla parte di chi la guerra la rifiuta, di chi pratica l’obiezione di coscienza in Russia, in Bielorussia e in Ucraina, di chi diserta e vuole già oggi costruire la pace. Nell’ambito della Campagna di Obiezione alla guerra e della mobilitazione «Europe for Peace», sosteniamo concretamente i movimenti per la pace e la nonviolenza dei Paesi coinvolti nel conflitto che tutelano gli obiettori di coscienza dei loro Paesi e propagandano l’idea di sottrarsi alla guerra, di disertare dagli eserciti. In particolare i pacifisti russi e bielorussi (molti dei quali hanno dovuto espatriare) stanno attuando una vasta campagna per «rubare l’esercito» dalle mani di Putin e Lukashenko. In Bielorussia la campagna ha già attenuto un importante risultato: su 43.000 richiamati per un addestramento alla mobilitazione, se ne sono presentati solo 6.000. In Russia sono decine di migliaia i renitenti alle leva che si sono nascosti o hanno lasciato il Paese legalmente o illegalmente. E sono oltre 22.000 i pacifisti russi arrestati: è sufficiente dire pubblicamente che si è contro la guerra in Ucraina e per la pace, per essere incriminati. In Bielorussia si è arrivati ad emanare la pena di morte per i disertori e l’accusa di terrorismo per i pacifisti. Questo dimostra quanto il regime abbia paura proprio dell’attivismo nonviolento. Stiamo partecipando alla Object War Campaign! per diffondere gli strumenti comunicativi, per assicurare la difesa legale ai perseguitati, per aiutare i condannati o gli esuli, per organizzare le campagne di pressione politica, per rafforzare la rete internazionale della nonviolenza organizzata. Questo è quello che possiamo fare e che facciamo. Mao Valpiana
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È possibile sostenere le iniziative di pace in Russia, Bielorussia e Ucraina con la Campagna «Obiezione alla guerra» con un versamento su IBAN IT35 U 07601 11700 0000 18745455, intestato al Movimento Nonviolento, causale «Obiezione alla guerra»
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Mao Valpiana. Presidente del Movimento Nonviolento Membro dell’Esecutivo Rete italiana Pace e Disarmo, direttore della rivista «Azione nonviolenta»
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Rocca. 10 anni di Francesco. Va e ripara la mia casa
Editoriale di Mariano Borgognoni su Rocca n.7/2023
Stavolta due papi dominano le pagine di Rocca. È un fatto inusuale per una rivista che rivendica fino in fondo il suo carattere laico sia pure nella chiara ispirazione cristiana. Tranquilli i nostri lettori: non siamo diventati, nemmeno sotto il pontificato di Francesco, un giornale neoguelfo. Ma come non riconoscere che Giovanni XXIII con il Concilio e Francesco con la Chiesa in uscita abbiano rappresentato altrettanti momenti di svolta per i cristiani e per tutti gli uomini di buona volontà? E come non vedere in questi due uomini, cristiani sulla cattedra di Pietro, punti di riferimento obbligati per le speranze di giustizia e di pace che, spesso, anche oggi, restano mute e nascoste sotto la pelle della storia e che sentono il bisogno di chi sappia dire una parola coraggiosa e profetica. In mezzo non tanto ai profeti di sventura quanto ai costruttori di sventure, assidui oggi quanto mai, nel preparare, sul filo dei propri interessi, la lama pronta a far sanguinare il mondo. I segni dei tempi che Roncalli aveva individuato per un pacifico e giusto progresso dell’umanità: l’emancipazione dei lavoratori, delle donne e dei Paesi del terzo e quarto mondo restano obiettivi da perseguire e i processi di globalizzazione non sempre hanno globalizzato diritti sociali e civili ma spesso inconfessati interessi di gruppi ristretti che concentrano su di sé ricchezze e poteri inauditi e allargano la forbice delle disuguaglianze. Perfino l’Europa, rinata dopo i due grandi e spaventosi conflitti bellici del ’900, su istanze cristiane e socialiste, ha via via perso la bussola dei suoi ideali solidaristi, ugualitari, autenticamente democratici. E se ci vuole un papa per parlare di diritto al lavoro e alla sua dignità, di protezione sociale universalistica, di accoglienza e di mutuo soccorso, di cura dell’ambiente e di centralità delle periferie sociali ed esistenziali, vuol dire che in tanti hanno abbandonato il campo di costruzione di società giuste e libere, anzitutto dal bisogno e dalla servitù. «Francesco non vedi che la mia casa sta crollando? Va dunque e restauramela». Così parlò il Crocifisso di San Damiano al santo di Assisi (F.F. 1411) secondo La leggenda dei tre compagni. Ma non si trattava di riparare la chiesetta prossima alla rovina ma di portare al mondo un nuovo sole, una nuova primavera evangelica, secondo il paradosso cristiano per cui la novità va cercata sempre tornando alle origini. La scelta del nome da parte di Jorge Mario Bergoglio, così sorprendente, era già un programma. E la casa da riparare non era soltanto la Chiesa ma la casa comune. E mettiamoci dentro la gioia del Vangelo (Evangelii Gaudium), la lode al Signore cum tucte le sue creature (Laudato si’), la fratenità, sorella apparentemente minore senza la quale non stanno insieme libertà e uguaglianza (Fratelli tutti). Tutto questo dentro una chiesa povera e per i poveri, senza di che non si è credenti credibili. C’è tanto Francesco in Francesco! Anche l’isolamento. Anche il cammino difficile e contrastato di riforma della Chiesa, della necessaria e urgente declericalizzazione e depatriarcalizzazione che apra creativamente la strada di una comunità delle battezzate e dei battezzati, fedeli alla terra e annunciatori della buona notizia per tutti, ma soprattutto per le vittime, i sofferenti, gli assetati ed affamati di giustizia. È necessario tornare a riconoscere nella vita comune quella grazia che essa realmente è: le «rose» e i «gigli» della vita cristiana (Lutero). D’altra parte l’abbandono della pratica religiosa, soprattutto in Europa, impone di ripartire da questa cristiania, per usare il suggestivo termine che Panikkar adoperava per definire l’orizzonte di una sequela evangelica essenziale nel tempo della secolarizzazione, dentro cui ripensare lo stesso carisma dell’universalità. C’è chi ha parlato di un deficit di innovazione teologica in questo pontificato. Io sposo invece la tesi di un nostro amico che scrive così: «È avvenuto che se Martini era rimasto il papa che non ci eravamo meritati, poi Francesco è stato il papa che lo Spirito Santo ci ha suscitato comunque, forse stufo di aspettare che ce ne meritassimo uno così: così per determinazione, per visione, per una teologia che, come accade per i papi inattesi, sembra solo una grande pastorale ed è in verità una grande novità nella Tradizione» (R. Salvi). È un nuovo discorso su Dio quello che con parole e gesti ci è venuto presentando Bergoglio che semmai dovrebbe indurre i teologi all’audacia della ricerca, la quale è anche sempre messa in discussione di antiche immagini di Dio e ricerca coraggiosa di parole efficaci per dire oggi la fede dei cristiani. Naturalmente non è richiesto a nessuno di condividere ogni scelta e ogni parola del papa. Per esempio qualche dubbio si può avere sull’idea, più volte ripetuta daFrancesco, circa l’esigenza anzitutto di aprire processi. Su alcuni di questi forse sarebbe necessario mettendo dei punti fermi. Forse un nuovo Concilio, di cui parla il vescovo Carlassare nell’intervista che trovate in queste pagine, sarebbe utile. Ma il nostro apprezzamento va alla direzione di fondo di questo pontificato, al modo come Francesco appare prima come cristiano e poi come papa, alla riduzione al minimo di ogni pompa, alla scelta di vivere a Santa Marta, alla centralità del periferico e alla perifericità del sacrale, alla immagine da lui usata di un Cristo che bussa non per entrare nel tempio ma per uscirne e incontrare l’umano ferito. E un apprezzamento va anche all’umorismo a cui Francesco ci ha abituati e che anche noi abbiamo usato nel ricordo di questo decennio, con titoli e vignette. Un umorismo che rivela l’illusoria pretesa di eternità dei poteri di questo mondo (sacri e profani), che aiuta a vivere fuori della presunzione di possedere la verità intera, di aver catturato Dio, di averlo a nostra disposizione. No, avere la consapevolezza di essere cercatori cercati, porta anche il papa a dire con Pietro: «alzati, sono anch’io un uomo» At 10,26.
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In testa all’articolo. Il Sogno di Innocenzo III: sesta delle ventotto scene del ciclo di affreschi delle Storie di san Francesco della Basilica superiore di Assisi, attribuiti a Giotto. Fu dipinta verosimilmente tra il 1295 e il 1299 e misura 230×270 cm.
La tragedia di Cutro
Il mostruoso tra noi
14-03-2023 – di: Marco Revelli
Su Volerelaluna
Il mostruoso è tra noi, e si traveste da normalità. La sequenza di atti di questo governo guidato da una che si definisce “donna, madre, cristiana”, fin dal suo nascere ma con plastica evidenza dopo la tragedia di Cutro, ce ne offre una dimostrazione inquietante
Che cos’è “il mostruoso”? E’ l’applicazione sistematica alle proprie scelte, soprattutto se pubbliche, dell’”inumano”, il quale a sua volta consiste nella pratica relazionale di considerare gli uomini come “cose”, di spogliarli della loro natura di esseri simili a noi per trattarli come oggetti di cui disporre. Non lo scopriamo oggi. E’ una degenerazione presente da tempo, in modo pervasivo, nell’orizzonte esistenziale della modernità (in fondo è il codice segreto del capitalismo come relazione sociale), che ha avuto un’espansione iperbolica nel cuore dell’Europa nel periodo feroce tra le due guerre mondiali, come “caso-limite”, ma che oggi continua a riproporsi carsicamente in forme omeopatiche. Günther Anders ne introduce il concetto in uno straordinario libretto sulla figura di Eichmann, ma si affretta a precisare che “il tempo del mostruoso forse non è stato un puro interregno” e anzi il suo ripetersi non solo è possibile ma è probabile perché “uomini come Eichmann sono davvero qualcosa di assolutamente emblematico della condizione del nostro mondo odierno. Essi sono – l’affermazione è agghiacciante – persino inevitabili”.
Ebbene, come classificare le esternazioni del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi che di fronte alla strage di bambini di Cutro ne rende colpevoli i genitori, molti dei quali anch’essi tra le vittime, se non sotto la voce dell’”Inumano”? E provenendo da una fonte istituzionale, come espressione della forma mentale di quel Potere, nella categoria del “mostruoso”? O come qualificare le parole dell’on. Federico Mollicone di Fratelli d’Italia che, nell’affermare l’insopportabilità dei flussi di migranti clandestini ha lamentato che le persone che vivono in luoghi come Cutro o che operano nel campo dei soccorsi “debbano subire scene raccapriccianti come quella di vedere appunto dei bambini morti sulla spiaggia” ? Ha detto proprio così il neo Presidente della Commissione cultura scienza e istruzione della Camera, senza un attimo di dubbio sull’enormità di quanto gli stava uscendo di bocca, come se quei poveri morti fossero colpevoli di essere lì, per il raccapriccio che provocavano nei legittimi proprietari del luogo.
C’è, in tutto questo, una sconvolgente incapacità di “vedere” l’altro, di porsene, sia pure per un istante, nelle stesse condizioni (si direbbe di “identificarsi” con lui), o anche solo di considerare le situazioni da cui provengono (se un genitore sceglie di portare un proprio figlio in un viaggio di quel genere, sapendo il rischio mortale che corre, evidentemente è perché fugge da un rischio peggiore, non ci vuole Papa Francesco per capirlo). Se lo scafista criminale e assassino appare loro come l’unica possibile fonte d’aiuto nel tentativo di fuggire da una condizione disperata è perché gli altri possibili attori sul terreno, a cominciare dalle autorità degli Stati di partenza e di quelli destinazione, gli si presentano di fronte come figure altrettanto pericolose, anzi peggio. Non calarsi in questo tipo di problematica è sintomo di un’assenza di empatia così totale, da suggerire la presenza di patologie psichiche ben conosciute dalla scienza: è noto che in psichiatria lo “psicopatico” è caratterizzato da una grave incapacità di vedere la sofferenza altrui e di soffrirne a sua volta (il senso etimologico, appunto, della parola empatia che derivando dal greco ἐν -πάϑεια significa mettersi “in sofferenza” con l’altro), il che ne spiega spesso il successo politico e sociale grazie alla simmetrica capacità di manipolare gli altri a proprio vantaggio come fossero appunto oggetti. Ma qui, più che a casi di devianza individuali o a deficit di socialità personali, siamo di fronte a fenomeni collettivi, a modi di agire e di sentire sistemici. Sono modi di pensare, protocolli di azione, dinamiche impersonali, logiche di apparato ciò che incorpora, e rende “istituzionale” quel deficit di humanitas. L’intera meccanica della tragedia di Cutro è, da questo punto di vista, esemplare.
Quello che ha determinato la strage non è stato un ordine riferibile a un preciso individuo o a un singolo ufficio. E’ stata una dinamica di sistema, una logica d’apparato che ha incorporato nei propri codici di funzionamento un ordine gerarchico di priorità nel quale la vita delle persone, nel caso si tratti di migranti, anziché al primo sta all’ultimo posto, subordinata ad altre preoccupazioni e ad altri obiettivi (l’invalicabilità dei confini, il controllo dei flussi, il buon nome del ministro competente in carica, suoi calcoli elettorali…). Quelle che a ragione sono state definite “le regole della vergogna”.
L’ha spiegato, come meglio non si poteva, il Contrammiraglio Vittorio Alessandro, ex portavoce del Comando generale delle Capitanerie di Porto, oggi in pensione, quando ha detto che fino a un certo punto il primo pensiero degli uomini del mare, fossero la Guardia Costiera o ogni altro corpo dotato di natanti, era quello di salvare le persone, come la legge del mare detta da secoli e secoli, poi, tutto è cambiato, e il primo riflesso è stato quello di evitare guai a se stessi, per non essere sospettati di qualcosa considerato riprovevole, come l’immigrazione clandestina. Una vera e propria rivoluzione copernicana o, meglio, un’”inversione morale”, come è stata definita la tecnica di trasformare la virtù di chi salva in vizio, anzi in crimine, che era stata avviata dal famigerato decreto Minniti, nel 2016, che pretendeva di imporre alle ONG operanti nel Mediterraneo un “codice d’onore” che le sottoponeva a controllo poliziesco, era proseguita con rinnovato impegno con Salvini (che aveva nel retrobottega l’altro Matteo, Piantedosi, a fargli da braccio secolare) ed è arrivata fino a questo capolinea luttuoso. Il soccorso, da allora, “è diventata l’ultima cosa da fare”, dice il Contrammiraglio. Che racconta: “Salvavamo centinaia di migliaia di vite umane e, nonostante il grandissimo lavoro e lo sforzo immane, per tutti noi era un vanto, un orgoglio portare a terra ogni persona. E soprattutto ti arrivava il riconoscimento, la stima di un Paese intero, persino l’invidia. Ed è stato per tutta Italia un grande arricchimento poter dire: se hai salvato una vita, hai salvato il mondo”. A un certo punto però, continua, “le nostre motovedette sono diventate i ‘taxi del mare’, i nostri uomini da eroi sono diventati la cinghia di trasmissione, le nostre navi, come la Diciotti e la Gregoretti, che avevano fatto niente più che il loro dovere salvando i migranti in pericolo, sono state lasciate fuori dai porti italiani… l’attività di salvataggio dei migranti è persino scomparsa dalle foto dei calendari del Corpo“.
Naturalmente l’imput al “sistema operativo” è stato dato da uomini (e donne) in carne ed ossa, che hanno ri-disegnato l’orizzonte di fondo del mutamento di prospettiva etico-politica (non tutti necessariamente di destra o post-fascisti, alcuni come si è visto arrivati anche dalle macerie di quello che fu il Partito comunista italiano). Ma poi la macchina ha proseguito da sola, come fanno appunto tutti gli apparati burocratici, producendo su scala allargata l’inumano in forma impersonale. Con la perentorietà indiscutibile dei protocolli su cui non si discute (più). E con quell’effetto-leva che hanno appunto i moderni apparati di sistema, capaci di moltiplicare su scala infinitamente ampia gli effetti delle piccole decisioni quotidiane, rendendo la sproporzione tra l’immaginato e il realizzato così ampia da cancellare ogni senso della personale responsabilità. E’ la ragione per cui oggi (ieri) Giorgia Meloni può esclamare, sgranando gli occhioni azzurro-ghiaccio davanti ai giornalisti indignati, “ma voi credete davvero che noi del Governo abbiamo voluto la morte di quei naufraghi?”, incapace di vedere in quei poveri corpi sparsi sulla spiaggia l’esito di una catena di azioni e decisioni di cui lei e i suoi ministri (compreso quello che alla sua sinistra non smetteva di chattare compulsivamente sullo smartphone) e i suoi sottosegretari giù giù fino ai gradi minori erano e sono, direttamente o indirettamente, responsabili.
D’altra parte per intravvedere che cosa aleggi tra le ombre del sottofondo oscuro di quelle menti basterebbe il desolante spettacolo di quella festa mal riuscita celebrata nonostante il clima luttuoso di una tragedia immane. Che cosa abbia spinto la capa del governo che non aveva trovato nemmeno un minuto per rendere omaggio a quelle bare allineate nel Palazzetto dello Sport di Crotone a risalire tutta l’Italia, fino a due passi dal confine svizzero, all’agriturismo di Ugiate Trevano, per intonare col compare Salvini quello sgangherato karaoke senza chiedersi se non sia poco opportuna un’esibizione festosa mentre ancora il mare restituisce, giorno dopo giorno i corpi di giovani, donne, bambini e bambine soprattutto. E se la canzone di Marinella, scelta per l’occasione, non costituisse uno strappo nello strappo della sensibilità che normalmente spinge anche i più rozzi tra i rozzi a non parlar di corda in casa dell’impiccato. Le cronache ci restituiscono una gioiosa “serata di brindisi con vino rigorosamente padano, paccheri al sugo bianco, filetto, torta ai frutti rossi, e karaoke”, tra il pubblico, ospite d’onore, Antonio Angelucci, immobiliarista, boss della sanità privata, un curriculum giudiziario di tutto rispetto, proprietario dei quotidiani che avrebbero parlato, a proposito del nuovo naufragio simile a quello di Cutro, di “Assalto all’Italia” e che, a proposito delle critiche al rave governativo di Ugiate Trevano , titoleranno ironizzando sul “reato di compleanno”…
E’ difficile farsi una ragione di tanto disprezzo delle più elementari forme dell’umano vivere, di questa ostentazione svaccata di ordinaria disumanità che va al di là di ogni differenza politica e culturale per toccare i fondamenti della convivenza e del rispetto; volgarità che esisteva certamente anche prima, ma che era stata a lungo tenuta celata, per vergogna, nel ripostiglio delle cose sporche. Lo è tanto più adesso, con la notizia ancora calda della nuova strage evitabile e non evitata, quando anche il direttore del quotidiano “La Stampa” titola il proprio editoriale Il naufragio dell’umanità scrivendo che come nel caso di Cutro, anche questa volta “potevamo salvarli, e non l’abbiamo fatto”. E quando vibra ancora nell’aria quel mostruoso “Ciao ciao” con cui dalla sala operativa di Roma è stato risposto alla telefonata di Sea Watch che chiedeva disperatamente soccorso per il barcone poi rovesciatosi. Perché, continuo a chiedermi, lo fanno, e lo ripetono? Forse pensando che davvero il Paese sia, nella sua maggioranza, così logorato moralmente da identificarsi con questo stile da suburra? Convinti di parlare in questo modo alla sua “pancia” strizzando l’occhio all’involgarimento come hanno fatto finora con evasori, redditieri di posizione, furbetti dei tanti quartierini di cui hanno riempito i codicilli della Milleproroghe? Contano di prender voti dalla parte peggiore dell’elettorato allineandosi verso il basso? Flirtando con quella disumanità diffusa che si respira nell’aria. O forse, più semplicemente, lo fanno perchè “così sono”.
E ancora una volta mi soccorre, quantomeno con la fiammella della ragione, il già citato Günther Anders, che di questi sotterranei della contemporaneità ha più di ogni altro fatto oggetto di sofferta riflessione, e che ci ha spiegato, già una sessantina di anni fa, che “dolore, lutto e pietà, per poter nascere, hanno bisogno di quella particolare condizione che si chiama stima” perché – scrive – “noi possiamo sentirci in lutto solo per coloro che avremmo potuto stimare”. E questi nuovi governanti che c’infangano la terra, di quegli uomini, donne, bambini che noi oggi piangiamo non avevano nessuna stima. Li consideravano intrusi. Peggio, fattori di possibile inquinamento, in conformità di quella sciagurata dottrina che predica il pericolo della “sostituzione etnica” (qualcosa che sa tanto di parente con l’omologa “pulizia etnica”) o, più banalmente, “sostituzione del popolo”. Salvini ne è un capofila prolificissimo (Tomaso Montanari sul “Fatto” ne ha tracciato un documentato profilo). Ma nemmeno Meloni scherza. Forse oggi, chiamata a frequentare i salotti buoni internazionali non gradisce che lo si ricordi, ma pochi anni fa twittava amabilmente contro l’UE, “complice dell’immigrazione incontrollata, dell’invasione dell’Europa e del progetto di sostituzione etnica dei cittadini europei volute dal grande capitale e dagli speculatori internazionali”, indignata perché la Commissaria Mogherini si era permessa di affermare che senza i migranti ci “sarebbe il crollo delle nostre società”. E poco dopo si ripeteva cinguettando di “Prove generali di sostituzione etnica in Italia” dimostrate dal fatto che in quell’anno più di 100 mila italiani avevano lasciato la nostra Nazione mentre in compenso, erano “sbarcati 153 mila immigrati, nella stragrande maggioranza uomini africani”.
Ecco perché non scherziamo affatto, né ci abbandoniamo a esercizi retorici, quando diciamo che in questa classe politica che è arrivata al governo si avverte, piantata nel fondo del suo DNA, una radice fascista. Un pezzo profondo di quell’autobiografia della nazione che l’aveva quasi distrutta ottant’anni fa. Il fascismo, colto nella sua superficie, è stato un’espressione cialtronesca del peggior spirito strapaesano diffuso nel nostro paese. Ma colto nella sua dimensione esistenziale e antropologico-culturale è stato anche, purtroppo, una cosa seria. Un fenomeno cioè caratteristico di un particolare tipo umano (o sarebbe meglio dire dis-umano) che ha fatto del principio di diseguaglianza declinato sul versante del rapporto gerarchico superiorità/inferiorità e di quello etnico (razza superiore/razza inferiore), la propria cifra. E che corrisponde a una patologia del “moderno” radicata nel profondo e capace di conservarsi al di là delle sue specifiche concretizzazioni di tempo e di luogo. E’ in qualche modo l’idea lanciata da Umberto Eco di un Ur-fascismo, o di un “fascismo eterno”, che va oltre le contingenze storiche e si esprime in particolari forme di carattere e di relazionalità orientate al disprezzo e alla sottomissione. Alla cancellazione dell’altro come proprio pari, e alla sua riduzione o a servitore, o a nemico o, infine, a “cosa inutile”. Quell’orizzonte non si è mai chiuso completamente. E oggi ne contiamo le vittime.
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Costituente Terra
Costituente Terra Newsletter n. 107 del 9 marzo 2023
COME CI SIAMO GIUNTI
Carissimi,
siamo entrati nel secondo anno di guerra, e ancora non si intravede alcuna soluzione. Mentre si riforniscono le retrovie di armi di ogni tipo e si ammassano le truppe, resta il rischio di un’escalation incontrollata in fondo alla quale c’è l’olocausto nucleare.
Come siamo giunti a tutto questo, com’è stato possibile che i sogni dell’89 si siano rovesciati nell’incubo che stiamo vivendo? In quell’epoca con la caduta del muro di Berlino il treno della Storia era stato messo su un binario che correva verso un avvenire luminoso. Purtroppo quell’avvenire promesso è tramontato nell’arco di una generazione.
Ciò è stato il frutto di scelte precise degli architetti dell’ordine mondiale. All’inizio degli anni 90 l’Unione sovietica ha restituito l’autodeterminazione ai popoli dell’est europeo, la Germania si è riunificata, il Patto di Varsavia è stato disciolto, gli euromissili sono stati smantellati, mentre vengono firmati storici accordi sul disarmo. Questo clima di pacificazione doveva durare ben poco. Verrà interrotto dalla guerra del Golfo nel 1991, prima prova muscolare dell’impero sopravvissuto alla guerra fredda. Ma le vere scelte che cambiano il clima geopolitico vengono effettuate nel corso del 1997 dall’amministrazione Clinton che, stracciando gli impegni assunti con Gorbaciov, decide di estendere la NATO ad est, cominciando ad inglobare Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca. Si tratta della scelta politicamente più impegnativa che sia stata fatta dall’Amministrazione USA, dopo quella del contenimento dell’URSS, che ha dato origine alla prima guerra fredda. Contro questa scelta insorsero proprio coloro che la guerra fredda l’avevano teorizzata e praticata. In un articolo sul New York Times del 7 febbraio 1997 il diplomatico americano George Kennan, uno dei teorici della guerra fredda, lanciò un grido d’allarme, osservando:
“La decisione di espandere la NATO sarebbe il più grave errore dell’epoca del dopo guerra fredda. Una simile decisione avrebbe l’effetto di infiammare le tendenze nazionalistiche antioccidentali e militariste nell’opinione pubblica russa, pregiudicherebbe lo sviluppo della democrazia in Russia, restaurerebbe l’atmosfera della guerra fredda nelle relazioni est ovest, spingerebbe la politica estera russa in direzioni a noi decisamente non favorevoli.”
Clinton non ascoltò le proteste dei protagonisti della guerra fredda, fra cui lo stesso Henry Kissinger e andò avanti nel suo progetto. Nel summit che si svolse a Madrid l’8 e il 9 luglio 1997, la NATO assunse la decisione di estendersi ad est, cominciando ad includere Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca, che furono formalmente ammesse nel 1999.
Della gravità e dell’importanza geostrategica di questa scelta, nessuna forza politica si rese conto e nessuno si oppose. In verità il grido d’allarme sollevato da George Kennan fu raccolto in Italia, in un isolato articolo pubblicato dal Manifesto il 24 giugno 1998 (D. Gallo, M. Dinucci, La nuova cortina di ferro). L’articolo sottolineava che dall’allargamento ad est della NATO derivava il rischio di un’altra guerra fredda ed osservava: “E’ una decisione la cui portata è paragonabile, nella mutata situazione internazionale, a quella degli accordi di Yalta.”. (..) nessuno può dire quali saranno in futuro le reazioni ed eventuali contromisure della Russia di fronte all’espansione della Nato verso i suoi confini. Sul piano geopolitico, è di tutta evidenza che il fatto di far avanzare le basi della Nato, portandole ai confini della Russia, costituisce oggettivamente un incremento della minaccia in senso tecnico-militare. Anche della minaccia nucleare.” In conclusione sii osservava: “Si pongono in questo modo le premesse per riesumare il fantasma della guerra fredda, fondata questa volta non più sulla competizione politico-ideologica fra i due blocchi, ma su un confronto meramente nazionalistico, come tale meno razionale e più imprevedibile. Cresce, pertanto, la possibilità che la marcia ad Est della Nato crei un nuovo fronte di tensione tra Est e Ovest in cui l’Europa si troverebbe ancora una volta coinvolta. Insomma, di nuovo un fantasma si aggira per l’Europa.”
All’epoca non si poteva prevedere la guerra che sarebbe scoppiata 24 anni dopo, però non era difficile comprendere che la nuova guerra fredda che si stava impiantando sarebbe stata molto più pericolosa della prima perché avrebbe attizzato derive nazionalistiche molto più irrazionali del confronto ideologico che animava, ma frenava anche, la prima guerra fredda.
Il passo successivo è stato quello di cambiare la missione della NATO, che ha “superato” la sua natura di patto difensivo e si è trasformata in uno strumento militare del tutto svincolato dal rispetto della Carta dell’ONU. Questa nuova missione è stata sperimentata con l’aggressione alla Jugoslavia: settantotto giorni di bombardamenti ininterrotti, volti a smembrare l’integrità territoriale della Jugoslavia con la separazione del Kosovo. Nel summit per il cinquantenario della NATO a Washington il 23 e 24 aprile 1999, la NATO legittimava questo suo nuovo volto, dichiarandosi competente a compiere operazioni militari al di fuori dell’art. 5 del Patto Atlantico, cioè si riappropriava del diritto di guerra. Nel disinteresse generale è proseguita l’espansione della NATO ad est, che ha inglobato anche quelle Repubbliche che una volta facevano parte dell’Unione Sovietica (Estonia, Lettonia e Lituania). Con il vertice di Bucarest del 2 aprile 2008, la NATO ha lanciato un ulteriore guanto di sfida alla Russia, dichiarando la disponibilità ad inglobare anche Ucraina e Georgia. Dopo un lavoro di ri-costruzione del nemico durato oltre venti anni, alla fine il nemico si è materializzato e la parola è passata alle armi.
In realtà, con la scelta che gli USA hanno imposto alla NATO nel luglio del 1997, il treno della Storia è stato deviato su un altro binario, ed alla fine è arrivato il 24 febbraio del 2022, data che simbolicamente rappresenta l’evento opposto e contrario a quello del 9 novembre 1989.
Per uscire da questo disastro bisogna cambiare il capotreno e riportare il treno della Storia sul binario che stava percorrendo nel 1990.
Nel sito pubblichiamo un articolo di Raniero La Valle per un’autocritica dopo un anno di guerra [ripreso anche da Aladinpensiero], un altro di Boaventura de Sousa Santos sull’Occidente visto dai Paesi del Sud, e un articolo di Roberto Pizarro Hofer sul ritorno del protezionismo.
Cordiali Saluti,
www.costituenteterra.it (Domenico Gallo)
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UN MONDO DI LEVIATANI TUTTI IN LOTTA TRA LORO
9 MARZO 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
È stato il peccato dell’Occidente quello di pensare il mondo uniforme e a sua misura. L’obiettivo non è un unico diritto, ma un costituzionalismo che riconosca e accolga la mirabile varietà delle culture e delle storie
di Raniero La Valle
C’è la guerra e nessuno in Occidente ha mai fatto un’autocritica. Noi, che tre anni fa abbiamo dato vita all’iniziativa di “Costituente Terra”, amiamo tanto l’unità del mondo e la sua pace da aver compiuto l’azzardo ermeneutico di pensare che la Terra potesse darsi un’unica Costituzione e conformarsi a un unico diritto, quando per contro va riconosciuta e accolta la mirabile varietà delle culture e delle storie, fatti salvi i diritti e le garanzie universali umane. È stato questo invece il peccato dell’Occidente di pensare il mondo a sua misura. E ci troviamo ora invece con un mondo dilaniato tra Leviatani in lotta tra loro, questi “Dii mortali”che inseguono pensieri di distruzione e di vittoria.
Oggi, dopo un anno di guerra, a 9 anni dal tranello degli accordi di Minsk (secondo la Merkel), a 5 mesi dal sabotaggio americano del gasdotto russo-europeo del Baltico (secondo il Premio Pulitzer Seymour Hersh e una previsione dello stesso Biden), “Costituente Terra” prende e mantiene il lutto per la “fine della pace”, come subito la chiamò “Limes”, anche se le pace dagli albori della civiltà fino ad ora non c’è mai stata e ha sempre ceduto il posto alla guerra, mentre la guerra torna ora in gran forma a farsi accreditare in nome della ragione e del diritto, da cui dopo la “Pacem in Terris” di Giovanni XXIII era stata espulsa per sempre.
Prendiamo il lutto per una guerra tornata ad essere mondiale, ma anche per un’informazione che la mistifica, dopo che l’ultima guerra era finita con decine di milioni di morti, a cominciare dai sovietici, centinaia di migliaia di giapponesi arsi vivi dalle atomiche, e una fanciulla ebrea, Liliana Segre, rimasta in vita per poterci ancora dire che dopo la guerra resta l’amore.
Prendiamo il lutto per l’umanità dismessa, l’informazione omologata, e la pietà perduta, fino al punto che al terremoto in Siria non si può dare soccorso per le sanzioni atlantiche ed europee che le sono inflitte.
Occorre peraltro ricordare che pur nella varietà dei giudizi è stata unanime la condanna della sciagurata risposta aggressiva di Putin a una minaccia sia pure percepita come mortale e finale; ma inaccettabile è stata altresì l’intenzione, fin dall’inizio dichiarata da Biden, di bandire la Russia dalla comunità delle nazioni, infliggendole una sconfitta senza precedenti e sanzioni genocide, convogliando da tutto il mondo dollari e armi contro di essa, per ridurla a “paria”, che nel sistema indiano delle caste significa gettare un popolo fuori della condizione umana e della storia.
E ora ci viene annunciata in documenti ufficiali del 12 e del 27 ottobre scorsi di Biden e del capo del Pentagono Lloyd Austin sulle strategie di “sicurezza” e “difesa” degli Stati Uniti, una “sfida culminante” con la Cina per decidere nel prossimo decennio il futuro del mondo; e ciò attraverso una “competizione strategica” con o senza conflitti armati in cui l’America peraltro è sicura di “prevalere”, la cui posta in gioco è lo stabilimento di un unico imperio e di una stessa società per tutto il mondo. Ma noi pensiamo che nemmeno la Cina si possa gettare fuori della storia, e che anzi le Nazioni della Terra dovrebbero accorrere al suo capezzale dopo che essa è stata stremata da un’epidemia devastante che si è abbattuta su di lei dopo essere uscita da una povertà che nel 1978 ancora gravava su 770 milioni di contadini, con un tasso di povertà del 97.5 per cento sulla popolazione totale (notizie ufficiali date in un libro di Zhang Yonge, “La Cina e lo sforzo propositivo per un XXI secolo dei diritti”, fatto distribuire dall’ambasciatore cinese in Italia). La Cina era tuttavia giunta oggi ad assicurare cibo e sussistenza a una popolazione di oltre 1,3 miliardi di persone, e non merita ora che il mondo invece di contribuire a soccorrerla, ne aspetti l’annichilimento allo scopo di non averla più come concorrente nel mercato mondiale.
Dunque tuttt’altro che una guerra e un Impero ci sono da fare, Né questa è una guerra dell’Italia; essa non ha più guerre né nemici da vincere. E nemmeno se ne può uscire dicendo “negoziato, negoziato”, quando l’Ucraina, che ne ha bisogno più della vita, è l’unico Paese al mondo che ha proibito il negoziato per legge. Non è la nostra guerra, e nemmeno dovrebbe essere la guerra personale di Giorgia Meloni e dei suoi alleati riluttanti. Proprio perché sovrani non si ha licenza di uccidere, non di aggredire grandi e piccini, non di espellere dal mondo la Russia e di sgominare la Cina. Il bene di esistere è per tutti, se Giorgia Meloni fosse russa oggi starebbe sotto il castello di Varsavia a manifestare contro Biden per la sua patria e contro l’idea di ridurre il mondo a un’unica misura.
In una guerra come ci sono due nemici, ci sono sempre due verità. Chi è sicuro della sua? E si possono tacciare da “azzeccagarbugli” le opinioni dissenzienti? Abbiamo giudici che giudicano dei diritti, non abbiamo quaggiù giudici della verità. O vogliamo dire, come Hobbes, come fece Bush per legittimare dopo la guerra fredda il ripristino della guerra nel Golfo: “auctoritas, non veritas facit legem”? E allora, la democrazia? In che cosa differirebbe dalle “autocrazie”?
Il pensiero d’ordinanza non mi persuade. Io insisto a metterci il naso.
Ta mundu leggiu!
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Ta mundu leggiu seus vivendi! Che mondo brutto stiamo vivendo! Ripeteva spesso mia mamma, non facendo differenze tra i tempi terribili di distruzione e morte della guerra (che aveva attraversato con la sua numerosa famiglia pesantemente sulle sue spalle) e i tempi oggettivamente migliori del dopoguerra. Come segno di speranza addiritura mise al mondo altri tre figli che si aggiunsero agli otto precedenti. Viveva con ottimismo sorretta da una fede incrollabile. Eppure continuava a ripetere “Ta mundu leggiu…” pensando non tanto alla sua situazione, quanto a ciò che continuava ad accadere di brutto nel mondo: povertà, violenze, guerre diffuse (quantunque lontane dall’Europa)… Dunque di che ci meravigliamo. Anzi statisticamente il mondo sta complessivamente meglio del passato, nonostante i rallentamenti e in diversi ambiti i peggioramenti dovuti in prevalenza alla pandemia e alle guerre in corso, in primis quella Russo-Ucraina. Per questa osservazione ci aiutano i 17 parametri/obbiettivi dell’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile. Ma intanto dobbiamo dire che la rilevazione statistica di carattere generale non dà conto di situazioni specifiche, come il sostanziale squilibrio tra ricchi e poveri del mondo con l’aumento vertiginoso delle povertà (al plurale), un po’ più precisamente rileva il rischio di precipitazioni delle condizioni ambientali con il verificarsi considerevole dei disastri ambientali. A questi eventi nel corso della sua storia l’Umanità ha cercato sempre di far fronte. Lo fa tuttora? Sicuramente in qualche misura, non certo in modo convinto e sufficiente, anzi. E non certamente in modo coinvolgente tutta l’Umanità, prevalendo diseguaglianze, sfruttamento, fame e caduta delle democrazie. La caduta peggiore è la caduta della Speranza, che comporta un regresso irreversibile. Anche la situazione italiana sta tutta dentro questa lettura, come ben argomenta Alessandro Portelli nel suo efficace intervento su il manifesto (che di seguito riportiamo). Una lettura pessimistica, certo, ma, come dice Alessandro, tutto potrà andare diversamente se crediamo e ci impegniamo perché “… è arrivato il momento di scrollarci di dosso il torpore interiorizzato di chi si sente sconfitto, e di ritrovare le nostre convinzioni, le nostre passioni, la nostra intensità. Forse non è troppo tardi per provare a rimettere il mondo in sesto”.
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Mondo alla rovescia. Rimettiamolo in sesto, ribellarsi è giusto.
[COMMENTI su il manifesto]. Solo in un tempo scardinato è possibile rispondere a un’aggressione fascista minacciando di sanzioni un’insegnante antifascista, o dare la colpa di una strage in mare a genitori snaturati che, chissà perché, hanno portato con sé i figli su una barca clandestina e precaria
Pubblicato un giorno fa
il manifesto Edizione del 4 marzo 2023
di Alessandro Portelli
I tempi sono fuori sesto, diceva Amleto, e mi fa rabbia che tocchi a me rimetterli a posto. Solo in un tempo scardinato è possibile rispondere a un’aggressione fascista minacciando di sanzioni un’insegnante antifascista, o dare la colpa di una strage in mare a genitori snaturati che, chissà perché, hanno portato con sé i figli su una barca clandestina e precaria. Per questo tocca a noi, con rabbia serena, rimetterli a posto scendendo in strada come antifascisti a Firenze e come antirazzisti a Milano. Che poi è la stessa cosa.
Nel 1939, una nave chiamata Saint Louis attraversò l’Atlantico cercando di portare in salvo 937 ebrei rifugiati dalla Germania nazista. Le autorità del nuovo mondo – a Cuba, negli Stati Uniti, in Canada – furono tutte concordi nel rifiutargli il permesso di sbarcare.
La nave dovette riattraversare l’oceano e tornarsene in Europa, dove almeno un terzo di quelle persone furono assassinate dei campi di sterminio nazisti.
Nel 2023, i rifugiati delle guerre, delle catastrofi climatiche, della povertà e della mancanza di futuro non hanno nemmeno una nave che provi a portarli in salvo. Devono attraversare il mare come possono, ma ancora una volta trovano i porti chiusi e se muoiono è colpa loro.
In questi tempi fuori sesto i criminali sotto processo sono Mimmo Lucano che aveva provato ad accoglierli, o il contadino francese Cédric Herrou. Colpevole di solidarietà verso i migranti attraverso le Alpi.
Ha proprio ragione l’improbabile ministro Valditara: non c’è pericolo di un ritorno del fascismo. Da un lato, è improbabile che torni il fascismo del folklore, coi gagliardetti, gli slogan, i gerarchi in camicia nera che saltano nel cerchio di fuoco, il fez con la nappa. Dall’altro, non “tornerà”, perché non se n’è mai andato, il fascismo che chiudeva i porti ai rifugiati ebrei del 1939 e che adesso li chiude ai rifugiati africani e mediorientali col colore sbagliato e la pelle sbagliata. Per questo le due manifestazioni di oggi a Firenze e Milano sono la stessa cosa: è lo stesso fascismo quello che aggredisce chi non è d’accordo e quello che lascia morire chi non è uguale. L’ipocrita «prima gli italiani» di Salvini e complici e successori significa solo gli «italiani»: sono non-italiani e non hanno diritti i “clandestini” fuori dei confini; e dentro i confini sono «antitaliani» (questi sì proprio come nel ventennio) quelli che non si accodano disciplinatamente al consenso verso chi comanda.
Nel 1984 immaginato da George Orwell, il senso delle parole si rovesciava: «La guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza». Nel 2023 in cui viviamo noi, abbiamo fatto molti passi avanti su quella strada. Antifascismo e solidarietà sono reati, le vittime sono colpevoli, i carnefici buoni samaritani, lasciar morire la gente è pietà. Nei suoi discorsi, Giorgia Meloni – madre, cristiana, ma soprattutto italiana – ci insiste ripetutamente. «Siamo umani, noi», proclama, «noi siamo quelli umani che si pongono il problema del destino di persone che stanno in difficoltà e per evitare che muoiano in mare con nostro grande dolore gli diciamo di non partire, vantando una politica di respingimento come un atto umanità e di buoni sentimenti.
In quanto madre, Giorgia Meloni non ha una parola umana per i ragazzi massacrati di botte dai fascisti a Firenze; in quanto cristiana, non ha niente di umano da dire sugli esseri umani morti per mancanza di soccorsi nel mare della Calabria. D’altra parte, è in nome di umani sentimenti paterni che il suo accolito Piantedosi dà ai loro stessi genitori la colpa della morte di bambini che sarebbe stato suo compito salvare. E non ci dimentichiamo che il suo alleato Matteo Salvini schedava i rom perché «non come ministro, ma come papà» voleva «salvare quei bambini che crescono nella schifezza» di campi che sarebbe stato suo dovere rendere vivibili.
Ma sarebbe stato, ed è, anche dovere nostro. Abbiamo senz’altro il cuore dalla parte giusta, ma non basta. Anche una solidarietà rassegnata rischia di risolversi in inerzia, che è una forma attenuata di indifferenza. Ho cominciato con Amleto, finirei con Yeats: le cose vanno in pezzi, scriveva, perché «ai migliori manca ogni convinzione, mentre i peggiori sono pieni di intensità appassionata». Basta ascoltare i comizi di Giorgia Meloni per capire di che cosa parlava. Ebbene, è arrivato il momento di scrollarci di dosso il torpore interiorizzato di chi si sente sconfitto, e di ritrovare le nostre convinzioni , le nostre passioni, la nostra intensità. Forse non è troppo tardi per provare a rimettere il mondo in sesto.
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Che succede?
I problemi del PD dopo le primarie
1 Marzo 2023 su C3dem.
di Sandro Antoniazzi
Le primarie del PD si sono svolte con successo, con una partecipazione oltre le aspettative, mettendo a tacere le solite cassandre di malaugurio che prevedevano/desideravano un possibile tonfo.
E hanno offerto anche un risultato sorprendente con la preferenza accordata a Elly Schlein rispetto a Stefano Bonaccini, persona decisamente più rappresentativa del partito attuale.
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Le vittime non dimenticate della Mafia
28 Febbraio 2023 su C3dem
Vittime non dimenticate della Mafia: Nando Dalla Chiesa, Il tempo ritrovato. Giuseppe Bommarito, la vittima di mafia che non morì per caso (il Fatto Quotidiano)
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Un’inversione culturale sull’antifascismo
28 Febbraio 2023 su C3dem
Scuola e Antifascismo: intervista a Stefano Massini a cura di Annalisa Cuzzocrea, “Da destra troppo silenzio sui pestaggi la rivalutazione del fascismo è nei fatti” (La Stampa). Michele Ainis, La lezione attuale di Eco (la Repubblica). Ezio Mauro, L’inversione culturale (la Repubblica)
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Alzare il sipario sul mondo del carcere
28 Febbraio 2023 su C3dem
Alzare il sipario sul mondo del carcere: Donatella Stasio, La pena non è sofferenza e segregazione alziamo il sipario sul mondo dei carcerati (La Stampa). Intervista a Gaetano Azzariti Ora il carcere duro deve tornare ad essere eccezione (la Repubblica). Giovanni Bianconi, Il no della Costituzione, Cospito deve restare al 41 bis (Corriere della Sera). Giulia Merlo, Cospito deve morire al 41 bis (Domani)
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Possibile un dialogo con i talebani?
28 Febbraio 2023 su C3dem
Intervista a Mahmouba Seraj a cura di Lucia Capuzzi Mahmouba Seraj, candidata al Nobel «Coi taleban deve ripartire il dialogo» (Avvenire)
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I morti delle rotte poco raccontate
28 Febbraio 2023 su C3dem
Dalla spiaggia di Cutro i morti delle rotte poco raccontate: Giorgia Linardi, L’Unione Europea non sa gestire i migranti e l’Italia prende a schiaffi il diritto di fuga (La Stampa). Andrea Malaguti, Il carico residuale (La Stampa). Tonio Dell’Olio, Conversioni sulla spiaggia di Cutro di in www.mosaicodipace.it. Annalisa Camilli, Il naufragio più grosso dal 2013 sulle coste italiane di Annalisa Camilli in Frontiere di in Frontiere. Alessandro Barbera, Il richiamo del Quirinale Più impegno dall’UE nella lotta ai trafficanti(La Stampa). Elena Stancanelli, Una chiamata in correità (la Repubblica)
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Una sorpresa di nome Elly
28 Febbraio 2023 su C3dem
PD: Stefano Cappellini, Una sorpresa di nome Elly (la Repubblica). Beatrice Covassi, Se questo partito vorrà essere nuovo dovrà saper pensare l’Europa (Avvenire). Maria Teresa Meli, Mantenere il Pd con l’Ucraina (Corriere della Sera). Carlo Bertini, La festa interrotta del favorito “Tocca a lei, io a disposizione”(La Stampa).
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Le convivenze difficili per un ricerca di pace
28 Febbraio 2023 su C3dem
Le convivenze difficili: Luca Liverani , Quelle luci nella notte della guerra La preghiera di Assisi: «Vinca la pace» (Avvenire). Luca Liverani, «I nostri corpi in marcia per la pace L’iniziativa riparta dai Paesi neutrali» (Avvenire). Gianni Cardinale, «La pace ha bisogno di giustizia» (Avvenire). Enzo Bianchi, Convivenze difficili (la Repubblica). Domenico Gallo, La Valle, un buon controcanto a questo conflitto atlantista (il Fatto Quotidiano).
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Conflitto in Ucraina, un anno di guerra
28 Febbraio 2023 su C3dem
Conflitto in Ucraina, un anno di guerra: Francesca Mannocchi, Da Bucha a Mariupol dodici mesi nell’orrore (La Stampa). Intervista a monsigno Gallagher di Svitlana Dukhovych, Un anno senza pace (l’Osservatore Romano). Luca Caracciolo, Come si può evitare il terzo conflitto mondiale (La Stampa). Giuliano Cazzola, Quei filoputiniani di un Italia che tiene famiglia (Il Quotidiano del Sud). Andrea Fubini, Il rebus sanzioni alla Russia (Corriere della Sera). Roberto Napoletano, La democrazia a Est sfida la Russia (Il Quotidiano del Sud). Alessandro Campi, L’influenza orientale sul baricentro dell’Europa (Il Messaggero). Fabrizio D’Esposito, Ucraina. No alle armi e appelli per un negoziato di pace: l’anno di guerra vissuto da papa Francesco (il Fatto Quotidiano).
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Politica, antidoto della guerra
28 Febbraio 2023 su C3dem
Politica: Marco Tarquinio, Politica smetti di suicidarti (Avvenire). Ugo Magri, Se solo il colle frena una destra senza più freni (La Stampa). Ilvo Diamanti, Meloni durerà 5 anni. Ma Draghi è il più amato (la Repubblica). Claudia Fusani, Il colle firma il “milleproroghe” ma chiede modifiche (il Riformista). Andrea Fabozzi, Mattarella richiama Meloni sui decreti (il manifesto). Andrea Bonanni,Il Green deal UE e la miope politica di Palazzo Chigi (la Repubblica)
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Chiesa, la revisione della riserva maschile
28 Febbraio 2023 su C3dem
Riflessioni sulla Chiesa:
Andrea Riccardi, Francesco, i dieci anni del primo Papa «globale» (Corriere della Sera), Francesco Stella, Da Radegonda a Dhuoda a Matilde, tutte le Marte emancipate del Medioevo (il manifesto). Antonio Spadaro, Dio non è pagliaccio. E non si lascia tentare dal delirio di onnipotenza (il Fatto Quotidiano)
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Che tempi!
I cristiani di domani? Iniziamo a immaginarli
di Armando Matteo
Come sarà il cristianesimo del futuro? Nel libro Opzione Francesco. Per una nuova immaginazione del cristianesimo futuro (San Paolo) del quale proponiamo qui sopra un ampio estratto, il teologo Armando Matteo prova a “immaginarlo” alla luce del magistero del Papa. L’idea è di un cristianesimo che coltiva prassi e sogni di fraternità; che sa abitare le periferie e fare comunione con chi le abita; un cristianesimo che denuncia un sistema economico e sociale che ci prende soldi e anima; un cristianesimo che torna allo sguardo misericordioso di Gesù. Questo richiede coraggio, amore per il Vangelo e per l’umanità.
A dieci anni dall’arrivo di papa Francesco, è apparso opportuno a chi scrive rilanciare in modo semplice quello che ai suoi occhi rappresenta la linea principale del magistero di papa Francesco e convocare i suoi fratelli e le sue sorelle nella fede a un momento di vero discernimento e di vera azione. Per papa Francesco, in verità, il dramma della Chiesa attuale – principalmente in Occidente ma con cause e ricadute che travalicano i suoi meri confini culturali e politici – è che non facciamo più cristiani e cristiane. La rottura nella trasmissione generazionale della fede è il vero nodo intorno al quale egli ha convocato il popolo santo di Dio: il cambiamento d’epoca e la fine dell’epoca della cristianità hanno semplicemente reso inefficaci le antiche pratiche di iniziazione alla fede dei nostri cuccioli. Serve, allora, un cambiamento radicale della mentalità pastorale e ancora di più serve una nuova immaginazione del cristianesimo futuro.
In vista dell’esecuzione di questo duplice compito, Bergoglio ci ha consegnato, sin dall’inizio del suo pontificato, la cifra della gioia del Vangelo e il grande tema dell’amicizia che Gesù a tutti propone. Ha poi declinato questo secondo tema nella logica di un rinnovato sogno di fraternità universale, che possa riscattare la nostra esistenza umana dal terribile processo di commercializzazione che il capitalismo avanzato porta avanti con un cinismo di altissima precisione che non può che lasciare stupiti, incurante ovviamente dei tanti feriti e morti che lascia sul terreno in cui prepotente avanza. Ed è in questo mondo che i credenti debbono tornare con coraggio e con entusiasmo a portare lo sguardo di misericordia e di elezione di Gesù che sta all’origine della loro fede e al quale sempre debbono ritornare per alimentare quella fede.
Questo è l’invito immenso che ogni giorno di ogni mese di ogni anno di questi dieci anni ci è venuto da papa Francesco: che quello sguardo di misericordia vada al mondo intero, raggiunga ogni angolo di umanità, tocchi e sani le esistenze ferite, risvegli le coscienze e i cuori addormentati, converta il cuore di chi ha in mano le sorti finanziarie e politiche della società, metta fine alla globalizzazione dell’indifferenza, instauri un’ecologia umana integrale, riporti finalmente il cuore dei padri verso i figli.
Ecco perché è essenziale prendersi cura della concreta fecondità della Chiesa: ci servono sempre uomini e donne che vivano della passione genuinamente evangelica di dare un volto umano al mondo – un volto fatto di dignità di tutti, di giustizia per tutti, di fraternità con tutti, di pace in cielo e in terra [...].
Non cedere alla cattiva paura
L’emozione della paura rappresenta una grande risorsa per l’essere umano. Non avendo, infatti, quest’ultimo un corredo istintuale completo, deve affidarsi all’esperienza diretta per fare conoscenza del mondo e di ciò che è presente nel mondo. Lentamente egli procede a una abitazione del mondo in cui può fare affidamento a ritmi ben stabiliti, ad azioni già sperimentate, a punti di riferimento efficaci e a previsioni molto realistiche. Accade ciò che possiamo chiamare una sorta di “addomesticazione” del mondo ovvero la trasformazione del mondo in una casa abitabile per l’uomo [...].
Accanto a questa forma, diciamo così, buona e decisamente vitale della paura, ne esiste una che definiamo cattiva paura. Intendiamo la situazione di chi alla fine dei conti ha paura della stessa paura: ha paura cioè di venirsi a trovare di fronte a qualcosa di non conosciuto, di inedito, di non ancora pensato e vissuto, che potrebbe causare un profondo mutamento nella propria condizione di vita. In questo caso, si reagisce a questa cattiva paura, provando a restare dentro il sentiero già conosciuto e sperimentato da tempo immemorabile. La cattiva paura rende colui che ne è ostaggio prigioniero del proprio passato e dunque di se stesso.
A me sembra ora di poter dire che uno degli ostacoli che può frenare, in molti credenti, il desiderio di sintonizzarsi con l’appello di papa Francesco a un urgente cambiamento della mentalità ecclesiale e pastorale possa essere proprio la cattiva paura sin qui descritta. È la paura del nuovo, del rischio, dell’uscita dagli schemi già conosciuti e utilizzati milioni di volte, del prendere l’iniziativa, del dare vita a nuovo modo di essere e agire da credenti in questo cambiamento d’epoca [...].
Non cedere al risentimento
Oggi la Chiesa – soprattutto in Occidente – si trova in una situazione di effettiva marginalizzazione rispetto alla vita concreta di tantissimi individui. Nessuno pensa di dover ricevere da lei alcuna autorizzazione per l’esercizio della sua libertà né ritiene in modo assoluto che la condizione dell’essere credente sia indispensabile per una vita compiuta. Gli unici paradisi che oggi si cercano sono quelli fiscali o quelli ai quali si accede tramite le droghe. I suoi seminari sono vuoti, i suoi conventi sono vuoti, i suoi monasteri sono vuoti, i suoi edifici di culto sono vuoti o appena semivuoti, i sacramenti che dispensa tantissime volte sono più un’occasione di festa familiare che non di reale crescita nell’esperienza cristiana, gli stessi movimenti – la sua primavera – iniziano a perdere forza d’attrazione sulle nuove generazioni, mentre quella calcistica è ormai quasi l’unica fede per la quale si è pronti pure a dare la vita. Senza passare sotto silenzio il fatto che, nella memoria collettiva, non sopravvive praticamente più nulla di quelle antiche parole che per secoli hanno indicato all’anima umana le coordinate per contenere le altezze e le bassezze di ogni piccola e grande esistenza: parole come sacrificio, dono, riparazione, peccato, espiazione, redenzione attraverso la croce, remissione della colpa, attesa escatologica, parusia, giudizio finale, paradiso, inferno, purgatorio, e infine salvezza. Per non parlare, infine, del continuo discredito che i mass media alimentano nei confronti del clero, dei vescovi e del Papa a seguito della terribile piaga degli abusi sessuali e di potere. I pochi credenti debbono così, quasi ad ogni piè sospinto, scusarsi del loro restare ancora tali.
È così naturale che un certo risentimento abiti nel cuore di non pochi credenti di fronte a un mondo che da un momento all’altro ha voltato completamente le spalle al cristianesimo. Eppure, si deve onestamente riconoscere la verità di ciò che papa Francesco dice a proposito del risentimento, della sua forza oscura, del suo precipitare veloce verso i lidi del pessimismo e della tristezza e del condurci alla fine verso posizioni che di cristiano non hanno più nulla. Non cediamo, allora, al risentimento. Facciamo piuttosto nostro “lo sguardo che discerne”, il quale, dice ancora papa Francesco, «mentre ci fa vedere le difficoltà che abbiamo nel trasmettere la gioia della fede, allo stesso tempo ci stimola a ritrovare una nuova passione per l’evangelizzazione, a cercare nuovi linguaggi, a cambiare alcune priorità pastorali, ad andare all’essenziale». Mettiamo, allora, da parte la questione della consistenza e rilevanza culturale o materiale della Chiesa e facciamo spazio al desiderio di una Chiesa che sia sempre di più percepita quale spazio per chiunque disponibile a incontrarsi con Gesù e sperimentare la gioia della fede.
Non cedere all’indietrismo
Un ultimo ostacolo all’assunzione dell’Opzione Francesco viene dalla terza delle tentazioni a cui oggi i credenti, secondo papa Francesco, sono sottoposti: la tentazione dell’indietrismo [...]. In questo cambiamento d’epoca, quando è richiesto ai discepoli del Signore un improcrastinabile lavoro di immaginazione nuova del cristianesimo futuro e di conversione pastorale, al fine di assicurare il procedere della tradizione del messaggio del Signore agli uomini e alle donne di questo tempo, la tentazione dell’indietrismo fa di nuovo la sua apparizione con la promessa di una soluzione semplice a un problema complesso: e la soluzione è quella di non cambiare, ma di perseverare in quel sistema di trasmissione del messaggio del Signore che ha funzionato sinora.
In questo modo, però, ha ricordato papa Francesco, il 24 novembre del 2022, alla Commissione teologica internazionale, la tradizione semplicemente muore [...]. Non si può pertanto cedere all’indietrismo. Esso costituisce, in linea di diritto e di fatto, un vero tradimento della missione della Chiesa. La tradizione o cresce o muore. Oggi è il tempo di farla crescere di nuovo. Il bene della Chiesa ce lo chiede. Il bene del mondo ce lo chiede. Papa Francesco ce lo chiede.
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Convivenze difficili
La Repubblica – 28 Febbraio 2023
di Enzo Bianchi (sul suo blog).
Un mondo a pezzi! Un’umanità che conosce divisioni e contrapposizioni che sfociano in conflitti violenti. Dalle catene dell’Himalaya, al Caucaso, al Medio Oriente, fino all’Europa della penisola balcanica e dell’Ucraina si registrano guerre da decenni senza che si intravvedano vie di riconciliazione: popoli quasi tutti poveri e oppressi, gente che vorrebbe soltanto vivere in pace. Facciamo finta di non saperlo, ma in Kosovo la situazione non è certo di convivenza pacifica: siamo al preludio di una nuova guerra per uscire dallo stillicidio di ostilità tra le nazioni nate dalla deflagrazione iugoslava. E in questi giorni anche la Moldavia è riemersa come terra contesa, ai confini dell’Ucraina e della Russia già in guerra tra loro.
Guerra Russia-Ucraina. I 12 punti della Cina per il cessate il fuoco e l’avvio delle trattative.
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Di seguito i 12 punti del piano cinese.
1) Rispettare la sovranità nazionale di tutti i Paesi.
2) Abbandonare la mentalità della guerra fredda.
3) Cessare le ostilità.
4) Riprendere i colloqui di pace.
5) Risolvere la crisi umanitaria.
6) Proteggere i civili e i prigionieri di guerra.
7) Mantenere al sicuro i siti nucleari.
8) Ridurre i rischi strategici.
9) Favorire le esportazioni dei cereali.
10) Mettere fine alle sanzioni unilaterali.
11) Mantenere stabili i canali di rifornimento e dell’industria.
12) Favorire la costruzione post conflitto.
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[Da AGI, Avvenire e altri media] I 12 punti con cui la Cina chiede il cessate il fuoco e l’avvio di trattative tra Russia e Ucraina e ribadisce il no all’uso (e alle minacce) di armi nucleari, il no agli attacchi alle centrali nucleari. Il piano, pubblicato dal ministero degli Esteri cinese nel primo anniversario dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina, rilancia le note posizioni della Cina rispetto al conflitto in corso.
Ecci di seguito i 12 punti:
1. Rispettare la sovranità di tutti i paesi. Le leggi internazionali riconosciute, compresi gli scopi e i principi della Carta delle Nazioni Unite, dovrebbero essere rigorosamente osservate e la sovranità, l’indipendenza e l’integrità territoriale di tutti i paesi dovrebbero essere effettivamente garantite. Tutti i paesi sono uguali indipendentemente dalle loro dimensioni, forza o ricchezza. Tutte le parti dovrebbero sostenere congiuntamente le norme fondamentali che regolano le relazioni internazionali e salvaguardare l’equità e la giustizia internazionali. Il diritto internazionale dovrebbe essere applicato in modo equo e uniforme e non dovrebbero essere adottati doppi standard.
2. Abbandonare la mentalità della guerra fredda. La sicurezza di un paese non può andare a scapito della sicurezza di altri paesi e la sicurezza regionale non può essere garantita rafforzando o addirittura espandendo i blocchi militari. I legittimi interessi e le preoccupazioni di sicurezza di tutti i paesi dovrebbero essere presi sul serio e adeguatamente affrontati. Problemi complessi non hanno soluzioni semplici. Dovremmo aderire a un concetto di sicurezza comune, globale, cooperativo e sostenibile, concentrarci sulla stabilità a lungo termine del mondo, promuovere la costruzione di un’architettura di sicurezza europea equilibrata, efficace e sostenibile e opporci all’instaurazione della sicurezza nazionale su la base dell’insicurezza di altri paesi e prevenire la formazione di scontri di campo. Salvaguardare congiuntamente la pace e la stabilità del continente eurasiatico.
3. Cessare il fuoco e smettere di combattere. Non ci sono vincitori nelle guerre di conflitto. Tutte le parti dovrebbero mantenere razionalità e moderazione, non aggiungere benzina sul fuoco, non intensificare i conflitti, impedire che la crisi ucraina si aggravi ulteriormente o addirittura vada fuori controllo, sostenere Russia e Ucraina affinchè si incontrino, riprendere il dialogo diretto non appena possibile, promuovere gradualmente l’allentamento e il rilassamento della situazione e raggiungere infine un cessate il fuoco globale.
4. Avviare colloqui di pace. Il dialogo e il negoziato sono l’unica via d’uscita praticabile per risolvere la crisi ucraina. Tutti gli sforzi per risolvere pacificamente la crisi dovrebbero essere incoraggiati e sostenuti. La comunità internazionale dovrebbe attenersi alla giusta direzione per persuadere la pace e promuovere i colloqui, aiutare tutte le parti in conflitto ad aprire la porta a una soluzione politica della crisi il prima possibile, e creare le condizioni e fornire una piattaforma per la ripresa dei negoziati. La Cina è disposta a continuare a svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
5. Risolvere la crisi umanitaria. Tutte le misure che contribuiscono ad alleviare le crisi umanitarie dovrebbero essere incoraggiate e sostenute. Le azioni umanitarie devono rispettare i principi di neutralità e imparzialità e impedire la politicizzazione delle questioni umanitarie. Proteggere efficacemente la sicurezza dei civili e stabilire corridoi umanitari per l’evacuazione dei civili dalle zone di guerra. Aumentare l’assistenza umanitaria nelle aree interessate, migliorare le condizioni umanitarie, fornire un accesso umanitario rapido, sicuro e senza barriere e prevenire crisi umanitarie su vasta scala. Sostenere il ruolo di coordinamento delle Nazioni Unite nell’assistenza umanitaria alle aree di conflitto.
6. Protezione dei civili e dei prigionieri di guerra. Le parti in conflitto dovrebbero rispettare rigorosamente il diritto umanitario internazionale, astenersi dall’attaccare civili e strutture civili, proteggere le donne, i bambini e le altre vittime del conflitto e rispettare i diritti fondamentali dei prigionieri di guerra. La Cina sostiene lo scambio di prigionieri di guerra tra Russia e Ucraina e tutte le parti dovrebbero creare condizioni piu’ favorevoli per questo.
7. Mantenere la sicurezza delle centrali nucleari. Opporsi agli attacchi armati contro impianti nucleari pacifici come le centrali nucleari. Chiediamo a tutte le parti di rispettare le convenzioni sulla sicurezza nucleare e altre leggi internazionali e di evitare risolutamente incidenti nucleari provocati dall’uomo. Sostenere il ruolo costruttivo dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica nella promozione della sicurezza e della protezione degli impianti nucleari pacifici.
8. Ridurre i rischi strategici. Le armi nucleari non possono essere usate e la guerra nucleare non può essere combattuta. L’uso o la minaccia di uso di armi nucleari dovrebbe essere contrastato. Prevenire la proliferazione nucleare ed evitare una crisi nucleare. Ci opponiamo allo sviluppo e all’uso di armi biologiche e chimiche da parte di qualsiasi paese e in qualsiasi circostanza.
9. Garantire l’esportazione di grano. Tutte le parti dovrebbero attuare l’accordo sul trasporto di cereali nel Mar Nero firmato da Russia, Turchia, Ucraina e Nazioni Unite in modo equilibrato, completo ed efficace e sostenere le Nazioni Unite affinchè svolgano un ruolo importante in tal senso. L’iniziativa di cooperazione internazionale per la sicurezza alimentare proposta dalla Cina fornisce una soluzione fattibile alla crisi alimentare globale.
10. Stop alle sanzioni unilaterali. Le sanzioni unilaterali e le pressioni estreme non solo non risolveranno i problemi, ma ne creeranno di nuovi. Opporsi a qualsiasi sanzione unilaterale non autorizzata dal Consiglio di Sicurezza. I paesi interessati dovrebbero smettere di abusare delle sanzioni unilaterali e della “giurisdizione a braccio lungo” contro altri paesi, svolgere un ruolo nel raffreddare la crisi in Ucraina e creare le condizioni affinchè i paesi in via di sviluppo sviluppino le loro economie e migliorino i mezzi di sussistenza delle persone.
11. Garantire la stabilità delle filiere industriali e di approvvigionamento. Tutte le parti dovrebbero seriamente salvaguardare l’attuale sistema economico mondiale e opporsi alla politicizzazione, alla strumentalizzazione e all’uso di armi dell’economia mondiale. Mitigare congiuntamente gli effetti di ricaduta della crisi e impedire che l’energia, la finanza, il commercio di cereali, i trasporti e altre cooperazioni internazionali vengano interrotte e danneggino la ripresa dell’economia globale.
12. Promuovere la ricostruzione postbellica. La comunità internazionale dovrebbe adottare misure per sostenere la ricostruzione postbellica nelle aree di conflitto. La Cina è disposta a fornire assistenza e svolgere un ruolo costruttivo in questo senso.
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Ucraina: è arrivata l’ora della diplomazia ?
26.02.23 – di Olivier Turquet
- Quest’articolo è disponibile anche in: Spagnolo
Uno dei punti fermi che hanno caratterizzato le manifestazioni per la pace in Ucraina che si sono svolte numerose in molte parti del mondo in questi ultimi giorni e di cui Pressenza ha cercato di dare conto è stata la necessità di un cessate il fuoco e di un intervento serio della diplomazia.
Vari hanno ricordato che l’arte della diplomazia è quella di parlare con il nemico, non quella di costringere il nemico alla resa, prerogativa di chi, anche in questo caso, pensa che la guerra finisca grazie alla vittoria di una parte sull’altra.
In questo senso il piano cinese in 12 punti presentato in questi giorni è, salvo smentite, l’unico piano che propone una soluzione diplomatica basata su principi, come l’integrità territoriale, la protezione dei civili, l’aiuto umanitario e il cassate il fuoco come condizione previa al dialogo riconosciuti universalmente e cardini della diplomazia.
Così sembra un po’ curioso che la risposta di molti attori occidentali (NATO, USA, Unione Europea) abbiano immediatamente bocciato il piano come un “non piano”; quegli stessi attori che non hanno come piano altro che la risposta militare e le sanzioni alla Russia. Ancora più curioso il fatto che Zelensky stesso ne abbia elogiato il tentativo prima di essere smentito dai falchi del suo governo e dal Segretario Generale della NATO.
Il piano cinese è criticato perché non condanna l’invasione russa di un anno fa; ma, essendo un piano basato sulla diplomazia, esso invoca il cessate il fuoco, la messa in sicurezza delle centrali nucleari, l’aiuto immediato alle popolazioni e la condanna del coinvolgimento dei civili nel conflitto: tutto questo suona, nel linguaggio della diplomazia, come una forte condanna dell’invasione perché se no questi punti non sarebbero nemmeno nominati. Se qualcuno non sa leggere tra le righe del testo, o non vuole farlo, l’ipocrisia di chi vuole la guerra facendo finta di volere la pace è facilmente svelata.
Esiste il partito trasversale della guerra che include una quantità di interessi legati direttamente o indirettamente all’industria militare e a quella energetica e che travalica le frontiere geopolitiche classiche, arrivando infine, come sempre, agli interessi della speculazione finanziaria che gioca indifferentemente sui tavoli delle armi, su quello dell’energia ma anche già scommette sulla lucrosa ricostruzione: è un partito che unisce realtà esplicite e implicite che, mediaticamente, fanno a gara a fare i “nemici” ma sono pronti a siglare accordi per il loro bene comune, che si chiama profitto. E’ un partito forte ma sta perdendo pezzi perché da molte parti ci si rende conto che questo stato di destabilizzazione permanente che aleggia dalla pandemia in poi non è nemmeno funzionale al mantenimento di un apparente stato di benessere in alcune, poche, parti del mondo. La domanda è: fin quando potremo tirare il collo alla popolazione mondiale, in particolare a quella che sta sull’orlo del baratro, senza una risposta di qualche tipo?
I cinesi è da tempo che dichiarano pubblicamente che la guerra è un ostacolo al loro interesse principale che è il commercio multilaterale. La Cina ha superato la crisi del Covid mantenendo una posizione leader nell’economia mondiale, nonostante tutti gli analisti occidentali passino il tempo a fare gli uccelli del malaugurio. Pragmaticamente (non sono comunisti, sono confuciani) la Cina sta rapidamente correggendo gli errori di una politica di espansione industriale selvaggia con interventi statali a favore di un maggiore equilibrio ecologico, mentre l’Occidente resta ancorato al businness as usual, riuscendo a fare della transizione ecologica soltanto un grande affare, evitando di affrontare i problemi di fondo che riguardano lo stesso modello di “sviluppo” delle società occidentali. E in quel modello la violenza è intrinseca e giustificata, al di là dei proclami “buonisti”: la violenza economica innanzi tutto ma poi anche quella della pretesa superiorità intellettuale, quella della discriminazione e del disprezzo delle altre culture e degli altri popoli, quella maschilista che pervade il suprematismo bianco, l’autoritarismo.
Ora la Cina ha fatto la sua mossa per limitare i danni di una guerra che, innanzi tutto, la danneggia economicamente direttamente (Ucraina era un buon mercato) e indirettamente.
Di fatto sarebbe il caso di ricordare che i cinesi non fanno guerra a nessuno da parecchio tempo e che anche i loro interventi indiretti in alcune crisi del dopoguerra sono stati molto ponderati ed hanno consentito il mantenimento sostanziale della pace in Asia; non possiamo dire esattamente la stessa cosa delle potenze occidentali, in particolare degli Stati Uniti, con il loro amore per l’interventismo “in nome della democrazia”.
In sintesi ci pare che il piano cinese riproponga con forza e autorevolezza quello che stanno dicendo i pacifisti mondiali: cessate il fuoco, cessate l’escalation armamentista, soccorrete le popolazioni e allontanate la minaccia atomica, sia scaturita da un incidente che dalla stessa guerra nucleare. Su quest’ultimo tema chiederemmo al Governo Cinese uno sforzo ulteriore per ratificare la bontà delle loro intenzioni: l’adesione al Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari. Sarebbe un modo concreto per rispondere a chi dice che il piano di pace sia solo propaganda.
In ogni caso lo spiraglio aperto dal piano di pace cinese, qualunque sia il suo esito, deve essere l’occasione per i pacifisti per dire che la diplomazia è l’unica via d’uscita e per i nonviolenti di affermare con forza che le strade dell’obiezione di coscienza, della Difesa Popolare Nonviolenta, della non collaborazione con la violenza sono strade da praticare, da conoscere e da approfondire, oltre che l’unica soluzione di fondo alla follia che stiamo vivendo.
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Guerra continua. Solo un Dio potrà salvarci?
Contro il riarmo
L’Editoriale di Mariano Borgognoni*
Una cara ed acuta amica mi faceva notare qualche giorno fa l’impressionante realismo e l’attualità dei discorsi apocalittici in particolare nell’Evangelo di Matteo. «Voi udrete parlare di guerre e di rumori di guerre; guardate di non turbarvi, infatti bisogna che questo avvenga, ma non sarà ancora la fine. Perché insorgerà nazione contro nazione e regno contro regno, ci saranno carestie, pestilenze e terremoti in vari luoghi…». Allora, per dirla con il filosofo, solo un Dio potrà salvarci? Per i cristiani sì e no. C’è la fede in una parola ultima di Dio ma c’è anche il campo del penultimo che è, per intero, nelle nostre mani. Dunque: attendere il Regno e attendere al compito e alla responsabilità di chi si trova ad abitare il mondo. Seguendo la via della caritas e della politica, secondo quella illuminante metafora che ci vorrebbe aiutanti dei naufraghi che devono attraversare il fiume e costruttori di ponti per risolvere alla radice il problema. Staccare la concretezza dell’aiuto dalla soluzione più generale del problema che ne determina la necessità è sempre un errore esiziale, come dimostra la stessa storia dei movimenti per conquistare diritti sociali e civili. La pandemia, ancora non del tutto debellata, i tragici terremoti di Turchia e Siria, la guerra in Ucraina, la ripresa del conflitto israelo-palestinese, la situazione in Yemen, in Congo, in Sud Sudan e in tante altre parti del mondo, l’aumento del divario tra ricchi e poveri a livello globale e in ogni singola nazione, comprese quelle occidentali, il sempre più preoccupante degrado ambientale che mette in discussione le condizioni e la stessa possibilità di una vita decente per le generazioni future e può provocare enormi esodi climatici, ci pongono di fronte ad uno scenario inquietante e mai così pericoloso dalla fine del secondo conflitto mondiale. Eppure la risposta a questa situazione che morde la vita e la sicurezza dell’intero genere umano è sostanzialmente una: armarci fino ai denti, spostare su questo versante grandi risorse finanziarie, alimentare e sovvenzionare la ricerca di sistemi sempre più sofisticati di difesa e di offesa, concentrare in poche mani l’esercizio del potere reale al coperto del segreto militare. Lungo questa strada non può che arretrare la funzione e il peso degli organismi sovranazionali, a cominciare dall’Onu, ma anche quella di nuove istituzioni politiche come la stessa Unione europea, e non può che accrescersi e mutare di natura il ruolo della Nato che da alleanza militare si sta trasformando in un vero e proprio soggetto politico a guida statunitense. Più armi per rafforzare la Nato, più armi per i rigurgiti imperialistici granderussi, più armi per rendere sempre più moderno l’esercito cinese e così via. Questa è la fase. Che significa anche meno risorse per il welfare europeo e per assicurare diritti sociali nel mondo che ne è parzialmente o totalmente privo. La linea riarmista ha potenti effetti sociali e disegna assetti economici e di potere molto diversi da quelli sognati e in parte avviati al termine della guerra fredda. Tutto questo nella sostanziale assenza o irrilevanza di processi e soggetti alternativi e di un adeguato livello di consapevolezza e di mobilitazione. Costruire un grande movimento nazionale, europeo ed internazionale contro il riarmo sembrerebbe un obiettivo realistico e capace di parlare a coscienze ed interessi molto diffusi. Lo stesso Aldo Capitini e il movimento nonviolento che ne ha coltivato l’eredità ha sempre avuto l’intelligenza di tenere fermo l’obiettivo del disarmo ma di individuare passaggi intermedi capaci di una più estesa possibilità di mobilitazione. Oggi questo obiettivo immediato potrebbe essere la lotta nella società e nelle istituzioni contro il riarmo e per uno sviluppo sociale e ambientale sostenibile. Un movimento di questa natura e di grande ampiezza può pesare sulla ricerca di una soluzione diplomatica ai conflitti in corso e in particolare a quello che si svolge nella martoriata terra d’Ucraina per effetto dell’aggressione russa. Come pensare una soluzione militare sul campo di quel conflitto, se non a inimmaginabili prezzi per il mondo e in special modo per l’Europa? Difendere con duttilità e realismo l’indipendenza ucraina lungo la via a suo tempo disegnata a Minsk non sembrerebbe un’impresa impossibile. Ma richiede una volontà politica che oggi non si vede in alcuna direzione. Ecco perché la voce, le voci, di un grande popolo della pace capace di tenere insieme profezia e realismo politico è oggi più necessaria che mai. ❑
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*L’Editoriale di Mariano Borgognoni su Rocca 05 del 1° marzo 2023
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MESSAGGIO IMPORTANTE
di Giacomo Meloni
Se siete persone che amano e vogliono la Pace, cercate di
partecipare alla MANIFESTAZIONE SABATO 25 FEBBRAIO 2023, organizzata dal Coordinamento
“Prepariamo la Pace”.
APPUNTAMENTO
ORE 9.30 Piazza Garibaldi Cagliari.
INIZIO CORTEO ORE 10
via Garibaldi, Piazza Costituzione, via Manno, con
interventi finali in Piazza Yenne a Cagliari.’
FACCIAMOCI SENTIRE:
* NO a tutte le guerre
* NO a COSTRUZIONE e INVIO ARMI sempre più potenti e distruttive delle persone e del territorio
* IMMEDIATO CESSATE IL FUOCO
* TRATTATIVE SUBITO SOTTO L’EGIDA DELL’ONU.
La CSS c’è.
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La guerra resa banale
Il grande gioco della guerra e il numero dei morti
17-02-2023 – Su Volerelaluna
di Domenico Gallo
L’accoglienza trionfale di Zelensky, venuto a Bruxelles la settimana scorsa a chiedere armi per portare avanti la guerra, cioè il massacro (incluso quello del proprio popolo), è un segnale inequivocabile della banalizzazione della guerra. Le classi dirigenti dei paesi europei si accalorano a discutere di carri armati, cacciabombardieri, missili e sistemi di artiglieria, come se la guerra fosse un gioco. Per questo la guerra da remoto che la Santa Alleanza occidentale sta conducendo contro la Russia per mezzo del martoriato popolo ucraino, appare sempre di più come un war game. Si schierano cannoni, carri armati, veicoli blindati, treni di munizioni e si controllano dall’alto gli avanzamenti o arretramenti del fronte. Si valuta quanto siano performanti i razzi per i sistemi di lancio Himars a guida Gps, quanto sia esteso il raggio d’azione dei nuovi missili Glsdb che Washington si appresta a fornire a Kiev, quanto sia superiore la tecnologia delle armi occidentali rispetto a quelle russe, per la maggior parte risalenti ai tempi dell’ex Unione sovietica.
L’informazione televisiva, con i suoi nugoli di inviati sul campo, ci fornisce la motivazione per partecipare al war game e per alzare la posta. Ogni giorno ci riferisce delle bombe cadute su questa o quella città, su questo o quel condominio, e ci recita la litania quotidiana dei morti civili, mostrandoci anche qualche volto addolorato, quanto basta per mantenere viva l’immagine disumana del nemico. Le riviste specializzate ci forniscono l’elenco dettagliato dei sistemi d’arma spiegati, delle munizioni consumate, dei costi sostenuti e di quelli programmati. Da lontano osserviamo il war game e vi partecipiamo facendo il tifo e incoraggiando gli attori internazionali ad andare avanti e sviluppare nuove strategie di forza. Del resto nell’opinione pubblica occidentale è stato scalzato quel tabù della guerra, che si era radicato nella coscienza collettiva dei popoli alla fine della seconda guerra mondiale.
Il primo war game a cui abbiamo partecipato è stato indubbiamente la guerra contro la Jugoslavia condotta dalla NATO nel 1999. La prima volta di una guerra senza morti (nostri). Dalla televisione si vedevano solo le piroette dei jet che incrociavano nel cielo dei Balcani e i bagliori delle esplosioni nella notte. Non si sentiva il puzzo della carne bruciata, le urla dei feriti, l’odore del sangue, la disperazione delle madri. Quando la televisione serba ha cercato di farci vedere qualcosa degli effetti prodotti dai bombardamenti, la NATO l’ha immediatamente tacitata, la notte del 16 aprile, con un bombardamento chirurgico che ha causato “solo” 16 morti. Quindi abbiamo potuto guardare a quel conflitto, senza inquietudine, come se si trattasse di un video-gioco. Adesso che siamo passati a un gioco molto più pesante, la guerra viene accettata perché giocata da remoto, noi non ne siamo direttamente implicati, non mandiamo i nostri figli al fronte, non li vediamo tornare indietro nelle bare. Per questo possiamo lanciare proclami intransigenti sulla guerra giusta, o meglio sulla pace giusta, che può essere conseguita solo al prezzo della “vittoria” sul nemico. Tuttavia, nonostante il gran battage mediatico, la realtà della guerra viene nascosta e censurata da entrambe le parti. Come ha scritto Domenico Quirico (la Stampa, 4 febbraio): «La guerra avanza nel suo processo di disumanizzazione, riduce l’uomo a cosa, nel furore, comodo, di combattere una guerra a distanza […]. In Occidente stiamo perdendo il contatto con il genere umano».
Nessuna fonte indica il numero dei soldati uccisi, e quando azzardano delle cifre mentono spudoratamente. Secondo Mykhailo Podolyak, consigliere del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, dall’inizio del conflitto armato, Kiev avrebbe registrato tra le 10.000 e le 13.000 vittime tra le forze armate, ma la Presidente della Commissione Ue, Ursula Von der Leyen, il 1° dicembre aveva dichiarato che le perdite ucraine ammontavano a 100.000 soldati uccisi. Nello stesso periodo il Capo di Stato Maggiore del Pentagono, gen. Mark Milley aveva dichiarato che le perdite dei russi ammontavano a circa 100.000 uomini. Duecentomila giovani, russi e ucraini spazzati via, cancellati per sempre i loro sogni e la loro vita.
È questo un costo umano che nessuno vuole vedere, non costituisce oggetto di dibattito pubblico. Scrive sempre Domenico Quirico: «Le cifre degli obitori e dei cimiteri sono l’unico dato che restituisce il senso vero della guerra». Queste cifre ci vengono rigorosamente nascoste, nessuno ci mostra il caos degli ospedali militari riempiti di feriti e di morenti, né i cimiteri dove questi giovani vengono sepolti. Sappiamo soltanto che la macchina militare sta procedendo massicciamente al reclutamento. Kiev si aspetta che Mosca mobiliti 300-500.000 persone per gettarle sul campo di battaglia, mentre l’Ucraina ha avviato un’operazione di reclutamento forzato che punta ad arruolare 200.000 nuove unità da inviare al fronte. È fin troppo facile prevedere che le previste offensive e controffensive di primavera produrranno una nuova montagna di morti.
Come nella Prima guerra mondiale, centinaia di migliaia di vite verranno sacrificate per spostare un confine un po’ più avanti o più indietro. Siamo condannati a rivivere gli orrori di Verdun o di Stalingrado, come se non avessimo imparato nulla dalla storia. Ha senso tutto questo? Dobbiamo concludere che è sempre attuale la lezione di Quasimodo, espressa nella lirica Uomo del mio tempo? «Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / alle ruote di tortura. Ti ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio».
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Le armi nucleari e l’Italia: che fare?
16 Febbraio 2023 by Fabio | su C3dem
Le armi nucleari e l’Italia. Che fare?
Un incontro con il card. Matteo Zuppi
Bologna, sabato 18 febbraio 2023 ore 15-17, Sala Santa Clelia, via Altabella 6
Ogni giorno in più della guerra senza fine in Ucraina apre anche allo scenario di una apocalisse nucleare come ci avverte il Comitato per la Scienza e la Sicurezza del Bulletin of the Atomic Scientists. Nella notte del 31 dicembre 2022 la marcia della pace promossa dalla Chiesa italiana ha rilanciato ancora una volta l’appello che abbiamo promosso, fin dal maggio 2021, come realtà del mondo cattolico italiano e dei movimenti ecumenici e nonviolenti a base spirituale, per chiedere al nostro Paese di ratificare il “Trattato Onu di proibizione delle armi nucleari”.
Non è più rimandabile un serio dialogo e un confronto pubblico, e in sede parlamentare, sulla proposta lanciata dalla campagna “Italia ripensaci” e promossa dai rappresentanti in Italia della coalizione Ican, Nobel per la pace 2017, anche in considerazione del fatto che stanno per essere stoccate a Ghedi e a Aviano le nuove bombe atomiche B61-12.
Per continuare nella riflessione e nell’azione volta a contrastare la logica della guerra e delle armi, sabato 18 febbraio 2023 si ritroveranno a Bologna i rappresentati delle organizzazioni cattoliche e dei movimenti ecumenici e nonviolenti su base spirituale che hanno firmato l’appello per chiedere l’adesione dell’Italia al Trattato di proibizione delle armi nucleari.
All’incontro sarà presente il cardinale di Bologna, Matteo Zuppi, presidente della Conferenza episcopale italiana, per condividere un momento di discernimento sul drammatico momento che stiamo vivendo e su come continuare con coraggio a operare per la pace in un tempo di guerra.
L’appello è firmato dai Presidenti e dai Responsabili nazionali di: Acli, Azione Cattolica Italiana, Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, Movimento dei Focolari Italia, Pax Christi, Fraternità di Comunione e Liberazione, Comunità di Sant’Egidio, Sermig, Gruppo Abele, Libera, AGESCI (Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani), FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), MEIC (Movimento Ecclesiale di Impegno Culturale), Argomenti 2000, Rondine-Cittadella della Pace, MCL (Movimento Cristiano Lavoratori), Federazione Nazionale Società di San Vincenzo De Paoli, Città dell’Uomo, Associazione Teologica Italiana, Coordinamento delle Teologhe Italiane, FOCSIV (Federazione Organismi Cristiani Servizio Internazionale Volontario), Centro Internazionale Hélder Câmara, CSI (Centro Sportivo Italiano), La Rosa Bianca, MASCI (Movimento Adulti Scout Cattolici Italiani), MIR (Movimento Internazionale della Riconciliazione), Fondazione Giorgio La Pira, Fondazione Ernesto Balducci, Centro Internazionale Studenti Giorgio La Pira, Fondazione Don Primo Mazzolari, Fondazione Don Lorenzo Milani, Comitato per una Civiltà dell’Amore, Rete Viandanti, Noi Siamo Chiesa, Beati i Costruttori di Pace, Associazione Francescani nel Mondo aps, Comunità Cristiane di Base, Confcooperative, C3dem, MEC (Movimento Ecclesiale Carmelitano), AIDU (Associazione Italiana Docenti Universitari Cattolici), Arca di Lanza Del Vasto, Fondazione Magis, UCIIM (Unione Cattolica Italiana Insegnanti Medi), IPRI-CCP (Istituto Italiano Ricerca per la Pace-Corpi Civili di Pace), AIMC (Associazione Italiana Maestri Cattolici), Ordine Secolare Francescano OFS, FESMI (Federazione Stampa Missionaria Italiana).
- Leggi l’appello integrale
- Scarica il volantino
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Dibattito
Cattolici e Politica
Elezioni. De Rita: il voto dei cattolici e la disaffezione alla politica
Su Avvenire 15 febbraio 2023.
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Cattolici e Politica: un indispensabile Dibattito esteso e vivace ma tuttora nascosto
Cattolici e politica, una presenza contraddittoria
6 Febbraio 2023 by Fabio | su C3dem
di Luigi Viviani
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L’autore, già sindacalista ed ex senatore del Partito Democratico, interviene sul dibattito cattolici e politica in una situazione di crisi e grande trasformazione del Paese, per un contributo sulle sfide da assumere.
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Alcuni aspetti dell’esperienza veneta
In questa fase di ripensamento sul futuro della Chiesa, sollecitato dalla multiforme pastorale di Papa Francesco e anche dalla recente scomparsa di papa Ratzinger, l’esame non può che riguardare anche la politica, dove, in modo più evidente, si addensano i problemi e l’inadeguatezza della presenza e del ruolo dei cattolici. Tutte le ricerche sul campo testimoniano che tale presenza è distribuita su tutto l’arco dei partiti che formano il sistema politico, ma varie risultano le modalità con le quali, nei diversi schieramenti, i cattolici testimoniano la loro fede. Assodata la conquista storica della laicità come metodo essenziale con il quale si pratica la politica da parte degli stessi cattolici, la situazione del nostro Paese presenta alcune specificità. In particolare, in una Regione come il Veneto, nella quale, data la configurazione religiosa di partenza, i processi di cambiamento si sono manifestati con maggiore profondità ed evidenza. Nella società veneta del dopoguerra, dove la maggioranza della popolazione costituiva il popolo cattolico, e in politica la Dc gestiva praticamente tutto il potere sul territorio, con una schiera di ministri nel governo nazionale, una nutrita rappresentanza parlamentare, e la stragrande maggioranza dei sindaci del territorio, si manifestarono una serie di processi interessanti. Nella prima fase postbellica, il partito cattolico possedeva una classe dirigente di una certa qualità. In parte proveniente dal Partito popolare di Sturzo, temprata e selezionata attraverso gli orrori della guerra e, in gran parte, tramite la partecipazione alla Resistenza, per cui si impegnò a ricostruire la società sul territorio e ad avviare lo sviluppo, frenando progressivamente il processo di emigrazione verso altre zone del Paese e all’estero. Uno degli aspetti positivi che emerse in quel periodo, fu che, in generale, a guidare le istituzioni locali si scelsero gli uomini migliori, indipendentemente dalla loro posizione nel partito. A Verona, per esempio, pur essendo la provincia con la Dc più a destra della Regione, per le maggiori cariche istituzionali si scelsero amministratori locali in maggioranza di centrosinistra. Anche in tal modo si crearono le condizioni per un vero avvio del miracolo economico con la nascita di tante nuove imprese e una crescita spettacolare dell’occupazione. Ma negli anni successivi, naturalmente con le ovvie eccezioni, le nuove classi dirigenti, concentrate nella gestione del potere, persero progressivamente la spinta iniziale ad innovare, e il processo di sviluppo incominciò a registrare limiti e contraddizioni. In questa fase, in seguito all’accelerata secolarizzazione della società, la sostanziale ispirazione cristiana della politica si sfilacciò, tanto che il processo di rinnovamento conciliare interessò soltanto un’esigua minoranza della politica militante e qualche centro culturale ad essa collegato. Una importante occasione persa, frutto anche dei limiti dell’azione pastorale della Chiesa veneta, che nei confronti della politica mantenne un atteggiamento essenzialmente diplomatico, e si accontentò di un cristianesimo di semplice schieramento, consistente, nell’affermazione di alcuni principi accompagnata da qualche scontro con gli avversari. Fu in questa fase che in Veneto si rafforzò l’opposizione ad alcune scelte nazionali della Dc, come l’apertura a sinistra che Moro, anche se non compreso dalla maggioranza della gerarchia cattolica, concepì e cercò di realizzare per riprodurre un clima di collaborazione tra le maggiori forze politiche, analogo a quello della Costituente. Nella Dc veneta tale scelta provocò un duro scontro, con una divisione che determinerà situazioni di progressivo sfrangiamento delle posizioni dei cattolici, e, nel tempo, diventerà un terreno favorevole al radicamento e all’espansione della Lega. I canoni della politica leghista fondati su una propagandata autonomia territoriale che, nei fatti si dimostrò una forma di egoismo collettivo sulla gestione delle risorse del territorio, in un contesto di chiusura verso l’esterno fino a forme di vero e proprio razzismo antimeridionale e antimigranti. Valutata in sede storica la politica della Lega, non solo non ha favorito le diverse possibilità di sviluppo territoriale delle aree della Regione, ma ha determinato una loro progressiva contrazione riducendo le opportunità di relazione e di collaborazione con altri territori italiani ed europei. Il recente ridimensionamento elettorale manifesta tale sostanziale fallimento. che la perdurante popolarità di Zaia, frutto del suo attivismo, rallenta ma non riesce a invertire. Nella Lega la presenza cattolica è numerosa ma in termini prevalenti di appoggio passivo, con qualche sollecitazione a favore delle chiese locali, ma mai capace di influenzare in modo significativo la linea strategica del Carroccio. I cattolici sono stati pure presenti nel centrodestra in alcuni raggruppamenti post-democristiani come Ccd e Cdu, e soprattutto in Forza Italia contribuendo a rafforzare la maggioranza della coalizione, sostanzialmente con la medesima funzione di presenza più o meno subalterna, preoccupandosi di fare qualche battaglia a sostegno formale dei valori cristiani tradizionali, come la famiglia e l’aborto. Le recenti elezioni politiche del settembre 2022 hanno registrato una forte sostituzione di FdI alla Lega nel consenso dei veneti, e ha fatto una certa impressione che, in alcuni paesini della montagna veneta, FdI abbia raggiunto il 30% dei voti. Ora il dibattito politico regionale si sta concentrando sulla questione dell’Autonomia regionale che la Lega rivendica e cerca di realizzare in tempi brevi, forzando la situazione politica con la condizione per cui, o si realizza la riforma o cade il governo. In sintesi, dentro tali processi nel centrodestra i cattolici vivono normalmente inseriti nei diversi partiti, spesso senza particolari esigenze di testimonianza quando non svolgono un ruolo di copertura ideologica di posizioni non sempre conciliabili con i principi evangelici. In quest’area il problema del ruolo dei cattolici in politica non viene sostanzialmente percepito, perché la loro presenza, ancorché marginale, è considerata sufficiente, in un contesto ritenuto, nel complesso, favorevole ai principi cristiani, anche se la scelta religiosa si riduce spesso a semplice e utile corredo dell’identità politica. Del tutto diversa l’esperienza dei cattolici nel centrosinistra. Dopo lo sbandamento postdemocristiano e l’avvio di qualche esperienza di dialogo con la sinistra, molti cattolici aderirono con convinzione all’Ulivo di Prodi ma la sua breve esistenza li ricacciò in una specie di limbo politico, che la successiva nascita della Margherita solo in parte è riuscita a rappresentare. Da ultimo il Pd, che nel Veneto, sia per l’assenza di significativi leader locali che pet una precedente, profonda divisione ideologica tra gli aderenti alle due culture chiamate a realizzare una nuova sintesi, non è mai riuscito a raggiungere una identità significativa né una dimensione organizzativa all’altezza delle aspettative. Inoltre, la diffusa logica delle correnti, peraltro strettamente dipendenti dal livello nazionale, si è tradotta in un ulteriore impoverimento dell’azione del partito. Pur con questi limiti, oggi i cattolici e la cultura cattolico-democratica sono chiamati a dare un contributo per costruire identità e strategia del Pd. Un compito di particolare rilevanza che tuttavia contrasta con il ruolo avuto finora da gran parte dei cattolici in quest’area, che quasi sempre non sono riusciti ad affrancarsi da una partecipazione ad una redistribuzione dei posti di potere in un contesto di diffusa minoranza.
Cattolici e sinistra, il dovere di fronte alla storia
In Veneto il problema del rapporto tra cattolici e politica nel Partito democratico acquista un particolare valore anche perché, in questo territorio. esso può più concretamente contribuire a far uscire il partito da una crisi profonda che lo ha ridotto ai minimi termini. Va ricordato che alle ultime elezioni esso e arrivato al 16 % nettamente sotto il pur negativo risultato nazionale, frutto di una gestione de partito subordinata essenzialmente agli interessi delle diverse correnti nei territori provinciali. Qui probabilmente più che altrove ha pesato una incapacità delle due culture di riferimento, quella della sinistra storica e quella cattolico-democratica, di operare una sintesi in direzione di una identità definita del partito. Lo stesso Congresso, anche per il depotenziamento politico operato da Letta con la sua dichiarata volontà di non ricandidarsi, da assise costituente si è progressivamente trasformato in un percorso elettorale tra i candidati, e lo stesso “Manifesto del nuovo Pd nel 2030” non ha aggiunto granché agli analoghi documenti precedenti. Lo strumento delle primarie aperte, per eleggere il nuovo segretario, ha dato avvio a un dibattito circa la contraddizione tra l’elezione del segretario come atto essenziale di democrazia rappresentativa, e l’ammissione al voto dei non iscritti, con evidente disincentivo all’iscrizione al partito. Dibattito che dovrebbe concludersi con un ripristino della differenza di funzioni e poteri tra iscritti e no, mentre le primarie possono diventare un importante strumento di partecipazione aperta anche ai non iscritti se vengono usate per consultare il popolo del Pd sulle più importanti scelte politiche del partito (primarie tematiche). La realtà attuale del Pd manifesta quindi che questo partito non ha risolto i suoi problemi perché finora ha scelto la strada sbagliata di definire le regole di funzionamento interno, e di selezione della sua classe dirigente in un contesto rigidamente correntizio. Ciò interroga la cultura cattolico-democratica come parte in causa per contribuire a superare tale limite. L’esperienza di un corretto funzionamento del partito ci suggerisce che la via migliore per conquistare una identità politica definita, rimane quella di un confronto approfondito con la realtà nella quale esso è chiamato a operare. Per il Pd tale obiettivo si concretizza nella costruzione di una nuova sinistra idonea a interpretare e governare la realtà di oggi. Una sinistra ad un tempo riformista, inclusiva e di governo, del tutto diversa da quella del ‘900. Tanto più che negli ultimi anni si è operata, in Italia e nel mondo, una trasformazione che per profondità ed estensione appare tra le più rilevanti nella storia dell’umanità. Essa si avvale di due motori fondamentali: lo sviluppo scientifico e tecnologico e la globalizzazione dell’economia, che intervengono nei diversi aspetti della vita personale e sociale. La novità di tale processo richiede, a sinistra, nuove mediazioni, decisamente diverse dal passato, tra i valori di libertà, uguaglianza e solidarietà e la nuova realtà in trasformazione. Serviranno quindi meno ideologia e più capacità di comprensione e di sperimentazione di nuove politiche. In particolare, sarà necessario un nuovo rapporto con il capitalismo fondato sulla capacità di intervenire sulle sue contraddizioni come via di rafforzamento della democrazia. In questo ambito la cultura cattolico-democratica essendo stata meno coinvolta nelle esperienze della sinistra del passato, può favorire più concretamente gli aspetti di novità. Operando in contesto di pluralismo e laicità, il politico cattolico, per svolgere il ruolo richiesto, deve essere dotato di formazione cristiana integrale, capacità di interpretare la realtà sulla quale intervenire, assumere il coraggio di proporre, sulle questioni in discussione, soluzioni di ispirazione cristiana, che spesso non traducono direttamente i principi cristiani ma ne rappresentano una mediazione parziale, che il politico cristiano assume con la sua piena responsabilità. In tal modo egli compie un dovere di testimonianza dentro la storia del suo tempo, accettandone tutte le conseguenze, forse anche con un rapporto difficile con la Chiesa.
La Chiesa e la politica
La fase che si sta aprendo nella vita del nostro Paese richiede una riflessione particolare della Chiesa italiana nei confronti della politica, sulla base di una riconsiderazione critica di tale realtà e dei rapporti intrattenuti con essa in precedenza. Il punto di partenza rimane la considerazione della politica come particolare testimonianza cristiana a servizio dei bene comune. Essa è stata definita dagli stessi vescovi, ad un tempo : impegnativa testimonianza di fede, l’organizzazione della speranza e la forma più esigente di carità. Quindi una via particolarmente impegnativa di vivere il cristianesimo secondo una vocazione rivolta al bene dell’intera società. Nel corso degli ultimi decenni è cresciuto il divario tra il valore di questa vocazione e la prassi politica concreta di tanti cattolici per cui, mentre in passato, nelle fasi migliori della Dc. la politica, nella classe dirigente più impegnata, rappresentava un ambito avanzato di testimonianza cristiana da parte dei laici, con particolari livelli di coerenza e responsabilità, la politica di oggi diviene spesso veicolo di diffusione di forme di presenza cristiana contrassegnate da incoerenza e prioritaria attenzione a raggiungere posizioni di potere, ancorché marginali. Tanto che, credo, non sia esagerato affermare che la politica oggi appare l’ambito nel quale il ruolo dei laici nella Chiesa indicato dal Concilio risulta largamente disatteso. Una situazione frutto della difficoltà particolare di esprimere e vivere scelte di ispirazione cristiana nel contesto della politica di oggi, e anche di un insufficiente rapporto e dell’assenza di una adeguata pastorale da parte della Chiesa gerarchica nei loro confronti. Se è vero che l’impegno politico, sempre più necessario per il futuro della nostra comunità, richiede un grado particolarmente elevato di virtù cristiane per rendere più consapevole ed efficace la presenza dei cattolici in questa attività, diventa indispensabile che la Chiesa, riconosca il particolare valore di questa vocazione e la sostenga con una specifica azione pastorale tesa a favorire una formazione cristiana idonea a tale compito. Non credo che a questo scopo siano sufficienti le antiche scuole fondate sui principi della dottrina sociale della Chiesa, né tanto meno scuole di generica formazione politica realizzate in ambito ecclesiale. Serve invece una formazione cristiana, qualificata in direziona di questa particolare vocazione, con un rapporto di sostegno successivo dei partecipanti, unito a un giudizio esigente sul loro operato. In tal senso mi pare che alcuni segnali positivi provengano, sulla scia di Papa Francesco, dal rapporto che il presidente della Cei cardinale Zuppi, dimostra di voler intrattenere con il mondo politico e i suoi problemi, fondato su un rigoroso rispetto dell’autonomia della politica unito a un interesse più ravvicinato alla sua realtà.
Finita definitivamente l’era del Dc, caratterizzata da una egemonia politica dei cattolici, per effetto della trasformazione del rapporto tra fede e modernità, è subentrata una dispersione dell’impegno dei cattolici nei vari schieramenti politici secondo criteri in gran parte di preferenza personale o di piccoli gruppi. Ciò ha comportato oltre che una evidente marginalizzazione complessiva dei cattolici nelle scelte politiche fondamentali oltre che una progressiva riduzione dell’ispirazione cristiana nell’azione politica, proprio nella fase in cui la Chiesa ha cercato di elaborare, sulla base dei segni dei tempi, una proposta teologica e pastorale nei confronti della modernità con il Concilio Vaticano II. Così, mentre in passato la politica era anche un fronte avanzato ed esposto del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società ,per cui, ad esempio, politici cattolici di particolare qualità, come De Gasperi e Moro, ebbero talvolta rapporti difficili con la gerarchia ecclesiastica circa scelte essenziali e strategiche nella loro azione politica, oggi, specie negli ultimi tempi, assistiamo allo spettacolo poco edificante di una politica, anche dei cattolici, divenuta veicolo di diffusione in gran parte di forme di presenza, magari formalmente riferite ai principi cristiani, ma lontane da una loro testimonianza autentica e di segno anticonciliare. L’esito complessivo di tale processo, accanto al permanere di una presenza largamente minoritaria di cristiani autentici, peraltro quasi sempre politicamente ai margini, è che l’incidenza dei cattolici nel processo politico risulta sempre più insignificante, quando non si riduce a copertura ideologica di posizioni del tutto lontane dallo spirito del Vangelo. Una situazione di particolare gravità che chiama in causa gli stessi vescovi, che nel nostro Paese, nonostante gli stimoli e le sollecitazioni di alcune voci profetiche, hanno in generale non sempre compreso il significato e il valore della politica per il futuro umano e civile dell’Italia, e tenuto nei confronti del potere politico un atteggiamento informato in prevalenza a rapporti diplomatici, accontentandosi troppo spesso che il ruolo dei cattolici si limitasse ad una adesione di massima ai valori cristiani. Oggi, nella situazione di crisi e di grande trasformazione del Paese, operare per ridare senso, valore e risultati concreti al ruolo dei cattolici in politica diventa un problema di tutta la Chiesa. Nel rigoroso rispetto della laicità della politica e delle distinte funzioni dei diversi soggetti, ognuno deve è chiamato a dare un concreto contributo per rendere il ruolo dei cattolici fattore positivo nella costruzione di un futuro di benessere e di pace dell’Italia.
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Punta de billete, Save the date, Prendi nota. Venerdì 17 marzo pv, presso l’aula magna della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna, di pomeriggio/sera è previsto un Convegno su La Chiesa oggi in Italia (titolo da definire). Tra gli organizzatori il gruppo “Amici in cammino sinodale – Amici sardi in cammino sinodale”. A presto per tutti i dettagli.
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Emergenza/Disastro Sanità
di Fiorella Farinelli*
Coprono i buchi di organico, fanno turni notturni e festivi di 12 ore filate, operano in luoghi spesso difficili, cambiano frequentemente sede, non hanno contratti stabili, ferie e malattia sono a loro carico. Il ritratto perfetto dei «lavoratori poveri», quelli con retribuzioni insufficienti che a quel tipo di prestazione sono costretti in mancanza di meglio. Ma non è così per la maggioranza dei «gettonisti» della sanità, i tanti medici a cui da qualche tempo ricorrono le Asl e gli ospedali che non hanno abbastanza anestesisti per le sale operatorie e le terapie intensive, specialisti in medicina d’urgenza per i pronto soccorso, ostetrici, ginecologi, pediatri ed altri profili. A fornirli, a caro prezzo, sono cooperative che ingaggiano neolaureati, pensionati, professionisti privati che «arrotondano», e tanti altri che nel servizio sanitario pubblico non vogliono entrare o che lo abbandonano perché stremati dal troppo lavoro degli anni del Covid, dalle ferie non godute, dagli straordinari sottopagati, dai turni resi massacranti dai deficit di organici, da retribuzioni considerate troppo basse rispetto alle aspettative maturate in un percorso di formazione generale e specialistico di almeno undici anni. Dal punto di vista economico è in effetti un affare. Conti alla mano, e calcolando i 267 giorni annuali di lavoro con turni giornalieri di 6 ore e 20 minuti, un medico ospedaliero assunto da più di 15 anni guadagna 52 Euro lordi l’ora, un medico a gettone una media di 87. Se il primo arriva a una retribuzione annuale di 85.000 Euro, al secondo bastano 84 turni (di 12 ore) per arrivare a 87.000. Grazie alla flat tax introdotta dalla legge di bilancio 2023 che dà importanti vantaggi fiscali ai lavoratori autonomi, pagherà inoltre anche meno tasse, a parità di stipendio, dei colleghi che sono lavoratori dipendenti.
i rischi per i pazienti
Ci sono rischi per i pazienti. Manca infatti ancora una regolamentazione nazionale che assicuri buoni ed omogenei standard di efficienza e qualità. Quindi la lucidità, la prontezza, la capacità di adattarsi all’organizzazione, la competenza diagnostica e operativa del medico turnista dipendono dalla serietà delle cooperative. Di dubbi ce ne sono tanti. Una recente indagine dei Nas che tra novembre e dicembre scorso ha svolto verifiche a campione su più di 1500 medici delle cooperative in tutta Italia, ha trovato parecchie cose che non vanno, medici arruolati senza le giuste competenze, dipendenti di altri ospedali che fanno i doppi turni di nascosto per fare un po’ di soldi, medici ultrasettantenni, giovani inesperti. La medicina pubblica perde ogni giorno in umanità e attenzione alle persone, la discontinuità delle prestazioni minaccia la bontà delle diagnosi e delle cure. Secondo un’indagine di Report (corriere.it), il fenomeno è molto esteso. Nel 2022 solo i turni appaltati in quattro regioni del Nord (Lombardia, Veneto, Piemonte, Emilia-Romagna) sono stati più di 100.000. Con costi altissimi per le casse regionali. Ciononostante, i prontosoccorso sono ingorgati e le liste di attesa lunghissime. Ogni giorno le cronache danno conto di pazienti esasperati e il personale più esposto chiede presidi delle forze dell’ordine, telecamere di sorveglianza, perfino corsi di autodifesa. E molti malati, sempre di più, devono ricorrere alla medicina privata, o rinunciare alle cure.
la carenza di specialisti ed infermieri
Le cause sono note, ma i rimedi sono una sfida ancora terribilmente incerta, di sicuro non rapida, difficilmente risolutiva. Perché la crisi è sistemica, e risolverla richiede una svolta insieme politica, finanziaria, organizzativa che ancora non si vede. A differenza di quello che spesso si dice, in Italia non ci sono meno medici rispetto ad altri Paesi europei (4,1 ogni 1000 abitanti, un tasso superiore a Francia, Germania, Regno Unito), mancano semmai i profili meno attrattivi delle postazioni più stressanti, come la medicina d’urgenza, gli anestesisti, gli specialisti in rianimazione, che non consentono la combinazione tra lavoro dipendente e autonomo e non prevedono agevoli percorsi di carriera, il personale medico si concentra inoltre nelle aree urbane lasciando sprovvisti i piccoli centri, le differenze territoriali sono molto consistenti. Le carenze numeriche più gravi riguardano il personale infermieristico, 5,4 su 1000 abitanti (in altri Paesi il tasso è di molto superiore, in Svizzera più del doppio). Ma il drammatico sottofinanziamento delle aziende sanitarie e il Patto di stabilità che nel 2009 ha bloccato la spesa pubblica sanitaria al livello del 2004 hanno fatto perdere al Servizio nazionale, tra il 2010 e il 2018, 45.000 unità di personale, solo parzialmente recuperato con le 17.000 assunzioni in deroga per l’emergenza Covid. Il tetto alle assunzioni è comunque ancora in vigore, le retribuzioni sono significativamente più basse che in altri Paesi europei, la contrattazione collettiva (sono tre i contratti per i 700.000 sanitari in forza al servizio pubblico) è sempre in grave ritardo, siamo nel 2023 e si sono appena stipulati accordi relativi al 2019-21. Il resto lo hanno fatto i pensionamenti anticipati, la «grande fuga» dal servizio pubblico del dopo Covid, l’incremento dei costi delle forniture e dell’energia spinto dall’inflazione e dalla guerra in Ucraina.
la scarsità delle risorse e la speranza del pnrr
Le risorse del Fondo Sanitario nazionale, tra quello che si è perso e quello che si è recuperato, sono state e restano insufficienti ad assicurare una crescita normale della spesa sanitaria, richiesta anche dall’invecchiamento della popolazione e relativo incremento del bisogno di cure specialistiche e terapie riabilitative lunghe e costose. Alcune Regioni corrono ai ripari, oltre che appaltando all’esterno parte dei servizi, anche introducendo indennità per il personale dipendente, lo fanno soprattutto quelle a statuto speciale come Val d’Aosta, Trento e Bolzano, Friuli che hanno più autonomia organizzativa e di spesa, ma anche in Veneto ci sono incentivi per frenare le fughe verso condizioni di lavoro e retributive migliori (ma intanto molti infermieri del Nord della Lombardia vanno a lavorare in Svizzera). La strategia più importante che è stata delineata, decisiva per allentare l’impatto sulle strutture ospedaliere, è quella, finanziata con i 20 miliardi del Pnrr, del potenziamento della medicina generale e della pediatria di base. La cosiddetta medicina di «prossimità» a più bassa intensità e complessità di diagnosi e di cura che passa attraverso la costituzione di 1430 «Case di comunità sanitaria», che si stanno in effetti costruendo, ristrutturando e anche inaugurando in tutta Italia. Ma per renderle tutte funzionanti H24 e sette giorni alla settimana, ci vorrà del tempo, e forti investimenti in attrezzature sanitarie e in personale. Perché al loro funzionamento dovranno concorrere anche i medici cosiddetti di famiglia che, come si è visto nelle fasi acute della pandemia, sono anch’essi un comparto in piena crisi, di numeri, efficienza, nuovi ingressi. Non solo perché i neolaureati accedono sempre meno a questi percorsi di specializzazione ma perché va radicalmente modificato il modello di impiego attualmente vigente, quello per cui il medico di base è un professionista in rapporto convenzionato con le Regioni, con un obbligo di presenza in studio limitato a sole 15 ore settimanali su cinque giorni che lascia i malati privi di assistenza di notte, nei giorni festivi e prefestivi. Un corpo professionale invecchiato che opera in sedi per lo più sprovviste dei più elementari strumenti diagnostici, che deve sbrigare una quantità enorme di richieste di prescrizione farmaci e di visite specialistiche, che può avere fino a 1.500 pazienti e qualche volta ne ha molti di più. Nelle «Case di comunità» dovranno esserci anche loro, oltre a specialisti di vario tipo, infermieri, tecnici di laboratorio, amministrativi. Occorrono quindi nuove modalità di impiego, nuove assunzioni, nuove forme di integrazione tra diversi servizi sanitari e di interazione tra questi e i servizi sociali. Un disegno non impossibile, che promette un importante rilancio e riqualificazione del servizio sanitario nazionale e della professione medica che potrebbe rimotivare molti giovani medici. Perché il livello di retribuzione è una cosa importante ma non è tutto, conta anche l’orgoglio del lavoro ben fatto, la soddisfazione di essere messi nelle condizioni di crescere professionalmente, di poter essere fedeli ai principi di un servizio essenziale e davvero universalistico, di contribuire a un bene comune su cui si fonda il sentimento stesso di appartenenza a una comunità di eguali.
il ritardo nella consapevolezza politica
A che punto siamo? Dopo la terribile stagione del Covid, che ha messo a durissima prova gli ospedali pubblici ma ha anche reso del tutto evidente alla pubblica opinione la straordinaria importanza di una sanità capace di misurarsi sia con l’emergenza che con la normalità, erano in molti ad aspettarsi che le sue criticità, già acute prima della pandemia, fossero messe finalmente al centro dell’azione politica. Non è andata così. La legge di bilancio per il 2023 presenta ancora una volta un finanziamento della sanità largamente inadeguato e, quel che è forse ancora peggio, una scarsa consapevolezza della gravità dei suoi problemi. Come tutti gli osservatori indipendenti hanno fatto osservare, mancano 1 miliardo e 200 milioni all’indiscutibile e preliminare obiettivo di preservare il suo potere d’acquisto dall’impatto dell’inflazione e dell’incremento dei costi energetici. Non solo. Non è stato rimosso il tetto di spesa che impedisce l’assunzione di nuovo personale, in primis infermieristico, non ci sono risorse per intervenire sul disagio dei settori più in difficoltà come la medicina d’urgenza, per asciugare le liste di attesa, per aggiornare l’elenco e gli standard delle prestazioni essenziali, per definire con le Regioni il nuovo Patto per la Salute 2022-24 che dovrebbe accompagnare e supportare l’attuazione della strategia del Pnrr sulla medicina territoriale. «Si poteva fare di più», ha riconosciuto la presidente del consiglio Meloni. Appunto. Ma come si spiegano, in questo quadro, gli investimenti a favore del calcio, i vantaggi fiscali a certe categorie, i pensionamenti anticipati che premiano alcuni gruppi e così via? La tempesta resta perfetta, e i rischi per la coesione sociale del Paese non possono che acuirsi. Almeno finché, anche in altri luoghi della politica, a partire da quelli territoriali, non ci si decida a cambiare passo, priorità, idee, linguaggio.
* Fiorella Farinelli su Rocca n.4 del 15 febbraio 2023.
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E in Sardegna?
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Sanremo: non sono solo canzonette
Zelensky a Sanremo? No! Invece messaggi di Pace.
03-02-2023 – di: Domenico Gallo su Volerelaluna
Da tempo immemorabile il Festival di Sanremo rappresenta la più seguita manifestazione popolare italiana. Ogni anno milioni di persone seguono lo spettacolo trasmesso in mondovisione dalla Rai. Che piaccia o meno, il Festival esprime anche sul piano internazionale un aspetto della nostra identità culturale. Del resto l’Italia ha lanciato da Sanremo successi planetari che celebrano la vita, la felicità e l’amore. Non sono solo canzonette, il palcoscenico del festival è un’occasione ambita per messaggi di costume e di cultura varia che contribuiscono a delineare una sensibilità comune, uno specchio nel quale possono riconoscersi ampi strati della popolazione italiana. Entro certi limiti Sanremo svolge una funzione di educazione popolare, se noi pensiamo, per esempio, ai monologhi di Paola Cortellesi e Laura Pausini sulla violenza alle donne, di Pierfrancesco Savino con la poesia dei migranti, di Benigni o di altri artisti incentrati sui valori civili.
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