EUROPA
Il Mondo che verrà. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo
Il Mondo che verrà
15 Ottobre 2023
Adesso che un nuovo tremendo conflitto insanguina il Medio Oriente, mentre non accenna a placarsi la guerra in Ucraina, è più che mai necessario pensare alla pace. E’ questo il momento di pensare ad un altro mondo se non vogliamo finire tutti all’altro mondo.
di Domenico Gallo
La guerra continua da oltre un anno e mezzo senza neanche un giorno di tregua. La controffensiva che avrebbe dovuto portare l’Ucraina alla vittoria è iniziata da più di tre mesi, senza produrre nessuno spostamento significativo del fronte. È in corso una orribile guerra di attrito che ci ricorda quella delle prime undici battaglie dell’Isonzo combattute da giugno 1915 a agosto 1917. Battaglie combattute praticamente senza spostamenti significativi del fronte, ma con centinaia di migliaia di morti da entrambe le parti. «La realtà, da un lato e dall’altro, è una guerra di trincea – ha scritto il generale Antonio Li Gobbi su Analisi difesa – che pensavamo fosse relegata con le sue brutture nella nostra preistoria. Combattimenti senza gloria condotti in fetide trincee dove le lacrime si mischiano al sudore, il sangue agli escrementi, il fango ai cadaveri che non possono trovare tempestiva sepoltura». I numeri di questa carneficina, fatti trapelare dal colonnello Douglas Macgregor (cfr Mini, il Fatto quotidiano, 13/9/2023), già consigliere del Pentagono, sono impressionanti. «Valutiamo che gli ucraini abbiano avuto 400 mila morti in combattimento. Nell’ultimo mese di questa presunta controffensiva che avrebbe dovuto spazzare il campo di battaglia, hanno avuto almeno 40.000 morti. Non sappiamo quanti siano i feriti, ma sappiamo che probabilmente tra i 40 e i 50.000 soldati hanno subito amputazioni, che gli ospedali sono pieni».
Gli esperti militari avevano avvertito i responsabili politici che la “vittoria” sul campo dell’Ucraina era un obiettivo impossibile. In particolare, il Capo di Stato maggiore dell’esercito americano, gen. Mark Milley, aveva avvisato: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale». Le scelte degli Usa e della Nato, invece, puntano ad istigare Zelensky alla guerra ad oltranza. Da ultimo il segretario di Stato Antony Blinken si è recato a Kiev, il 6/7 settembre, portando aiuti per un miliardo di dollari. Gli aiuti statunitensi – ha detto Blinken – consentiranno alla controffensiva ucraina di “acquisire slancio”. L’orientamento degli architetti della politica internazionale dell’Occidente di proseguire la guerra ad oltranza (promettendo a Zelensky una vittoria impossibile) comporta il prolungamento di un massacro senza senso e senza nessuno sbocco, come fu la guerra di Corea, che si concluse con un armistizio lasciando inalterata la linea del fronte, dopo aver provocato quasi tre milioni di morti. L’armistizio, firmato il 27 luglio del 1953, pose fine ai combattimenti ma non allo stato di guerra poiché dopo settant’anni non è stato ancora stipulato un Trattato di pace.
Mentre continua il coro, intonato da politici e mass media sulle note di Biden e Stoltenberg, che invoca la vittoria e promette la continuazione del massacro, nessuna Cancelleria, nessuna forza politica è capace di aprire una finestra sul futuro. Nessuno è in grado di azzardare un progetto per il futuro, anche perché gli eventi che hanno provocato la guerra e che determinano la sua continuazione ad oltranza, annunziano un futuro oscuro del quale è meglio non parlare. È stato uno dei principali interpreti della prima guerra fredda, Henry Kissinger (in un intervista al Corriere della Sera del 28 giugno 2022) ad avvertirci che bisogna guardare come porre fine al conflitto: «Stiamo arrivando a un momento – afferma – in cui bisogna affrontare la questione della fine della guerra in termini di obiettivi politici altrettanto che militari: non si può semplicemente continuare a combattere senza un obiettivo».
Per Kissinger l’unico obiettivo realistico che può garantire la pace è di reintegrare la Russia nell’Europa, non certo spingerla ad est nelle braccia della Cina. Perché questo è il punto centrale del suo ragionamento: va sconfitta l’invasione dell’Ucraina, «non la Russia come Stato e come entità storica». E dunque, quando le armi alla fine taceranno, «la questione del rapporto fra Russia ed Europa andrà presa molto seriamente». Il presupposto, sottolinea Kissinger, è che la Russia è stata parte della storia europea per cinquecento anni, è stata coinvolta in tutte le grandi crisi e «in alcuni dei grandi trionfi della storia europea»: e pertanto «dovrebbe essere la missione della diplomazia occidentale e di quella russa di tornare al corso storico per cui la Russia è parte del sistema europeo. La Russia deve svolgere un ruolo importante».
Senonchè l’obiettivo di reintegrare la Russia nel sistema europeo è diametralmente opposto agli obiettivi perseguiti da una politica che, attraverso l’allargamento ad est della Nato e la svolta russofoba dell’Ucraina dopo il golpe di Maidan, ha identificato la Russia come nuovo nemico da sostituire alla dissolta Unione Sovietica, scavando un solco per dividere per sempre la Russia dal resto dell’Europa. Questo solco adesso si è trasformato in una cortina di ferro fondata sul sangue e sull’odio. Una cortina invalicabile perché alimentata dall’odio generato da 500.000 morti, milioni di profughi e distruzioni incommensurabili.
Il conflitto in corso rischia di essere una guerra costituente su cui si decideranno gli equilibri geopolitici internazionali, la posta in gioco è il futuro del mondo. Un mondo nel quale, alla collaborazione fra le principali potenze posta a base del progetto di pace delle Nazioni Unite, si sostituirebbe la logica della contrapposizione inevitabile e del confronto politico-militare fra l’Occidente collettivo a guida Usa e la Cina, in un crescendo di tensioni e di corsa al riarmo. Questo vale soprattutto per Europa dove – qualora si dovesse giungere ad una tregua di tipo coreano – la guerra proseguirebbe con altri mezzi. Resterebbero in piedi le sanzioni, la separazione economica e l’apartheid nei confronti della società e della cultura russa. Resterebbe in piedi l’accumulo delle minacce militari e la corsa al riarmo, a danno delle spese sociali. Una cappa di terrore e di odio, graverebbe sul continente avvelenando la vita delle nazioni.
Non bisogna rassegnarsi al futuro orribile che il conflitto in corso lascia intravedere. Se è indifferibile un’azione politica per fermare la prosecuzione della guerra, a cominciare dal blocco della fornitura di armi, è altrettanto urgente pensare a come uscire dalla guerra e dalle cause che l’hanno generata.
In realtà è proprio durante la guerra che è più forte l’esigenza di pensare la pace, di delineare un progetto che consenta di superare le cause che hanno provocato la guerra per ristabilire la convivenza pacifica fra le nazioni. Come fecero quei visionari che nel 1941 misero mano al Manifesto di Ventotene. Come ci ha ricordato Pasqualina Napoletano (CRS: Pensare la pace sotto le bombe): «quel gruppo di visionari, riuscì a concepire un progetto capace di andare oltre l’odio, con l’intento di riappacificare popoli e nazioni, responsabili di due Guerre Mondiali. Un progetto coraggioso, che non si fondasse sull’umiliazione e sulla vendetta ma sulla integrazione economica e politica: gli Stati Uniti d’Europa». Quale progetto per la riappacificazione e la convivenza pacifica, o quanto meno per la sicurezza collettiva in Europa abbiamo articolato? Quale progetto abbiamo in mente per prosciugare l’oceano di odio che la guerra ha creato fra due popoli fratelli e ripudiare il conflitto tribale fomentato dai nazionalismi, l’un contro l’altro armati? Se si oscurano le cause che hanno portato alla scoppio del conflitto, ivi compreso il fatto che per oltre 25 anni gli Usa hanno praticato una nuova guerra fredda per umiliare ed isolare la Russia, come si fa a rimediare agli errori commessi per impostare un nuovo criterio di convivenza pacifica?
La visione del futuro può nascere solo da una revisione critica del passato, dal ripudio di una politica orientata a costruire l’ostilità nei rapporti fra le nazioni, a perseguire la “sicurezza” di una parte (la nostra) a danno dell’altra parte, incrementando le minacce militari e l’assedio geopolitico al “nemico”. Bisogna costruire un percorso a ritroso, riprendendo la strada che portò alla Conferenza sulla Sicurezza e cooperazione in Europa, conclusasi nel 1975 con l’Atto finale di Helsinki. I principi della Conferenza, condensati nell’Atto finale sono serviti a favorire la distensione fra i contrapposti blocchi militari in un’epoca in cui erano ancora presenti tutte le insidie della guerra fredda, ed hanno configurato la sicurezza in Europa come sicurezza collettiva fondata sul disarmo. Questi principi sono stati calpestati da una politica che ha privilegiato la contrapposizione al posto della cooperazione, l’emarginazione al posto del dialogo, il riarmo unilaterale al posto del disarmo negoziato, la costruzione dell’ostilità al posto dell’amicizia fra i popoli.
Per prima cosa occorre ripudiare la pretesa di costruire la pace attraverso la “vittoria”, cioè l’umiliazione della Russia e la negazione dei suoi interessi. Questa pretesa esclude ogni possibilità di negoziato, la mediazione non contempla vittorie, ma è, per antonomasia, la conciliazione di interessi geopolitici contrapposti, a cui si deve dare identica legittimità .
Bisogna pensare ad un futuro “disarmato”, in cui la sicurezza per i singoli Stati e per l’Europa nel suo complesso non sia fondata sul riarmo e l’estensione della minaccia militare, bensì sul disarmo negoziato e sulla riduzione della pressione militare. La Nato deve cessare di “abbaiare” ai confini della Russia e l’Ucraina non può essere la lancia della Nato nel costato della Russia. Deve essere restaurata la convivenza pacifica fra i due popoli dell’Ucraina e fra l’Ucraina e la Russia. Il baratro di dolore che la guerra ha scavato fra i due popoli può essere colmato solo col negoziato e non con le armi o la vendetta. Un negoziato sotto l’egida dell’Onu che dia la parola alle popolazioni interessate, perché se le frontiere sono inviolabili, ancora più inviolabili sono gli esseri umani, che non possono essere sacrificati dai loro governi per tracciare i confini con i coltelli.
È questo il momento di definire un progetto che superi non solo il conflitto in armi, ma quel sistema di dominio e di contrapposizione politica e militare che ha generato la guerra e sta distruggendo l’Europa. È il momento di pensare che un altro mondo è possibile e di progettarlo, come fecero quegli intellettuali cattolici che scrissero fra il 18 e il 24 luglio del 1943, prima della caduta del fascismo e nella fase più drammatica della guerra, il “codice dei Camaldoli”, prefigurando un nuovo ordinamento che trovò inveramento, grazie al contributo fecondo di altre culture, nella Costituzione della Repubblica italiana.
Bisogna pensare a come reintegrare la Russia nell’Europa, ad un negoziato che punti a ristabilire il dialogo, il confronto, la fiducia, gli scambi culturali con il popolo russo, in modo che la Russia non sia più avvertita come una minaccia per l’Europa e l’Europa non sia più avvertita come una minaccia per la Russia. Bisogna ripensare all’Europa recuperando l’impostazione originaria dei padri fondatori che hanno messo la costruzione della pace a fondamento del progetto europeo.
Il mondo che verrà sarà orribile se non saremo capaci di ripudiare le scelte che hanno aperto la strada al ritorno della guerra in Europa e nel resto del mondo. Questo è il momento di progettare un altro mondo per non andare tutti all’altro mondo.
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NON VOGLIO VENDETTA DA NESSUNO
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / SI SALVANO INSIEME /
La vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Netaniahu: ” un uomo dai molti slogan. Promette che Israele prenderà una potente vendetta e che il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”
Orly Noy* (The Guardian)
Siamo sotto shock mentre digeriamo gli attacchi di Hamas e i fallimenti del governo di Netanyahu. La preoccupazione ora è ciò che verrà dopo
È ancora impossibile digerire questi giorni più bui del buio, iniziati con le sirene che ci hanno svegliato di soprassalto sabato mattina, un giorno che sembra infinito e probabilmente non finirà per molti giorni a venire. Il pensiero dei rapiti nella Striscia di Gaza mi opprime dal dolore. Ogni pensiero su di loro lascia uno strato di terrore sulla pelle. Le immagini e le testimonianze di corpi sparsi in ogni angolo, di famiglie tenute in ostaggio per ore come scudi umani nelle proprie case dai militanti di Hamas, tormentano ancora la mente, congelando il cuore.
Lo shock assoluto causato dall’attacco di Hamas alle città del sud ha assunto varie forme con il passare delle ore: paura, impotenza, rabbia e, soprattutto, un profondo senso di caos. I colossali fallimenti del governo di Benjamin Netanyahu e dell’apparato di sicurezza stanno convergendo in un senso di collasso totale. Il sistema di intelligence, che sorveglia ogni aspetto della vita dei palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, non era a conoscenza dell’attacco; i civili sono rimasti indifesi per molte ore contro i militanti di Hamas, che li hanno intrappolati nelle loro case e massacrati senza l’intervento militare – gli stessi militari incaricati di proteggere ogni colono in Cisgiordania in ogni momento.
Siamo scioccati dalla mancanza di informazioni affidabili durante le lunghe ore in cui le persone cercavano disperatamente familiari e amici scomparsi, inondando i social network con le foto dei propri cari scomparsi. E ora assistiamo all’assenza di rifornimenti e cibo sufficienti per le forze di riserva arruolate frettolosamente e inviate in prima linea contro Hamas, lasciando il compito di organizzare gli articoli di cui hanno bisogno ai civili in ogni città e paese.
Domenica Netanyahu ha dichiarato formalmente guerra e ora, in questo momento, tutto Israele è in stato di guerra. I missili che sono caduti nel cuore di Tel Aviv e il bombardamento delle città del nord hanno trasformato l’intero paese in un campo di battaglia, almeno nella percezione pubblica.
Qui a Gerusalemme si cerca di mantenere la speranza che Hamas non lanci missili verso la città a causa della sua vicinanza alla moschea di al-Aqsa, ma l’ansia generale persiste. Le scuole sono state chiuse, così come tutte le attività commerciali, e pochissime persone sono in strada. Chi non deve farlo, non esce di casa. Sabato sera, dopo ore trascorse con ansia a guardare la televisione e i social media, mia figlia è stata presa dal panico per il timore che i militanti di Hamas, armati e ancora all’interno del territorio israeliano, potessero raggiungere Gerusalemme e attaccarci nella nostra casa. Solo dopo un giro approfondito tra i rifugi pubblici del quartiere si è calmata un po’ ed è riuscita ad addormentarsi.
In mezzo a questo caos assoluto, Netanyahu si è rivolto ai cittadini sabato sera: una dichiarazione vuota con slogan come “vinceremo”, “li colpiremo”, “annienteremo il terrorismo”. È un uomo dai molti slogan. Promette che Israele “prenderà una potente vendetta” e che “il nemico pagherà un prezzo senza precedenti”, subendo “un fuoco di risposta di una portata che il nemico non ha conosciuto”.
Quel linguaggio è intenzionale. Infatti, mentre l’opinione pubblica israeliana traumatizzata non è ancora pronta a cercare la profonda resa dei conti politica e morale che questa catastrofe richiede, la rabbia già diretta verso Netanyahu è palpabile. Un primo ministro coinvolto in procedimenti legali ha nominato, per soddisfare le sue esigenze politiche, persone che non solo erano estremamente aggressive ma anche altamente poco professionali – e le ha incaricate della nostra sicurezza. Giustamente ora è considerato personalmente responsabile. Cerca di salvare la propria pelle politica, ancora una volta, esortando la Knesset a istituire un governo di emergenza nazionale, molto simile a quello formato tre anni fa con il leader del partito di Unità Nazionale, Benny Gantz, con il pretesto del coronavirus. risposta. Ma anche senza la formazione di un governo di emergenza nazionale, l’opposizione ebraica alla Knesset sostiene pienamente l’attacco mortale del governo a Gaza. E non sono soli: molti israeliani vogliono vedere l’intera Striscia di Gaza pagare un prezzo senza precedenti.
Il desiderio pubblico di vendetta è comprensibile e terrificante, ma la cancellazione di qualsiasi linea rossa morale è sempre una cosa spaventosa.
È importante non minimizzare o condonare gli atroci crimini commessi da Hamas. Ma è anche importante ricordare a noi stessi che tutto ciò che ci sta infliggendo adesso, lo stiamo infliggendo ai palestinesi da anni. Spari indiscriminati, anche contro bambini e anziani; intrusione nelle loro case; bruciando le loro case; prendere ostaggi – non solo combattenti ma civili, bambini e anziani. Continuo a ricordare a me stesso che ignorare questo contesto significa rinunciare a un pezzo della mia stessa umanità. Perché la violenza priva di contesto porta a un solo possibile risposta: vendetta. E non voglio vendetta da nessuno. Perché la vendetta è il contrario della sicurezza, è il contrario della pace, è anche il contrario della giustizia. Non è altro che altra violenza.
Ritengo che ci siano crimini di abbondanza e che ci siano crimini di fame, e non solo abbiamo portato Gaza sull’orlo della fame, ma l’abbiamo portata ad uno stato di collasso. Sempre in nome della sicurezza. Quanta sicurezza abbiamo ottenuto? Dove ci porterà un altro giro di vendetta?
Sabato sono stati commessi crimini terribili contro gli israeliani, crimini che la mente non può comprendere – e in questo momento di oscuro dolore, mi aggrappo all’unica cosa a cui mi è rimasta aggrappata: la mia umanità. La convinzione assoluta che questo inferno non sia predestinato. Né per noi né per loro.
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*Orly Noy è giornalista ed editore della rivista di notizie in lingua ebraica Local Call
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CI STIAMO TRASFORMANDO TUTTI IN VITTIME E CARNEFICI
11 OTTOBRE 2023 / COSTITUENTE TERRA / DISIMPARARE L’ARTE DELLA GUERRA /
Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita
Corre il tempo, e cambiano i contenuti essenziali, le idee, i concetti e sensi. E’ compiuto il processo di trasvalutazione di ogni valore! Dio è morto. Viva l’eroica morte, giusto l’annientamento del “nemico”. Dilaga il nichilismo e trionfa la tecnica.
Vivo è in me il racconto di mio nonno, che andava a Safad in Galilea per comprare il fulard di seta dalla comunità ebraica sfuggita alla inquisizione in Portogallo, e che impararono la tessitura della seta dagli arabi in Spagna.
Il ricordo di Khaiem, socio del mio nonno nella cava vicino a Gerusalemme. Khaiem non ha potuto salvare la mia famiglia dalla pulizia etnica ma continuava a mandare la sua parte del guadagno della impresa finché non morì.
Non ho notizie dei figli di Khaiem, ma io ho seppellito mia sorella in Norvegia, un fratello in America, un mio stimatissimo zio una settimana fa a New York mentre la salma del mio nonno giace in un cimitero affollato ad Amman.
Nelle case di pietra fatte a mano del mio bellissimo villaggio Lifta confinante con Gerusalemme, stanno per costruire un villaggio per i ricchi turisti , mentre una volta era un rifugio sicuro per gli ebrei che fuggivano dal fascismo e dal nazismo che discriminava e annientava gli ebrei nella inenarrabile tragedia dell’ Olocausto.
Dio è morto con tutti i valori che ci rendono uguali. Trionfante è l’affermazione della volontà di potenza che affida alla tecnica i propri fini e diventa l’intima essenza dell’essere in un mondo disincantato. Eppure una volta eravamo tutti fratelli.
Stiamo scivolando tutti nel Nulla, nella mancanza di senso.
E la ragione? La pietà? La misericordia per i vivi e per i morti? La convivenza? Il rispetto? Il diritto?
Ma chi non ha un aereo di guerra sofisticato e moderno o un carro armato deve solo piangere in eterno il suo destino? Deve morire in silenzio?
Come in una “discarica”, sono finiti a Gaza gli abitanti della costa meridionale della Palestina, vittime della pulizia etnica. Secondo i nuovi storici israeliani, per svuotare ogni città o villaggio palestinese furono compiuti piccoli o grande massacri, lo stesso è avvenuto nei luoghi dove sono sorte le nuove città e insediamenti intorno a Gaza che sono stati teatro degli ultimi eccidi compiuti da noi palestinesi. Mi addolora il fatto che abbiamo adottato il terrore e l’orrore che abbiamo subito per affermare il nostro impellente diritto alla vita.
Ma questa catena di morte è inarrestabile?
Eppure una volta eravamo fratelli e abbiamo provato la ricchezza e i vantaggi della convivenza e del rispetto reciproco.
Ci stiamo trasformando tutti in vittime e carnefici per la gabbia del finto stato nazionale con confini discriminatori sempre più stretti e selettivi e in nome di fasulle razze e convenienze, di banali appartenenze e schieramenti.
La ragione, l’umanità, la vita ci supplicano a dire no alla guerra! Non siamo condannati a farci a pezzi rassicurando tutti per un proprio futuro!
Non dobbiamo discriminare i vivi e i morti.
Alì Rashid
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12 aprile Commenti Opinioni Riflessioni Eventi
Russia e Ucraina. Conferenza di Enzo Bianchi, Genova 23/03/2023.
https://www.ilblogdienzobianchi.it/blog-detail/post/185665/russia-e-ucraina-scontro-anche-tra-chiese?fbclid=IwAR0ng4THhvjjU65HEWpBPAjItUxU9Qf9gMya-aV6-rIFV8GjDODU-RB5jMs
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Per Angioy, come per Catilina, i gruppi dominanti ordirono un colpo di Stato
12 Aprile 2023
A.P. Su Democraziaoggi
Ho sempre voluto saperne di Catilina, fin da quando alle scuole medie ci fecero tradurre passi delle Catiliniarie di Cicerone. Il console mi sembrava fin d’allora un trombone molto ambizioso al servizio dei ricchi, gli ottimati, contro i populares, i ceti meno abbienti, sfruttati e indebitati. Catilina lo vedevo dalla parte di quei dirigenti sindacali […]
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————-Giovedì 13 aprile a Cagliari——–
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Le sfide del male e i trend da invertire. No all’eclissi dell’empatia
No all’eclissi dell’empatia
Mauro Magatti
mercoledì 12 aprile 2023 Su Avvenire
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25 marzo 2023. Ricorrenza del Trattato di Roma, alle origine dell’UE. La Sardegna si salva solo con l’Europa.
Festa dell’Europa 2021
di Franco Meloni
“Ce lo chiede l’Europa”: è la frase che da alcuni anni a questa parte ci sentiamo dire per giustificare scelte politiche impopolari, quelle che si basavano sull’austerità. A pagarne le spese erano (e ancora sono) appunto i ceti popolari di tutti i paesi europei. Basta pensare alle sofferenze inflitte al popolo della Grecia. Così scelte all’insegna dell’efficientismo, come il “pareggio di bilancio”, in Italia introdotto con una riforma costituzionale, sono stati strumenti di aumento delle disuguaglianze sociali. Nel mentre nessun passo avanti sulla tutela dei diritti (anzi tolleranza dei sovranismi antidemocratici dei paesi dell’est europeo) e su una saggia politica di gestione dei flussi migratori. Sono solo alcuni esempi. Il discorso sarebbe lungo, ma è bene che si sviluppi in mille analisi, proposte e altri contributi di pensiero che molti meglio di noi sono capaci a fare e che volentieri per quanto possiamo ospitiamo anche nelle nostre pagine. Qui vogliamo rammentare che l’Europa per le generazioni post conflitto bellico ha rappresentato i valori virtuosi imprescindibili della democrazia e del vivere civile, in irriducibile contrapposizione con le impostazioni e la pratica del nazismo e del fascismo (mali assoluti), e di tutti i regimi totalitari. Per noi l’Europa era e continua ad essere, nonostante tutto (purtroppo siamo meno numerosi rispetto ai tempi dell’esordio e oltre, segnati dalle “visioni” dei grandi fondatori) un riferimento fondamentale, una meta da raggiungere. Purtroppo questa meta nel tempo anzichè avvicinarsi nel perseguimento dell’integrazione (Stati Uniti d’Europa) e dell’espansione dei diritti e per la Pace (nella logica della Costituente della Terra), si è allontanata pericolosamente. C’è voluta la terribile pandemia per un inversione di rotta, a cui diamo credito e su cui vogliamo investire. Semplificando: così come l’agenda di Draghi, anche quella di Ursula Von der Leyen, costituisce in un tutt’uno, per noi, “la nostra agenda”, ovviamente sapendo che Draghi-VdL sono espressioni di interessi prevalenti della borghesia, e che una inedita “lotta di classe” deve cercare di volgere il più possibile a favore degli interessi popolari. Mutatis mutandis, questo è ancora il modello da perseguire, che storicamente ci ha fatto crescere tutti. Il recupero del motto di don Lorenzo Milani, I care, fatto dalla presidente Ursula VdL è sicuramente un significativo faro, che illumina la nostra strada di europeisti convinti. Con questi intendimenti festeggiamo oggi l’Europa!
—-—Alle associazioni: fate come La Casa del quartiere Is Mirrionis e la CSS—————————-
Per l’Europa che vogliamo. Iniziative encomiabili
La “Casa del quartiere Is Mirrionis” di Cagliari, sulla base dello statuto costitutivo che ne fissa la missione di intervento nel sociale a favore dei cittadini e per la promozione della più ampia partecipazione popolare alla gestione della cosa pubblica, nel riaffermare lo spirito europeista che unitamente all’orgogliosa appartenenza sarda, la permea,
ADERISCE
alla Festa dell’Europa, istituita dall’Unione Europea, che si celebra il 9 maggio di ogni anno.
SI IMPEGNA
per il successo della Conferenza sul futuro dell’Europa, che prende avvio proprio da domenica 9 maggio 2021, favorendo la partecipazione della cittadinanza del quartiere, della città e dell’intera Sardegna, in tutte le forme e combinazioni (in proprio e in collaborazione con terzi) che verranno stabilite dagli organi di gestione dell’associazione, anche promuovendo la presenza e le iniziative degli associati singoli o organizzati nelle entità aderenti alla Casa sull’apposita piattaforma online dedicata
Il Presidente Terenzio Calledda
Ecco il link
https://futureu.europa.eu/?locale=it
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La CONFEDERAZIONE SINDACALE SARDA – CSS partecipa alla Festa dell’EUROPA di Domenica 9 maggio 2021, ricordando che i sardi vogliono una EUROPA DEI POPOLI, come l’avevano sognata i grandi sardisti Camillo Bellieni ed Antonio Simon Mossa, nella
quale la Sardegna viene riconosciuta ed opera come popolo e nazione.
La CSS è membro fondatore della Piattaforma dei Sindacati delle Nazioni senza Stato. In questo organismo internazionale sono rappresentati le delegazioni della Sardegna, della Valle d’Aosta, dei Paesi Baschi, della Galizia, della Catalogna, della Bretagna, della Corsica, della Martinica, del Guadalupe e Nuova Caledonia.
“Serbit e boleus un’Europa de is Pópulus in paxi,
de s’agiudu torrau, de sa solidariedadi umana,
no cussa de is leonis a iscórriu e gherra”.
“Serve e vogliamo un’Europa di Popoli in pace, dell’aiuto condiviso e della solidarietà umana,
Non quella dei leoni in lotta ed in guerra“-
IL SEGRETARIO NAZIONALE DELLA CSS Dr. Giacomo Meloni
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Giuliano Pisapia, “Cambiamo l’Europa dal basso” (Corriere della sera).
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«I care» faro per tutti (una scelta da onorare)
di Francesco Gesualdi
in “Avvenire” del 7 maggio 2021
Parto da una doverosa precisazione: don Lorenzo Milani, priore di Barbiana, il motto ‘I care’ (m’importa, ho a cuore) non lo aveva scritto su un muro, ma sulla porta che separava la scuola dalla sua camera. Un particolare non secondario perché essendo il punto di ingresso nell’unico spazio in cui a sera si ritirava in privato, voleva annunciare lo spirito che aleggiava in quello spazio e quindi nella sua persona. Uno spirito di assunzione di responsabilità verso le creature che la vita gli aveva messo davanti tale da fargli dimenticare totalmente se stesso. E uno spirito di coerenza verso la verità tale da fargli accettare le conseguenze che la difesa della verità spesso comporta. Don Lorenzo non lo ricordava per narcisismo, ma come invito a noi allievi a fare altrettanto, ricordandoci che se la società è ingiusta, violenta, predatrice, la responsabilità non è solo del ‘potere’ che impartisce ordini sbagliati e scrive leggi ingiuste, ma anche di tutti coloro che quegli ordini e quelle leggi eseguono. Ha fatto bene Ursula von der Leyen a ricordare il motto ‘I care’ proprio oggi che dall’altra parte dell’Atlantico, Joe Biden ha annunciato di voler appoggiare la richiesta avanzata da Sudafrica e India di sospendere le regole internazionali a difesa dei brevetti sui vaccini e ogni altro farmaco utile a sconfiggere la pandemia. Ha fatto bene perché ciò che in Europa ci è meno noto è che la decisione di Biden non giunge come un fulmine a ciel sereno, ma come conseguenza di una forte pressione popolare organizzata negli Stati Uniti da parte delle organizzazioni umanitarie che hanno fatto arrivare a Biden milioni di messaggi a favore della sospensione. Per questo la sua decisione è la vittoria di milioni di persone che in cuor loro hanno detto ‘I care’ e hanno preso l’iniziativa di agire per manifestare il proprio pensiero e insistere finché il Presidente di tanti di loro, l’uomo più potente del mondo, ha deciso di stare dalla parte delle persone piuttosto che delle multinazionali farmaceutiche. Un’iniziativa ancor più lodevole perché non attuata a favore di se stessi, ma di persone lontane, africani, asiatici, latino americani, che rischiano di non poter essere vaccinati a causa dei costi imposti dai brevetti. Ma il vero spirito dell’I Care è proprio questo: si agisce non perché se ne trae un vantaggio, ma perché non si tollera la sofferenza, l’ingiustizia, l’umiliazione, il sopruso, il latrocinio, a chiunque sia inflitto.
Ursula VdL, allora, deve ricordarsi che avendo preso l’impegno solenne, per giunta a Firenze, di volere assumere lo spirito di ‘I Care’ a livello personale e della politica dell’Unione Europea, si è assunta una grande responsabilità. La responsabilità di agire di conseguenza, applicando il suo e nostro ‘I Care’ prima di tutto verso i migranti. Verso tutte quelle donne, quegli uomini, quei bambini che dopo essere fuggiti da zone di guerra si trovano respinti, addirittura aggrediti dai cani alla frontiera est della Ue. Verso tutti coloro che cercando di fuggire dai lager libici si mettono in mare per raggiungere la sponda Sud della Ue, ma in caso di avaria vengono lasciati annegare o sono ripescati dalla cosiddetta Guardia costiera libica che li riporta nei lager dai quali hanno cercato di fuggire. Verso tutti i cittadini meno protetti della Ue che in tempo di austerità sono stati privati di un lavoro, di cure mediche, di scuola, sacrificati di nuovo sull’altare del debito.
Un tema, quello del debito pubblico, tutt’altro che superato, perché ora che la Ue ha deciso di indebitarsi per sostenere la transizione ecologica e la ripresa sociale, sarebbe beffardo se domani, dovesse ripristinare l’austerità per ripagare il debito fatto oggi in nome del suo ‘I Care’. Finché siamo in tempo sarebbe meglio proporre di rivedere i Trattati, in particolare quelli che regolano le funzioni e i meccanismi di funzionamento della Banca centrale europea affinché la moneta, al pari dei vaccini, sia gestita come un bene comune al servizio della piena occupazione, della promozione dei servizi pubblici e della tutela della natura.
Grazie dunque alla signora Ursula VdL, per averci ricordato il valore di ‘I Care’, ma per favore l’Europa un faro per i tanti cittadini che la guardano affinché di quello spirito sia dato l’esempio migliore.
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Domenica 9 maggio Festa dell’Europa.
Verso la Festa dell’Europa del 9 maggio 2021
Come ogni anno, da sardi, europeisti convinti, il 9 maggio parteciperemo alla Festa dell’Europa. Quest’anno la data segna l’inizio della “Conferenza sul futuro dell’Europa”, caratterizzata da una serie di dibattiti avviati su iniziativa dei cittadini che consentiranno a chiunque in Europa di condividere le proprie idee e contribuire a costruire il nostro futuro comune. Noi ci siamo con Aladinpensiero.
In questo contesto riteniamo interessante proporre il discorso integrale pronunciato dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen in occasione del decimo anniversario della conferenza sullo stato dell’Unione di Firenze. Di questo discorso evidenziamo una frase che fa riferimento all’insegnamento di don Lorenzo Milani, riprendendo il moto “I Care” che la presidente rilancia come moto europeo per affrontare la crisi attuale e oltre: A pochi chilometri da Firenze, c’è un piccolo borgo chiamato Barbiana. E su una collina a Barbiana, c’è una piccola scuola di campagna. Negli anni ’60 un giovane insegnante, don Lorenzo Milani, scrisse su un muro di quella scuola due semplici parole, in inglese: “I care”. Disse ai suoi studenti che quelle erano le due parole più importanti che dovevano imparare. “Mi interessa” significa che mi assumo la responsabilità.
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È un onore per me aprire questa edizione del decimo anniversario della conferenza suello stato dell’Unione. Ogni anno, in occasione della Giornata dell’Europa, Firenze diventa il centro della nostra Unione. E non potrebbe esserci posto migliore di Firenze per celebrare la Giornata dell’Europa di quest’anno.
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NESSUN PROFITTO SULLA PANDEMIA. TUTTI HANNO DIRITTO ALLA PROTEZIONE DAL COVID-19
FIRMA QUI L’INIZIATIVA DEI CITTADINI EUROPEI: https://noprofitonpandemic.eu/it/
Il COVID-19 si diffonde a macchia d’olio. Le soluzioni devono diffondersi ancora più velocemente. Nessuno è al sicuro fino a che tutti non avranno accesso a cure e vaccini sicuri ed efficaci.
Abbiamo tutti diritto a una cura.
Firma questa iniziativa dei cittadini europei per essere sicuri che la Commissione europea faccia tutto quanto in suo potere per rendere i vaccini e le cure anti-pandemiche un bene pubblico globale, accessibile gratuitamente a tutti e tutte.
Che succede? Che fare?
Accordo di svolta per l’Italia ed Europa.
Molto da fare e da ricordare.
Leonardo Becchetti su Avvenire.it
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L’Europa scopre la politica fiscale
Matteo Lucchese e Mario Pianta
Sbilanciamoci, 22 Luglio 2020 | Sezione: Editoriale, Europa.
All’alba del 21 luglio l’accordo tra i leader europei ha segnato l’avvio di una politica fiscale europea con il piano ‘Next Generation Europe’ per uscire dalla crisi della pandemia. La partita politica si sposta ora sulle modalità di realizzazione e sul piano per la ripresa dell’Italia.
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IL VOLTO NUOVO DELL’UNIONE EUROPEA. LA CREDIBILITÀ ITALIANA ORA IN GIOCO
21 Luglio 2020 by Giampiero Forcesi su C3dem.
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EUROPA: FAMIGLIE POLITICHE DIVISE. ITALIA: IL PANTANO DECISIONALE
20 Luglio 2020 by Giampiero Forcesi su C3dem.
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L’economia durante e dopo la pandemia.
Non c’è bisogno di aspettare l’autunno per vedere gli effetti della crisi economica da coronavirus. Una recessione senza precedenti e senza risposte già scritte. Senza precedenti, poiché è la prima volta che tutte le economie capitalistiche sperimentano lo stesso choc, dovuto prima alla chiusura forzata di gran parte delle attività economiche e sociali e poi all’impatto della pandemia su settori cruciali dell’economia globalizzata: le esportazioni; il turismo e i servizi della ristorazione; l’industria culturale; e, a cascata, tutta l’economia per il conseguente calo della domanda e dell’offerta.
Dunque uno choc combinato, dal lato della produzione e dal lato del consumo. Senza risposte scritte, poiché le ricette tradizionali della politica economica erano basate sulla possibilità di reagire a choc ciclici e localizzati, non a uno choc globale; e perché anche gli strumenti di intervento pubblico, a cui tutti i governi, di qualsiasi orientamento
politico, stanno facendo ricorso, sono basati su una «normalità» che non c’è più. Basti pensare alla nostra cassa integrazione, per l’occasione usata e allargata a coprire tutti i settori prima scoperti: è una forma di assicurazione che le stesse imprese pagano, per tenere «fuori» i lavoratori senza licenziarli nell’attesa di una ripresa o di una ristrutturazione: ma che fare se un intero settore è congelato, come il turismo, e non si sa se e come potrà ripartire? Anche la politica dovrà pensare strumenti senza precedenti – e per farlo, con tutte le sue difficoltà e debolezze, dovrà partire dalla consapevolezza dei più urgenti e gravi problemi che si aprono.
Mentre nella fase dell’emergenza sanitaria misure drastiche e uguali per tutti – come il lockdown, come la cassa integrazione, come gli strumenti di sostegno al reddito – erano generali e non facevano molte distinzioni, adesso si cominciano a vedere le diseguaglianze che la crisi ha aperto o esacerbato.
Dunque la politica economica dovrà scegliere: cosa molto difficile se non impossibile per governi come quello italiano strutturalmente deboli e bisognosi di consenso. Chi ha più bisogno spesso non è chi si fa sentire di più o chi porta più voti. Ma proprio per questo è bene vedere, sin dai primi dati sugli effetti della crisi, quali sono le maggiori vulnerabilità; in quali divari la società italiana rischia di sprofondare e rompersi.
choc sul lavoro
La portata mondiale dello choc sul lavoro è stata riassunta dall’Ocse in pochi numeri, nel suo rapporto «Employment Outlook 2020». Gli scenari sono incerti, poiché dipendono dall’eventualità che ci sia o no una seconda ondata del virus in autunno forte come o più della prima. Ma in quello più «ottimistico» nel 2020 la disoccupazione nei trentasette Paesi Ocse sarà quasi raddoppiata, dal 5,3% del 2019 al 10%. Il prodotto interno scenderà, mediamente, del 6%. A pagarne il prezzo sono e saranno soprattutto i lavoratori che già erano nella scala più bassa delle retribuzioni:
secondo lo studio Ocse, i lavoratori che guadagnano di più avranno il 50% di probabilità in più di continuare a lavorare.
Mentre quelli a basso reddito, oltre a stare in settori che sono più esposti al virus, sono stati e sono anche più esposti alla perdita di lavoro. Questo riguarda soprattutto le mansioni più basse nei servizi alla persona e nel turismo, ma non solo.
Basta guardare dai dati Istat la fotografia italiana: tra marzo e maggio del 2020 gli occupati totali sono scesi di 381mila unità. Tra questi, i lavoratori dipendenti a tempo determinato hanno pagato il prezzo più alto: meno 318.000. Gli indipendenti sono scesi di 89.000 unità. I lavoratori dipendenti a tempo indeterminato sono saliti, sia pur di poco (più 27.000). Questa dinamica si spiega facilmente: il governo con i decreti d’emergenza ha bloccato i licenziamenti dei dipendenti permanenti. Ma le imprese non hanno rinnovato i contratti in scadenza ai lavoratori a termine, mentre gli indipendenti le cui attività hanno chiuso sono entrati nell’inattività o nella ricerca di altro lavoro. Dunque questa fotografia da un lato ci dice che i numeri che vediamo nella riduzione del tasso di occupazione e nell’aumento del tasso di disoccupazione sono solo una parte dell’iceberg, poiché molti lavoratori formalmente occupati sono collocati in una cassa integrazione dalla quale non sanno se rientreranno effettivamente al lavoro; dall’altro ci mostra un mondo del lavoro ancora una volta diviso tra più garantiti e meno garantiti, oppure più o meno sfortunati.
la generazione corona
Tra i più sfortunati, ossia i lavoratori a termine e precari, sono sovra-rappresentati donne e giovani. Anche questo è un dato comune a tutto il mondo, non solo italiano, tant’è che l’Ocse leva un grido d’allarme per la «corona class» (la «generazione corona»), i ragazzi che escono adesso da scuola e università e si trovano in un mondo del lavoro
chiuso e senza sbocchi. E dedica una attenzione particolare anche all’occupazione femminile, più frequente nei settori chiusi dal lockdown e non ancora del tutto riaperti.
Non si tratta di effetti scontati di qualsiasi crisi. La recessione del 2008-2009, per esempio, aveva colpito più gli uomini che le donne, essendo concentrata soprattutto sulla finanza, sulle costruzioni e poi sull’industria
tradizionale. Anche in quel caso, però, c’era stata una generazione-cuscinetto a prendersene i colpi maggiori, i più giovani. Gli attuali trentenni hanno avuto il non invidiabile primato di entrare nel mondo del lavoro con la grande recessione da subprime e poi, una volta riassestati, prendersi in faccia l’ondata del coronavirus.
nuovi scenari del telelavoro
A questa grande frattura se ne aggiunge un’altra, tra il lavoro che, grazie alla grande spinta in avanti della digitalizzazione portata dal Covid 19, potrà continuare «a distanza», e quello che ha bisogno di presenza fisica. Il passaggio al telelavoro (come l’Ocse, più correttamente, definisce quello che noi chiamiamo «smart working») ha
interessato circa 4 lavoratori su 10 nel mondo industrializzato. Questo fenomeno apre scenari nuovissimi – cosa saranno le nostre città, senza i «luoghi» centrali del lavoro impiegatizio? Come regolare i contratti dei telelavoratori? Come ripensare l’abitare, se la casa diventa il luogo del lavoro? E, ancora una volta, spacca il mondo del lavoro a metà, tra quelli che possono lavorare davanti a uno schermo e quelli che devono metterci le mani, il corpo, la faccia.
unire ciò che la crisi ha diviso
Tutte queste divisioni stanno alimentando una frattura sociale, che sarebbe irresponsabile manovrare per mettere i lavoratori l’uno contro l’altro. Ma bisogna tenerle in mente: per esempio, sapere che la grande discussione aperta in Italia sulla proroga del divieto di licenziare e sull’allungamento della cassa integrazione, forse fino a fine anno, è essenziale per tantissimi lavoratori ma non riguarda e non tutela affatto quelli che già sono senza tutele. Non è prendendosela con gli «statali» che possono lavorare da casa che le addette alle pulizie negli alberghi riprenderanno il loro stipendio. Ma certo, nel mettere mano agli strumenti tradizionali si dovrà trovare il modo di coprire anche chi il lavoro lo ha già perso e chi, affacciandosi per la prima volta sul mercato del lavoro, si trova davanti a un muro o a offerte di salari poverissime. Per i sindacati, il problema è unire quel che la crisi ha diviso. Per la politica, è guardare alle differenze reali nel mondo del lavoro e correre ai ripari con strumenti nuovi, evitando gli aiuti a pioggia che possono andare a beneficiare anche chi dalla crisi non è stato colpito o è stato colpito in misura minore. Ma questa è solo una parte dell’intervento, quella che va sotto il capitolo del sostegno al reddito e ai bisogni più
urgenti. L’altra parte, non meno importante ma distinta, è investire per trasformare l’assistenza in lavoro. Per una volta, il problema principale non sono i soldi – dato che c’è un generale allentamento del vincolo a far debito per aiutare l’economia – ma spenderli bene, per evitare che in futuro questi debiti gravino anch’essi sulle spalle dei più deboli.
Roberta Carlini.
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Riprendiamo con convinzione il cammino europeo.
di Vanni Tola
Grande accordo nell’Unione Europea. Un grande passo avanti per cambiare, per tornare a crescere ma, soprattutto, una occasione d’oro per mettere fuorigioco per sempre i nazionalismi e gli antieuropeismi. Un’occasione per riprendere con coraggio il progetto dell’Europa unita, per realizzare una federazione di Stati Europei, il sogno dei Padri fondatori dell’Europeismo. Un obiettivo impegnativo, un grande balzo in avanti, il riappropriarsi di un’idea di Europa innovativa. Il cambiamento deve partire da ciascuno di noi, dalla ricerca puntigliosa di ciò che unisce piuttosto di ciò che divide, dalla consapevolezza che i singoli stati, da soli, non rappresentano nulla e non hanno grandi prospettive economiche e prospettiva politica nel mondo che cambia. Proviamo, con la forza dell’intelligenza e della buona volontà a realizzare una nuova Europa, per noi, per i nostri giovani.(V.T.)
Difendere l’Europa o difendersi dall’Europa? Le drammatiche scelte a cui potrebbe essere costretta l’Italia e alle quali davvero non vorremmo si arrivasse. Ma l’Italia deve tutelarsi, nell’interesse suo e della sopravvivenza dell’Europa solidale.
La nostra News non ha appartenenze partitiche e pertanto non esprime una precisa linea politica riconducibile a qualsivoglia formazione presente nello scenario politico. Si muove certo nell’ambito della sinistra e dell’ampia area progressista (che la comprende), ma con assoluta libertà, cercando di favorire il dibattito tra i cittadini senza alcuna preclusione, fatta salva la discriminante antifascista. Il nostro riferimento assoluto è la Costituzione repubblicana, che difendiamo e di cui rivendichiamo la piena attuazione. Siamo europeisti convinti e la nostra critica alle politiche egemoni che hanno negli ultimi anni conformato l’Unione Europea s’iscrive comunque entro la stessa entità. Ove riconduciamo perfino l’anelito e la rivendicazione indipendentista del popolo sardo. Non abbiamo in conseguenza mai condiviso le proposte, finora peraltro minoritarie, di uscita dell’Italia dall’Unione Europea e neppure quelle di uscita dall’eurozona, teoricamente compatibili con la permanenza nell’UE, ma che contraddicono quel disegno di costruzione degli Stati Uniti d’Europa perseguito dai padri fondatori come traguardo naturale di un processo che agli esordi degli accordi del 1957 (Trattati di Roma) pareva inarrestabile.
Oggi, attraversati dalla crisi devastante scatenata dalla pandemia, la debole e drammaticamente inadeguata risposta dell’Unione Europea fa oscillare le nostre sicurezze. Gli interessi del nostro Paese sembrano contrastare con gli interessi prevalenti dei partner più forti della stessa Unione, di cui la Germania è quello decisivo.
Domani giovedì 23 aprile il Consiglio Europeo, formato dai capi di governo dei singoli Stati associati all’UE discuterà sul come sostenere adeguatamente le economie degli Stati colpiti dalla pandemia a partire dall’Italia che ne è stata la maggiore vittima. Si discuterà sul come utilizzare i fondi a disposizione del Mes (Meccanismo europeo di stabilità) per supportare i Paesi membri a fronteggiare l’emergenza Covid-19, consentendone l’uso senza alcuna condizionalità per investimenti sanitari relativi al Covid-19 e di ulteriori misure come la creazione degli eurobond (o coronabond), che propone soprattutto l’Italia, e non solo. L’argomento è troppo complesso per essere qui riassunto in poche parole. Ed è per questa ragione che la nostra News riporta gli elementi del dibattito, affidandolo a persone esperte, in una sezione appositamente creata. Ma qui vogliamo evidenziare come l’importanza di misure efficaci per gli interessi del nostro Paese e di altri nel caso non venissero accolte le richieste, nella sostanza, non escluda per l’Italia decisioni estreme fino all’uscita dall’eurozona e finanche dall’Unione Europea. Ne ha parlato esplicitamente l’on. Stefano Fassina (Leu), nell’intervista che qui segnaliamo. Per lui è un’eventualità. Tale deriva non sarebbe solo possibile, ma obbligata per Sandro Demurtas, imprenditore ed esperto di economia e finanza, nell’articolo che di seguito ospitiamo, pur non condividendolo specie nelle conclusioni. Seguiamo gli eventi con trepidazione.
PERCHE’ DOBBIAMO USCIRE SUBITO DALL’EURO.
di Sandro Demurtas
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Trasformare il mondo per salvarlo. Il comune campo di impegno per l’umanità tracciato dalla Laudato si’ e dall’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.
Venerdì 20 dicembre nell’aula del Consiglio comunale di Cagliari è stato presentato il dossier 2019 della Caritas della Diocesi di Cagliari. Presenti con un numeroso pubblico il presidente del Consiglio comunale Edoardo Tocco, il sindaco Paolo Truzzu, il prefetto Bruno Corda e l’arcivescovo Arrigo Miglio. Con la regia di don Marco Lai e di Maria Chiara Cugusi, dopo gli interventi delle autorità, la relazione sui contenuti del dossier è stata tenuta da Franco Manca. Mons. Franco Puddu ha invitato tutti alla Marcia nazionale per la Pace che si terrà a Cagliari martedì 31 dicembre. Ha concluso i lavori don Marco Lai che ha ringraziato tutti, ma, in modo particolare l’arcivescovo Arrigo Miglio, che, come si sa, ha chiuso il suo mandato pastorale di titolare Chiesa di Cagliari per raggiunti limiti di età, rimanendone vescovo emerito. I presenti hanno tributato un lungo e caloroso applauso, un’autentica standing ovation, al Vescovo Miglio.
Torneremo sul rapporto. Intanto anticipiamo il contributo presente nel volume del direttore Franco Meloni.
Trasformare il mondo per salvarlo. Il comune campo di impegno per l’umanità tracciato dalla Laudato si’ e dall’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.
di Franco Meloni
“Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. Così cantava Fabrizio De André in una delle sue canzoni più “dure” e “politicamente impegnate”(1), con la quale se la prendeva con i benpensanti incuranti delle ragioni del movimento della contestazione studentesca e operaia del 1968. Si tratta di un’invettiva che mi piace condividere con i lettori, separandola arbitrariamente dai fatti del passato a cui si riferisce, perché credo ben si attagli all’atteggiamento odierno di “indifferenza generalizzata” davanti a quanto sta succedendo al nostro Pianeta, attraversato da una crisi climatica ed ecologica, tanto grave e urgente da esserne minacciata la stessa sopravvivenza. Questo atteggiamento negativo riguarda innanzitutto i governanti degli Stati, a tutti i livelli, ma ad essi purtroppo si accompagna quello della stragrande maggioranza degli abitanti del Globo, noi compresi. Non voglio qui sminuire l’importanza delle reazioni alla situazione della Terra, tese a contrastarne la deriva di autodistruzione, sia per quanto attiene ai responsabili politici (e, in generale, alle classi dirigenti), sia ai cittadini, singoli e associati. Per quanto riguarda i primi, possiamo citare gli impegni presi dagli Stati nelle varie Conferenze internazionali sui cambiamenti climatici (2), e con l’Agenda Onu 2030, sulla quale mi soffermerò (3); mentre per i secondi basta rammentare le lotte dei movimenti ecologici in tutto il mondo, come quello encomiabile dei ragazzi di Fridays For Future (4). Queste iniziative vanno valorizzate e anche enfatizzate essendo precisamente nella giusta strada, ma emerge la loro complessiva inadeguatezza, rispetto alla gravità e urgenza dei problemi, così come avvertono gli scienziati competenti per materia e dotati di sensibilità culturale e sociale.
Laudato si’. L’approccio dell’ecologia integrale.
Su dette problematiche, che costituiscono una costante preoccupazione del suo pontificato fin dal suo insediamento, Papa Francesco ha scritto la “Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune”, datata 24 maggio 2015, autentica pietra miliare dalla quale il Papa continuamente riparte con piccole e grandi iniziative, tra le quali ultime l’istituzione della «Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato» il primo settembre di ogni anno, con le connesse iniziative del «Tempo del Creato» (5), e lo storico Sinodo sull’Amazzonia, celebrato a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019. La Laudato si’ è oggetto di studio e approfondimenti in tutto il mondo; costituisce un testo di riferimento che unifica credenti e non credenti (6) nell’impegno per la “Casa comune”. Sono innumerevoli le iniziative in tal senso e anche noi nella nostra come nelle altre Diocesi della Sardegna, abbiamo fatto e facciamo la nostra parte. Tuttavia sentiamo l’insufficienza di tale attività e di conseguenza la necessità di aumentare gli sforzi e il coinvolgimento di più soggetti. E’ anche questo lo scopo del presente articolo, nel quale non mi soffermo tanto sull’Enciclica, che comunque ne costituisce assoluto riferimento, quanto sulle iniziative “laiche” che sono consonanti con l’impostazione complessiva della stessa. Il documento laico più vicino all’Enciclica, che ha analogo “respiro”, è appunto l’Agenda Onu 2030. Vedremo più avanti. Intanto ci piace riportare dalla Laudato si’ l’appello di Papa Francesco, che ne sintetizza lo scopo ultimo, unendo le preoccupazioni alla Speranza sostenuta dal riconoscimento di quanto di positivo già si fa. (Laudato sì’, 13, 14) “13. La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Il Creatore non ci abbandona (…). L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune. Desidero esprimere riconoscenza, incoraggiare e ringraziare tutti coloro che, nei più svariati settori dell’attività umana, stanno lavorando per garantire la protezione della casa che condividiamo. Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo. (…) 14. Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta (…) Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche.(…)”.
Dell’Enciclica voglio rimarcare in modo particolare un concetto chiave, quello dell’ECOLOGIA INTEGRALE. Dice il Papa (Laudato si’, 137): ”Dal momento che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale, propongo di soffermarci adesso a riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali.”. Dunque: l’ECOLOGIA AMBIENTALE, ECONOMICA E SOCIALE, l’ECOLOGIA CULTURALE, l’ECOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA, IL PRINCIPIO DEL BENE COMUNE, LA GIUSTIZIA TRA LE GENERAZIONI, tutti ingredienti compresi nell’accezione “Ecologia integrale”, che come vedremo, vengono puntualmente ripresi nell’Agenda Onu 2030, forse senza un confortevole respiro religioso, ma tale è il valore aggiunto che caratterizza il sentire dei credenti e non solo (6). Vi invito a soffermarvi innanzitutto sul “preambolo” del documento dell’ONU, proprio per evidenziarne la consonanza con la Laudato si’ (che lo ha preceduto), quasi come risposta concreta all’appello del Papa, anzi sembra davvero che lo abbia scritto lui, sicuramente, penso io, ha contribuito ad ispirarlo.
Trasformare il nostro mondo: l’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile approvata il 25 settembre 2015, dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
“Preambolo – Quest’Agenda è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Essa persegue inoltre il rafforzamento della pace universale in una maggiore libertà. Riconosciamo che sradicare la povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale ed un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Tutti i paesi e tutte le parti in causa, agendo in associazione collaborativa, implementeranno questo programma. Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e vogliamo curare e salvaguardare il nostro pianeta. Siamo determinati a fare i passi audaci e trasformativi che sono urgentemente necessari per portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza. (…) . Persone – Siamo determinati a porre fine alla povertà e alla fame, in tutte le loro forme e dimensioni, e ad assicurare che tutti gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità ed uguaglianza in un ambiente sano. Pianeta – Siamo determinati a proteggere il pianeta dal degradazione, attraverso un consumo ed una produzione consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in modo che esso possa soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future. Prosperità – Siamo determinati ad assicurare che tutti gli esseri umani possano godere di vite prosperose e soddisfacenti e che il progresso economico, sociale e tecnologico avvenga in armonia con la natura. Pace – Siamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile. Collaborazione – Siamo determinati a mobilitare i mezzi necessari per implementare questa Agenda attraverso una Collaborazione Globale per lo sviluppo Sostenibile, basata su uno spirito di rafforzata solidarietà globale, concentrato in particolare sui bisogni dei più poveri e dei più vulnerabili e con la partecipazione di tutti i paesi, di tutte le parti in causa e di tutte le persone.”
Occorre evidenziare il carattere fortemente innovativo dell’Agenda, nella misura in cui si basa su un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo (in particolare di quello egemone capitalistico neo liberista), non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Si afferma pertanto una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo. Tutti i Paesi – senza distinzioni tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del posizionamento socio-economico – devono impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs entro il 2030. Rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente sui risultati conseguiti all’interno di un processo coordinato dall’Onu e dagli Stati nazionali, auspicabilmente sostenuto dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali. L’attuazione dell’Agenda richiede pertanto un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese alle pubbliche amministrazioni, dalla società civile, al volontariato e alle entità del terzo settore, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura.
In questo intervento non mi occupo dei risultati conseguiti (a oltre quattro anni dal varo dell’Agenda), preferendo rimanere sui dati informativi dell’iniziativa. Dobbiamo constatare peraltro che tuttora permane una scarsa conoscenza dell’Agenda (così pure della Laudato si’) per cui è necessario incrementarne la diffusione e le iniziative di sensibilizzazione a tutti i livelli e in ogni possibile circostanza. Ci saranno sicuramente altre occasioni per effettuare opportune valutazioni, a cui non mancheremo. Per l’Italia i check-up annuali sono curati (a partire dal 2016) dall’ASviS, ultimo relativo al 2019 è stato presentato il 4 ottobre 2019 (8).
Goals e Targets (Obiettivi e Traguardi)
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I simboli hanno grande importanza. Aladinpensiero per la diffusione degli inni sardo e europeo
Diffondiamo l’inno sardo Procurade de moderare.
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(Da poco tempo ufficiale per effetto dell’apposita legge* e del relativo decreto attuativo della Regione Autonoma della Sardegna**).
* CONSIGLIO REGIONALE DELLA SARDEGNA XV LEGISLATURA – LEGGE REGIONALE 4 MAGGIO 2018, N. 14 “Inno ufficiale della Regione e integrazioni alla legge regionale 15 aprile 1999, n. 10 (Bandiera della Regione)”
** Decreto del Presidente della Regione n. 49 del 24 aprile 2019, concernente “Modalità di esecuzione e l’indicazione dello spartito musicale dell’inno ufficiale della Regione ai sensi dell’articolo 2, comma 2 della Legge Regionale 4 maggio 2018, n. 14”. Conferma e rettifica.
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Diffondiamo l’inno europeo*** “Inno alla gioia”, di
Ludving van Beethoven
- Da aladinpensiero online del 5 febbraio 2013.
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*** https://europa.eu/european-union/about-eu/symbols/anthem_it
- Altre versioni dell’Inno.
DOCUMENTAZIONE SU… ITI
Approvati dalla Commissione Europea il PON Metro e il POR-FESR. A Cagliari la gestione di 55 milioni
16 luglio 2015, 07:48
Investimenti da 15 milioni di euro sui quartieri di Is Mirrionis e San Michele
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Europa, Europa
Vincere in Italia e perdere in Europa
di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 5 giugno 2019/ Società & Politica/
La Lega vince in Italia e l’Italia perde l’Europa. Mai successo che un paese fondatore diventasse improvvisamente irrilevante, che nei suoi confronti si ergesse una barriera che lo isolerà dal resto dei suoi partner per i prossimi cinque anni.
Salvini ha in mano il gruppo maggiore di eletti italiani nel Parlamento europeo, starà in minoranza insieme ai lepenisti di RN e ai neonazisti tedeschi di Afd. I neofranchisti di Vox annunciano che non faranno gruppo con i leghisti perché questi ultimi sono federalisti mentre loro auspicano una abolizione delle autonomie regionali spagnole. Vox entra nel gruppo dei conservatori dove sono di casa gli inglesi, i polacchi di Kaczyński e i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni.
Viktor Orbán, benché sospeso dal Partito Popolare Europeo non segue il suo emulo lombardo a lui vicino ideologicamente, preferisce i popolari perché potrà condizionarli da destra. Inoltre l’ungherese dipende dai finanziamenti comunitari per la sua economia e dagli investimenti tedeschi. Per facilitare l’interruzione della sospensione, il governo di Budapest ha sospeso a tempo indeterminato gli atti che porterebbero la magistratura sotto il controllo governativo. Riforma osteggiata da Bruxelles e dai partiti maggioritari del Parlamento Europeo, perché contraria ai principi di separazione dei poteri delle democrazie moderne.
Il nuovo parlamento avrà la maggioranza composta da popolari, socialisti, liberali e i verdi con una rappresentanza italiana ridotta rispetto ai decenni scorsi. Il M5S è senza casa. I verdi annunciano che non li vorranno tra le loro file perché governano con un partito di estrema destra. Nick Farage è sempre pronto ad accoglierli nel suo gruppo ma è una permanenza a tempo. In ottobre dovrebbe esserci la Brexit e gli inglesi lasceranno Strasburgo. M5S non ha altri partiti similari in altri due Paesi necessari per la costituzione di un gruppo parlamentare se non un eletto croato, finiranno nel gruppo misto.
Alla irrilevanza nel parlamento se ne aggiungerà una più grave in seno alla Commissione. Secondo le indiscrezioni riportate dal sito Politico.eu, sei leader incaricati di negoziare dalle proprie famiglie politiche, si incontreranno venerdì 7 giugno, per una cena a Bruxelles, dove si discuterà delle possibili nomine; partecipano i premier spagnolo Pedro Sánchez e il portoghese Antonio Costa per i socialisti (S&D); l’olandese Mark Rutte e il belga Charles Michel per i liberali (Alde); il croato Andrej Plenkovic ed il lettone Krisjānis Karins del Ppe. L’Italia è fuori dai Paesi trainanti, ha perso il suo ruolo tradizionale sostituita dalla Spagna.
Il governo italiano vorrebbe un commissario che si occupasse di materie economiche. Il nome pare sia quello del sottosegretario leghista Giancarlo Giorgetti, però i continui assalti di Salvini verso Bruxelles non genereranno grandi consensi su quel nome. Questo mentre Draghi lascia la BCE, finisce il Quantitative Easing che ha permesso l’acquisto dei titoli di Stato italiani con la prospettiva che alla Banca Europea vada un ortodosso del rigorismo economico, mentre l’Italia è a rischio d’infrazione per l’alto debito.
Un panorama politico che porta l’Italia ai margini delle grandi decisioni. Forse però tutto questo rientra nella strategia salviniana, cercare il casus belli per poi praticare un Italexit. Una prospettiva che non spaventa gli avventurieri, ma che dovrebbe terrorizzare gli italiani per i costi che una scelta simile comporterebbe. Una ipotesi pessimista, però un anno di governo nero-giallo ha allontanato l’Italia dai suoi partner tradizionali con una politica estera che si sta dimostrando confusa e contraddittoria.
Non esiste neanche un Depp State che possa opporsi, visto che è in atto una corsa a porsi sotto lo Spadone di Giussano. Secondo un sondaggio di SWG, se ci fossero oggi elezioni anticipate si avrebbe un governo di destra composto da Lega, FdI e quel che resta delle truppe berlusconiane. Il centro è ormai scomparso, resta solo nelle narrazioni renziane che non ha capito come i trend della pubblica opinione oggi vadano verso la radicalizzazione.
Anche se non si votasse a settembre gli anni che ci attendono non saranno facili e lo Stellone italiano potrebbe diventare una supernova con tutte le prospettive di dissoluzione che un fatto così traumatico comporterebbe.
Estote parati dicono le Sacre Scritture.
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La sfida di Bruxelles
di Roberta Carlini, su Rocca, ripreso su Aladinpensiero online.
L’Italia è fuori dai grandi giochi che si sono aperti in Europa all’indomani del voto che ha eletto il parlamento più complicato della storia dell’Unione; ma è al centro delle preoccupazioni e dei rischi sul futuro dell’Unione stessa, a cominciare dalla sua stabilità finanziaria. Ed è al tempo stesso fuori e al centro per il medesimo motivo: l’avanzata sensibile di un partito anti-europeo, punta di diamante – con gli ungheresi di Orban e i Brexiter di Nigel Farage – dello schieramento sovranista; che però, più degli altri due e con interessi con essi contrastanti, dell’Europa ha bisogno, essendo integrata a maglie strette nel suo sistema economico e finanziario.
gli interessi della parte produttiva
La parte più produttiva dell’Italia – le imprese del Nord, ossia il territorio che resta fondamentale per la Lega anche nella consistente avanzata nazionale di questo partito – è pienamente integrata con l’industria dell’Europa centrale e orientale, fa parte di quella catena del valore che non può rompersi, se non a prezzo di un calo degli ordini, della produzione e dell’occupazione. Allo stesso tempo, la mole del nostro debito pubblico (in crescita) richiede continuamente di essere alimentata dal rinnovo della fiducia dei mercati, che, almeno finché le frontiere dei capitali restano aperte, sono per loro natura internazionali. E, a catena, la stabilità del sistema bancario dipende dal primo e dal secondo fattore (la salute delle imprese e la affidabilità dello stato come debitore, la cui riduzione fa calare il valore dei titoli che le banche hanno in portafoglio e dunque anche per questa via mina la stabilità di tutto il sistema). Come farà il grande vincitore delle elezioni del 26 maggio, il ministro degli interni che al suo ministero non va mai ma che ha condotto, dall’alto della sua carica, una strepitosa campagna elettorale, a governare questa contraddizione?
la lettera di Bruxelles
Per ora, non la governa: la cavalca. All’indomani del voto, Salvini ha detto che «è finito il tempo delle letterine», proprio mentre da Bruxelles partiva la lettera decisiva, quella che mette il governo italiano di fronte alle sue responsabilità: spiegare come e perché si sta discostando dagli obiettivi che si era impegnato a rispettare – si badi bene, anche con questo governo, non solo con i passati, visto che nell’autunno scorso il tentativo di sforare i parametri europei era già stato fatto e poi era rientrato; annunciare come e quando tornerà sulla retta via. Il leader leghista è stato chiaro, a parole: quella strada è abbandonata, mettiamo anzi in cantiere una spesa di 30 miliardi per ridurre le tasse come promesso, avviando la «flat tax» per le famiglie sotto i 50mila euro, e manteniamo la promessa di non far scattare gli aumenti dell’Iva, cosa che comporta un mancato incasso di altri 23-24 miliardi.
Una sfida che l’Unione europea non ha accettato nell’autunno, ma che già allora era costata parecchio, in termini di rialzo dello spread e dunque dei tassi di interesse e del costo del servizio del debito pubblico. Ma che adesso, dice Salvini, dovrà essere accettata, perché il popolo si è espresso. Il problema è che il 26 maggio non ha votato solo il popolo italiano, ma hanno votato anche quelli di tutti gli altri Paesi, esprimendo visioni opposte. Per cominciare, lo schieramento nazionalista-sovranista, se ha ottenuto un risultato storico, non per questo ha conquistato la forza sufficiente per governare l’Europa, e forse neanche per sabotarla. Il parlamento europeo vede una geografia politica inedita, con la sconfitta bruciante delle formazioni tradizionali, di centrodestra e centrosinistra (popolari e socialisti), ma emergono anche le forze più squisitamente europeiste come quelle dei liberali, mentre prende peso la nuova onda ambientalista, e tutto ciò fa sì che il pacchetto dei voti sovranisti non sia decisivo e imprescindibile. Non solo. Cosa più importante, anche se domani si trovasse improvvisamente al governo dell’Europa in compagnia di Orban, Farage e Marine Lepen, Salvini non potrebbe lanciare quel grande piano economico che nell’entusiasmo post-elettorale ha accennato: conferenza sul debito (che vuol dire, una qualche misura straordinaria per cancellare il debito pregresso), crescita, investimenti, riduzione delle tasse, nuovo debito. I suoi alleati nazionalisti di altre nazioni difendono e difenderanno i propri interessi, e il loro elettorato non è disposto a scucire un euro per versarlo nelle casse italiane. È stato proprio il leader ungherese Victor Orban a «scaricare» Salvini solo tre giorni dopo il voto, dicendo che non ci sono le condizioni per una collaborazione tra i due partiti, che siederanno nel parlamento europeo in gruppi diversi. L’unico punto di programma sul quale sono entusiasticamente insieme è il filo spinato per tener fuori gli immigrati, grandi protagonisti della campagna elettorale in ogni posto in cui avanza la nuova onda politica di destra, dall’America di Trump a noi.
senza grandi alleati non si ribaltano le regole
Un gigantesco e drammatico diversivo, che se può aiutare a vincere le elezioni non dà alcun aiuto a governare, a usare il potere che così si è conquistato. Senza alleati internazionali, il governo italiano non ha alcuna possibilità di ribaltare le regole ortodosse – già abbastanza annacquate negli ultimi anni, a ben guardare – dell’Europa sulla finanza pubblica. I partiti tradizionali della vecchia Europa politica, quelli che l’hanno costruita su fondamenta fragili e fatta crescere senza nutrirne la democrazia, fidando nella sola spinta della moneta unica, stanno pagando il conto della loro colpa storica. Hanno perso, e rovinosamente. E si sbaglierebbe a continuare a recitare il copione degli anni passati, che contrappone i guardiani del rigore agli spendaccioni irresponsabili: per ora gli elettori continuano a subire le conseguenze delle scelte sbagliate del passato, fatte nel quadro dell’ortodossia europea, e questo ancora prevale sui timori delle fughe in avanti per il futuro. Piuttosto che combattere Salvini impugnando la sacralità dei saldi di bilancio, bisognerebbe contrastarlo sul merito delle politiche che vuole fare: chi beneficerebbe di quei 50 miliardi che il nuovo Pantalone vuole elargire?
La risposta è semplice: i più ricchi e i meno onesti. Il populismo italiano sta virando nella stessa direzione presa da Trump negli Stati Uniti, che si è proposto come errore per il ceto medio tartassato e poi ha fatto politiche per l’1% più ricco. La visione della politica economica della nuova destra italiana è un mix di riduzione delle tasse e sotterraneo incentivo all’economia sommersa, con misure che vanno dalla deregolazione degli appalti, all’uso del contante, ai condoni, alla stessa spinta in clandestinità di tanti lavoratori stranieri. La flat tax propugnata e rilanciata dalla Lega è una ricetta economica della tradizione liberista, che storicamente e logicamente ha sempre premiato i più ricchi. Sarebbe così anche per l’ultima versione della proposta, una flat tax limitata alle famiglie sotto i 50mila euro, che avvantaggerebbe di poco i redditi medio-bassi e di molto quelli medio-alti. Se ha votato per avere la flat tax, il «popolo», inteso come ceto popolare, ha votato contro se stesso. Se ha votato per uscire dall’Europa, rischia di trovarsi come quello inglese, diviso e paralizzato. Se ha votato per protestare, ci è riuscito benissimo. Ma dopo oltre un anno di governo del cambiamento, quando arriverà il momento di passare dall’espressione della protesta per i tanti problemi reali alla pretesa di una soluzione?
il tracollo dei Cinque Stelle
Infine, sulle dinamiche politiche e dunque anche su quelle economiche pesa il nuovo equilibrio che si è creato dopo il voto, con il tracollo dei Cinque Stelle e il rovesciamento dei rapporti di forza nella maggioranza. Questo nuovo equilibrio potrebbe aiutare la Lega a far passare qualcuno dei propri cavalli di battaglia, a scapito di quelli dei grillini: per esempio, definanziando o lasciando languire il reddito di cittadinanza, o accelerando la secessione delle regioni del Nord. Ma non aiuta certo a trovare 50 miliardi di euro, nelle casse pubbliche attraverso coperture reali oppure sui mercati finanziari ricorrendo ancora una volta al debito. Senza contare il fatto che i voti in parlamento sono comunque ancora a favore dei Cinque Stelle, visto che lì regna la maggioranza del 4 marzo 2018 e non quella del 26 maggio 2019. Tutto ciò può aiutare a capire come mai, al tavolo delle nomine per i nuovi vertici europei, l’Italia non ha giocato e non giocherà; ma è e sarà uno dei principali pericoli che la nuova Europa si troverà a dover gestire.
Roberta Carlini
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