Economia & Lavoro
Il lavoro editoriale della Cuec continua: ecco le novità
Le vicende giudiziarie non hanno bloccato l’attività della storica casa editrice cagliaritana.
Il lavoro della Cuec continua: ecco le novità.
CAGLIARI. La diffusione della notizia del fallimento della vecchia e storica cooperativa Cuec ha fatto nascere qualche dubbio sul futuro dell’omonima e prestigiosa casa editrice. Sardegna Novamedia, la società che da alcuni anni (dal 2010) ha acquisito la proprietà del marchio Cuec Editrice, fa sapere che niente è cambiato per effetto delle vicende giudiziarie: l’attività editoriale continua, non subirà alcuna interruzione. «Reduce dal successo riportato al recente Salone del libro di Torino – si legge in una nota diffusa ieri da Novamedia – la casa editrice Cuec Editrice by Sardegna Novamedia ha un ricco programma di attività per il 2015. Lo stesso catalogo verrà rilanciato puntando sul fatto che la Cuec nel tempo ha raccolto e valorizzato il meglio della saggistica e della ricerca prodotta nell’sola». – segue –
Sa die de sa Sardigna
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà. Facciamo i conti anche in casa nostra… e pensiamo al “che fare”
Caro Presidente, e se fosse la Sardegna la terra di accoglienza che cercano?
di Marco Meloni
Caro Presidente,
Le scrivo pubblicamente dopo giorni di riflessioni, rabbia ed un profondo quanto lacerante senso di impotenza e dopo le tante, sicuramente troppe, prese di posizione di chi, cavalcando la paura, parla di minaccia e invasione, di chi non si ferma neanche davanti ad un mare tinto di rosso, il nostro mare. Bombardiamo, blocchiamo, affondiamo: ma chi e che cosa? Giovani, bambini, donne, uomini disperati? Profughi che scappano da una guerra? E se scappassero “solo” dalla fame e dalla quotidiana violenza? Sarebbe davvero così diverso?
Li definiamo clandestini, profughi, rifugiati, immigrati, perché spesso non abbiamo il coraggio di chiamarli persone, di riconoscere che l’unica vera differenza tra noi e loro è quella di essere capitati in due lati diversi dello stesso mare. Interpretiamo il Mediterraneo come confine e barriera, il nostro problema è unicamente che stiano arrivando qui e non la barbarie dalla quale stanno scappando.
Scrivo a Lei, chiamato a governare la nostra Isola in difficoltà, dove una crisi strutturale sembra impedirci di declinare i verbi al futuro, le scrivo perché la nostra sofferenza e paura non diventino cecità. Poche settimane fa al centro del dibattito politico sardo discutevamo animatamente del ridimensionamento scolastico. Nel dibattito le ragioni di chi cerca di difendere ogni scuola anche nei piccoli centri, per la fondamentale funzione educativa e motivazioni sociali, si confrontavano e si scontravano con le ragioni di chi vorrebbe rendere maggiormente efficiente un sistema ridimensionato nei finanziamenti e ancor di più nei numeri dei fruitori. Chiedendoci se fosse giusto mantenere multiclassi con pochi alunni, ci si è reciprocamente accusati di uccidere i comuni da una parte e di barattare lo sviluppo dei nostri giovani per interessi locali dall’altra. Sullo sfondo però, la vera questione è e continuerà ad essere lo spopolamento dell’intera nostra regione, soprattutto nelle sue zone interne. Nel 2014 in Sardegna il numero di morti supera quelle delle nascite di 3.344 persone. La nostra crescita naturale (per mille abitanti) è stimata a -2,3 , in un anno ogni mille sardi sono nati appena 7,1 bambini. (dati Istat) A ciò si aggiunge l’ingente emigrazione dei nostri concittadini in età da lavoro che silenziosamente anno dopo anno lasciano la nostra Isola in cerca di un futuro migliore, a volte, semplicemente di un futuro possibile. Un preoccupante processo di sofferenza demografica interessa il 55% del territorio regionale. Paesi come Armungia, Sini, Bortigiadas, Ussassai, Borutta e tanti altri rischiano di scomparire, molti invece, pur salvandosi, nei prossimi anni andranno incontro ad una desertificazione demografica graduale e apparentemente inesorabile.
Metto a confronto i due fenomeni, in un triste ossimoro, coerente con la nostra epoca di disequilibrio ma incoerente con la ragione umana. E le faccio una proposta coraggiosa: accogliamoli noi, se non tutti una parte importante, proponiamogli di far vivere la nostra terra, le nostre campagne, le montagne e le più numerose colline, sino alle coste. Non avremo risorse faraoniche, ma sappiamo spezzare il nostro pane. Gli ultimi decenni ci dimostrano come la diminuzione delle persone nelle tavole non abbia portato ad un maggiore benessere. Al contrario dove mancano braccia e teste non c’è ripresa né rilancio.
Non le sto proponendo di aprire i nostri centri di accoglienza ad un numero maggiore di persone, seppur plaudo alla risposta che si sta cercando di dare in emergenza, né di capitalizzare la sofferenza dei migranti come molti hanno tristemente fatto, le sto proponendo un modello di sviluppo basato sulla dignità della vita, sull’apertura all’altro e sulla cooperazione comunitaria.
Ospitiamoli nei nostri paesi, insegniamogli i nostri mestieri e le nostre arti, rilanciamo le nostre produzioni di qualità, impariamo dalle loro storie, mettiamoci in gioco. Così faremo della Sardegna un grande laboratorio multiculturale, una terra di incontro e pace, un luogo nel quale anche i nostri tanti emigrati potranno tornare portando con sé le proprie esperienze. Del resto abbiamo fatto tanti sacrifici per salvare banche e grandi economie, questa volta facciamoli per salvare vite, le loro, e vitalità, la nostra.
Non vi è traccia di purezza razziale nel nostro popolo Presidente, le gocce di sangue nuragiche nei secoli si sono mischiate con il sangue dei conquistatori, dei mercanti, dei tanti popoli che sono approdati nella nostra isola. Siamo di fatto figli dei Fenici, dei Punici, dei Romani, dei tanti Spagnoli, dei Pisani, Piemontesi, Genovesi. È il mediterraneo che ci scorre nelle vene. Abbiamo imparato a convivere con lingue ed usi diversi dal nostro, abbiamo aperto le case anche a chi poi ha approfittato della nostra accoglienza, abbiamo spesso salutato i nostri figli in partenza, abbiamo pianto i nostri morti in mare ed in guerra, ci siamo sentiti gli ultimi. Noi possiamo capire cosa significa la loro sofferenza, abbiamo la responsabilità storica e morale di farlo.
Certamente l’Europa deva essere chiamata a fare la sua parte e la comunità internazionale, ONU in primis, non può voltare le spalle a questa emergenza umanitaria. Ma, nel frattempo, abbandoniamo il nostro solito attendismo e dipendenza per dare risposte di impegno e solidarietà a livello locale.
Dimostriamo che la nostra identità non è racchiusa solo in celebrazioni storiche, sagre e nei maialetti in viaggio per l’EXPO. Identità è differenza che arricchisce, oggi vorrei che sapessimo esprimerla con una scelta coraggiosa e umana. Oggi in questo vorrei sentirmi diverso, vorrei orgogliosamente sentirmi sardo.
Marco Meloni
“buonista”
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L’ossimoro del sardo razzista
di Nicolò Migheli
Dopo la strage in mare dei novecento migranti La Nuova Sardegna e l’Unione Sarda hanno dovuto ritirare gli articoli dalle loro edizioni on-line, perché strapieni di commenti offensivi e razzisti. I lupi da tastiera non aspettano altro. A volte si nascondono dietro eteronimi. Altri più coraggiosi, non esitano a firmare con i propri nomi. In questi ultimi anni, più volte è capitato di leggere o assistere a manifestazioni di intolleranza nei confronti di migranti o dei rom. Tutte le volte ci si è consolati con un “i sardi non sono razzisti.”
Bisogna dire, ad onor del vero, che il razzismo biologico è ormai scomparso, seppellito con la Seconda Guerra Mondiale. Solo il professore irlandese Richard Lynn e qualche gruppo minoritario di “Supremazia Bianca” insistono su dottrine finite nell’immondezzaio della storia. Oggi prevalgono le teorie sulle diversità culturali e sulla inconciliabilità delle stesse. In un mondo così globalizzato trionfa la paura dell’altro e su questo si costruiscono fortune politiche. Il razzismo e la xenofobia non sono una caratteristica occidentale; ad esempio i turchi disprezzano gli arabi e si sentono superiori, gli arabi a loro volta considerano inferiori gli africani neri.
Solo in Occidente però le teorie razziali spacciate come scientifiche, sono state fondanti di regimi, non solo quelli fascisti e nazisti, ma anche di quelli coloniali. Lo stereotipo del “ fardello dell’uomo bianco” che “civilizza” il mondo, ha nella superiorità razziale e culturale il suo fondamento. Le decine di migliaia di persone che fuggono dalle guerre dei loro paesi o dalla povertà estrema, si riversano sulle rive del Mediterraneo provocando reazioni di paura e rifiuto. Anche in questi giorni di lutto le reti sociali e il web sono pieni di falsità e di gente che specula sul dolore degli altri. Gruppi di estrema destra e leghisti che in questa disgrazia colgono segni di fortune elettorali.
Nessuna parte d’Italia è indenne. La stessa Sardegna non si differenzia. Vi sono gruppuscoli di destra che sotto il velo dell’autodeterminazione dei sardi mostrano gli stessi comportamenti xenofobi e razzisti di chi predica “prima gli italiani”. Applicano quanto Borghezio affermò in Francia, che in Italia la vera difesa delle identità era possibile solo con partiti localistici come la Lega e che questi sono il grimaldello per il diffondere politiche nazionalsocialiste. Naturalmente i sardo-leghisti e chi li segue sul web, non sanno che i sardi erano i barbari interni dell’Italia post unitaria.
“La Sardegna così presenterebbe una zona doppiamente maledetta: maledetta nella terra, […] immodificabile, maledetta negli uomini, che non hanno facoltà di adattamento alla civiltà! La conclusione sarebbe addirittura dolorosa; e meno male se non si trattasse di applicarla che alla piccola zona delinquente della Sardegna. Ma la logica è fatale e suggerisce altrimenti: la razza maledetta, che popola tutta la Sardegna, la Sicilia e il mezzogiorno d’Italia, ch’è tanto affine per la sua criminalità per le origini e pel suoi caratteri antropologici alla prima, dovrebbe essere ugualmente trattata col ferro e col fuoco,condannata alla morte come le razze inferiori dell’Africa dell’Australia ecc. che i feroci e scellerati civilizzatori dell’Europa sistematicamente distruggono per rubarne le terre.” Scrive il deputato repubblicano Napolone Colajanni in un pamphlet del 1898 confutando gli scritti di Alfredo Niceforo, definiti “romanzo antropologico” di nessuna attendibilità scientifica.
È interessante però che anche un progressista come lui non sfugga a quei cascami di positivismo considerando i non europei inferiori. Niceforo divideva l’Italia unita in due “razze” a nord gli ariani e a sud e nelle isole i mediterranei; lo faceva su basi fisiche, quali la forma del cranio, indici cefalici, circonferenza cranica, fronte, naso, faccia, zigomi, statura, perimetro toracico, peso, colorito, capelli, occhi e barba. Tratti da cui faceva discendere atteggiamenti culturali e psicologici considerati inferiori. Lino Businco, firmatario nel 1938 del Manifesto per la Razza, inserì i sardi tra gli ariani; c’era stata la Prima Guerra Mondiale e la Brigata Sassari, la razza criminale era diventata etnia combattente e il fascismo non poteva accettare di avere la Sardegna abitata da individui di razza inferiore.
Nonostante ciò nei pregiudizi e negli stigmi degli italiani del nord, in maniera inconsapevole, sono rimaste le classificazioni niceforiane. Tutta la predicazione leghista anti meridionale ha qui le sue fondamenta. Oggi il sardo razzista accetta, alla fin fine, quelle suddivisioni di fine Ottocento. Si inserisce in una gerarchia, sarà sempre dipendente di una visione in cui lui non sarà alla pari dei Salvini e compagni. Loro la razza eletta, e lui l’ascaro buono per i lavori sporchi.
Il 25 di aprile si festeggerà la Liberazione dal fascismo e dal nazionalsocialismo, ma razzismo e xenofobia sono più forti che mai. Una Italia che non si è mai defascistizzata, che negli ultimi trent’anni ha subito una esaltazione dell’odio per il diverso propagandata da Mediaset e anche dalla tv pubblica, ha fatto in modo che i fondamenti culturali del disprezzo si diffondessero fino a diventare sentire comune.
Questa è la triste verità. L’onda migratoria non aiuta e il nostro è un paese di vecchi impauriti, con politiche che mirano alla distruzione della scuola pubblica favorendo l’ignoranza. Chi non è d’accordo con questa visione del mondo ha davanti a sé anni di duro impegno. “Vaste programme“, ebbe a dire il generale De Gaulle a chi gli urlava “mort aux cons” (morte agli idioti).
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By sardegnasoprattutto / 23 aprile 2015/ Culture
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Immigrazione: guardare in faccia la realtà
di Vanni Tola
Ciascuno di noi ha una parte di responsabilità in tutto ciò che accade. E’ inutile e ipocrita chiamarsene fuori con argomentazioni pretestuose. Il colonialismo e la politica di rapina delle risorse dei paesi sottosviluppati e del continente africano, i nostri egoismi individuali e collettivi, le scelte di strategia economica dei paesi occidentali, hanno determinato e alimentano crisi, miseria, guerre. Oggi questi problemi presentano “il conto”. Viviamo e siamo partecipi di un esodo biblico di disperati che cercano condizioni di vita umane nei nostri paesi dopo che, nei loro, si è scatenato l’inferno. Un mare, il Mediterraneo, un tempo “culla di civiltà”, luogo di scambi culturali e commerciali tra culture e popoli diversi, trasformato in sterminato cimitero di esseri umani. L’occidente, i paesi che amano definirsi civili, evoluti, progrediti, devono compiere scelte adeguate alla gravità della situazione, adottare scelte politiche e strategie operative per porre fine agli squilibri che dovranno essere nuove e realmente efficaci. Occorre rimettere in discussione, con serietà e onestà, la ripartizione delle ricchezze mondiali per garantire a tutti condizioni di vita migliori pur sapendo che ciò potrebbe limitare il nostro attuale sistema di vita caratterizzato da ipersfruttamento delle risorse e da sprechi. Occorre infine togliere l’ossigeno alle guerre, a tutte le guerre, a partire degli scontri tribali per arrivare agli scontri tra gli Stati africani, ai diversi focolai di tensione del pianeta, agli scontri interreligiosi. Un passo fondamentale da compiere con la massima urgenza dovrà essere rappresentato dalla drastica limitazione della produzione e del commercio di armi e munizioni mettendo al bando i commercianti di morte e i fomentatori delle guerre. Non si può piangere i morti, applaudire gli appelli del Papa al mattino e nel pomeriggio continuare a vivere favorendo, sia pure indirettamente, la condizione di miseria e sottosviluppo di gran parte del mondo con politiche di rapina e vendita di armi. E soprattutto non si può girare il volto e la mente dall’altra parte e fare finta di non vedere o di non sapere. “Per quanto voi vi crediate assolti, siete lo stesso coinvolti” (F. De André.)
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Come evitare la prossima strage di migranti nel Mediterraneo
[Nel riquadro: Carta di Laura Canali da Chi ha paura del califfo]
Accogliere tutti è impossibile e illogico, persegui(ta)re chi fugge da paesi in guerra anche. Ma qualche soluzione c’è, per l’Europa e per l’Africa.
di Riccardo Pennisi, Limes 21/04/2015
Sulla scala delle innumerevoli crisi con cui l’Europa si trova ad avere a che fare, quella dell’immigrazione attraverso il Mediterraneo è ormai tra le più gravi per le sue proporzioni in termini di persone e di valori morali coinvolti.
Se vogliamo comprenderne le dimensioni reali, non possiamo trascurare alcuni dati. Il primo è certamente quello della consistenza inedita dei flussi migratori: tanto grandi che non solo l’Italia, ma l’intera Europa non ne ha mai visti di simili nella sua storia recente. Per quanto i singoli Stati possano credere bene di intervenire promulgando leggi aspre e repressive, o pensare di impiegare armi e soldati per blindare il confine marittimo, il numero di persone disposte a rischiare di morire per arrivare nel nostro continente non diminuirà. Lo si comprende osservando una mappa del mondo: attorno all’Europa si sono moltiplicati gli scenari di crisi, le guerre, le guerre civili, le carestie – un cambiamento spesso dovuto proprio alla goffa diplomazia o agli errori di calcolo strategico dei singoli Stati europei. Mali e Algeria, Sahel, Libia, Darfur e Corno d’Africa; Siria, Iraq e Afghanistan: lasciarsi alle spalle questi inferni vale qualsiasi pena e qualsiasi spesa.
Il crollo di molti Stati e apparati amministrativi conseguente a queste crisi agevola i trafficanti di esseri umani: il tragitto attraverso il Sahara o per le rotte del Medio Oriente e l’imbarco dalle coste mediterranee avvengono in assenza quasi totale di controlli; inoltre, i vari gruppi che si disputano la signoria sui territori di passaggio utilizzano i migranti come succosa e facile fonte di reddito.
Ad esempio, a occuparsi della sorveglianza sui 600 km di coste della Tripolitania libica – una zona caduta sotto il controllo delle forze ribelli al governo appoggiato dagli occidentali, che ha sede nell’altra parte del paese – ci sono solo due navi-vedette di stanza nel porto di Misurata, per metà devastato dalla guerra. Altre quattro navi sono in mano all’Italia che doveva riequipaggiarle, grazie a un accordo con il governo libico, ma non le ha ancora restituite perchè non c’è alcuna certezza del vero uso che ne verrà fatto.
Proprio il crollo della Libia subito dopo il rovesciamento del dittatore Mu’ammar Gheddafi fa sì che il paese sia diventato lo sbocco ideale per traffici illeciti di ogni tipo, e che i flussi migratori vi si concentrino, privilegiando la rotta su Lampedusa piuttosto che quelle dal Marocco o dall’Algeria al sud della Spagna, o dalla Turchia alle isole greche.
Il record di sbarchi registrati in Italia lo scorso anno (150 mila rifugiati e migranti tratti in salvo secondo l’Unhcr) si prepara a essere battuto nel 2015: l’Alto commissariato dell’Onu per i rifugiati certifica già più di 30 mila arrivi in Italia e Grecia a metà aprile – cifra destinata a crescere con lo stabilizzarsi delle condizioni metereologiche: fonti libiche raccolte da Le Monde parlano di 300-700 uomini in partenza quotidianamente nelle giornate di bel tempo.
Gli Stati dell’Unione Europea hanno finora affrontato la questione come un fenomeno stagionale. L’operazione Mare Nostrum costava a Roma 9 milioni al mese, e secondo Human Rights Watch ha soccorso un totale di 100 mila persone. Tuttavia, data l’indisponibilità italiana a contrastare in solitudine un fenomeno che riguarda tutto il continente e la convinzione che una missione meno “generosa” scoraggiasse i migranti, i membri dell’Ue si sono accordati su un suo surrogato.
Sotto il nome di Triton, al costo di 3-5 milioni al mese spalmati sui 28 Stati contribuenti, l’operazione europea in vigore da novembre si limita al pattugliamento, e non alla ricerca e al salvataggio come in precedenza. La sua inefficacia, riconosciuta in febbraio anche dal commissario del Consiglio d’Europa per i Diritti umani Nils Miuznieks, è tristemente provata dal numero di morti registrati negli ultimi mesi, di cui la strage di domenica è solo l’episodio più evidente.
Cosa fare dunque? Considerando che la nostra frontiera è il mare e che non possiamo costruirci sopra un muro come hanno fatto gli Stati Uniti con il loro confine messicano, il modo in cui gli europei si misurano con questo epocale fenomeno dovrebbe cambiare attraverso una nuova assunzione di responsabilità, una revisione degli strumenti di intervento e un piano strategico di medio e lungo periodo. Il regolamento europeo di Dublino, finora in vigore, obbliga a che i migranti chiedano asilo nel paese di approdo: in questo modo l’onere di provvedere alle necessità delle persone soccorse ricade sempre sugli stessi paesi rivieraschi del Mediterraneo, nella proporzione del 70% sul totale dei rifugiati dell’Ue. La destinazione dei migranti è invece nella maggior parte dei casi Germania, Gran Bretagna, Svezia o Norvegia: Stati da cui è giusto pretendere un maggiore coinvolgimento.
Inoltre, l’Ue deve rivedere il suo atteggiamento nei confronti del Nord Africa. La stabilizzazione di tutta l’area deve diventare una priorità sulla quale avere il coraggio di investire risorse, così come una cooperazione allo sviluppo politico-civile che vada oltre il mero riconoscimento delle elezioni (che di per sé non certificano l’esistenza di uno Stato democratico) allargandosi al sostegno dei soggetti che con la loro attività rendono il pluralismo e la partecipazione una prassi diffusa. Risulterebbe difficile, altrimenti, ottenere una collaborazione allo stesso tempo efficace e umanitaria da Stati come l’Egitto, attraversati da moltissimi flussi di passaggio, o la Libia, molo di partenza per eccellenza.
Una collaborazione reciproca che è necessario mettere in pratica con pragmatismo e preparazione: l’impossibilità politica dell’accoglienza in ogni caso e per tutti e l’illogicità dell’opzione repressiva di chiusura dimostrano il fallimento degli approcci ideologici o estemporanei finora adottati.
Senza la collaborazione della Libia, attualmente uno Stato-fantasma, si va poco lontani. La cooperazione con i paesi a lei vicini è necessaria per sorvegliare le rotte percorse dai migranti fino al mare e per smantellare le reti di traffico di esseri umani che le utilizzano; la distruzione dei mezzi di trasporto usati dai criminali, proprio come avviene con l’operazione antipirateria Atalanta al largo della Somalia, potrebbe essere un buon inizio.
La chiusura delle frontiere in Europa provoca un aumento della clandestinità: sarebbe dunque meglio estendere la possibilità di chiedere asilo anche nei paesi nordafricani, e direttamente dai paesi nordafricani per tutti i paesi europei – magari armonizzando le politiche attualmente sbilanciate dei singoli Stati Ue in materia di status di rifugiato e asilo politico. Il peso delle richieste di asilo su Grecia, Malta e Italia dovrebbe essere sostenuto economicamente e amministrativamente da tutte le capitali europee.
Infine, le regole di ingaggio di Triton dovrebbero almeno essere riportate a quelle di Mare Nostrum, in attesa di costruire una maggiore integrazione con le forze di salvataggio e sorveglianza nordafricane – perchè non siano semplice assistenza in mare ma permettano anche un migliore contrasto al traffico di esseri umani. A tal fine l’Europa dovrebbe dotarsi di quella politica comune sull’immigrazione che finora gli Stati, gelosi delle loro prerogative nazionali, hanno rifiutato di concedere a Bruxelles. In mancanza di questa, l’Ue potrà solo continuare a stilare liste di buoni propositi.
Sulla sponda nord del Mediterraneo l’immigrazione continua ad essere usata con successo dai partiti populisti ed eurofobici proprio come prova dell’inefficacia e dell’inutilità dell’Unione Europea. Sulla sponda sud, non solo il crimine organizzato la utilizza come fonte di profitto e serbatoio di reclutamento, ma anche il terrorismo comincia a vedere il potenziale destabilizzante del fenomeno.
Di battito. DUN, dun, dun … il governo ribusserà alle nostre porte
La notizia è che il ministro Gian Luca Galletti seguirà per il DUN (Deposito Uunico per il Nucleare) la procedura amministrativa. Certo, “terremo conto” della contrarietà della Sardegna, ma la questione rimane aperta. Criteri scientifici, non emotivi, indicheranno le scelte migliori. Se si troveranno dei volontari, bene, altrimenti una commissione interministeriale deciderà dove mandare le scorie. Tutto qui, ma è già tanto. Del resto è così anche per le servitù militari: credete che sia possibile fare la base di Teulada, “scientificamente“, altrettanto bene in Umbria? O in Piemonte? O in Puglia? E dove le trovate quelle terre libere, aggredibili dal mare, bombardabili dal cielo, occupabili da terra?
Ad ogni territorio il suo compito. L’Expo a Milano, le Olimpiadi a Roma, le immondezze in Sardegna, questa si chiama solidarietà “nazionale”. Le resistenze verranno aggirate estenuando l’attesa, illudendo i gonzi morti di fame, stancando isolando o colpendo gli irriducibili. E, fino a prova contraria, la Sardegna fa parte dell’Italia.
“Murrunzande” – mugugnando, protestando, a mala voglia, ma “sono cavoli vostri“!!! – ne riparleremo l’anno prossimo, se ancora vi resterà voglia e forza per battervi…
- SEGUE -
In giro con la lampada di aladin… Gestione fondi europei: la Sardegna non ne esce bene
Fondi europei, irregolarità e sprechi. Sardegna bocciata dalla Corte dei conti
23 marzo 2015 su SardiniaPost.
- Fondi UE: all’Italia restano da spendere 7,6 miliardi di euro. Mal comune? Ma in Puglia le cose vanno meglio. Su Regioni.it.
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Carbonia, color di trachite
Dialogo con il professor Antonello Sanna.
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Alla vigilia del Sulkimake Humanities Lab che dal 27 al 29 marzo 2015 si svolgerà a Carbonia presso la Grande Miniera di Serbariu, abbiamo intervistato il prof. Antonello Sanna, Direttore del Dipartimento di Architettura presso la Facoltà di Ingegneria dell’Università degli Studi di Cagliari. Durante gli anni duemila, infatti, il prof. Sanna è stato tra i protagonisti del recupero della Grande Miniera di Serbariu e degli spazi pubblici della città di fondazione. Tuttavia, nonostante l’importante riconoscimento ricevuto nel 2011 con il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa, il valore di questa esperienza culturale, sociale e urbanistica è forse ancora misconosciuto.
di Fabrizio Palazzari
Quando è stata la prima volta che si è interessato di Carbonia e perchè?
Come mestiere mi occupo di recupero del patrimonio edilizio storico. Ho cominciato dai centri storici e poi, negli anni Novanta, mi è sembrato interessante occuparmi di prodotti più recenti, ma di qualità, che erano un po’ più misconosciuti. Mentre quasi tutti sanno che Firenze ha un grande centro storico, e forse anche Cagliari o Iglesias, era invece più difficile trovare qualcuno che riconoscesse a entità fatte per esempio a partire dal 1937, come Carbonia, questo valore aggiunto dell’essere anche patrimonio, oltre che un semplice insieme di volumi costruiti. Carbonia evocava altre cose: evocava la fatica della miniera ed evocava, se vogliamo, anche la fuliggine del carbone. Ma non evocava valori e fu per questo che cominciammo a studiarla.
All’inizio degli anni duemila l’amministrazione comunale decide di partire dal recupero urbanistico e architettonico della città, per avviare un’importante forma di recupero identitario della stessa. Ci potrebbe raccontare come si articolò il progetto?
Prima che arrivassimo noi (Dipartimento di Architettura, ndr) l’amministrazione puntava sulla miniera soltanto, poi ci convincemmo insieme che, in realtà, città e miniera erano l’una funzionale all’altra. La città era proprio lì, a soli ottocento metri dalla miniera, era una vera e propria “company town” e, in un certo senso, era la città della miniera. Entrambe rappresentavano un grande progetto e un’utopia, sia pure autoritaria, che aveva degli aspetti molto avanzati. Perchè Carbonia è una città giardino, inserita nel paesaggio, nel verde, interamente progettata, sino all’ultimo dettaglio, da grandi architetti.
Ci convincemmo ben presto che se la miniera fosse riuscita a restituire alla città ciò che le aveva tolto, sarebbe stata l’occasione del suo riscatto. Ma questo sarebbe potuto accadere soltanto se anche la città avesse finalmente accettato se stessa. Questo processo sarebbe stato tanto più forte quanto più ampio fosse stato il suo perimetro di azione, che non doveva pertanto essere limitato ai ruderi della miniera, ma avrebbe dovuto includere anche valore umano, piazze, edifici, monumenti.
Da dove iniziò il recupero e che ricordi ha di quella stagione?
Cominciammo dalla piazza Roma, una piazza interamente d’autore. Dal Teatro Centrale al Dopolavoro, passando per la Torre Littoria, la Chiesa di San Ponziano e il Municipio: sono tutti prodotti o della mano dello studio di Gustavo Pulitzer, grande progettista triestino, o dello studio Valle-Guidi, i due grandi architetti romani che poi abbandoneranno Carbonia per andare a fare il piano di Addis Abeba. Lasciandola comunque al grande e brillante Eugenio Montuori e alla sua continua ricerca di un razionalismo mediterraneo.
Nel 2004 ci fu l’inaugurazione della piazza e fu una delle grandi emozioni della mia vita. Quando uscimmo dal Teatro Centrale trovammo nella piazza migliaia e migliaia di persone, un numero stragrande di abitanti di Carbonia, che invasero quello spazio. Fu in quel momento che compresi come, effettivamente, quell’operazione avesse avuto da un lato un significato culturale e, dall’altro, un significato sociale.
La fondazione di Carbonia ridefinisce il rapporto tra cittadino e abitare e anticipa le trasformazioni che a partire dal secondo dopoguerra, con il programma di edilizia popolare INA Casa, interesseranno Cagliari e i principali centri urbani dell’isola. Come viene ridefinito questo rapporto?
In una Sardegna caratterizzata dalla totale prevalenza dell’autocostruzione Carbonia rappresentò, effettivamente, un caso unico. Mentre nel resto dell’isola prevaleva questo rapporto di tipo familiare con la casa, in cui ciascuno è padrone a casa sua, a Carbonia avviene invece il contrario. La gente, infatti, non è padrona neppure del suolo e del sottosuolo. Perchè nel sottosuolo c’è il carbone, e quindi è della miniera, mentre il suolo e le stesse residenze sono pubblici.
Da un punto di vista sociologico tutto questo ha sicuramente determinato, soprattutto all’inizio, questo senso di estraneità, tra la città e la sua architettura. I carboniesi hanno avuto bisogno di riappropriarsi degli spazi, a volte con superfetazioni delle stesse case. Tuttavia, seppure di dimensioni modeste, erano comunque, in quel momento, case di eccellenza. In una Sardegna in cui nessuna casa, se non quelle di lusso, aveva il bagno in casa, a Carbonia ogni casa ne possedeva uno. In questo senso fu, senza dubbio, anche un modello sociale.
Da un punto di vista sociologico e della modernità, questo rapporto di estraneità tra cittadini di Carbonia e abitazioni è anche il rapporto tra la Sardegna e la città stessa, mirabilmente descritto nel 1954 da Salvatore Cambosu in “Carbonia, odore di zolfo”, una delle pagine più poetiche ed evocative di Miele amaro. Quanto la Sardegna di oggi è consapevole di quel che Carbonia ha rappresentato per la Sardegna stessa?
Diciamo che ho avuto l’impressione, anzi ho la certezza, che quando Carbonia, durante gli anni duemila, sviluppò quel programma di riappropriazione di se stessa, si sia imposta all’attenzione dell’intera Sardegna. La percezione che ci fossero una strategia, un obiettivo di alto profilo e che tutto venisse fatto in funzione di quell’obiettivo si è avuta. Poi, ad un certo punto, proprio quando nel 2011 vincemmo il Premio del Paesaggio del Consiglio d’Europa (Carbonia Landscape Machine, ndr), è anche vero che forse quella notizia non è andata molto in giro. E’ passata un po’ sotto silenzio. So che però, alla fine, la consapevolezza c’è.
Il carbone ha dato origine alla città, ma è stato anche la causa della sua crisi e, come ha avuto modo di evidenziare, era giusto che la miniera restituisse quanto sottratto. Tuttavia esiste un altro materiale “locale” che può rappresentare un’importante risorsa identitaria per il presente. Che ruolo ha, a questo proposito, la “trachite rossa” nel caratterizzare l’intero patrimonio residenziale della città?
Ci siamo soffermati spesso sul suo ruolo. Carbonia è, paradossalmente, da un lato un luogo di alta tecnologia, con i suoi macchinari e certi elementi costruttivi come le capriate in cemento armato a sezione sottile. Dall’altro, un po’ per ideologia e un po’ per necessità è un luogo dove si utilizza però anche il materiale naturale, che è quello che si cava in loco. E questo dà carattere a Carbonia. Le sue case, infatti, certamente non sono “identitarie”, ma di intelligente hanno questo uso di un materiale povero, come la pietra locale, ma straordinario. Perchè tutto lo zoccolo, tutti i basamenti di Carbonia sono fatti di trachite. E’ proprio questo il vero elemento unificante.
Molte delle sfide della città del XXI secolo passano da una riduzione delle emissioni di Co2 e l’architettura giocherà un ruolo fondamentale, a partire dal recupero degli immobili esistenti. Anche per Carbonia si apre una nuova stagione che, dopo il recupero della miniera e degli spazi pubblici, potrebbe adesso interessare l’edilizia privata. Come vede l’applicazione di elementi di domotica all’architettura per trasformare la ristrutturazione edilizia in rigenerazione urbana?
Penso che, in generale, non ci sia altra via. Se alla qualità pubblica non corrisponde anche la qualità privata una città non si salva. Possiamo fare tutte le piazze che vogliamo ma se dopo i cittadini, i tecnici, non percepiscono che anche le case devono stare dentro un certo ordine di logica, il tutto non funziona. Sono inoltre convinto che oggi l’innovazione si deve giocare esattamente, in senso generale, sulla sostenibilità. Pertanto abbiamo bisogno di città non più energivore, come abbiamo fatto, ma energicamente efficienti. Possono diventarlo in vario modo, da un lato con le energie rinnovabili e la riqualificazione delle case in senso energetico; dall’altro, con le città smart e quindi attraverso l’applicazione delle tecnologie immateriali.
Per concludere, nel libro Carbonia. Città del Novecento, gli autori Giorgio Peghin e Antonella Sanna parlano di Carbonia come di una “colonia autoctona”, quasi sospesa tra due paesaggi: un paesaggio millenario che è quello del Sulcis-Iglesiente e un paesaggio costruito e ricostruito, perchè comunque Carbonia cerca di integrarsi nel territorio. Che cosa ci può insegnare questa epopea urbanistica, mineraria e anche sociale?
Ci può insegnare che quando c’è un’impostazione qualitativamente valida – e Carbonia lo fu perchè fu fatta con un pensiero urbanistico con dietro anche un’utopia sociale, per quanto autoritaria, e un pensiero urbanistico importante e al passo con le esperienze europee più avanzate – possiamo dire che le realizzazioni costruite in questo clima di qualità poi durano nel tempo. Nel grande disegno paesaggistico di Carbonia – dentro una conca, affacciata su un terrazzo che guarda verso il mare, con questo sistema di spazi pubblici, di verde, che doveva un po’ risarcire la durezza della vita in miniera – è sempre possibile trovare ancora oggi queste qualità. E tutto questo, rispetto invece alla dimensione informe, priva di progetto di certe periferie contemporane, incluse quelle di una parte dell’hinterland di Cagliari, ci può insegnare che non è necessario creare, come direbbe Italo Calvino, delle “zuppe di città” per fare la nuova architettura.
Come il libro di Peghin e di Antonella Sanna dimostra, la vera lezione di Carbonia è che la nuova architettura può essere di livello e di grande qualità. Può interpretare un territorio, anzichè banalmente sovrapporsi ad esso come spesso, invece, dopo abbiamo fatto.
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- L’articolo di Fabrizio Palazzari viene pubblicato anche sui siti di FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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Sharing community tour
Venerdì 13 Marzo, dalle 11 alle 13, nell’aula magna del corpo aggiunto della Facoltà di Studi Umanistici, il corso di laurea in scienze della comunicazione ospita la seconda tappa dell’iniziativa “Sharing community tour”. Dopo il grande successo all’università di Bari, arriva anche a Cagliari il talk show itinerante promosso da myG21 per avvicinare i giovani al mondo e alle opportunità della sharing economy. Sono 6 in tutto le università interessate dal tour ().
L’incontro di Cagliari prevede la partecipazione di opinionisti di rilievo del mondo dell’innovazione, come Michelangelo Tagliaferri, Fondatore di Accademia di Comunicazione, il General Manager e Vicepresidente di myG21 Salvatore Loffredo, il produttore Francesco Facchinetti e Marta Mainieri, blogger e autrice di “Collaboriamo” che ci guiderà a conoscere i casi di successo italiani.
A moderare il talk, il giornalista Piero Muscari, fondatore di Eccellenzeitaliane.tv. – La pagina fb dell’evento – segue –
Jobs act e ordinaria manipolazione
«Il governo valuta che le riforme del lavoro contenute nel jobs act produrranno un effetto positivo sul Pil dello 0,9% nel 2020 mentre, nel lungo termine, l’impatto sul Pil sarà dell’1,6%. È quanto si legge in uno dei documenti inviati alla Ue in vista della valutazione definitiva della Legge di Stabilità 2015, attesa nelle prossime settimane. Il governo italiano stima che le riforme avviate potranno produrre un impatto complessivo sulla crescita del 3,6% nel 2020». Così l’ANSA, il 21 febbraio 2015; così (rilanciando quasi con le stesse parole) La Stampa, il Corriere della sera, La Repubblica e altri giornali cartacei e/o online; così anche i notiziari delle radio e TV pubbliche e private. Nessuna domanda e nessun commento. Che agli esaminatori della Ue non arrivi neppure l’eco di qualsivoglia riserva!. Tutti speranzosi e ottimisti dietro l’energico pifferaio Matteo Renzi.
Ma i documenti inviati alla Ue dal Ministero dell’economia e delle finanze [2014: A turning point for Italy, e in particolare la parte riguardante “The impact of structural reforms in Italy”] sono la riproposizione della quotidiana e cinguettante propaganda renziana alla quale viene giustapposta la pretesa di darle un fondamento “scientifico” utilizzando modelli matematici, predittivi delle conseguenze delle decisioni politiche. Il fatto è che raramente questo tipo di previsioni si avverano con approssimazione accettabile. Sia il Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) e altri centri di studio in Italia sia il Fondo monetario internazionale (FMI), l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) e altri centri di studio nel mondo sbagliano quasi sempre o molto spesso nelle loro previsioni, persino quando riguardano l’arco temporale di un anno. Come mai si continua a far ricorso a previsioni che sono inefficaci (non si avverano) e inefficienti (spreco di risorse per la loro messa a punto)? Il fatto è che sono molto utili come strumento (misterioso, accessibile a pochi nella sue procedure di messa a punto, intimidatorio) per orientare la politica, per alimentare la propaganda ideologica in chiave egemonica, per far crescere la fiducia attorno a un determinato governo o al contrario per creare un clima generale di insicurezza e di terrore: con le buone o con le cattive maniere occorre obbedire a chi comanda.
Torniamo ai dati. L’estrazione che ne ha fatto l’ANSA è discutibile. Infatti il documento del Mef fa riferimento a due scenari che danno risultati diversi: uno scenario che considera i provvedimenti che sono diventati legge e vengono pienamente applicati (Trend scenario) e uno scenario che considera, in aggiunta a tutti i provvedimenti diventati legge e applicati, anche i provvedimenti che non sono ancora diventati legge, ma che il governo ha in programma di far approvare dal Parlamento in un futuro vicino (Policy o Planned scenario). I numeri del secondo scenario (Planned scenario) sono più grandi di quelli del primo (Trend scenario).
Prima dell’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, l’effetto positivo sul Pil della riforma del mercato del lavoro previsto per il 2020 era dello 0,4% e nel lungo periodo dell’1,4%.
Dopo l’approvazione dei decreti attuativi del Jobs Act, l’effetto positivo sul Pil della riforma del mercato del lavoro previsto per il 2020 dovrebbe essere (Planned scenario) dello 0,9% e nel lungo periodo dell’1,6%.
Dunque l’effetto positivo del solo Jobs Act è dato dalla differenza tra il secondo scenario e il primo, cioè 0,5% per il 2020 e 0,2% nel lungo periodo.
I valori degli scenari si riferiscono all’effetto dell’intera riforma del mercato del lavoro (Labour market): nel primo scenario l’effetto del Jobs Act non c’è perché i decreti attuativi non erano stati approvati al momento dell’elaborazione, ma c’è l’effetto di altri provvedimenti diventati legge (infatti il valore è 0,4 e non zero); nel secondo scenario l’effetto del Jobs Act c’è perché l’approvazione dei decreti attuativi era già stata programmata e si aggiunge all’effetto dei provvedimenti già diventati legge.
Ma perché per l’effetto dell’intera riforma del mercato del lavoro i riferimenti nel tempo sono il 2020 e il lungo periodo? Mancano forse altri dati? No, i dati ci sono. Solo che quelli del 2020 e del lungo periodo fanno una qualche impressione e dunque fanno più propaganda, gli altri invece meno.
PRIMO SCENARIO: 0,1% nel 2015; 0,2% nel 2016; 0,3% nel 2017; 0,3% nel 2018; 0,4% nel 2019.
SECONDO SCENARIO: 0,1% nel 2015; 0,3% nel 2016; 0,5% nel 2017; 0,6% nel 2018; 0,8% nel 2019.
Per differenza l’effetto previsto del Jobs Act sul Pil risulta: 0,0% nel 2015; 0,1% nel 2016; 0,2% nel 2017; 0,3% nel 2018; 0,4% nel 2019. Sarebbero queste le previsioni così esaltanti da spingere M. Renzi a vantarsi con spavalda sfacciataggine di aver rottamato l’art. 18 e manomesso lo Statuto dei lavoratori?
Infine, che affidabilità può avere una previsione sul lungo periodo con un solo dato … senza data?! È una previsione fino al 2030 o fino al 2040 o oltre? E dove sarà finito il pifferaio M. Renzi nel 2030 o nel 2040 o oltre? Il fatto è che anche un “indeterminato” lungo periodo con un effetto del 1,6% di crescita del Pil dovuto a “tutti” i provvedimenti di riforma del mercato del lavoro (Planned scenario) serve a far colpo e propaganda “nel breve periodo”: in vista di probabili elezioni nella primavera del 2016 o della normale scadenza elettorale del 2018. Nascondendo che il contributo del Jobs Act rispetto agli altri provvedimenti di riforma del mercato del lavoro è solo di 0,2% nel lungo periodo, appunto la differenza tra il valore del secondo scenario (1,6%, Planned scenario) e il primo scenario (1,4%, Trend scenario). E così M. Renzi, il molesto e cinguettante dispensatore di fiducia, può continuare a imperversare.
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*anche su Democraziaoggi
- Nell’illustrazione Poster spettacolo di Harry Houdini, illusionista
- Renzi Houdini.
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AGENZIA SARDA delle ENTRATE
di Piero Marcialis
Il primo segnale della volontà di indipendenza di un popolo viene dato storicamente dal rifiuto di pagare le imposte a uno Stato oppressore.
E’ ridicolo versare soldi a uno Stato come l’Italia che deve ai sardi miliardi di euro.
Il primo segnale della volontà di indipendenza delle colonie americane dall’Inghilterra fu il rifiuto di pagare le imposte.
Il primo segnale della volontà di indipendenza del popolo irlandese fu il rifiuto di pagare tributi all’Inghilterra e di costituire una cassa irlandese dove versare le imposte.
Il primo segnale della volontà di indipendenza dell’India fu il rifiuto di pagare tributi all’Inghilterra.
I sardi sopportano uno Stato debitore che occupa e inquina il loro territorio senza alcuna contropartita, ma hanno un governo regionale che si contenta della restituzione di briciole ed è fedele al PD del signor Renzi, che ha rifiutato qualsiasi aiuto ai disastrati di Olbia e altri paesi e che sta per eliminare persino la possibilità statutaria di una agenzia delle entrate sarda. Coraggiosamente i valorosi governanti sardi hanno anticipato la mossa e si sono essi stessi rifiutati di avere una propria agenzia. Di questo governo regionale fanno parte forze che si richiamano al sardismo, al sovranismo e all’indipendentismo. Complimenti.
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- La fotocomposizione è tratta da un articolo sull’Agenzia Sarda Entrate pubblicato sul blog di Vito Biolchini.
Domani
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Informazione e Terzo settore
Conoscersi per aumentare gli spazi della partecipazione
Venerdì 27 febbraio 2015, ore 17,30.
“Aula Magna” Pontificia Facoltà Teologica – Via Sanjust – Cagliari
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” Informazione e terzo settore” è il tema del convegno organizzato dall’UCSI Sardegna in programma venerdì 27 febbraio, ore 17,30, nell’aula magna della Pontificia Facoltà teologica della Sardegna. Relatore Edoardo Patriarca, uno dei massimi esperti italiani del settore.
Il non profit conta sul contributo lavorativo di 4,7 milioni di volontari, 681 mila dipendenti, 270 mila lavoratori esterni e 5 mila lavoratori temporanei. Sono inoltre presenti altre tipologie di risorse umane che prestano a vario titolo la loro attività nelle istituzioni rilevate: 19 mila lavoratori comandati/distaccati; 40 mila religiosi e 18 mila giovani del servizio civile. - segue -
Università della Sardegna. Il dibattito è aperto. I pro e i contro. Le decisioni urgono
Il confronto
Una eventuale fusione degli atenei di Sassari e Cagliari andrebbe evidentemente a tutto svantaggio di quello turritano Se ne occupi la politica
di Antonietta Mazzette
Da alcune settimane si è ricominciato a dibattere sulla cosiddetta Università della Sardegna, discettando su dove collocare il Consiglio di amministrazione: Oristano, Nuoro, chissà! Non è ben chiaro se il cuore della proposta sia quello di una fusione dei due atenei sardi o se, più limitatamente, sia quello di una federazione governata da un unico organo collegiale. Comunque, un unico consiglio di amministrazione significa che, giacché l’università di Sassari è più piccola di quella di Cagliari, si ritroverebbe ad essere, per così dire, “un azionista di minoranza”, con meno peso economico e meno rappresentanza politico-culturale. Considerato che le previsioni sul futuro delle università non inducono ad essere ottimisti, scarsi finanziamenti e costante riduzione dei docenti si potrebbero tradurre in scelte quali, ad esempio, accorpamento dei corsi nel caso in cui ci siano duplicati. Ossia quasi tutti, esclusi quelli di Agraria e Veterinaria e forse Medicina. Le raccomandazioni di andare verso federazioni o fusioni erano contenute nella Legge Gelmini, ma non è un caso che il sistema universitario italiano le abbia largamente ignorate. Non mi risulta che in Lombardia, Toscana, Emilia Romagna etc. qualcuno si sia appassionato a questo tema, per cui il nostro è un dibattito tutto locale. Ma non sottovaluto le argomentazioni che stanno alla base degli interventi di alcuni studiosi cagliaritani ed entro nel merito. I due atenei sardi si collocano stabilmente nelle graduatorie in una condizione mediana; quello di Sassari si ritrova spesso ai vertici delle graduatorie delle università medie. Con tutta la diffidenza che si deve avere verso dette graduatorie, ciò dimostra che il sistema universitario sardo è sano e forma laureati di media e buona qualità, con alcune eccellenze. Si pensi ai diversi casi di successo di cui scrive Giacomo Mameli. Naturalmente, i problemi delle due università sono destinati a crescere, tanto per il costante assottigliamento dei fondi e l’assenza di turn over, quanto per la debolezza strutturale del sistema economico sardo. Debolezza che incide negativamente su alcuni indicatori e dunque sulla dotazione dei finanziamenti ministeriali, quali tasse non elevate, scarsa occupazione dei laureati, poca attrattività di studenti provenienti dal di là del mare. Se questa sommaria descrizione dello stato delle cose ha un fondamento, la proposta di Università della Sardegna esige almeno due domande: quali vantaggi e quali costi comporta? Tra i primi certamente vanno asseverati risparmio (compreso quello riguardante il capitale umano), efficienza e maggiore razionalizzazione dell’offerta formativa. Per ciò che riguarda i costi, invece, è necessario chiedersi se questa “nuova” università avrà o no un incremento di iscritti, se potrà essere di maggiore qualità, di quale natura saranno gli effetti sul territorio, a partire da Sassari, giacché, probabilmente l’ateneo di Sassari subirebbe i maggiori sacrifici. Ho molti dubbi che ci sarebbero incrementi di iscritti. Com’è noto, i giovani del Nord Sardegna se scelgono di non studiare a Sassari non vanno a Cagliari, bensì fuori dall’Isola (Pisa, Perugia, Pavia, Torino). Mentre i giovani che rischiano di non poter studiare a Sassari andrebbero a infoltire le fila di coloro che non studiano e non lavorano. Sulla qualità non saprei se un’unica struttura universitaria possa essere un migliore laboratorio di idee oppure no. Mentre gli effetti sulla città di Sassari sarebbero devastanti. La sua storica università, dopo l’Azienda sanitaria, è la più grande azienda del Nord Sardegna e una sua riduzione costituirebbe un evidente danno economico per il territorio. A tutto ciò aggiungo che la proposta di Università della Sardegna è un elemento di un puzzle più grande che va in una sola direzione: concentrare peso politico, risorse materiali e culturali verso l’area metropolitana di Cagliari. Si pensi alle politiche più recenti riguardanti gli assetti istituzionali, la mobilità, i porti. Ciò che però stupisce è il fatto che le classi dirigenti della vasta area territoriale del Nord-Sardegna sia silente, come se ciò di cui si sta discutendo fuori dai loro confini siano di scarso interesse.
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Universidade de Sardigna Università della Sardegna University of Sardinia
di Franco Meloni
Il treno veloce Cagliari-Sassari e viceversa (auspicabilmente esteso ad altre tratte, Olbia in primis) trainerà anche la realizzazione dell’Università della Sardegna. Unica Università o federazione tra i due Atenei storici? Questo è da decidere. Allo stato risulta si propenda per la loro federazione, “al fine di salvaguardarne maggiormente la storia e la tradizione”, ma pur sempre sotto l’egida comune di Università della Sardegna. Però la federazione deve essere vera, come avverte il competente Ministero, che nel documento di programmazione 2013-2015 del sistema universitario italiano delinea le caratteristiche dei “modelli federativi di università su base regionale o macroregionale… ferme restando l’autonomia scientifica e gestionale dei federati nel quadro delle risorse attribuite”. Precisamente devono prevedersi: “a) unico Consiglio di amministrazione con unico Presidente; b) unificazione e condivisione di servizi amministrativi, informatici, bibliotecari e tecnici di supporto alla didattica e alla ricerca”. Siamo allora ben lontani dal debole patto federativo firmato dai due Atenei alcuni anni fa. Nella pratica non si va ancora in tale direzione; assistiamo invece a un atteggiamento prudente e defatigatorio. E non ne sono prove contrarie l’intensificarsi tra gli Atenei degli accordi di programmazione formativa e di collaborazione per la ricerca scientifica (peraltro sempre esistiti). Tutte cose positive, ma, al contrario, perdura l’incapacità di gestione unitaria di importanti attività, come, ad esempio, i progetti di formazione professionale di grandi dimensioni (lo fu Itaca per il paesaggio), o il consorzio per l’Università telematica della Sardegna o i Centri di competenza tecnologica: iniziative fortemente incentivate dall’Unione Europea, dallo Stato e dalla Regione, sempre più ridotte a operazioni di piccolo cabotaggio. Così non si potrà continuare perché l’unificazione (o la vera federazione) è ormai un fatto ineludibile, che la spending review governativa impone, anche attraverso progressive penalizzazioni nel trasferimento di risorse statali se non si procederà nella direzione indicata, ma come peraltro imporrebbero criteri di razionalità nella gestione complessiva delle risorse – e non solo – nell’interesse della Sardegna. Almeno così pensiamo in molti, in prevalenza fuori dall’accademia, nella quale invece prevalgono la conservazione di antichi privilegi e posizioni di potere, quando anche giustificati da nobili motivazioni. Lo riconosciamo: il discorso è complesso e il percorso per arrivare all’obbiettivo dell’unica Università della Sardegna, in una delle possibili forme, non è facile, ma, appunto per questo, occorre agire da subito vincendo la paralizzante prudenza. Qualche segnale della volontà in tal senso arriva dall’esordiente Rettore dell’Università di Sassari, Massimo Carpinelli, che in occasione dell’inaugurazione dell’anno accademico ha parlato di “un progetto capace di promuovere l’Università della Sardegna, che preservi le specificità dei due Atenei, la loro storia e la loro tradizione”, per questo appellandosi particolarmente alla Regione Sardegna “che deve dialogare con gli Atenei e i centri di ricerca [per] costruire un’unica struttura che possa far crescere la formazione, la scienza e la cultura nella nostra Regione”. E’ già qualcosa, ma occorre andare rapidamente oltre le parole e passare ai fatti, prima che qualcun altro, anche in questa circostanza, decida per la Sardegna. La Regione, chiamata giustamente in causa, deve intervenire per favorire questo processo di unificazione/federazione, smettendo di fare solo la parte di bancomat che trasferisce risorse alle Università sarde. E poi, occorre che il dibattito si allarghi, cogliendo anche l’occasione dell’ormai imminente elezione del Rettore dell’Università di Cagliari, perché, come ripetiamo spesso: l’Università è troppo importante per essere lasciata nelle mani dei soli professori, come la guerra in quelle dei generali.
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Un futuro possibile per la città di Nuoro è diventare la sede dell’Università della Sardegna
di Salvatore Cubeddu
Un giorno dopo l’altro, le notizie si sovrappongono, una più allarmata dell’altra. 4 febbraio: Antonietta Mazzette, sociologa, da Sassari giustamente si preoccupa che … “l’Ateneo di Sassari si sta avvicinando pericolosamente alla soglia dei 10mila iscritti, soglia che comporterebbe il passaggio da media a piccola università. Questo significherebbe automaticamente contrazione dei finanziamenti, dei corsi di laurea e dell’alta formazione”. Noi sappiamo dall’articolo di Franco Meloni di qualche giorno fa che l’ateneo di Sassari è obbligato da disposizioni governative a federarsi/fondersi con l’università di Cagliari.
Due giorni dopo: il 6 febbraio. Sul futuro della zona industriale e della città di Nuoro si autoconvocano i 7 consiglieri regionali della provincia e insistono con l’assessore all’industria Piras che … “Il Nuorese, come il Sulcis, deve essere inserito nel programma nazionale di rilancio delle aree di crisi». Commento del giornalista (La Nuova Sardegna): “È questa la formula magica che, secondo i sette consiglieri regionali del Nuorese, darebbe una nuova opportunità di riscatto alla Sardegna centrale, in ginocchio dopo la fine del sogno industriale)”. Stesso giorno, diverso il giornale (L’Unione Sarda), riporta che “il Sulcis è tra le province sarde quella che ha speso meno risorse dai fondi Por Fesr (cofinanziamento regionale e comunitario) e dal Piano di azione e coesione. Una torta che vale 93 milioni di euro, per 152 progetti presentati da enti locali, istituti scolastici, Regione, imprese. Nella provincia più povera d’Italia però il 63 per cento dei fondi assegnati non è stato ancora speso, il dato peggiore tra le diverse aree della Sardegna. Quasi 35 milioni sono stati già utilizzati, ma ben 58 milioni devono ancora essere spesi …”.
In questo stato di cose resta da dire che le dirigenze delle due università sarde – oltre ad aver traslocato parte dei loro massimi esponenti a governare la Regione sarda – trascurano i dettati della legge di risparmio per le università italiane e vorrebbero dalle casse della Regione (o, tramite essa, dall’UE, che se ne è lamentata) quello che invece devono avere dallo Stato. Intanto fanno finta di non sapere che avrebbero già dovuto fondersi tra loro, Sassari e Cagliari.
Le tre informazioni possono, allora, meglio sintetizzarsi nei termini seguenti: anche le università sarde, come i comuni e le province, vivono una stagione di riforma istituzionale; nel piatto della crisi istituzionale, quindi, insieme ai paesi e ai capoluoghi di provincia, bisogna inserire anche le università delle quattro sedi (Cagliari e Sassari sono decentrate anche ad Oristano e Nuoro); tutte queste istituzioni bussano per i soldi alla Regione, prescindendo (nel caso dell’università) dalle sue competenze. Ma non sempre i soldi sono la soluzione, come nella ex-provincia più povera d’Italia (Sulcis) e, presumibilmente, in quella che viene subito dopo (Nuoro).
Dunque, nel mazzo delle riforme istituzionali bisogna mettere: i comuni, le province e le università. Nel complesso delle loro dimensioni: servizi ai cittadini, occupazione, disponibilità finanziaria. Mancherebbe la Regione, il cui Consiglio è chiamato a decidere. Come? La logica della cieca subordinazione alle indicazioni romane e l’unicità del parametro economico stanno portando inesorabilmente le istituzioni della Sardegna verso un loro generale declassamento. A vantaggio di chi? Neanche dei cagliaritani, nonostante le apparenze, in quanto che, nella loro generalità, questi cittadini non sono consapevoli di quel che sta succedendo; e poi: non saprebbero né potrebbero reggere le proteste e l’aggressività di una Sardegna umiliata da decisioni distruttive degli storici ruoli e compiti degli altri comuni e città.
Prendiamo ora il caso di Nuoro. Sta per perdere la provincia, la camera di commercio ed altri uffici ad essi connessi. Il sogno dell’industria non potrà mai realizzarsi se non tramite imprenditori locali, ma non se ne vedono tanti all’orizzonte. Il suo futuro sembra segnato da quanto già vivono Iglesias e Ozieri, con l’ospedale e il vescovo (fino a quando, in quelle due cittadine?) quali uniche istituzioni di rilievo territoriale.
Nuoro deve il suo ruolo di città al fatto di essere capoluogo di provincia. La provincia di Nuoro fu preferita alla più legittimata, storicamente ed economicamente, sede di Oristano, per permettere al Governo il controllo dell’ordine pubblico in Barbagia. Una preoccupazione che, evidentemente, è venuta meno.
Ma con essa il destino della città è sospesa nel limbo della disponibilità altrui. Difatti, nessuno ne risolverà i problemi se la sua dirigenza non individuerà le soluzioni e si batterà per costruirle.
I Nuoresi si lamentano, si vittimizzano, invocano presso di sé la presenza della Giunta regionale. Fanno in piccolo, verso Cagliari, quello che tutti i sardi spesso fanno nei confronti di Roma. Ma non propongono una vera e convincente idea sul futuro della propria città. Magari un futuro da costruire nei decenni, da confrontare con le altre città della Sardegna che, anch’esse, si domandano cosa sarà di loro dopo la chiusura della provincia. Nuoro, come Sassari, come Oristano o Olbia, non hanno niente da pietire alla Regione. Sono esse stesse componenti chiamate a decidere il futuro delle istituzioni della Sardegna. Ogni comune, iniziando dal più piccolo, non deve sentirsi portato a elemosinare la propria esistenza sulla base dei semplici rapporti di forza. Tutte attendono scelte di cambiamento, persino dolorose, ma che almeno abbiano un senso, siano equamente con – divise, vengano inserite in un’idea generale della Sardegna dei prossimi decenni.
Nuoro dovrebbe organizzarsi per divenire da subito (nella decisione) la sede della Università della Sardegna, chiedendo per sé la costruzione delle nuove case dello studente in progetto a Sassari e Cagliari, iniziando con il potenziamento delle facoltà esistenti e con lo spostamento di nuove facilmente trasferibili. Tutta la nuova urbanistica cittadina dovrebbe relazionarsi alla prevedibile e futura presenza di 20/30 mila studenti universitari (con il corpo docente ed i relativi servizi) distribuiti nei campus che dalla città si distenderanno nel verde dei boschi. Più agili e veloci collegamenti sarebbero inevitabilmente indispensabili con gli aeroporti di Olbia ed Oristano. Evidentemente l’autorità cittadina accompagnerebbe la dirigenza accademica nelle scelte connesse al nuovo ruolo che la Sardegna assegna alla sua città più interna. Nel mondo è continua, e da secoli, sia l’individuazione che la costruzione di campus e di città universitarie. Le positive ricadute culturali ed economiche sono facilmente individuabili. Insieme alla permanenza della grande provincia del Nord–Sardegna, e alla ri-costruzione di Olbia, l’operazione rappresenterebbe per decenni un volano di investimenti pubblici di qualità. Parte di quel new deal attraverso il quale lanciare nel futuro la Sardegna che vogliamo e che suppone una nuova attribuzione di funzioni ai nostri paesi e alle nostre città.
Altrimenti: che cosa vuole essere, Nuoro? E, se non ora, quando?
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Salvatore Cubeddu. Cagliari, 15 febbraio 2015 (2. continua: il primo articolo è uscito il 18 gennaio).
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* Il dibattito su L’Università della Sardegna è ripreso anche da altri siti: FondazioneSardinia, Vitobiolchini, Tramasdeamistade, Madrigopolis, Sportello Formaparis, Tottusinpari e sui blog EnricoLobina e RobertoSerra, SardegnaSoprattutto.
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- Università della California
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- Nell’illustrazione: particolare del dipinto di Filippo Figari “Sardegna universitaria”, aula magna Rettorato Università di Cagliari.
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Logo del Progetto formativo Itaca, ideato e gestito dalle due Università riunite in ATS (Associazione di Scopo), anni 2005-2008
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- INFORMAZIONI sul Progetto Itaca nella fase di attuazione (a cura di Uniss)
in giro con la lampada di aladin sul gasdotto…
Toh, chi si rivede! Il Galsi. Raffaele Deidda su SardegnaSoprattutto.
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- Il Galsi su Aladinews
Così Incolti e così Infelici
Vi era un tempo in cui l’operaio e il pastore si sacrificavano per avere un figlio dottore. Era un investimento per il futuro. Un’epoca dove le istituzioni pubbliche investivano in istruzione e cultura. Si era consci che per la crescita sociale ed economica di una comunità istruzione e cultura erano strategici. In Sardegna avvenne nel dopoguerra, vincere l’analfabetismo di massa era uno degli obiettivi principali. Non a caso ricordiamo quel periodo come uno dei più dinamici, pieno di tensioni democratiche e civili.
Un’isola che abbandonava i posti di bassa classifica dell’istruzione per diventare un luogo che cercava il proprio riscatto. Quell’abbozzo di società industriale era caratterizzato dalla presenza delle agenzie di senso. Partiti, sindacati, Chiesa, famiglia e scuola non si limitavano ad indicare una palingenesi ed un futuro possibile, l’accento che veniva dato era quello di sconfiggere l’ignoranza, considerata una delle prime cause della povertà.
Poi qualcosa si è rotto. Sono scomparsi i corpi intermedi, la Chiesa fatica sempre di più in un contesto secolarizzato, la scuola non garantisce più la mobilità sociale. Quella finestra di opportunità si è chiusa, di conseguenza anche il titolo di studio ha perso di importanza. Quasi che la società contemporanea non abbia più bisogno di persone colte. Competenze sufficienti per accedere al web, per il resto nulla.
Un processo aiutato se non favorito, dalle politiche pubbliche sull’istruzione. Negli ultimi quindici anni i tagli progressivi hanno ridotto gli investimenti, lasciando la scuola alla buona volontà e motivazione degli insegnanti, i veri eroi di questo tempo. Cresce l’abbandono scolastico, i dati Invalsi sulle performance dei nostri studenti sono impietosi. Quanto questi risultati siano dovuti al fatto che i nostri ragazzi sentano la scuola lontana, dove la Sardegna è solo un inciso e non se ne studi né la storia né la lingua? Quanto questo influisca nella formazione dell’autostima?
L’Università non va meglio. Le controriforme stanno finendo con il rafforzare le sedi del nord d’Italia a discapito del sud e delle isole. L’economicismo che domina queste operazioni sembra nascondere un progetto neo oligarchico. Chi avrà i mezzi potrà frequentare le università più prestigiose, possibilmente quelle internazionali, gli altri faranno quel che potranno, se vorranno.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha richiamato l’Italia perché il numero delle vaccinazioni obbligatorie dei bambini sta scendendo sotto il livello di guardia. Uno dei primi effetti del taglio all’istruzione si potrebbe dire. Genitori vittime di della disinformazione dominante nel web? O solo mancanti di cultura scientifica? Qualsiasi sia la risposta significa abbandonarsi all’irrazionale. Di morbillo si muore.
Giulio Tremonti, un economista, ebbe a dire che con la cultura non si mangia, benché i dati internazionali dimostrino che ogni euro investito in cultura ne generi altri cinque nell’indotto. Produrre individui incolti ha il suo peso sociale. Significa progettare una società priva di senso civico, popolata da persone impossibilitate a capire un testo, dipendenti dagli altri.
Individui insicuri, incapaci di capire il proprio tempo, generatori di una società infelice
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L’articolo di Nicolò Migheli è stato anche pubblicato su L’Unione Sarda del 6 febbraio 2015 e su Sardegnasoprattutto/ 6 febbraio 2015/ Culture
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La SARDEGNA che GUARDA ai PAESI ARABI e al MEDITERRANEO. Verso EXPO MILANO 2015
CAGLIARI 20, 21 FEBBRAIO | LA SARDEGNA CHE GUARDA AI PAESI ARABI E AL MEDITERRANEO | VERSO EXPO MILANO 2015.
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- Informazioni sul blog Fomento Impresa di Aladinews.
- Il programma completo sul sito della Camera di Commercio di Nuoro.
Domani 31 gennaio a Casablanca
Domani a Casablanca: Marocco e Migrazioni
IPRIT Marocco – Immigrazione Percorsi di Regolarità in Italia
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- Approfondimenti
L’Università bastonata. Lo scippo del trasferimento teconologico
IL FATTO. Infilato tra le “Misure urgenti per il settore bancario e per gli investimenti“, appena approvate del Consiglio dei Ministri, c’è un comma che assegna all’Istituto Italiano di Tecnologia (IIT) la commercializzazione dei prodotti tecnologici e dei brevetti di tutte le università e di tutti gli enti di ricerca (…).
- Tutte le informazioni su Roars – La posizione di Netval.
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Il presidente del Netval, Andrea Piccaluga, ha inviato in data odierna una lettera agli Enti associati (in prevalenza Università) e ai presidenti della Crui, del Cnr, della Fondazione Crui, del PNI Cube per appoggiare la richiesta di revoca delle disposizioni contenute nel D.L. 24 gennaio 2015, n. 3 “Misure urgenti per il sistema bancario e gli investimenti” con riferimento all’art. 5, commi 2 e 3, Condividiamo totalmente le posizioni di Netval, in particolare il richiamo a un impegno degli Atenei e dei Centri di ricerca per “nuove soluzioni procedurali e organizzative” per il trasferimento tecnologico “prima che… altri lo facciano in modo maldestro e improvvisato”, come purtroppo è accaduto in questa circostanza. Pubblicheremo quanto prima la lettera di Andrea Piccaluga in versione integrale.
Cagliari città universitaria? Sarà credibile solo se accoglierà degnamente tutti gli studenti fuorisede. Ecco perché gli occupanti della ex scuola Manno in via Lamarmora hanno ragione
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Cagliari: 750 posti letto per 18.463 studenti fuori sede – residenti 5.877 – pendolari 8.744, per un Totale di 33.064 studenti iscritti Unica (dati Ersu 2010-2011).