Economia & Lavoro

Il lavoro: cos’è e come sarà ai tempi dei robot. Che fare oggi e domani?

robot
Società 4.0. fine del lavoro umano?

di Nicolò Migheli
By sardegnasoprattutto/ 27 febbraio 2017/ Economia & Lavoro/

L’innovazione e il progresso tecnologico sono inarrestabili. In quello che chiamiamo convenzionalmente Occidente lo sono da almeno mille anni. Se qualcuno troverà profitto e convenienza in una nuova tecnologia, se essa corrisponde ad un qualche bisogno, anche non espresso, finirà con l’imporsi. I telefoni portatili sono un caso studio. Prima dell’avvento del cellulare solo in pochissimi avevano l’esigenza di essere sempre raggiungibili, è bastata l’innovazione delle carte prepagate per fare in modo che sia presente nelle tasche di ognuno di noi.

Un bisogno e qualcuno che in esso intravveda una occasione di profitto, fanno in modo che l’innovazione si imponga. È già così per l’automazione e la robotica. Siamo dentro una rivoluzione non solo scientifica, ma che già condiziona la nostra esistenza ed in futuro lo farà sempre di più. Il report dell’ONU Robot and Industrialization in Developing Countries, sostiene che il 66% dei lavori svolti nei paesi di nuova industrializzazione già oggi può essere sostituito da robot. Il che comporterà la fine delle delocalizzazioni ed il rientro di molte produzioni in Occidente. Tranne Cina ed India, dove si stanno facendo passi consistenti nel settore.

Secondo la società di consulenza McKinsey, solo il 5% dei lavori attuali non è robotizzabile. Se questo non è ancora avvenuto è perché, allo stato attuale, la robotizzazione comporta una perdita di qualità del lavoro svolto, le macchine non sono ancora in grado di comprendere e processare il linguaggio naturale umano. Più sale la complessità e l’alto valore aggiunto delle attività, minore è il rischio di automazione. Ora siamo ancora dentro la teoria dei colli di bottiglia: certe attività non sono robotizzabili perché il costo della elaborazione degli algoritmi è superiore al beneficio ottenuto, però negli ultimi trent’anni quel costo è diminuito costantemente, di conseguenza tra non molto il collo di bottiglia verrà eliminato.

Per cui un docente universitario robot, un cantante lirico, un sociologo o un scrittore cyborg sono dentro un futuro possibile. McKinsey nello studio citato afferma che negli Usa, già oggi solo il 4% dei lavori ha bisogno di creatività. Siamo dentro la distopia di Norbert Wiener che nel New York Times già nel 1949 aveva profetizzato con il dominio delle macchine una rivoluzione industriale di assoluta crudeltà.

Il sociologo Bruno Manghi che da oltre trent’anni studia l’impatto dell’automazione negli ambienti di lavoro, intervistato da Rai News 24 affermava che l’ottimismo della liberazione dal lavoro per merito delle macchine, tipico dei decenni scorsi, si sta trasformando nel pessimismo della scomparsa del lavoro e confessava la sua impotenza nell’immaginare soluzioni.

Il refrain che ha accompagnato il progresso tecnologico è stato: i lavori persi verranno riguadagnati in lavori di maggior qualità. Di conseguenza basta investire in istruzione, spostare l’asticella insomma, e i lavori non scompariranno. È pur vero che ci sarà bisogno di figure professionali nuove, che sappiano progettare e dialogare con macchine sempre più sofisticate, però quante saranno nel mondo? Visto che già oggi giganti come Google progettano intelligenze artificiali resilienti, che imparano dai propri errori, che si adattano all’ambiente e che tra non poco sapranno progettare intelligenze simili? In un articolo del The Guardian del novembre del ’15 si stimava che nel mercato della robotica in dieci anni è ipotizzabile una crescita dai circa 27 miliardi di dollari attuali ai 67 previsti.

Già oggi ne vediamo i frutti, quella che viene definita l’uberizzazione del lavoro umano fa passi consistenti: frammentazione delle attività date in appalto, smantellamento dei salari con l’imperversare dei micro pagamenti. Foodora che a Torino paga i suoi fattorini tre euro l’ora è sui giornali in questi giorni, ma i voucher di Renzi vanno in quella direzione.

Fino ad ora, gran parte dei consumatori hanno colto solo l’aspetto positivo della riduzione del prezzo e della comodità, ma tra non poco saremo in fase del Grande Disaccopiamento, secondo Brynjolfsson all’Harvard Business Review: non basta mettere più macchine nell’economia per garantire che la tecnologia arrechi benefici all’intero corpo sociale. Il successo dell’automazione non è automatico, non per tutti.

Il che pone problemi seri sulla tenuta delle società contemporanee in termini di PIL, sanità pubblica, previdenza sociale. Nessun settore verrà escluso da questa rivoluzione, neanche quello pubblico che fino ad ora ha risentito poco dell’automazione. Sono scomparse solo le dattilografe o poche altre figure professionali. Non a caso imprenditori di primo piano come Elon Musk di Tesla, Bill Gates ed altri propongono di tassare i robot.

Il Parlamento Europeo con 396 voti a favore, 123 contrari e 85 astensioni vota nelle settimane scorse una risoluzione con cui si propone di dare ai robot personalità giuridica. Lo fa per ragioni etiche. Se un’auto a guida autonoma causa un incidente, di chi è la responsabilità? Del padrone del veicolo? Del costruttore? Di chi ha fatto la manutenzione? È anche però il primo passo verso quello che alcuni definiscono reddito di cittadinanza, altri reddito universale. In Finlandia lo si sta già sperimentando con piccoli numeri.

Matteo Renzi torna dalla California e prospetta un lavoro di cittadinanza. Come spesso gli accade fa la figura dello studente che si presenta all’esame sulla base del sentito dire. Forse il segretario dimissionario del PD non ha chiari i termini del problema e fa confusione. Tutte queste proposte sono la via? Come Bruno Manghi confesso di non saperlo. Di sicuro il lato economico, benché decisivo, non è il solo ad essere importante.

È il concetto stesso di lavoro come autorealizzazione dell’individuo ad essere in crisi. Dalla Riforma Protestante in poi, questo, sia dipendente che autonomo, ha rappresentato l’identificazione dell’individuo rispetto alla rendita vissuta come attività parassitaria. Oggi assistiamo al contrario, la rendita, specie quella finanziaria, viene esaltata ed il lavoro mortificato da tasse e balzelli, da remunerazioni da fame. Un orizzonte che rischia di stravolgere le esistenze di tutti, di provocare rivolte che avranno bandiere luddiste se va bene.

Pensare poi che la nostra Sardegna, in quanto periferica e con attività che si crede non robotizzabili sia indenne, più che ingenuità è incoscienza. Un futuro di pastori cibernetici è dietro l’angolo.
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eddyburg
SOCIETÀ E POLITICA
Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. L’anima del New Deal
di Laura Pennacchi, su eddyburg.

Un prezioso articolo che, cogliendo l’occasione delle ultime castronerie di Matteo Renzi, ricorda che cosa fu il New Deal e perché potrebbe essere oggi una via d’uscita dalle crisi che affligono il mondo di oggi: dal lavoro all’economia, dall’ambiente all’esodo. il manifesto, 1° marzo 2017
«L’anima del New Deal. Investimenti, progetti collettivi, tasse per i ricchi. Perché va ricordato Keynes a chi, come Renzi, vuole contrabbandare i famosi Job Corps, ripresi da Di Vittorio ed Ernesto Rossi, con il Jobs Act gonfio di bonus e sottrazione di diritti. Atkinson, per esempio, suggerisce di tornare a prendere molto sul serio l’obiettivo della «piena e buona occupazione» e un programma nazionale per il risparmio garantito

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Resisterò alla tentazione di parlare di frode per la spregiudicatezza con cui Renzi tenta oggi da un lato di qualificare come “lavoro di cittadinanza” le sue proposte di rilancio dell’occupazione (sostanzialmente una riedizione del Jobs Act, una riduzione della dignità del lavoro, la contrazione dei suoi diritti, una colossale decontribuzione a danno delle finanze pubbliche e a vantaggio dei profitti e delle imprese), dall’altro di inscrivere le sue idee complessive di politica economica nell’orizzonte di un rinnovato New Deal.

In tutta Europa è in corso una discussione molto seria e molto ardua su cosa preferire tra “reddito” e “lavoro” di cittadinanza” e personalmente ho argomentato perché opto per quest’ultimo[1].

La studiosa svedese Francine Mestrum, lamentando la mancata chiarezza da parte dei proponenti sui requisiti del reddito di cittadinanza, ha dichiarato che «sedurre le persone con slogan del tipo “denaro gratuitamente per tutti”, quando quello che si intende è in realtà un reddito minimo per chi è in stato di necessità, è vicino alla frode». Non userò una simile definizione per le ultime uscite di Renzi, ma alcune precisazioni sono, tuttavia, il minimo che l’habermasiana “etica del discorso” ci impone.

DiVittorio G _100L’anima del New Deal di Roosevelt – e così dovrebbe essere anche oggi – fu un grande piano di investimenti pubblici, straordinari progetti collettivi (quali l’elettrificazione di aree rurali, il risanamento di quartieri degradati, la creazione dei grandi parchi, la conservazione e la tutela delle risorse naturali) piegati al fine di creare lavoro in vastissima quantità e per tutte le qualifiche (perfino per gli artisti e gli attori di teatro) attraverso i Job Corps – le “Brigate del lavoro” ipotizzate anche da Ernesto Rossi e dalla Cgil di Di Vittorio –, identificando per questa via nuove opportunità di investimento e di dinamismo per il sistema economico.

Riprodurre oggi un’ispirazione e una progettualità di tal fatta è del tutto inconciliabile con il mantra al quale si è attenuto e si attiene Renzi, l’erogazione di bonus monetari e la riduzione delle tasse (specialmente a vantaggio delle imprese e dei ricchi, come è avvenuto con la cancellazione dell’Imu e della Tasi): perché mai se no, Roosevelt avrebbe portato le aliquote marginali sui più ricchi a livelli elevatissimi, mantenute tali anche per molti anni dopo la fine della seconda guerra mondiale?

Inoltre investimenti pubblici e creazione di lavoro richiedono di usare le istituzioni collettive come leve fondamentali.

Si tratta, infatti, di fare cose che fuoriescono dall’ordinario:
- Identificare fini e valori per dare vita a un nuovo modello di sviluppo (l’opposto dell’assumere gli esiti del mercato come un dogma naturale immodificabile e, conseguentemente, del limitarsi a compensare i perdenti e chi «resta fuori dal processo di innovazione», come dice Renzi).
- Dirigere l’innovazione orientandola verso bisogni e fini sociali (ricerca di base, rigenerazione delle città, riqualificazione dei territori, ambiente, salute, scuola, ecc.), l’opposto della “neutralità” e dell’ostilità per l’intervento pubblico (in nome del terrore del “dirigismo”) rivendicate dai consiglieri di Renzi.
- Lungi dal considerarlo un ferro vecchio, enfatizzare l’obiettivo della “piena e buona occupazione” rovesciando la logica: invece che affrontare ex post «i costi della perdita di impiego» (secondo il suggerimento di Renzi), fare ex-ante degli investimenti pubblici e della creazione di lavoro il motore di una crescita riqualificata.
- Considerare lo Stato come grande soggetto progettuale e come Employer of last resort, invece che il “perimetro” da assottigliare e depotenziare ipostatizzato dalle politiche di privatizzazione e di esternalizzazione care ai tardoblairiani odierni.

Qui va riscoperto Keynes e non per contrabbandare come keynesiano lo strappare “margini di flessibilità” all’”austerità” europea, senza rimettere drasticamente in discussione la logica del Fiscal Compact, per di più utilizzandoli per finanziare (in deficit) bonus e incentivi fiscali e non investimenti pubblici produttivi.

Richiamandosi a Keynes e a Minsky, nell’ultimo, bellissimo libro (Inequality) scritto prima di morire, il grande economista Tony Atkinson invoca «proposte più radicali» (more radical proposals) e denuncia l’insufficienza quando non la fallacia delle misure standard (quali tagli delle tasse, intensificazione della concorrenza, maggiore flessibilità del lavoro, privatizzazioni).

Il primo tabù che egli infrange è che la globalizzazione impedisca di mantenere strutture fiscali progressive e imponga che le aliquote marginali siano sempre inferiori al 50%. Propone, per l’appunto, che il ripristino della progressività – violata dalle politiche neoliberiste a tutto vantaggio dei ricchi – preveda per i benestanti aliquote massime del 55 e perfino del 65%.

Ed escogita tutta una serie di proposte “radicali”, tra cui di tornare a prendere nuovamente molto sul serio l’obiettivo della piena occupazione – eluso dalla maggior parte dei paesi Ocse dagli anni ’70 – facendo sì che i governi offrano anche «lavoro pubblico garantito».

Il suggerimento di Atkinson è di fare perno sulla «piena e buona occupazione» non in termini irenici, ma nella acuta consapevolezza che la sua intrusività – la sua rivoluzionarietà – rispetto al funzionamento spontaneo del capitalismo è massima proprio quando il sistema economico non crea naturalmente occupazione e si predispone alla jobless society.

E proprio collegata al rilancio della piena e buona occupazione è la proposta che «la direzione del cambiamento tecnologico» sia identificata come impegno intenzionale ed esplicito da parte dell’operatore pubblico, volto ad accrescere l’occupazione, e non a ridurla come avviene con l’automazione.

All’idea di rilanciare la piena e buona occupazione Atkinson collega altre proposte radicali: quella – memore di quando nel 1961 nel Regno Unito vigeva per i giocatori di calcio una retribuzione massima di 20 sterline alla settimana, pari alla retribuzione media nazionale – che le imprese adottino, oltre che un codice etico, un codice retributivo con cui fissare anche tetti massimi alle retribuzioni dei manager pure nel settore privato. O quella di un programma nazionale di risparmio che offra ad ogni risparmiatore un rendimento garantito (anche tenendo conto che, tra le cause dell’incredibile aumento delle disuguaglianze, c’è la sproporzionata quota di rendimenti finanziari che va ai redditieri superricchi).

[1] Vedi su eddyburg in particolare il recente articolo di Laura Pennacchi Perché al reddito di cittadinanza preferisco il lavoro, in “Il lavoro dentro e fuori dal capitalismo”
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Per correlazione: http://comedonchisciotte.org/allarme-onu-i-robot-sostituiranno-il-66-del-lavoro-umano/
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L’illustrazione è tratta dalla copertina della rivista Rocca, n. 10 del mese di maggio 2017
newRocca-10-15mag16

CI HANNO RUBATO IL LAVORO!

TRIBALLU CHERIMUS!
1—Su triballu, lu cherimus,
su triballu a l’irventare(1),
su triballu ja l’ischimus,
nos servidi pro campare.

2—Su triballu lu partimus,
pro totu traballare.
Su triballu est libertade,
pro s’omìne est dignidade.

3—Nessunu est su mere de su triballu,
su triballu rispetta sa natura.
Chentza triballu sa vida, ite tristura!
In sa comunidade b’ada irballu.

4—In sa globalidade, a su triballu,
su mercadu li faghede pagura.

5—Si s’omine che mertze lu endhimus,
moridi sa tziviltade jà l’ischimus.

Gavinu Dettori dic. 2010
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CI HANNO RUBATO IL LAVORO!
Il più antico furto perpetrato nei secoli e ancora impunito. - segue -

Punta de billete. “Voucher: la frontiera del precariato”

Lavoro?Il Comitato d’iniziativa costituzionale e statutaria organizza il confronto pubblico dal titolo: “Voucher: la frontiera del precariato”. A Cagliari, Hostel Marina, Scalette S. Sepolcro, Venerdì 24 febbraio alle ore 17.30.
Presenta e coordina Roberto Mirasola
partecipano:
Lilli Pruna (sociologa del lavoro)
Paola Mazzeo (giudice del lavoro)
Elisabetta Perrier (segretaria Camera del lavoro)
Giacomo Meloni (segretario CSS)
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- La pagina fb dell’evento.

Povera Patria Sarda, così ridotta da sfruttatori e ascari

Chidecideraperlasardegna1
di Vito Biolchini su vitobiolchini.it
“Eurallumina verso il riavvio dopo 8 anni”, “Sì alla rinascita di Eurallumina”: ecco come nasce una fake news.
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EURALLUMINA SU la nuova

Era il 9 febbraio 2017

“Eurallumina verso il riavvio dopo 8 anni” titolava ieri la Nuova Sardegna, “Sì alla rinascita di Eurallumina” gli ha fatto eco l’Unione Sarda. Ma siamo sicuri che le cose stiano veramente così? Siamo sicuri che la versione dei fatti data dai due quotidiani sardi sia rispondente alla realtà e che veramente la riapertura della fabbrica di Portovesme sia imminente?

Ore 18.04 di mercoledì 8 febbraio: l’Ufficio stampa della Regione invia ai giornalisti un comunicato dal titolo “Eurallumina, conclusa la Conferenza dei servizi. Parere Mibact non ostativo”. Leggiamolo assieme:

La Conferenza di servizi sul progetto della Rusal, azienda proprietaria dell’Eurallumina, ha concluso i suoi lavori, con posizioni invariate rispetto a una settimana fa, ma con parere del Ministero dei beni paesaggistici non ostativo. Nel frattempo è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio. Sono queste le comunicazioni date ai rappresentanti degli operai Eurallumina dall’assessora dell’Ambiente, Donatella Spano e dal collega degli Enti locali, Cristiano Erriu, accompagnati dal capo di Gabinetto della Presidenza, Filippo Spanu, e dal direttore generale Alessandro De Martini.

Fermiamoci un attimo: cosa significa che “è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio”? La Conferenza dei servizi è stata convocata proprio per questo, per autorizzare l’ampliamento del bacino dei fanghi rossi: ma se “è stata la stessa Rusal a chiedere tempo per presentare ulteriore documentazione utile per la decisione sull’ampliamento del bacino di stoccaggio” è evidente che manca la documentazione necessaria per il via libera e che nessuna decisione dunque è stata ancora presa. Sulla base dunque di quale elemento la Regione ha diffuso il suo trionfalistico comunicato? Ma andiamo avanti.

La Conferenza dei servizi si è conclusa – ha spiegato Donatella Spano – con pareri differenti tra Ministero dei Beni paesaggistici e la Regione. Il parere ministeriale non è, però, vincolante e ostativo.

Anche qui è necessario uno stop. “La Conferenza dei servizi si è conclusa” afferma innanzitutto l’assessore regionale all’Ambiente Donatella Spano. Quindi ci sarà un verbale o un atto nel quale la Conferenza ha messo nero su bianco le sue decisioni. Esiste questo documento? No, non esiste. Per un motivo semplice: che contrariamente a quanto afferma l’assessore Spano, la Conferenza dei servizi non si è affatto conclusa e non ha assunto alcuna decisione. E a confermarlo è paradossalmente lo stesso comunicato della Regione, che prosegue riportando la dichiarazione dell’assessora Spano:

Per quanto riguarda l’iter, la Rusal ha chiesto almeno un mese per presentare altri documenti. Non appena si concluderà l’istruttoria, predisporremo la delibera sul progetto, che sarà portata in tempi serrati in Giunta.

L’”istruttoria” di cui si parla la Spano è in realtà proprio quella Conferenza dei servizi che qualche riga prima era data per “conclusa” dalla stessa assessora! Perché la Regione sta mistificando la realtà in questo modo? Ma non era stato lo stesso Presidente Pigliaru ad invitare i suoi assessori qualche giorno fa a smettere di fare ”propaganda”?

Detto questo, è chiaro che perché la Conferenza dei servizi dia il suo parere servirà come minimo un mese; ma in realtà bisognerà aspettare molto di più: intanto perché la documentazione che la Rusal si è impegnata a fornire dovrà essere esaminata (e ci vorranno settimane), sia perché nel corso della Conferenza dei Servizi è emerso che tra la documentazione mancante vi è anche quella relativa alla valutazione di incidenza ambientale riguardante l’impatto del bacino nei confronto di un’area di pregio naturalistico che lambisce la zona di stoccaggio!

Senza questa valutazione (ovviamente positiva), non si può immaginare nessun riavvio della fabbrica; e quindi non è vero che, come afferma la Regione, “il parere del Mibact non è ostativo”: ma proprio per niente! Perché sono diversi ancora i pareri (vincolanti) che il Mibact deve dare una volta arrivata in Conferenza la documentazione ancora mancante.

Quindi i tempi sono dunque lunghi, ragionevolmente lunghi: e al termine della Conferenza dei servizi non è detto che il parere sia favorevole all’ampliamento del bacino.

Anche perché poi c’è un altro elemento che i nostri giornali stanno incredibilmente “dimenticando”: il processo per disastro ambientale che si è aperto un anno fa presso il tribunale di Cagliari e che vede imputati i vertici di Eurallumina proprio per la gestione del famigerato bacino dei fanghi rossi che ora si vorrebbe ulteriormente ampliare.

Trovate tutti gli elementi della notizia in questo articolo di Sardinia Post del 23 marzo dello scorso anno (“Eurallumina, al via il processo per disastro ambientale”), con diversi aggiornamenti poi dati dalla Nuova Sardegna qualche mese dopo. Da questi articoli si desume peraltro che una parte del bacino dei fanghi rossi, quello che (ripeto) l’Eurallumina deve ampliare per ritornare a produrre, è ancora sotto sequestro giudiziario!

Quindi di quale “riavvio” e “rinascita” di Eurallumina stanno parlando la Spano, tutta la giunta Pigliaru, insieme all’Unione e la Nuova, quando è in corso un processo per disastro ambientale (prossima udienza, a quanto mi consta, ad aprile) e una parte del bacino che si pretende di ampliare è ancora sotto sequestro?

Ma vi rendete conto?

E come se non bastasse, la politica, non paga di mistificare la realtà, poi si fa pure i complimenti da sola! “È un grande passo avanti verso il riavvio dello stabilimento, un risultato che è stato possibile raggiungere grazie alla collaborazione di tutti e alla determinazione degli operai” ha dichiarato ieri all’Unione Sarda il capogruppo del Pd in Consiglio regionale Pietro Cocco. Ma di che risultato sta parlando? Incredibile.

E insieme a lui hanno giocato a prendere in giro l’opinione pubblica (e tema anche gli operai) il deputato del Pd Emanuele Cani (“È un fatto importante per i lavoratori e per tutto il territorio”), il senatore ex Sel Luciano Uras (che parla senza vergogna dell’Eurallumina come di una “prospettiva di sviluppo sostenibile e armonico”) e del segretario del Pd del Sulcis Daniele Reginali.

Ecco come nascono la fake news: la politica dichiara quello che gli fa più comodo e i giornali non fanno nessuna verifica.

E se questo avviene per sciatteria o complicità, non sta a me dirlo.

Post scriptum
Il comunicato della Regione comunque si concludeva così:
“Ringraziamo gli uffici degli assessorati coinvolti che hanno lavorato strenuamente in questi mesi”, ha concluso l’esponente dell’esecutivo, che ha poi raggiunto gli operai che da questa mattina manifestavano davanti al palazzo di viale Trento e ha loro confermato, insieme all’assessore Erriu, quanto emerso in Conferenza di servizi. Gli operai hanno dunque deciso di sciogliere il presidio”.
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lampadadialadmicromicro13Correlazione
https://www.aladinpensiero.it/?p=64880
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Per il Sovrintendente non è solo questione di paesaggio.
Su SardiniaPost.

La Chiesa sarda inviata alla mobilitazione per il lavoro che vogliamo: «libero, creativo, partecipativo e solidale»

Riceviamo e pubblichiamo integrale il comunicato stampa della Diocesi di Cagliari – Ufficio stampa.
Il Portico cammino-settimana-sociale--768x450Il vescovo Miglio: Uniti nella ricerca di soluzioni
per far ripartire l’economia e il lavoro

Sabato 10 dicembre 2016 l’arcivescovo del capoluogo sardo ha invitato sindacati, imprenditori, mondo della cooperazione, artigianato, terzo settore, esperti e studiosi del mercato del lavoro a un incontro per mettere a punto una serie di proposte in grado di promuovere e favorire l’occupazione sia nei settori economici tradizionali, sia nei campi lavorativi aperti dalle nuove tecnologie. Inizia con questo appuntamento il percorso della Chiesa di Cagliari e delle diocesi sarde verso la Settimana sociale dei cattolici italiani in programma nella nostra città dal 26 al 29 ottobre 2017 sul tema «Il lavoro che vogliamo: libero, creativo, partecipativo e solidale».
«In questi anni – dice monsignor Arrigo Miglio – tutte le organizzazioni hanno giustamente denunciato la grave crisi che ha colpito il sistema economico sardo con la chiusura di numerose fabbriche, il crollo d’interi comparti produttivi, gli effetti devastanti sull’occupazione che ha escluso migliaia di lavoratori dal lavoro. Anche la Chiesa sarda ha segnalato più volte i risvolti drammatici della disoccupazione in riferimento all’età, ai ruoli e alle responsabilità familiari e sociali».
I vescovi hanno più volte ribadito che la disoccupazione è un danno all’identità dell’uomo in tutte le sue dimensioni: «Nel costruire se stesso, nella sua vita, nei suoi rapporti umani, nella crescita del suo bagaglio identitario, nella sua personalità» (Un cammino di speranza per la Sardegna. Lettera pastorale su alcuni urgenti problemi sociali e del lavoro, 19 marzo 2014).
Miglio auspica che la Sardegna possa presentarsi alla Settimana sociale, che riunirà a Cagliari più di 1000 persone (delegati delle diocesi italiane, sindacalisti, imprenditori, sociologi, esponenti del terzo settore e dell’università, volontariato, ecc), con una proposta organica, unitaria, in grado di favorire sviluppo e occupazione, con particolare riguardo al futuro dei giovani, che oggi hanno davanti un mondo senza speranza.
Per l’arcivescovo di Cagliari «È arrivato il momento di accompagnare la denuncia e la protesta con programmi concreti, possibili, realizzabili in tempi immediati, medi e lunghi per superare la crisi. È tempo di raccogliere e diffondere idee, progetti e le tante buone pratiche che – dice Miglio – in Sardegna e in altre regioni d’Italia cominciano a dare risposte ai problemi del lavoro e dell’occupazione. Dal confronto aperto e dal contributo originale di tutte le organizzazioni operanti nel nostro territorio sono sicuro che potranno venire importanti suggerimenti, da trasmettere alle istituzioni, per favorire la ripresa socio-economica della nostra isola. Non è il tempo delle divisioni, ma di agire unitariamente».
L’incontro inizierà alle ore 9,30 nei locali del seminario diocesano, via mons. G. Cogoni n. 9, Cagliari.
(Comunicato stampa della Diocesi di Cagliari – Ufficio Stampa)
- Foto da Il Portico, settimanale diocesano Cagliari.
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Settimana Sociale: la Chiesa inizia il percorso verso Cagliari 2017
Un articolo di Alessandro Zorco su Blog.Social
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Report Caritas: per tanti giovani sardi metter su famiglia è un miraggio
di Alessandro Zorco, su Blog.Social

Sardegna Che fare? Si rompe il silenzio degli intellettuali? Si ricomincia da quelli fuori dai libri paga

sardegna-dibattito-si-fa-carico-181x300Per uscire dalla crisi, un nuovo sviluppo fondato su beni comuni e bravi maestri.
SardiniaPost loghettpdi Antonio Sassu su SardiniaPost
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La programmazione “dal basso” e la politica territoriale si trovano oggi in condizioni completamente diverse rispetto a vent’anni fa dal punto di vista del mercato, della tecnologia e della globalizzazione. E’ necessario che esse vengano rivisitate e con esse la politica economica regionale.
Il territorio cambia continuamente. La Sardegna ha intrapreso nella seconda metà dell’Ottocento e nella prima metà del Novecento uno sviluppo industriale notevole. Sono sorti nuovi settori industriali (il vino, le granaglie, la farina, i tessuti, i laterizi, le miniere) e sono state applicate nuove tecniche (il trasporto dell’acqua, l’idrovora, l’energia elettrica, il sistema bancario) che hanno dato vita a uno sviluppo economico in qualche modo diffuso nel territorio regionale, talora ad opera di imprenditori locali, talaltra con l’intervento di uomini e capitali esterni.

Tutti, però, avevano una caratteristica di fondo: idee, conoscenze, connessioni con imprese e persone, erano basate sul territorio: su ciò che in esso avveniva, su ciò che esso poteva dare. Si può dire uno sviluppo “dal basso”. Erano gli imprenditori che partivano dai territori per considerarne la dimensione fisica, le caratteristiche, le persone. Il territorio regionale aveva pecore e latte, campi e grano, argille e pietre, minerali di diverso tipo, e aveva bisogno di acqua da distribuire a uomini, animali e campi, di idrovore per prosciugare paludi, di energia da diffondere presso abitati, imprese e aziende.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, quasi per tutta l’ultima metà del secolo ventesimo, l’Isola viene considerata un luogo di arretratezza da combattere con una politica “dall’alto”, con il Piano di Rinascita prima e con la legge 164 poi. Il territorio è assente. Ciò su cui ci si focalizza sono le necessità economiche e l’occupazione, indipendentemente dalle peculiarità, dalle conoscenze, dalle attività e dall’identità di un popolo.

Nel periodo 1990- 2010 si ritorna al territorio con la politica “dal basso”, si forma prima la politica dei distretti e successivamente quella della programmazione negoziata. Il territorio è il protagonista dello sviluppo, sono i suoi saperi, i suoi mestieri, le sue caratteristiche culturali e sociali, oggetto di scambio e di compravendita, quindi, di valore. Così sono analizzati e promossi il sughero, i formaggi, il vino, i tessuti, la bottarga, il pane, ma anche la meccanica, l’informatica e le comunicazioni (Video on line e Tiscali) ecc.

Ma anche questa politica si rivelerà insoddisfacente. Non sono solo le delusioni della programmazione negoziata, ma anche il fatto che, poiché il territorio cambia rapidamente, le conoscenze, che chiamiamo codificate, diventano sempre più trasferibili e possono essere copiate o addirittura trasferite altrove. Il valore che prima veniva creato all’interno del territorio è ora prodotto anche da altri soggetti più competitivi. In parte la globalizzazione ci porta conoscenze di altri, in parte i nostri beni vengono da noi assemblati e prodotti con tecniche e beni di altri. Complessivamente lo sviluppo diventa sempre più esogeno e, per questa via, comunque, va comparativamente diminuendo.

Da noi, nel nostro territorio, rimangono (sempre che non ci sia esportazione di capitale umano) le conoscenze tacite, derivanti dal DNA, legate all’ambiente e alla famiglia, che si imparano naturalmente e che difficilmente possono essere trasferite se non con gli uomini. Si capisce, quindi, come il territorio sia sempre importante perché permette di sviluppare queste conoscenze, queste abilità che possono dare luogo a innovazioni (la gran parte sono “locali”, cioè incrementali), o a progetti e a idee.

Dal punto di vista delle conoscenze codificate siamo molto indietro rispetto alla media europea e da quello delle conoscenze tacite facciamo molto poco per mantenere e incrementare le specializzazioni e le abilità. In questo modo l’allargamento del gap rispetto ai paesi più avanzati è sempre più ampio.

Bisognerebbe dotare il territorio di beni comuni, di beni collettivi, di bravi “maestri” che possano sviluppare tutte le conoscenze: quelle codificate, che gli altri possono replicare, ma che possiamo replicare a nostra volta, e soprattutto quelle tacite, che difficilmente sono acquisibili dagli altri. Fra queste metterei, al primo posto, quelle relative alla trasformazione della Pubblica Amministrazione e delle nostre imprese tramite investimenti di diverso tipo (corsi, tirocini, concorsi tra imprese, esperienze all’estero, nuovi modelli da sviluppare).

Va precisato, comunque, che i “capitani capitalisti” da soli non possono farcela anche mettendo in campo tutte le energie possibili. E’ necessaria la volontà politica, la volontà di sistema, che agisca come input e testimonianza e trascini e muova uomini e imprese. Regole, impegni, connessioni e collegamenti, disponibilità di infrastrutture e servizi, talvolta sussidi, sono strumenti necessari.

Antonio Sassu
(docente di Politica economica europea all’università di Cagliari)
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Sardegna universitaria F Figari
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Goya il-sonno-della-ragione-genera-mostri particolare
Anthony e Vito rianimano il dibattito fra i sovranisti
7 Ottobre 2016
democraziaoggiAndrea Pubusa su Democraziaoggi

Non essendo dentro la costellazione “sovranista-indipendentista” le mie considerazioni sono certamente approssimative. Leggo di un arricchimento dell’area con l’imgresso militante di Anthony Muroni, liberato dal fardello della direzione de L’Unione Sarda e vedo subito una presa di posizione di Vito Biolchini che mette dei paletti sulle modalità di scelta della leadership di quell’area. Sono comprensibili schermaglie in vista delle elezioni regionali del 2019, a cui tutti iniziano a pensare.
Devo dire, che, pur non avendo avuto particolari ragioni per apprezzare la direzione di Antony nel maggior quotidiano sardo, giudico condivisibili le sue posizioni sul referendum costituzionale. In particolare, lui stimola alla ragionevolezza quell’area, che abbagliata dal programma massimo (la sovranità e/o l’indipendenza), non vede che lo scempio costituzionale di Renzi va nella direzione di un duro neocentralismo statale. Dice giustamente Muroni che c’è un grosso passo indietro nella revisione del titolo V e che la modifica preclude qualsiasi avanzamento delle istanze di autodecisione dei sardi. Muroni ha anche diffuso un documento programmatico, che sembra preordinato ad una sua autocandidatura alla leadership. Così l’ha intesa Vito Biolchini, che, memore della autocandidatura di Michela Murgia, ragionevolmente obietta: dobbiamo prima fare un programma comune e poi scegliere il leader, e – come avviene in tutti i casi in cui non c’è un gruppo dirigente sedimentato e autorevole – lo strumento di scelta viene affidato alle primarie.
Già in passato mi sono permesso di fare alcune osservazioni critiche, che Vito ha interpretato come attacco, anche se non lo erano, così come non lo sono ora che le riformulo. Quest’area a me sembra peggio di quella sinistra che, non ricordo in quale anno, si presentò alle elezioni con la lista arcobaleno e scomparve dal parlamento nazionale. Mi pare più incasinata. Perché dico questo? Perché in Sardegna ci sono sovranisti a dir poco stravaganti. Per esempio, l’amico Paolo Maninchedda, che rimane in giunta e sostiene un esecutivo a maggioranza PD, ossia un gruppo dirigente che a Roma fa scempio del regionalismo e delle autonomie locali. Stessa cosa per i Rossomori. Ritengono Maninchedda e Muledda che l’abolizione del carattere elettivo delle province dia ai territori maggior peso e più efficace rappresentanza? E quei bizzarri enti intermedi che stanno creando (Carbonia sarà il capoluogo della provincia di Cagliari coast to coast!) daranno più potere decisionale alle periferie? E un senato non elettivo con Zedda e Pigliaru a Palazzo Madama darà al Sulcis, all’Ogliastra o alla Gallura più peso di quanto ne aveva con l’attuale Senato, a cui talora i territori hanno inviato valenti rappresentanti? Si dirà, ma queste formazioni sono per il NO al referendum costituzionale di dicembre. D’accordo, ma, scusate, la sovranità non è un’entità astratta, è capacità di decisione autonoma ai vari livelli. Questa capacità verrà rafforzata da queste riforme che generano mostri, appendici di burocrazie regionali (le attuali province) o partitiche (il futuro senato)? Non so chi altri fra i sovranisti sostenga la giunta. Ricordo Sale che, con l’abito nuovo del consigliere regionale grazie alla genuflessione al PD, è giunto perfino a ritenere positivo l’intervento degli emiri del Qatar in Gallura, buttando alle ortiche tante belle e spettacolari battaglie del passato.
Orbene, lo dico senza astio e senza animosità, se queste forze non tagliano netto con le appendici renziane locali, che credibilità possono avere? Qui Muroni ha ragione, come l’aveva Michela Murgia nel non accettare il bacio alle pantofole dei dirigenti PD per entrare nella coalizione del centro-sinistra. Non è entrata in consiglio per una legge regionale antidemocartica, di cui altri sedicenti sovranisti hanno approfittato, ma una battaglia dignitosa l’ha fatta (salvo poi abbandonare il campo e le truppe!).
Caro Vito, questa è una forbice che va ricomposta se si vuole il programma comune e le primarie. E il programma, per essere credibile, deve essere accompagnato da fatti politici concreti. Può il fronte avere un programma comune con due spezzoni così divaricati: uno (Maninchedda e Muledda) con Renzi-Pigliaru e l’altro fuori e contro? Il programma, se non vuole essere fittizio, deve pur partire da un’analisi dell’oggi e da condotte coerenti e convergenti. So che Vito fa parte di un’associazione d’ispirazione sovranista formata da persone serie, che sta fuori dalle dinamiche filogovernative regionali e dunque nazionali e che tenta di introdurre nel dibattito in seno all’area sovranista elementi di unità e ragionevolezza, ed anche la sua proposta, programma e primarie, è sensato. E’ tuttavia astratta. Già Muroni replica che, semmai gli venisse l’idea di candidarsi, non chiederebbe il permesso a nessuno. Paolo sta riunendo transughi e ingrossando le fila non certo col proposito di farsi da parte e i Rossomori non saranno da meno. Della Murgia si son perse le tracce e non si sa cosa le frulla per la testa. Al momento l’esito più credibile è che quest’area vada alle future elezioni in ordine sparso (una parte, insieme a SEL, col PD, l’altra con lista autonoma) e perda in termini elettorali e anzitutto di credibilità, di capacità di politica autonoma. E, sia detto per inciso, poco importa che Maninchedda faccia qualche strada e o qualche ponticello, se poi gli spazi di autogoverno dei sardi si chiudono ulteriormente sotto la scure renziana. L’unico beneficiario di questa insipienza è il M5S, che diventa l’unica alternativa a questa situazione di crisi e degrado a marca PD. Certo ci sono due anni davanti e strada se ne può fare tanta. Ma al momento le direzioni dei movimenti sovranisti sembrano divergenti tanto da apparire opposte. Per creare un senso unico bisogna avere concretamente la stessa collocazione politica e istituzionale rispetto al PD e al renzismo. E qui vorrei, ma non vedo riavvicinamenti. Comunque, la storia e la cronaca offrono esempi di impensabili ricomposizioni politiche, chi vivrà, vedrà. Good luck!
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Per completezza informativa
RossomoriJPG-160x1591Dalla pagina fb di Gesuino Muledda (Rossomori)
Oggi ho letto un saggio di Paolo Maninchedda nel quale dice che ai Sardi non deve interessare niente del referendum costituzionale. Lui deve fare lo stato. Con Renzi. E noi e gli indipendentisti di Sardegna votiamo NO. I maligni dicono che voglia affiliare il suo partito della nazione a quello di Renzi. Ora non più perché Renzi non ne parla più. Altri maligni dicono che si aspetta la benedizione di Renzi per la sua candidatura a presidente della Regione. E noi e i sardisti e gli indipendentisti votiamo. Noi vogliamo una Sardegna forte. Che sappia e possa difendere se stessa il suo Popolo con tutti gli strumenti statutari e con un grande movimento di POPOLO. NOI VOTIAMO NO. PRO SARDINNA

Scienza economica: quale aiuta l’umanità?

The Post-Crash Economics SocietyLA LEZIONE DELLA GRANDE CRISI
È ora di cambiare il modo di insegnare economia Nei corsi tradizionali non c’è traccia della crisi.
di David Pilling su Il sole 24 ore.
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Il capitalismo è correggibile?
6 Ottobre 2016
democraziaoggiGianfranco Sabattini su Democraziaoggi

A parere di Philip Kotler, docente di marketing alla Northwestern University nello Stato dell’Illinois (USA) e autore di “Ripensare il capitalismo. Soluzioni per un’economia sostenibile e che funzioni meglio per tutti”, è possibile correggere l’attuale modo di funzionare dell’economia di mercato, per “creare un capitalismo ad alte prestazioni”; esisterebbero diversi motivi per farlo: intanto perché, a parere dell’autore, il capitalismo funziona meglio di qualsiasi altro sistema sinora sperimentato; in secondo luogo, perché, facendo tesoro di una massima del mahatma Gandhi (secondo la quale, la differenza tra ciò che si fa e ciò che si sarebbe capaci di fare basterebbe per risolvere quasi tutti i problemi del mondo) è possibile proporre una soluzione per i principali difetti del libero mercato; infine, perché è necessario affrontare i problemi che impediscono al capitalismo di produrre le migliori prestazioni possibili, secondo un approccio diverso da quello tradizionale, privilegiando una visione d’insieme di rutti i limiti dell’economia di mercato, per comprenderne l’impatto complessivo sulla struttura del sistema sociale. – segue –

Innovazione. Veranu premiata

Verani 1 30 set 16Veranu vince il contest
“90 secondi per spiccare il volo”

La startup sarda vince il contest per la migliore startup del territorio.

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VeranuEcco il video del contest “90 secondi per spiccare il volo”
https://www.youtube.com/watch?v=nR3D2t7kv9E
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DIBATTITO

tempi_moderni__-738x413Perché è necessario un Osservatorio sulla democrazia?
di Nadia Urbinati su L’Huffington Post 21/09/2016.
By sardegnasoprattutto/ 22 settembre 2016/ Culture/

Amiamo immaginare la nuova sede della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli come un cantiere di utopia, un laboratorio che osserva i processi sociali in corso e le trasformazioni della politica e della cultura delle nostre città. Cantiere di utopia perché convinto che l’immaginazione democratica abbia una propensione alla sovversione di schemi adusi e al ripensamento delle procedure e delle istituzioni nel tentativo ininterrotto di aggiustare la realtà all’immaginario egualitario. Da questa filosofia muove l’Osservatorio della democrazia con la sua attività di ricerca e di divulgazione.

Nella città democratica ideale la possibilità di fruire della cultura dovrebbe essere un bene collettivo al quale tutti e ciascuno possano accedere liberamente. Nella città democratica reale questa possibilità è purtroppo condizionata, in forma sempre più rilevante, dalle disponibilità economiche di chi ricerca la cultura e dal senso del bene comune di chi la offre. Detto altrimenti, vivere in società capitalistiche con ordinamenti politici ispirati a principi democratici è una sfida non di poco conto per chi assegna valore alla democrazia. La relazione tesa, e a tratti labile e conflittuale, tra l’ordine dell’interesse economico e l’ordine dell’eguale libertà politica è alla radice del progetto dell’Osservatorio sulla Democrazia della Fondazione Feltrinelli.
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CHE FARE? Buoni esempi dalla Storia: “… Così fece Roosevelt nella crisi del ‘29, mettedo insieme sindacati, imprenditori disponibili e tutte le migliori energie intellettuali, avendo a cuore inanzitutto il lavoro. Fu proprio questa l’arma vincente: un piano straordinario di sviluppo del paese con al centro l’occupazione”

FDR_1944 aladinewsLavoro: Renzi fra statistiche, balle e contestazioni
16 Settembre 2016

democraziaoggiAndrea Pubusa su Democraziaoggi

L’Istat dà i numeri e subito, se lo 0,000000…% è positivo, scatta la propaganda governativa: il trombettire toscano, seguito dai media di regime, illustra le sorti magnifiche e progressive del nostro Paese. Il martellamento è insistente, quasi ossessivo ai Tg. Tanti giovani neo-occupati, molti nuovi posti di lavoro. miracoli del Job Act, tradotto in lingua nazionale, lo scasso dello Statuto dei lavoratori e dell’art. 18. Eppure, Renzi, ovunque vada ormai deve essere accompagnato da uno schierameneto sempre più folto di poliziotti in tenuta antisommossa per arginare le contestazioni e il lancio di pomodori, segno che la propaganda governativa, anziché convincere, fa imbufalire la gente comune. E più Renzi canta vittoria, più la gente s’incazza. – segue –

Buone riflessioni da parte di un neokeynesiano prudente

pensatore sotto lunaAppunti di politica economica e dintorni
di Tonino Dessì
Che siamo in deflazione permanente ogni tanto viene anche scritto.
La deflazione è una delle bestie peggiori per un’economia, in particolare regionale (come quella europea), o locale (come quella italiana).
In genere il tema, politicamente e giornalisticamente, dopo esser stato evocato, non viene approfondito, perché persino gli economisti più seri non hanno mai fornito una “ricetta” efficace per affrontarlo.
Il più delle volte, nei testi “sacri” di ogni autore e scuola, si descrive il fenomeno, si glissa sui complessi problemi teorici e pratici che rendono difficile ogni intervento e poi si rinvia al compiersi di cicli o all’evolversi di precedenti vicende storiche.
La deflazione in corso però non è mondiale, ma specificamente europea, resa possibile come fatto “regionale” dall’essere il sistema economico europeo ancora relativamente chiuso e aggravata dal permanere di un assetto politico-istituzionale continentale ancorato ai criteri elaborati in un periodo nel quale gli obiettivi fondamentali sono stati individuati nella lotta all’inflazione e nel controllo incrociato del deficit pubblico degli Stati membri.
Ne sono scaturiti più di vent’anni di politiche deflazionistiche, dalle quali l’UE non riesce a uscire anche perché dovrebbe modificare gli ultimi trattati nonchè i connessi limiti statutari di missione della BCE. Non solo: occorrerebbe anche revocare le modifiche introdotte, in ossequio a quelle scelte, negli ordinamenti interni dei singoli Stati membri, come è accaduto con la costituzionalizzazione del pareggio “reale” del bilancio nell’articolo 81 della Costituzione italiana, intervenuta sotto il Governo Monti.
Una modifica politico-ideologica sorprendente, all’interno di una Costituzione politicamente e ideologicamente “aperta” (per non abusare anche in questo campo del termine “laica”).
Quella disposizione contrasta con ogni principio finanziario, perché contiene il divieto di finanziare la spesa pubblica in deficit.
Tant’è che siamo al paradosso di dover far finta che si tratti di una disposizione appena “programmatica”, ma non cogente, altrimenti sorgerebbe questione immediata di incostituzionalità di ogni manovra di bilancio successiva.
Tutte le leggi di stabilità, infatti, fino ad oggi, hanno continuato a finanziare in deficit non solo la (poca) spesa per investimenti, ma anche la (crescente) spesa corrente e segnatamente quella dello Stato centrale, mentre quella delle Regioni e degli enti locali è stata strangolata, con tutte le ricadute che conosciamo sul livello dei servizi di competenza delle autonomie territoriali.
A margine, quindi, ragion di più per lasciare in pace la Costituzione, toccandola il minimo indispensabile.
Ma anche in un contesto che è di ampiezza continentale, da parte del Governo italiano (e della classe dirigente imprenditoriale di principale riferimento) si è continuato a commettere errori specifici e a non compiere alcune scelte che avrebbero consentito una navigazione più proficua del tirare a campare fra qualche elargizione propagandistica (gli ottanta euro), qualche demagogia fiscale a danno della finanza locale (l’eliminazione dell’IMU sulla prima casa malamente compensata da parziali erogazioni derivate centrali) e quotidiani annunci di improbabili attese di incremento del PIL, smentite dai dati della contabilità nazionale cinque minuti dopo l’ultimo tweet.
Valentino Parlato spiega alcune di queste cose in modo semplice e consiglio a chi sopravviva alla lettura del mio post di leggerle. – segue –

Quale economia al servizio dell’umanità?

I limiti della “mano invisibile” del mercato

imagedemocraziaoggi loghettodi Gianfranco Sabattini su Democraziaoggi

La teoria economica tradizionale ha prodotto un’abbondante letteratura, per dimostrare i vantaggi che possono essere assicurati alla collettività dal funzionamento di un libero mercato guidato da una presunta “mano invisibile”. E’ questa una visione dovuta al fondatore dell’economia moderna, Adam Smith, secondo il quale, quando i mercati sono lasciati funzionare per conto loro, senza che un’autorità sovraordinata pretenda di dirigerli, producono il massimo vantaggio per i singoli individui che vi operano, indipendentemente dalla loro intenzionalità, ma anche per l’intera collettività.
L’errore di chi, acriticamente, prende che sia considerata valida la visione smithiana consiste, secondo Kaushik Basu [economista indiano e docente presso la Cornell University di Ithaca nello Stato di New York e autore di “Oltre la mano invisibile. Ripensare l’economia per una società giusta”], nel non rendersi conto che il libero mercato della tradizione manualistica della teoria economica, pur avendo le qualità che le vengono attribuite, essa però è irrealistica; da ciò consegue che è privo di senso pensare che l’avvicinarsi “al modello di un mercato perfettamente libero” serva a condurre l’umanità “verso una qualche sorta di ideale sociale”.
L’assunto sottostante la concezione ortodossa del libero mercato è che la ricerca dell’interesse personale vada sempre a beneficio della società; ma questo assunto – a parere di Basu – implica che non esista alcun conflitto tra l’interesse individuale e l’interesse collettivo dell’intera società. Sebbene la visione smithiana del mercato possa apparire ovvia, occorre tenere presente – afferma Basu – che l’assunto del libero mercato regolato dalla mano invisibile è rimasto senza dimostrazione per tanto tempo, sino a quando esso, a Novecento inoltrato, è stata dimostrata la sua validità formale, da parte di alcuni autori, tra i quali spiccano i nomi di Kenneth Arrow e Gèrard Debreu. Questi autori hanno formalmente dimostrato che, date certe condizioni iniziali, tutti gli individui, perseguendo il proprio interesse egoistico, conducono il sistema sociale ad uno stato ottimale; questa dimostrazione formale è divenuta nota come “primo teorema dell’economia del benessere”.
Il teorema non implica che l’assunto del libero mercato affermi qualcosa di sbagliato; le proposizioni in cui il teorema si articola, però, sono proposizioni condizionali, fondate su un sistema di ipotesi che valgono ad introdurre un insieme di condizioni iniziali che si suppongono date; queste, in quanto tali, valgono ad allontanare l’idea del mercato competitivo autoregolato dalla realtà. Un aspetto essenziale della condizioni iniziali è l’idea che il mercato e il funzionamento del sistema economico possano essere separati dalla società e dalle sue istituzioni politiche, mentre per poter valutare come realmente funziona il mercato occorre valutare congiuntamente le relazioni che intercorrono tra mercato, funzionamento del sistema economico, istituzioni politiche e società; non farlo – afferma Basu – costituisce un limite grave al funzionamento stabile e socialmente giusto del sistema economico. Llimite, questo, che sta alla base del conservatorismo di gran parte della teoria economica standard.
Pertanto, l’idea che un mercato interamente libero costituisca un obiettivo ideale da perseguire per ottimizzare la soddisfazione dell’interesse individuale e collettivo poggia su basi realisticamente improbabili. Queste basi sono un mito: “un mito – afferma Basu – che ha prodotto effetti di vastissima portata sul modo di valutare le decisioni di politica economica” e sulla possibilità di realizzare un ordine economico più stabile e socialmente equo. Poiché del primo teorema dell’economia del benessere, in virtù della sua forza intellettuale, ma anche del suo grande fascino estetico, se considerato isolatamente, ne è stato fatto un uso irragionevole, sino a comportare conseguenze negative riguardo al modo in cui sono decise le politiche economiche, Baso, col suo libro, intende criticare il pensiero economico dominante, per proporre un punto di vista alternativo riguardo al modo di funzionare dell’economia.
Lo scopo dell’economista indiano è di mostrare che il mercato può funzionare in modo diverso rispetto a quello assunto sulla base del mito della mano invisibile, per sostenere che i processi economici e sociali non si svolgono secondo ipotesi fideistiche, ma sulla base di una governance politicamente adottata e socialmente condivisa. L’efficienza e l’equità di un’economia di mercato – afferma Basu – sono “strettamente connesse alla natura della governance e delle istituzioni collettive di una società”. Ciò, peraltro, è quanto stabilisce il secondo “teorema dell’economia del benessere”, che i sostenitore del libero mercato incondizionato ignorano nelle loro analisi.
Il secondo teorema, infatti, ridimensiona il mito smithiano, affermando che, modificando opportunamente le dotazioni iniziali dei componenti il sistema sociale attraverso politiche ridistributive, un’economia concorrenziale consente di raggiungere qualsivoglia stato sociale ottimale, in corrispondenza del quale è massimizzata l’utilità collettiva. Se si considera anche questo secondo teoreme, diventa chiaro – sottolinea Basu – che, se si vuole che il sistema sociale disponga di un’economia efficiente ed equa sul piano distributivo, occorre un governo del mercato ed istituzioni politiche idonee a contenere le disuguaglianze; se queste sono associate a situazioni di povertà, come capita spesso nei sistemi capitalistici, occorrerà combattere per prima quest’ultima, in quanto, sebbene le disuguagluanze siano di per sé un male, esse possono essere tollerate se servono a sconfiggere la povertà.
Cercare di conseguire miglioramenti dello stato sociale, anche attraverso politiche economiche dagli effetti limitati sul piano del cambiamento, non significa che queste politiche siano compatibili con lo scopo più generale di realizzare un mondo migliore; esse servono – sottolinea Basu – “a tener vive le speranze di riforme più generali, capaci di eliminare la povertà dal pianeta […] e di riportare la disuguaglianza, oggi schizzata ad altezze incomprensibili, a livelli più tollerabili”. Un mondo siffatto non sarebbe “semplicemente efficiente, come vogliono essere le economie di mercato, ma anche giusto”, da risultare perciò meno instabile sul piano politico, sociale ed economico. Il fatto che si rinunci a realizzare questo stato del mondo, vale solo a dimostrare che “la forma di capitalismo a cui gran parte del mondo si affida o a cui gran parte del mondo aspira è un sistema clamorosamente iniquo”.
Ciò accade, a parere di Basu, perché i “corifei” della teoria economica tradizionale hanno concorso a radicare il convincimento che basti perfezionare il sistema vigente perché tutto vada bene; si tratta di un convincimento propagato, a volte consapevolmente e a volte no, nell’interesse di chi ha da guadagnare dalla permanenza dell’iniquità del sistema.
L’aspirazione a un cambiamento dello stato esistente del mondo sarebbe irrazionale se esistesse una qualche legge che dimostrasse l’immodificabilità dello status quo; ma poiché il secondo teorema dell’economia del benessere dimostra la possibilità di realizzare altri sistemi sociali alternatici a quello esistente, è giusto – afferma l’economista indiano – cercare di mitigare “la nostra propensione all’egoismo”, senza impegnarci instancabilmente a cercare di cogliere ogni vantaggio che ci si presenta.
In conclusione, è giusto aspirare a realizzare consapevolmente, senza che ci si affidi a presunte autonome capacità di regolazione del libero mercato, un mondo migliore ed è anche giusto pensare di poterlo realizzare sebbene non risulti compatibile con il sistema degli incentivi descritto dai manuali dell’economia tradizionale a supporto del comportamento razionale dal punto di vista economico. E’ giusto pensare di poter realizzare tutto ciò, soprattutto da parte di coloro che si trovano in stato di necessità, senza averne colpa, all’interno di sistemi sociali dotati di tante risorse da consentire di poter funzionare in condizioni di massima efficienza, pur realizzando una società giusta e solidale.
Soprattutto, in generale e in linea di principio, è giusto pensare, indipendentemente dallo stato di bisogno di ciascuno, di poter rimuovere il mito della mano invisibile, coltivato e conservato dai sostenitori del sistema vigente; soprattutto se questi ultimi si conservano sempre disposti a sostenere che la povertà di una parte della società è l’esatta misura della sua produttività e che la sua costante presenza è essenziale per non alterare gli incentivi necessari per realizzare un “reddito medio” più elevato, unico e valido parametro in base al quale misurare la rimozione della piaga dell’indigenza e dell’ingiustizia. Il conservatorismo sarà duro a morire, ma l’esperienza storica ha lasciato in eredità delle generazioni presenti un’esperienza da non permettere sonni tranquilli per chi persevera nel sostenere, a tutti i costi, per buona una visione della società che la ragione rifiuta.

Dibattiti

fiore VillEcco come e perché il reddito di cittadinanza ci conquisterà
Quella proposta dal M5S è una misura economica antica, ed è già presente in molte forme in vari paesi del mondo. Ecco cos’è e come funziona

di Rick Deckard
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Da LINKiesta 11 Luglio 2016 – 10:20

Nel dibattito politico italiano si è affacciato da poco il tema del cosiddetto reddito di cittadinanza universale. L’ipotesi, avanzata – sebbene in modo piuttosto generico dal Movimento Cinque Stelle, è stata – anche di recente – respinta in modo molto fermo da altre forze politiche. Ma di cosa si parla non è ben chiaro: quindi si rendono necessarie alcune puntualizzazioni.

L’idea alla base della misura è tutt’altro che nuova. Addirittura nel 1797, Thomas Paine, uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America. rifletteva sul fatto che per “comprare” consenso sociale per i diritti della proprietà privata, i governi avrebbero dovuto pagare a tutti i cittadini 15 sterline all’anno.
Il concetto non è né di sinistra né di destra. Si sono mostrati favorevoli al reddito di cittadinanza economisti ed intellettuali dalla più diversa formazione. Dal notissimo Milton Friedman della Scuola (ultraliberista) di Chicago a Charles Murray, libertario dell’American enterprise Institute; a Andy Stern, un noto rappresentante delle Unions americane, fino a Paul Mason visionario autore del recente saggio Postcapitalismo.

Il reddito di cittadinanza è un termine molto generico e ricomprende varie misure. Tanto che è presente – in varie e diversificate forme – in tutti i paesi europei, con la sola esclusione di Croazia, Grecia e – tanto per cambiare – Italia.
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I GIOVANI E LA DISOCCUPAZIONE. LE SOLUZIONI NASCONO DALLA PARTECIPAZIONE

quarto stato 2
di Franco Meloni*

Quasi come un bollettino medico di un malato grave, i rapporti trimestrali dell’andamento dell’occupazione in Sardegna segnalano variazioni sui relativi dati, ora positive ora negative, che sostanzialmente confermano uno stato complessivo di perdurante infermità. L’ultimo, relativo al primo trimestre 2016, da conto di un aumento del tasso di disoccupazione dello 0,6% rispetto allo stesso periodo dello scorso anno raggiungendo il 18,8% (1). Tra i dati, tutti disponibili sui siti dell’Istat e della Regione Sarda (Sardegna Statistiche), quello più disastroso si riferisce alla disoccupazione giovanile, pari al 56,4% (2), che assegna alla Sardegna un posto tra le peggiori regioni dell’Unione europea. Le serie storiche dei dati riferiti alla Sardegna mostrano una situazione di “ritardo di sviluppo” non riconducibile semplicemente all’attuale grave crisi dell’intero sistema economico a livello nazionale ed europeo, che, peraltro ne determina un aggravamento. Siamo infatti sempre più vittime dei nuovi equilibri a livello globale che si basano sulla progressiva diminuzione dell’occupazione, sulla perdita di tutele contrattuali, su un basso livello dei salari e su una distribuzione inequa del reddito, caratterizzata dall’acuirsi della forbice economica tra alti salari/rendite (concentrati nelle mani di pochi), mancanza di reddito o redditi di sussistenza (la maggioranza). Ne consegue l’aumento della povertà che colpisce sempre più vasti settori della popolazione, aggredendo anche i ceti medi, fino a qualche anno fa non colpiti. Come si è già osservato, questa situazione è generalizzata in quasi tutti gli stati a livello planetario. Limitando la nostra attenzione a quelli dell’Unione Europea, possiamo osservare diversi gradi di gravità nelle diverse regioni in cui sono articolati, in Sardegna tra i più accentuati.
Che fare allora? Per dirla con uno slogan di altri tempi, che potrebbe suonare massimalista: si può uscire dalla crisi solo se si esce dal capitalismo in crisi. Micca facile!
Se questa è la portata dei problemi, cosa possiamo fare noi, specificamente in Sardegna, che siamo piccoli e quasi irrilevanti nel mondo globalizzato? La risposta è che non dobbiamo rassegnarci, dobbiamo invece per quanto è possibile, come è realisticamente possibile, praticare al nostro livello soluzioni diverse o parzialmente diverse da quelle dominanti, che ogni giorno ci impongono con sistemi più o meno coercitivi. Come? Innanzitutto facendo resistenza sulla base dei nostri interessi di cittadini e di lavoratori. Cioè, dobbiamo partire da questi e non dalle “compatibilità” del sistema dominante. Usciamo dall’astratezza. Il lavoro è un diritto? Certo, ma è un diritto negato a vasti strati della popolazione. E allora organizziamo le leghe per il lavoro (o chiamatele come vi pare), appoggiandoci alle organizzazioni dei lavoratori (per quanto siano coinvolgibili) e alle Istituzioni più vicine ai cittadini, come i Comuni (per quanto sappiano rappresentare anche i ceti più deboli). E con queste organizzazioni difendiamo il lavoro esistente e creiamo nuovo lavoro, utilizzando tutte le possibili opportunità, per esempio quelle fornite dai fondi pubblici, specie europei, spesso inutilizzati o spesi male. Ma, si dirà, è una vecchia ricetta, che non ha dato in passato grandi risultati. E’ vero, ma il fatto nuovo, la carta vincente, è il coinvolgimento delle persone, che non devono delegare, se non in certa misura, ad altri la risoluzione dei loro problemi. E devono attivarsi in prima persona nei confronti di quanti detengono il potere, a tutti i livelli, per rivendicare politiche per il popolo. In sostanza, si tratta di praticare in tutti i campi la “partecipazione dal basso”, anche a piccoli gruppi, con il criterio delle isole che a poco a poco assumono la dimensione di arcipelaghi. Tutto ciò è riduttivo? Può darsi, ma è quanto si può fare, da subito, nella fiducia che solo il popolo salva il popolo. L’impostazione di questo nuovo protagonismo popolare, che non ci preoccupiamo possa essere irriso come “populismo”, ha un grande e credibile suggeritore: Papa Francesco, che nel solco della dottrina sociale della Chiesa, ci esorta a non rassegnarci e ad assumere iniziative creative con e per il popolo, che spiega con chiarezza nella parte dell’Esortazione apostolica Evangelii Gaudium dedicata alla Crisi e alla Dimensione sociale dell’Evangelizzazione.
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(1) 18% per i maschi e 20% per le femmine.
(2) riferito alla popolazione di età compresa tra i 15 e i 24 anni.
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* L’editoriale è apparso sul numero 14 di domenica 10 luglio 2016 del periodico della Diocesi di Ales-Terralba, “Nuovo Cammino”.
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E il lavoro?

“In Sardegna 260.000 disoccupati”: i sindacati contro la Giunta Regionale
Oggi alle 15:02, Mario Mareddu su L’Unione Sarda online

Insoddisfatti, delusi e preoccupati, il giudizio dei sindacati è unanime: “Le misure sono totalmente insufficienti, sul lavoro la Giunta regionale non ha ottenuto i risultati che aspettavamo”.
Sul lavoro, quindi, è una bocciatura netta quella di Cgil, Cisl e Uil contro il presidente Pigliaru e l’esecutivo regionale.
Il dato della disoccupazione in Sardegna è preoccupante. “Ci sono 127.000 persone disoccupate”, che rappresentano il 18% circa della forza lavoro isolana, “ma se consideriamo la disoccupazione implicita”, che include non solo chi ha perso il posto di lavoro ma anche gli scoraggiati, “il dato sale a 260.000 persone senza lavoro”, ovvero il 32,7%, soprattutto nella fascia di età tra i 15 e i 29 anni.
Il pacchetto di misure per il lavoro che la Regione ha approvato a giugno del 2015 metteva in campo risorse per quasi 325 milioni di euro.
Nell’ultima Finanziaria, invece, le risorse disponibile per le politiche del lavoro sono diminuite a 212 milioni (ovvero il 34% in meno di quelle previste dal piano). – segue –