Economia & Lavoro
Oggi giovedì 11 ottobre 2018
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Gli Editoriali di AladinewAladinAladinpensiero
INTERNAZIONALE. La Cina investe in (si prende l’?) Africa.
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ALLARME MALTEMPO – Esprimiamo solidarietà e vicinanza alle popolazioni cosi gravemente colpite da condizioni meteo avverse. Dopo la grande sete delle passate stagioni, quando si invocava la pioggia perfino con le processioni religiose, è arrivata la grande abbondanza di pioggia con effetti catastrofici. Al momento non si registrano vittime, e questa è già una grande fortuna. I danni sono ancora da valutare ma saranno certamente di grande entità. In questi giorni non servono analisi e valutazioni sulla scarsa attenzione alle strutture viarie e al governo del territorio, ci sarà tempo per parlarne. Ora è il tempo della solidarietà e dell’aiuto materiale e morale. Dovremo sentirci uniti nel richiedere a politici e funzionari da fare quanto in loro potere per tutelare la sicurezza della gente e il ripristino di condizioni di vita migliori, appena possibile. Si comincia ad avere notizia di episodi spontanei di grande solidarietà attivate da privati (locali aperti per ospitare i viaggiatori, offerte di aiuto e servizi). I Sardi sapranno fare la loro parte. Un abbraccio a tutti.(Lettori/vt).
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Canea reazionaria per 780 euro agli indigenti ed altro. Che fare?.
11 Ottobre 2018
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
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In argomento un intervento del direttore di Aladinews*.
Suvvia! Il reddito di cittadinanza bollato come la rovina dell’Italia!
Intervengo limitatamente alla questione del “Reddito di cittadinanza”, associandomi allo stupore (si fa per dire) e alla stigmatizzazione di Andrea Pubusa (su Democraziaoggi) per la reazione a questa misura da parte di “istituzioni europee e internazionali, grandi gruppi editoriali e destra”, uniti in una “canea reazionaria per 780 euro agli indigenti”. Purtroppo a questi si aggiungono anche intellettuali progressisti di area cattolica, cito per tutti il prof. Leonardo Becchetti (https://www.aladinpensiero.it/?p=87954), che arriva addirittura a dare ragione a Renato Brunetta (intervistato dal quotidiano cattolico Avvenire del 28 settembre 2018.), che della manovra governativa boccia, guarda caso, soprattutto e in modo puntiglioso il “reddito di cittadinanza”, additato come sicuro responsabile della imminente rovina dell’Italia. In questo dimostrando ignoranza e malafede. [segue]
E’ online il manifesto sardo duecentosessantanove
Il numero 269
Il sommario
Le bambine del ‘68 (M. Tiziana Putzolu), Turchia e dintorni. Origini del nazionalismo turco (Emanuela Locci), Stop alla proposta di legge regionale sarda sul governo del territorio, la legislatura finisce qui (Stefano Deliperi), Curare le ferite della sinistra e ripartire senza bandierine (Marco Revelli), L’epilogo malinconico della legge urbanistica (Alan Batzella e Sandro Roggio), La “dignità del lavoro” non può essere garantita dalla flessibilità occupazionale (Gianfranco Sabattini), Una brutta manovra da non sottovalutare (Alfonso Gianni), Manifesto per la 17° marcia della pace Gesturi Laconi (red), Festa dei popoli 2018 (red), La paura ha sempre un biscotto in tasca (Rita Sedda).
Documentazione su Reddito di Cittadinanza, Rei, Reis, Reddito minimo garantito e dintorni
Questo video, realizzato dal gruppo politico del M5Stelle del Parlamento europeo, tratta della diffusione degli Istituti che (impropriamente) vengono ricondotti al Reddito di Cittadinanza. A parte la confusione terminologica, il documento appare molto utile per quanto da conto delle misure politiche di sostegno al reddito dei “cittadini privi di mezzi sufficienti a consentirne una vita dignitosa” nei diversi paesi europei aderenti all’UE, con la deplorevole assenza dell’Italia (almeno fino all’introduzione del Rei con decorrenza 1° dicembre 2017) e della Grecia. Ecco il video.
La Sardegna si mobilita al fianco dei pastori. Il Movimento Pastori Sardi in piazza a Cagliari mercoledì 2 Agosto. Pubblichiamo il documento del MPS invitando i nostri lettori ad aderire alla manifestazione. Concentramento a Cagliari in Piazza Marco Polo alle ore 9.
MOVIMENTO PASTORI SARDI
Pastori, Agricoltori, Cittadini, la situazione che il mondo delle campagne sta vivendo è drammatica, nell’arco di due anni abbiamo perso circa il 50% del valore del latte e il 40% dal valore delle carni e come se non bastasse, da due anni subiamo le conseguenze di una delle più gravi siccità. Come Pastori, con il latte a 50/60 centesimi, non siamo più in grado di continuare a soddisfare il fabbisogno dei nostri animali. Come Agricoltori, con il crollo dei prezzi e delle produzioni, siamo allo stremo e ormai impossibilitati ad affrontare l’inizio di una nuova campagna agraria. COSì NON SI PUO’ ANDARE AVANTI. E’ necessario che l’Amministrazione Regionale intervenga immediatamente per salvare il patrimonio zootecnico, destinando risorse immediate pari ad un quintale di mangime per capo e nel contempo, attivi tutte le procedure per il ristoro dei danni causati dalla calamità naturale, compreso il blocco delle cambiali agrarie, l’azzeramento dei pagamenti INPS e il blocco dei procedimenti di Equitalia. La Regione Sardegna dovrebbe, inoltre, in maniera urgente liquidare tutte le vecchie pratiche di PSR (Piano Sviluppo Rurale) ed anticipare al mese di Settembre-Ottobre il pagamento delle nuove pratiche PAC (Politica Agricola Comunitaria) e PSR come già fatto in passato da altre regioni più virtuose. Ma non ci basta! Chiederemo alla politica Regionale dove sono finite le promesse del 2014 in materia di infrastrutture come l’energia elettrica, la viabilità aziendale, l’acqua potabile e la creazione di centri di raccolta e refrigerazione latte diffusi nel territorio regionale. Chiederemmo una riforma radicale del sistema dell’Amministrazione Agricola. Su questi argomenti il Movimento Pastori Sardi ha convocato una Manifestazione con corteo Cagliari mercoledì 2 Agosto 2017 concentramento Piazza Marco Polo (antistante fiera Campionaria ) alle ore 9:00 conclusione Via Roma davanti al Consiglio Regionale. Siliqua, 19/07/2017.
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Trasporti: i Vescovi sardi denunciano la disastrosa situazione della Sardegna
Problema trasporti in Sardegna
In vista del G7 sui Trasporti che si terrà a Cagliari il prossimo 21- 22 giugno, la Conferenza Episcopale Sarda intende offrire una propria riflessione su alcuni dei più vistosi e preoccupanti problemi che investono la nostra Isola in questo delicato e determinante settore, perché possano trovare risposte adeguate nell’importante summit.
La Sardegna è il territorio insulare europeo geograficamente più isolato rispetto al continente; ha un mercato interno molto ridotto (un milione e 680mila residenti) e disperso (68 abitanti per chilometro quadrato).
L’insularità determina non solo un incremento dei costi, ma crea anche discontinuità, ritardi e debolezza nelle connessioni e nei processi di diffusione spaziale dello sviluppo.
In questa debolezza strutturale il trasporto svolge un ruolo fondamentale, perché i limiti e le carenze del sistema trasporti fanno aumentare i costi di produzione, quindi il prezzo delle merci e dei servizi venduti.
In Sardegna – è stato calcolato dalla Regione – le merci viaggiano con un extra-tempo di 16 ore 6 minuti in inverno e 5 ore e 39 minuti in estate rispetto a una regione continentale. Per i passeggeri, invece, l’extra-tempo è di 17,34 ore in inverno e 6,67 in estate. Ciò vuol dire, considerando il volume di traffici, un costo aggiuntivo di 286 milioni di euro per le merci e di 374 milioni per le persone, pari a una spesa totale di 600 milioni nel solo trasporto marittimo.
Sempre sui trasporti, emerge il problema della rete ferroviaria interna su cui la Sardegna ha un indice di infrastrutturazione del 17,4 (su 100). Il dato è stato ricavato misurando il tracciato sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo e rapportandolo alla superficie totale dell’Isola e al numero di abitanti. -segue-
SardegnaCheFare? Rapporto Crenos 2017: la consegna è sorridere, ma purtroppo la realtà ci dice che non c’è ragione di farlo
UNA QUESTIONE DI ASSUNZIONE DI RESPONSABILITA’ DIFFUSA
di Marco Zurru, su fb
Ho appena finito di leggere la Sintesi del 24° Rapporto Crenos, presentato ieri mattina [26 maggio] a Cagliari. Appena posso metto mano all’intero Rapporto, anche se il quadro della situazione socio-economica dell’Isola è già abbastanza chiaro e deprimente che si potrebbe magari evitare di aggravare il proprio stato di avvilimento fermandosi qui, alla Sintesi…
Dunque, l’Isola primeggia ancora come una delle 65 Regioni dell’Unione europea più povere. Uno sfascio totale: il nostro PIL è inferiore del 30% della media europea. Ogni sardo, nel 2015, si è messo in tasca poco più di 15mila euro, più o meno quanto riusciva a guadagnare 20 anni fa.
Il tessuto industriale dell’Isola è diventata cosa minuscola se non evanescente rispetto alle rispettive dinamiche nelle altre regioni meridionali (per non parlare del resto d’Italia). La pastorizia pesa ancora molto (un quarto del totale degli imprenditori sardi fa il pastore e la quota del Pil prodotto è del 5% del totale, mentre altrove sono fermi al 2%). Ma pastori e altri imprenditori non riescono ad uscire dal “nanismo” dimensionale: imprese piccole, se non formate dal solo titolare.
Una delle note conseguenze è il bassissimo volume di occupazione presente e la sua qualità: creiamo poco lavoro, poco istruito, malpagato e in settori poco strategici dal punto di vista dell’innovazione tecnologica.
L’unico settore che “va bene” (si fa per dire…) è quello pubblico: “In Sardegna i settori legati alle attività svolte prevalentemente in ambito pubblico e ai servizi non destinabili alla vendita sono responsabili di circa un terzo del valore aggiunto complessivo, mentre le imprese che producono beni e servizi destinati al mercato hanno un peso relativamente esiguo, denotando una scarsa capacità da parte del sistema produttivo isolano di creare valore”.
Tradotto: senza lo Stato, nelle sue diverse articolazioni istituzionali, il volume di occupati e i differenti investimenti, la nostra ricchezza complessiva sarebbe solo il 70% di quella che oggigiorno disponiamo. SETTANTA PER CENTO IN MENO, lo ricordi chi si espone con superficiali e poco ponderati aneliti di indipendentismo…
Invece è presente anche quel 30% statale, i soldi li abbiamo tutti e, infatti, li spendiamo: una delle poche voci col segno + è quella dei consumi delle famiglie. Quasi sicuramente, continuiamo a spendere meno per mangiare e di più per fare i fighi con gli amici mettendo in evidenza il nostro ultramegaipernuovissimo modello di cellulare del cappero…
In compenso i fattori che alimentano la crescita possono continuare a farci una sonora pernacchia, più o meno come stanno facendo da un trentennio: le nostre Università laureano appena il 18,6% dei giovani trenta/trantaquattrenni sardi. Solo Sicilia e Campania fanno peggio di noi rispetto a ciò che, mediamente, è capace di fare la UE (39%).
In compenso/bis la “produzione” di laureati nelle discipline “hard”, quelle tecnico-scientifiche – storicamente capaci di innestare processi di innovazione nelle realtà economiche – è a dir poco ridicola: 17,8%, più o meno la metà di ciò che è mediamente capace di fare l’Europa.
In compenso/ter anche le altre istituzioni dell’offerta di istruzione non se la passano meglio: il 23% dei sardi tra i 18 e i 24 anni ha interrotto il proprio percorso scolastico e formativo avendo conseguito al massimo la licenza media. Solo la Sicilia in tema di abbandono scolastico fa peggio di noi in Italia e “solo” 239 regioni europee (su un totale di 254) fanno meglio di noi…
Però il turismo va meglio e blablabla.. forse è il caso di allungare le stagioni turistiche e blablabla…
Dunque. Senza offender nessuno, è arrivato il momento di sdoganare non solo una parola, ma tutto il volume di significati che la stessa ha acquisito in quasi un secolo di produzione scientifica e non: siamo in una condizione, ormai strutturale, di SOTTOSVILUPPO.
E’ ridicolo girarci attorno, usare dizionari ah hoc, evitare di assumere toni drastici (mantenendo simpatiche, quanto pericolosamente cretine, ricette zuppe di riserve di facile ottimismo sulle nostre sorti): siamo una regione sottosviluppata.
Se siamo ancora a galla e la testa non scivola sotto il pelo della melma, è solo grazie alla produzione di ricchezza che arriva dalla componente statale. Lo Stato, piaccia o non piaccia, ha in mano la cordicella a cui è legato il salvagente a cui è disperatamente aggrappata la Sardegna.
Alle diverse latitudini istituzionali – sia di tipo politico, che amministrativo, imprenditoriale, delle rappresentanze degli interessi, universitario, scolastico – si dovrebbe pigliare seria consapevolezza della condizione di sottosviluppo dell’Isola.
Si dovrebbe iniziare ad annichilire qualsiasi narrazione e retorica sulle fasulle condizioni sociali ed economiche dell’Isola. Si dovrebbe iniziare a smettere di ragionare ed agire “a compartimenti stagni”, come se ciò che accade in un ambito non abbia rilevanti e durature conseguenze negli altri.
Si dovrebbe assumere una responsabilità diffusa, ché non è “colpa” di alcuno in particolare se siamo finiti in questa condizione, ma – anche se in modi e con pesi diversi – di tutti, sia nella sfera della produzione, che in quella politica, amministrativa, educativa e finanche in quella del consumo. La colpa è di tutti, e tutti, nei confini delle possibilità che attengono ai propri ruoli, dovremmo sentirci moralmente impegnati per il bene comune, che è di tutti, mio come tuo.
Sulle modalità e le forme attraverso cui ciò può tradursi in azione non esiste alcuna ricetta: quelle provate per risollevare le sorti della nostra Isola (che siano soldi e investimenti che arrivano da fuori, che siano strutture e modalità produttive che arrivano da fuori, che siano modalità di indurre cooperazione dal basso, etc etc..) a volte non hanno funzionato e a volte hanno funzionato, ma a cappero.
Non esiste una ricetta, ma mille modi di tradurre delle energie in azione: ma una volontà di azione senza spinta etica si riduce a banale, contingente e, spesso, opportunistica e fugace opportunità.
Per ora mi accontenterei del livello della coscienza; una piena consapevolezza del nostro stato di sottosviluppo. Poi, magari, se ci si “sprama” qualcosa nella sfera dell’etica accade, e poi in quello dell’azione… Però basta dirci balle, basta…
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SardegnaCheFare?
Una tassa sui robot?
Dalla meccanizzazione alla cibernetica, dai mainframe all’informatica distribuita e alle reti, dal silicio alle reti neurali e ai computer quantici, dall’intelligenza artificiale alla robotica nel tempo di internet degli oggetti.
I intervento
di Fernando Codonesu*
La proposta alquanto bizzarra di mettere una tassa sui robot in quanto causa di espulsione di migliaia di lavoratori dai processi produttivi formulata recentemente da Bill Gates, proprietario di Microsoft e ancora uomo più ricco del mondo anche nel 2016 secondo le rilevazioni di Forbes, ha suscitato un ampio dibattito a diverse latitudini del mondo, non solo tra gli addetti ai lavori.
Eppure, nonostante arrivi da una personalità di così grande rilevanza per il ruolo avuto negli ultimi 40 anni di storia dello sviluppo tecnologico, produttivo e socio economico dell’intero pianeta, alla luce proprio della storia e di una lettura attenta dei diversi fatti accaduti prima nella ricerca e quindi nella scienza applicata e nella tecnologia, non si può che ritenere tale proposta del tutto sballata e fuori luogo: poco più di una boutade!
La controprova è perfino banale: quanti lavoratori sono stati espulsi dall’agricoltura a seguito della sua meccanizzazione? Al riguardo a qualcuno è mai venuto in mente di tassare i trattori che non solo hanno eliminato buoi e cavalli dai lavori agricoli, ma anche milioni di contadini e braccianti dal lavoro della terra?
Lorenzo Pinna, nel suo libro Uomini e macchine pubblicato da Bollati Boringhieri nel 2014, ci ricorda che solo nell’Inghilterra a metà dell’Ottocento vi erano 3,5 milioni di cavalli da lavoro, ridotti a poco più di un milione agli inizi del Novecento per ridursi nel periodo post prima guerra mondiale ad appena 30.000.
I cavalli, e i buoi ad altre latitudini, sono stati sostituiti dalle macchine semplicemente perché dallo stesso terreno era possibile ottenere maggiori raccolti lavorando di meno e a costi molto più bassi.
Il noto economista Wassily Leontief parlando di quel tempo in uno scritto del 1983 ci ricorda “Siamo all’inizio di un processo che porterà in trenta-quarant’anni molte persone a rimanere senza lavoro, creando gravi problemi di disoccupazione” (1).
Ma torniamo per un momento alle trasformazioni occorse nell’organizzazione del lavoro agricolo negli Stati Uniti nel periodo 1860-1960, quando la popolazione occupata nelle campagne passò da oltre il 50% a meno del 2%. La tabella seguente, tratta dall’opera di Pinna già citata, esemplifica meglio di qualunque descrizione la manodopera necessaria per la produzione di grano negli USA negli anni venti del Novecento in funzione della varie tecniche agricole.
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Tecnica di produzione agricola e Lavoratori necessari
Zappa 6.000.000
Aratro trainato da buoi 1.000.000
Aratro tecnicamente avanzato del 1855 500.000
Aratro a dischi trainato dal trattore, 1920 4.000
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Numeri terribili, come possiamo notare, ma nessuno ha contestato questo trend di sviluppo per ritornare indietro nel tempo!
Certo conosciamo ciò che successe in Inghilterra nel periodo dell’introduzione del telaio Jacquard nel settore tessile, con l’ostilità che ne seguì fino a sfociare in un vero e proprio movimento di opposizione e sabotaggio noto come Luddismo, dal nome del suo principale esponente (2). Ma quelli erano altri tempi e, comunque, niente a che vedere con la statura imprenditoriale e qualità dell’intervento nell’innovazione ricoperta da Gates prima con il sistema operativo MS/DOS che equipaggiava il primo personal computer IBM del 1981 e successivamente con il sistema Windows.
Oggi i sistemi Windows nel mondo rappresentano oltre il 90% del mercato, il sistema MAC OS di Apple rappresenta appena il 7% e il sistema Linux è utilizzato nell’1,5% dei computer e server di rete. Insomma la gigantesca ricchezza personale di Gates, ben 70 miliardi di euro nel 2016 secondo Forbes, deriva da queste quote di mercato: come mai non ha proposto una tassa su ogni computer Windows diffuso nel mondo e si è lanciato contro i robot?
Semplicemente perché non è la sua Microsoft a costruirli!
Per comprendere appieno la rivoluzione in atto provocata dall’informatica, dall’elettronica e dalla robotica nei processi produttivi, vale la pena ricordare per sommi capi alcune pietre miliari della produzione scientifica e tecnologica che ci ha permesso di arrivare al livello sperimentato e conosciuto dell’attuale sviluppo tecnologico per comprendere quali siano state e dove potranno arrivare nel giro di due o tre decenni le influenze indotte nell’organizzazione del lavoro dalla tecnologia ICT (Information and Communication Technology) e indicare qualche possibile proposta al riguardo.
Limitandoci all’immediato dopoguerra si ricorda che con la costruzione del primo transistor alla fine del 1947 presso i laboratori della Bell, da parte del gruppo composto da Shockley, Bardeen e Brattain, che per questo risultato guadagneranno il premio Nobel nel 1956, non solo viene rivoluzionata la telefonia, ma tutta l’elettronica. L’industria nascente dell’informatica riprogetta e ricostruisce i grandi computer del tempo, i cosiddetti mainframe, a partire dall’ENIAC costruito nel 1946, un gigante elettronico che occupava uno stanzone di 150 mq, costituito da 18.000 valvole termoioniche, decine di migliaia di componenti come resistenze, condensatori e induttori, con una dotazione di cavi che arrivavano fino al soffitto. Grazie al transistor vengono sostituite le ingombranti valvole termoioniche, riducendo drasticamente le dimensioni di tutti gli apparati elettronici e migliorando vertiginosamente tutte le prestazioni di calcolo. In effetti l’ENIAC fu messo in crisi anche dal genio di John von Newmann, grande matematico di quel periodo e scienziato noto in tutto il mondo. In effetti egli osservò che il punto debole dell’ENIAC era che risultava privo di uno “schema logico universale”. Infatti esso doveva essere ricablato mediante nuovi e diversi contatti dei cavi di collegamento a seconda delle prestazioni di calcolo richieste, mentre con i suoi suggerimenti si arrivò subito all’individuazione della memoria come luogo dove scrivere le istruzioni di funzionamento. Da qui ci fu la nascita dell’attuale modello dei calcolatori e lo sviluppo dei linguaggi di programmazione, così come li conosciamo ancora oggi, ma su questo si tornerà ancora negli interventi che seguono.
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1. Wassily Leontief e Faye Duchin, The Impacts of Automation on Employment, 1963-2000. New York University, New York, 1983.
2. Dal nome dell’operaio Ned Ludd che nel 1779 avrebbe sabotato un telaio.
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* Articolo pubblicato anche su Democraziaoggi
PUNTA de BILLETE ARREGORDARI’ per sabato 8 aprile 2017
Ciao a tutti, per sabato 8 aprile alle ore 17,00 stiamo organizzando come Confederazione Sindacale Sarda, Associazione Riprendiamoci la Sardegna, Assotziu Consumadoris Sardigna – Onlus, nella sala parrocchiale di San Massimiliano Kolbe, a Cagliari in Via Sulcis, quartiere di Is Mirrionis, un Incontro – Dibattito su: territorio, ambiente, salute, lavoro. E’ prevista la presentazione del video documentario “UN DOMANI PER PORTOSCUSO” del Regista Salvatore Sardu, il tutto coordinato dal giornalista Vito Biolchini. Sono invitati a partecipare tutti i rappresentanti delle associazioni e comitati impegnati sul tema del territorio, della salute, dell’ambiente e del lavoro. Sei invitato a partecipare anche TU.
Per gli organizzatori: Giacomo Meloni, Angelo Cremone, Marco Mameli.
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Oggi martedì 28 marzo 2017
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IX Corso di Educazione alla Solidarietà Internazionale Essere madri nel mondo globalizzato. Una prospettiva interculturale ed interdisciplinare.
Oggi 28 marzo 2017, alle ore 16, nell’aula Capitini, Facoltà di Studi umanistici a Sa Duchessa, si svolgerà il seminario conclusivo del IX Corso di educazione alla solidarietà internazionale, organizzato dall’associazione Sucania in collaborazione con la Fondazione di Sardegna, l’Università di Cagliari e la Fondazione Anna Ruggiu onlus.
Il tema: LA MATERNITÀ NEL CRISTIANESIMO.
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Editoriali di Aladinews. Democrazia partecipata: che bella parola… tutta da praticare, ma attenzione alla mistificazione della «partecipazione».
Su Aladinews
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Iniziative condivisibili per il LAVORO.
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Progetto Cercatori di LavOro.
Cercatori di LavOro: imparare dalle migliori pratiche del lavoro per il bene comune.
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OGGI lunedì 27 marzo 2017
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Editoriali di Aladinews.
SardegnaCheFare? EuropaCheFare?
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Lavoro e territorio: partire dalle vocazioni locali.
Fernando Codonesu su Democraziaoggi.
Domani. giovedì 23 marzo: presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani»
(CONFERENZA STAMPA) Presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani», promossa dall’Ucid di Cagliari
Domani, giovedì 23 marzo 2017 alle ore 10.30, presso la Sala Benedetto XVI della curia diocesana (Cagliari – Via mons. G. Cogoni 9) si terrà una conferenza stampa per la presentazione della «Scuola di formazione all’imprenditorialità per giovani» promossa dall’Ucid (Unione Cristiana Imprenditori Dirigenti) di Cagliari.
La proposta formativa, interamente gratuita, intende coinvolgere giovani tra i 20 e i 30 anni interessati a sviluppare motivazioni, consapevolezze e competenze per un orientamento all’imprenditorialità.
Interverranno:
- Mons. Arrigo Miglio, Arcivescovo di Cagliari: Saluti e introduzione
- Dott. Enrico Orrù, Presidente Ucid Cagliari: Presentazione dell’identità e della mission dell’Ucid
- Dott. Nicola Calace Salvemini, Responsabile formativo: Presentazione della Scuola di formazione
- Dott. Raffaele Pontis, Responsabile organizzativo: Indicazioni logistiche per le iscrizioni
Lavoro. La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico?
Le cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout
di Giovanni Marco Santini su LabSus 14 marzo 2017
La sussidiarietà può produrre lavoro e sviluppo economico? Si domandava Gregorio Arena in un editoriale di qualche anno fa. La risposta era ovviamente positiva, riferendosi alle opportunità legate all’applicazione del principio di sussidiarietà orizzontale per la riqualificazione del patrimonio pubblico. Ma rispetto alle imprese private, la sussidiarietà può salvare posti di lavoro? Per rispondere a questa domanda abbiamo letto la ricerca “Le nuove cooperative di produzione e lavoro e il fenomeno del workers buyout” portata avanti da Sara Depedri, Stefania Turri e Marcelo Vieta, nell’ambito di un progetto Euricse.
Il fenomeno del Workers Buyout
Un Workers Buyout (WBO) è un’acquisizione o un salvataggio di un’impresa da parte dei dipendenti che vi hanno lavorato. Un fenomeno sviluppatosi principalmente in Argentina, e più in generale nell’America Latina, ma che ha avuto fortuna anche in Francia, Spagna e Italia. La prima parte della ricerca si è concentrata sul caso italiano e sulle sue peculiarità: la lunga storia di cooperativismo, riconducibile già ai primi anni del ‘900, e la legge Marcora, emanata nel 1985 che stabilisce contributi alle cooperative costituite da lavoratori in cassa integrazione, agevolazioni finanziarie e un fondo che eroga prestiti a tasso agevolato per riconvertire le strutture industriali. Un meccanismo negoziato che richiede un approccio collaborativo tra tutti gli attori in gioco: i lavoratori, lo stato, le istituzioni cooperative. Le cooperative di lavoratori sono considerate, a ragione, uno strumento anticiclico per rispondere alla disoccupazione e alle contrazioni del mercato del lavoro. I dati mostrano una correlazione diretta tra congiunture economiche sfavorevoli e la nascita di WBO, testimoniato anche dal rinnovato utilizzo successivo alla crisi finanziaria del 2007.
La fotografia del fenomeno italiano
Lo studio ha analizzato le 243 cooperative che hanno sfruttato il meccanismo previsto dalla legge e ha cercato di capire il reale valore di queste esperienze e le caratteristiche del “modello italiano”. Dall’analisi emerge come il 75,5% dei WBO sia distribuito tra Centro e Nord Est, dato coerente con la natura di queste aziende, che per il 65,4% operano nel settore manifatturiero. Il fenomeno dei WBO riguarda principalmente le piccole imprese (tra i 10 e i 50 lavoratori) e le medie imprese (tra i 50 e i 250 dipendenti) che sono, rispettivamente, il 68,4%, e il 21,9% del totale; mentre sembra essere stato adottato i maniera più marginale nelle micro imprese (meno di 10 lavoratori) che sono l’8,8% del totale, e nelle aziende con più di 250 dipendenti, che infatti rappresentano solo lo 0,9%. Delle 243 cooperative analizzate 121 sono ancora attive (pari al 49,8). L’analisi dei dati dei WBO esistenti in Italia dagli anni ’80 pone in luce un buon tasso di sopravvivenza di queste realtà, con una vita media di poco inferiore ai 13 anni. Tale dato è inferiore alla vita media di tutte le cooperative italiane, pari a 17 anni, ma è quasi pari alla vita media delle imprese italiane (13,5 anni). Inoltre il 35,3% delle cooperative di lavoro recuperate ha avuto una vita attiva superiore ai 16 anni. La resistenza dei WBO in Italia è ulteriormente confermata se si considera che quasi l’85% dei WBO nati dal 2004 ad oggi sono ancora attivi. Le cooperative di lavoratori sembrano essere piuttosto resilienti e le motivazioni sembrano essere intrinseche al modello: il metodo democratico nel decision making, la preferenza data alla flessibilità piuttosto che al licenziamento, la maggiore disponibilità all’aggiustamento dei salari nei momenti di recessione e l’integrazione con le comunità locali. Una serie di elementi che ne favoriscono la robustezza.
Le caratteristiche principali
La ricerca individua quindi cinque caratteristiche relative all’emersione delle cooperative di lavoratori italiane. Innanzitutto la marcata correlazione tra recessioni macro economiche e aumento di autogestioni evidenzia il valore anticiclico di queste esperienze. La seconda caratteristica è rappresentata dalla propensione delle piccole e medie imprese a convertirsi in cooperative quando sono situate in una rete con altre imprese. Il terzo aspetto riguarda il processo produttivo, ossia le cooperative tendono a nascere in settori ad alta intensità di manodopera qualificata piuttosto che in quelli a forte intensità di capitale e manodopera non qualificata. La quarta caratteristica è relativa alla disposizione geografica dei WBO, questi infatti le sorgono laddove ci sono lavoratori specializzati e insediati geograficamente. Cinque, le cooperative tendono a nascere in realtà in cui esistono forti legami interni: le piccole e medie imprese hanno la giusta dimensione per favorire la solidarietà e meccanismi di partecipazione.
In conclusione possiamo dire che i WBO “tendono a promuovere politiche gestionali solidali volte prioritariamente alla tutela dell’occupazione, (…) facendo prevalere gli obiettivi sociali su quelli di profitto”, e così sembrano essere generati da quelle relazioni di condivisione che sono “l’essenza della sussidiarietà”. Ascrivendosi a pieno titolo tra le pratiche collaborative improntate alla sussidiarietà, i WBO si qualificano come “ammortizzatori sociali” e producono esternalità positive per i territori e le comunità in cui sorgono.
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RICERCHE
Sharing Economy
Maria Cristina Marchetti – 21 agosto 2016, su LabSus
Chissà quanti nel programmare le loro vacanze sceglieranno di alloggiare presso uno dei tanti appartamenti messi a disposizione da Airbnb o si rivolgeranno a Uber o a BlaBlacar per i loro spostamenti. Ebbene questi sono solo alcuni degli esempi di sharing economy sui quali la Commissione europea ha deciso di intervenire con una comunicazione dal titolo: “Un’agenda europea per l’economia collaborativa”.
Secondo la Commissione, “l’espressione ‘economia collaborativa’ si riferisce ai modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme di collaborazione che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati. L’economia collaborativa coinvolge tre categorie di soggetti: i) i prestatori di servizi che condividono beni, risorse, tempo e/o competenze e possono essere sia privati che offrono servizi su base occasionale (“pari”) sia prestatori di servizi nell’ambito della loro capacità professionale (“prestatori di servizi professionali”); ii) gli utenti di tali servizi; e iii) gli intermediari che mettono in comunicazione — attraverso una piattaforma online — i prestatori e utenti e che agevolano le transazioni tra di essi (“piattaforme di collaborazione”). Le transazioni dell’economia collaborativa generalmente non comportano un trasferimento di proprietà e possono essere effettuate a scopo di lucro o senza scopo di lucro”.
Con ricavi totali lordi che si attestano intorno a 28 miliardi di euro nel 2015 nella sola Unione europea e con una crescita stimata fino a 572 miliardi di euro, la sharing economy resta un fenomeno controverso che ha reso necessario l’intervento della Commissione.
Una delle questioni più dibattute è l’accesso al mercato, che rinvia ad un nuovo modello imprenditoriale nei confronti del quale la normativa vigente rischia di apparire inadeguata. “Una specificità dell’economia collaborativa – afferma la Commissione è che i prestatori di servizi sono spesso privati che offrono beni o servizi su base occasionale e “tra pari” (peer-to-peer)”. Una questione fondamentale diventa quella di distinguere tra i prestatori di servizi professionali e i prestatori tra pari, con riferimento alla necessità o meno di richiedere licenze o autorizzazioni.
Diverso ancora è il discorso per le piattaforme che si pongono come intermediari tra i prestatori di servizi e gli utenti finali. “Se — e in quale misura — le piattaforme di collaborazione possono essere soggette ai requisiti di accesso al mercato dipende dalla natura delle loro attività”. Possono infatti limitarsi a fare da intermediari oppure fornire a loro volta servizi sia agli utenti che agli intermediari.
La tutela degli utenti, la differenza tra lavoratore autonomo e subordinato, la fiscalità sono solo altre delle questioni sollevate dalla sharing economy nei confronti delle quali la Commissione sembra tenere un atteggiamento di apertura. “In considerazione dei notevoli vantaggi che possono derivare dai nuovi modelli imprenditoriali dell’economia collaborativa, l’Europa dovrebbe essere pronta ad accogliere queste nuove opportunità. L’UE dovrebbe sostenere in modo proattivo l’innovazione, la competitività e le opportunità di crescita offerte dalla modernizzazione dell’economia. Al tempo stesso è importante garantire condizioni di lavoro eque e una protezione sociale e del consumatore adeguata e sostenibile”.
Non mancano i dubbi sul fatto che la sharing economy non si avvii a diventare un altro modello di business in cui le piattaforme non si limiteranno a fornire l’infrastruttura digitale, ma agiranno come veri e propri imprenditori.
Ciò che resta interessante è che dietro questo fenomeno si intravede un mutamento culturale di lungo periodo, più volte segnalato dalla letteratura a partire dalla fine degli anni novanta (basti pensare all’era dell’accesso di Rifkin), che ridefinisce i modelli imprenditoriali conosciuti, ma anche le modalità di fruizione dei beni. È una rivoluzione culturale dalle implicazioni interessanti e degne di essere monitorate con attenzione negli anni a venire.
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a cura di Luigino Bruni, 4 ottobre 2014 su L’Avvenire
La filosofa della politica Jennifer Nedelsky, canadese, docente all’Università di Toronto, è una delle voci più innovative nel dibattito sui temi della cura, dei diritti e delle relazioni sociali, ed è convinta che nella nostra epoca ci sia una grande priorità che, invece e purtroppo, resta molto sullo sfondo della vita delle democrazie: il profondo ripensamento del rapporto tra lavoro e cura, e quindi tra uomini e donne, giovani e anziani, ricchi e poveri. Un tema essenziale in un mondo con sempre più vecchi e con vecchi che, grazie a Dio, vivono sempre di più.
Senza una svolta collettiva e seria nella cultura della cura in rapporto alla cultura del lavoro, è la democrazia e l’uguaglianza tra le persone che vengono sostanzialmente negate. La conosco da qualche anno (per questo nel colloquio che segue ho tradotto l’inglese “you” con “tu”) e l’ho incontrata in Italia all’Istituto Internazionale Sophia di Loppiano (Firenze). Le ho fatto alcune domande su temi che credo dovrebbero essere posti, oggi, al centro dell’agenda politica e civile del nostro Paese.
Perché, secondo te, c’è qualcosa di sbagliato nell’acquistare servizi di cura sul mercato, nell’usare la moneta perché persone più ricche possano “comprare” assistenza da persone più povere? In fondo il positivo del mercato è proprio l’incontro tra persone diverse con “beni” diversi che possono scambiare per un mutuo vantaggio.
«Io non sono contraria in assoluto al “mercato della cura”. Il mio sistema permetterebbe di comprare una certa quota di cura, perché nella mia visione le persone, per esempio le donne, avrebbero più tempo libero per i loro figli e anche per lavorare. La mia proposta è che ogni persona debba donare tempo per la cura di se stessi e degli altri. Ciò che differenzia il mio approccio da altri (penso a chi propone un salario per le casalinghe) è che vorrei che tutti i cittadini adulti (uomini e donne, di ogni ceto e classe sociale) si dedicassero ad attività di cura gratuite (cioè non retribuite), vorrei che si occupassero della cura di se stessi invece di “comprare” sul mercato qualcuno che lo faccia per loro, e vorrei che si occupassero anche della cura della propria famiglia, dei propri genitori, e anche delle proprie comunità di appartenenza. Almeno per 12 ore alla settimana».
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