Economia & Lavoro

Le adesioni all’appello

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Adesioni in aggiornamento [segue]

Appello di cattolici sardi: un Patto di tutti i Sardi per la Sardegna

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lampada aladin micromicroPubblichiamo volentieri e diffondiamo un appello di cattolici sardi che preoccupati della situazione generale e, in particolare della Sardegna, sollecitano un impegno corale dei cittadini sardi e delle Istituzioni per arrestare il declino della regione e lavorare uniti per un suo nuovo sviluppo, volgendo la terribile crisi dovuta all’epidemia covi-19 a nuove prospettive. Torneremo sui contenuti dell’appello che abbiamo istantaneamente collegato alle esortazioni di Papa Francesco, significativamente all’appello da lui fatto al termine delle giornate del The Economy of Francesco e al documento finale dello stesso evento denominato “Patto di Assisi”. I cattolici in fondo delineano la proposta che insieme con tutti gli uomini di buona volontà si costruisca un “Patto di Assisi per la Sardegna”. (fm)
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“Non ci si salva da soli”. Per battere il Covid in Sardegna è urgente la “buona politica; non quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi”.
Appello di cattolici sardi

Premessa. Noi cittadini sardi, cattolici ispirati dai valori del Vangelo, fedeli agli insegnamenti del Concilio Vaticano II e della dottrina sociale della Chiesa, convintamente riproposti dalle ultime illuminanti encicliche di Papa Francesco, ci dichiariamo preoccupati e angosciati per il precipitare della situazione economica della Sardegna, con il portato di sofferenze materiali e psicologiche per un numero crescente di persone appartenenti a tutti gli strati della società sarda, specie dei meno abbienti. Chiediamo pertanto a tutti, a partire da quanti hanno responsabilità pubbliche, nelle  Istituzioni e nelle altre organizzazioni della Società, e a tutti gli uomini e a tutte le donne di buona volontà, un impegno corale che, nel rispetto delle differenze delle diverse appartenenze politiche e culturali, ci renda solidali e  attivi per uscire dalla situazione di crisi e difficoltà antiche e attuali della nostra regione. 

1. La Sardegna nel momento in cui ha bisogno della più grande ricostruzione morale sociale ed economica della sua storia contemporanea – che può iniziare proprio dalla lotta al Coronavirus e ai suoi devastanti effetti – risulta paralizzata da un insieme di contraddizioni che si scaricano soprattutto sui più deboli.
La pandemia da Coronavirus ha ulteriormente aggravato le già precarie condizioni economiche e sociali della Regione. L’aggiornamento congiunturale dell’economia della Sardegna del novembre 2020, pubblicato dalla Banca d’Italia, sottolinea la forte negatività di tutte le variabili ( molto peggio di quanto accaduto a livello nazionale) dal PIL ai consumi, dalle esportazioni all’occupazione, dal fatturato agli ordinativi di tutti i settori dall’agricoltura all’industria, dal commercio, all’edilizia dal turismo ai servizi. Gli effetti di questa crisi strutturale avranno pesanti conseguenze oltrechè sul piano sociale anche su specifiche situazioni come l’emigrazione dei giovani istruiti, l’ulteriore spopolamento dei piccoli comuni, l’incremento dei livelli di povertà.

2. Principali emergenze
In diversi settori fondamentali le situazioni di crisi si sono aggravate negli anni.
- Nella scuola, nella formazione, nell’Università e nella Ricerca, comparti in cui si ampliano i divari tra i partecipanti a tutti i livelli – con esclusioni dettate in grande misura dalle condizioni economiche di partenza delle famiglie – oggi anche acuiti dalla formazione a distanza.
- Nei trasporti perennemente incerti al punto di togliere ai sardi il diritto costituzionale alla mobilità. E’ dei giorni scorsi la dichiarazione relativa all’interruzione dal 1° dicembre di tutti i collegamenti navali in convenzione.
- Nella sanità, con i tagli sistematici agli organici, l’annuncio di riforme penalizzanti nei confronti dei territori, l’intasamento degli ospedali; il taglio delle borse di studio per le specializzazioni mediche. Questioni ben rappresentate in questo periodo dal malessere dei sindaci di fronte all’enormità dell’emergenza sanitaria disperatamente affrontata dai medici, dal personale sanitario, dagli operatori delle cooperative sociali e del volontariato a cui va la nostra solidarietà
- Nelle pubbliche amministrazioni, in tutte le diverse articolazioni, dove si aggrava la farraginosità burocratica al punto da compromettere i diritti dei cittadini, ma anche delle imprese, ostacolate anzichè sostenute nella funzione di creare lavoro per uno sviluppo economico eco-sostenibile.
Nella politica, segnata dal crollo della partecipazione dei cittadini sardi agli eventi elettorali e, spesso , da carenze programmatiche e attuative che rischiano di mettere a repentaglio i diritti della persona e perfino del rispetto della dignità umana. Nell’emergenza attuale, che riguarda tutti, ad essere maggiormente colpite sono, come sempre, le fasce sociali più deboli della popolazione: giovani, donne, anziani, poveri di ogni tipologia e, tra essi, ammalati, persone con basso livello culturale, analfabeti digitali, i residenti nei piccoli centri dell’interno, disoccupati.
Le famiglie che già vivevano in situazioni di disagio prima dell’inizio dell’emergenza sanitaria, versano oggi in situazioni di gravissima difficoltà, come testimoniano anche i recenti dati della Caritas sull’aumento della povertà assoluta e relativa.
La Sardegna ha bisogno, dunque, di interventi concreti sulle politiche per la famiglia, i giovani, il lavoro e le imprese, la questione ambientale, la sanità, la scuola, le infrastrutture, l’Università, la ricerca, le nuove tecnologie, la lotta alla corruzione.

3. La buona politica
Sulle orme di Papa Francesco chiediamo per la Sardegna “l’urgenza della buona politica; non di quella asservita alle ambizioni individuali o alla prepotenza di fazioni o centri di interessi. Una politica che non sia né serva né padrona, ma amica e collaboratrice; non paurosa o avventata, ma responsabile e quindi coraggiosa e prudente nello stesso tempo; che faccia crescere il coinvolgimento delle persone, la loro progressiva inclusione e partecipazione; che non lasci ai margini alcune categorie, che non saccheggi e inquini le risorse naturali […]  che sappia armonizzare le legittime aspirazioni dei singoli e dei gruppi tenendo il timone ben saldo sull’interesse dell’intera cittadinanza”
L’obiettivo principale della Politica deve essere, in questo frangente, la salvezza della la dignità delle persone, concentrando ogni sforzo sul lavoro, sulla ricerca del bene comune e non sull’assistenzialismo.

4. Piano straordinario e Piano per la Rinascita
Si metta perciò a punto un piano straordinario di investimenti da far partire al più presto, non oltre il 1° gennaio 2021. Quando la moratoria statale sui licenziamenti finirà e termineranno le risorse straordinarie per la cassa integrazione, gran parte dei lavoratori più deboli e meno qualificati perderà il lavoro col rischio più che concreto di rimanere intrappolata in una condizione di impoverimento per lungo tempo. Pertanto è necessario fin da ora intervenire con determinazione, anche con provvedimenti legislativi straordinari, sulle ben note emergenze create dalla pandemia.
Ma anche risulta indispensabile elaborare la fase della ricostruzione con un Piano per la Rinascita da costruire da parte delle Istituzioni con la collaborazione delle parti sociali – datoriali e sindacali – dei cittadini e delle loro organizzazioni, nella pratica della sussidiarietà, affinché si immaginino e si costruiscano percorsi di riqualificazione e affiancamento sociale condivisi e in grado di traghettare non solo le vittime del lockdown, ma l’intera Sardegna nella fase del post Covid. Questo piano indispensabile anche per utilizzare al meglio le ingenti risorse, che dovrebbero arrivare dal Recovery fund dell’Unione Europea. Si corre il rischio, infatti, che tali risorse vengano male utilizzate o sprecate se non si dovessero avere le idee chiare sulla loro destinazione e modalità d’impiego.

5. Unità per il bene della Sardegna
Come cattolici apprezziamo e sosteniamo il valore e l’importanza del pluralismo e della dialettica tra le forze politiche. Ma oggi, in questi tempi straordinari, le contrapposizioni devono mitigarsi lasciando posto al perseguimento di una grande unità tra le forze politiche e istituzionali. Il bene della Sardegna e della sua gente vale molto di più di piccoli vantaggi elettorali.
Speravamo tutti che questa pandemia da Covid-l9 cessasse e si potesse riprendere la vita nella sua normalità. Ma non è così. L’emergenza non sarà di breve durata e siamo certi che molto non sarà più come prima e che dobbiamo acquistare capacità politica di disegnare e realizzare nuovi e inediti scenari, come abbiamo cercato di argomentare in questo scritto.
Nell’esperienza drammatica che stiamo vivendo, e che ci ha fatto toccare con mano quanto siamo collegati e interdipendenti, ci è consegnata questa lezione: come il contagio avviene per contatto anche l’uscita dall’emergenza è possibile nel fare corpo unico. Non ci si salva da soli.

6. «Non sprechiamo la crisi!»
Rammentiamo in conclusione il recente messaggio della Conferenza Episcopale Italiana alle comunità cristiane in tempo di pandemia: “Viviamo una fase complessa della storia mondiale, che può anche essere letta come una rottura rispetto al passato, per avere un disegno nuovo, più umano, sul futuro. «Perché peggio di questa crisi, c’è solo il dramma di sprecarla, chiudendoci in noi stessi» (Papa Francesco, Omelia nella Solennità di Pentecoste, 31 maggio 2020)”.
Noi, cattolici sardi, raccogliamo queste esortazioni e chiamiamo tutte e tutti agli impegni che sinteticamente e sicuramente non esaurientemente abbiamo delineato in questo nostro appello.

Cagliari, giovedì 26 novembre 2020
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Seguono le firme
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Daremo conto nella news delle diverse sottoscrizioni, aggiornandole man mano che pervengono, direttamente a noi o ad altri promotori.

The Economy of Francesco

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The Economy of Francesco, 21 novembre 2020
Noi giovani economisti, imprenditori, change makers del mondo, convocati ad Assisi da Papa Francesco, nell’anno della pandemia di COVID-19, vogliamo mandare un messaggio agli economisti, imprenditori, decisori politici, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini del mondo, per trasmettere la gioia, le esperienze, le speranze, le sfide che in questo periodo abbiamo maturato e raccolto ascoltando la nostra gente e il nostro cuore. Siamo convinti che non si costruisce un mondo migliore senza una economia migliore e che l’economia è troppo importante per la vita dei popoli e dei poveri per non occuparcene tutti. Per questo, a nome dei giovani e dei poveri della Terra, noi chiediamo che:
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The Economy of Francesco – Oggi sabato 21 novembre 2020

the-economy-of-francesco-logoIL PROGRAMMA DI OGGI SABATO 21 NOVEMBRE 2020
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La Sardegna fuori dall’economia del profitto. Sabato 21 novembre a Cagliari la manifestazione sarda della Società della Cura

societacura-sardegna-logoSabato 21 novembre 2020 a Cagliari, in via Roma, sotto la sede del Consiglio Regionale, alle ore 15.00 e nel pieno rispetto delle norme anti-Covid si svolgerà l’appuntamento sardo della manifestazione nazionale che si terrà in tutte le piazze italiane organizzato da “La società della cura, fuori dall’economia del profitto”. Un sit-in e assemblea lanciati da una rete di persone, comitati, associazioni, movimenti, esperienze autogestite, realtà studentesche, sociali e sindacali per avviare un piano di radicale conversione ecologica, sociale, economica e culturale della società. La manifestazione si svolgerà anche in diretta dalla pagina Facebook de La società della cura – Sardegna. [segue]

Che succede?

sbilancimoci-bollino Ripensare la teoria economica ai tempi del Covid
Emilio Carnevali
Sbilanciamoci! 12 Novembre 2020 | Sezione: Apertura, Economia e finanza
L’epidemia di coronavirus ha assestato un altro duro colpo a quel “nuovo consenso” in macroeconomia già messo in discussione dalla crisi finanziaria del 2007/2008. E nel nostro paese nasce la Rete Italiana Post-Keynesiana.

Cambiare si può, cambiare si deve

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lampadadialadmicromicro1Impegnati nella divulgazione (e nel dibattito relativo) delle due encicliche di Papa Francesco, facciamo seguito ai numerosi interventi già ospitati dalla nostra News e, in particolare, all’ultimo editoriale del direttore, per dare spazio all’importante contributo di Mario Agostinelli, che sotto riportiamo integralmente dalla rivista online Sbilanciamoci!.
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Da Laudato Si’ a Fratelli Tutti: lavoro e conflitto sociale oltre lo sviluppo
di Mario Agostinelli
sbilanciamoci-20 Sbilanciamoci! 11 Novembre 2020 | Sezione: Alter, Lavoro, primo piano.
Papa Francesco a cinque anni di distanza dalla Laudato Si’ ci propone con Fratelli Tutti un nuovo cambio di paradigma che dall’emergenza climatica mette al centro questa in rapporto al lavoro. Una riflessione sul cambiamento antropologico che serve all’umanità.

Dopo cinque anni di esperienza a contatto di una Associazione che ha preso ispirazione dall’Enciclica Laudato Si’, traggo la convinzione che le resistenze politico-culturali, oltre che ad un irresponsabile rigetto del monito di Francesco, siano dovute principalmente al rifiuto di separarsi definitivamente dall’idea dello “sviluppo”. Un rifiuto che continua ad alimentare un’illusione rivelatasi al fondo un disastro: che cioè l’aumento della torta da spartire in base alla crescita non avrebbe trovato limiti nelle risorse della biosfera e non avrebbe fatto i conti con la rapacità del sistema capitalista nell’appropriarsi delle ricchezze provenienti dal lavoro e dalla natura. Occorre riconoscere che anche tra le maglie del progressismo lo sviluppo è stato insignito di un favore largo, nella convinzione che le nazioni “avanzate” potessero indicare ai paesi ritardatari la strada da intraprendere per allinearsi e misurare il miglioramento della loro prestazione economica misurata dal PIL. Dopo aver preso in custodia la loro economia, la sbalorditiva varietà dei popoli si sarebbe ridotta ad una classifica basata sul debito contratto e preteso e sulla ricchezza prodotta e immancabilmente depredata. Almeno dal secondo dopoguerra fino al suo declino con l’inizio del nuovo secolo, questa riduzione delle differenze culturali, sociali, naturali, che fanno dell’umanità un punto di osservazione plurale e cosciente della biosfera entro cui convive, ha tenuto banco, contaminando la gran parte delle culture politiche. Le merci e il loro consumo si son eretti a mezzo di comunicazione quando non a scopo dell’esistenza e si è creato uno spazio sociale transnazionale nel quale il tempo veniva ad essere in continua accelerazione. Rompere uno schema così potenzialmente inclusivo, eppure distruttivo, è il compito che Francesco si è dato ed è la misura dell’ostilità incontrata da un autentico capovolgimento di valori.

Le élite mondiali ed i media transnazionali si sforzano di dare credibilità ad una loro rappresentazione della civiltà industriale che garantisca in prospettiva il livello minimo dei diritti umani e delle condizioni ambientali, assicurando comunque per l’impresa la massimizzazione dei profitti. Ma non esiste misura per trovare un equilibrio tra i tre contendenti, se non la pratica di un conflitto in cui lavoro e natura stanno dalla stessa parte. Un conflitto giunto ad un punto di rottura che riguarda la messa in discussione radicale del sistema. Sono i fatti a dimostrare che il ricorso senza limiti al consumo di natura ed i danni provocati dallo sfruttamento del lavoro tramutano quello che viene spacciato per sviluppo – un termine ormai privo di significati positivi – nel lento declino della vita vegetale e animale. Di fatto, si tratta di un pezzo di archeologia ormai in decomposizione quanto l’antropocentrismo e tanto meno attrattivo per le nuove generazioni, quanto più logorato dall’ingiustizia sociale e dal danno alla salute che ne hanno accompagnato la parabola. Non solo nelle parole del papa, ma nelle stesse preoccupazioni della scienza, esso, da consunta utopia, cede ormai il passo ad un bisogno di sopravvivenza, che può sussistere solo in armonia con la natura e come tensione cosciente verso una storia in comune, fatta di innumerevoli relazioni ed interconnessioni, visibili o invisibili, di cui “niente ci risulta indifferente”. Siamo, insomma, ad una svolta storica, ad una scoperta e, dall’altro lato, ad un “necrologio” – come afferma Wolfgang Sachs – che non a caso non ci è dato di elaborare quanto prima possibile. Possiamo però chiederci perché e cercare di scorgere quale sia il passo in avanti compiuto dalla seconda enciclica, che, al di là di ogni dubbio, tratta esplicitamente di politica e di un soggetto politico da definire nelle stesse settimane in cui Trump non risulta un semplice incidente, dal momento che non solo negli USA, ma anche vicino a noi si manifestano compulsioni che si riflettono in lui come in uno specchio.

Nonostante non ci fosse angoscia nelle pagine di una Enciclica premonitrice che invita a “camminare cantando”, ma una carica avvincente al rinnovamento, non è bastata la sintonia con l’affermarsi del movimento degli studenti di Greta né il crescente protagonismo delle donne in ogni regione del mondo, per incrociare un linguaggio o una pratica che imprimessero correzioni all’agenda dei governanti. Probabilmente lo stesso Francesco, così ostinatamente coerente ad ogni sua esternazione pubblica, riconosce che la Laudato Si’ peccò di ottimismo e non ci sono stati gli effetti sperati. Oltretutto, sulla scena globale, se si fa eccezione per qualche movimento degli “ignudi” nelle campagne o nelle foreste, il mondo del lavoro nel complesso si è mostrato incerto o poco attivo, mentre nel disagio sociale la democrazia ha fatto passi indietro, lasciando il campo ad una politica ostile all’austerità, insensibile ai limiti della natura e orientata all’economia dello scarto. Così, la nuova leva di leader autoritari e le corporation globali non hanno affatto desistito nel loro percorso involutivo: anzi, hanno concordemente intuito che, con la fine dell’era fossile e la limitazione dell’estrazione delle risorse naturali, la sconfitta inferta negli ultimi decenni a danno del bene comune e delle classi meno abbienti si sarebbe potuta arrestare se non addirittura ribaltare. Per il capitalismo globalizzato è parso giungere il momento per rendere ancora più aspro il conflitto con la crescente massa dei salariati e più pressante l’alienazione degli ultimi, sia nei confronti del lavoro sia verso la natura. Nelle strette di un cambio di passo con la pretesa di una resa dei conti, si è fatta strada – non solo ai piani alti, ma in molte fasce di popolazione temporaneamente protette – un’interpretazione del futuro prossimo del tutto incompatibile con il pensiero del pontefice argentino: non ci sarebbe stato più spazio per tutti gli scartati sul pianeta; il simulacro del PIL e il ruolo della finanza avrebbero assicurata la competizione più ostile e avida nei mercati; perfino l’idea di sviluppo si sarebbe potuta mettere in dubbio, ma avrebbe resistito all’erosione purché la si colorasse “un poco di verde”. A ruota, i media si sono distinti, da un versante, nel negare che fosse necessaria una rottura per riprogrammare modi e finalità di una produzione che aggredisce salute, ambiente e vite, da un altro, nel far sparire nel silenzio le domande più coinvolgenti sulla portata dell’Antropocene e sul ruolo non settario delle religioni in un mondo dilaniato ed in decomposizione ed in un tempo che sta tragicamente venendo a mancare (interrogativi consegnati ad una reazione niente affatto scontata, così ben rimarcati e rappresentati da un riflesso bianco che avanza nel buio di un Venerdì di pioggia in una piazza San Pietro deserta…).

La posta oggi è alta; forse più di quanto lo fosse cinque anni addietro, perché la pandemia ha accorciato ancor più i tempi. Ed è pertanto in un contesto aggravato che dobbiamo valutare il “rilancio” di Bergoglio attraverso la nuova enciclica “Fratelli Tutti”. Fortunatamente, Landini, i metalmeccanici e il sindacato stanno ribattendo senza arretramenti all’offensiva di Confindustria in una partita apertissima, il cui esito sarebbe ancora più incerto se terreni di scontro tra loro disconnessi si frazionassero ulteriormente. Non arriverei certo qui a sostenere che ci debba essere un nesso tra due versanti – i contratti e la predicazione – ovviamente autonomi e indipendenti. Ma come non riconoscere che il mondo cui si rivolge Francesco abbia necessità di poter contare anche sulla riconversione della produzione verso valori d’uso condivisi e sulla dignità del lavoro, affinché si possa aver cura della Terra, del clima e della giustizia sociale? Basta leggere – e rileggere, se occorre – il testo firmato il 3 di Ottobre del 2020 nella Basilica di Assisi. Il papa riprende sul terreno esplicito dove si sarebbe dovuta collocare la politica – cosa che quest’ultima non ha fatto – l’intero discorso del cambiamento strutturale antropologico, economico, finanziario e sociale auspicato, ma platealmente eluso. Ovviamente non si ripete, ma articola su altri temi e terreni la stessa provocazione di un cambio d’era evocata un lustro prima. Una boccata d’aria per credenti, non credenti, movimenti popolari, democrazie, forze sociali, forze politiche impegnate in cantieri spesso smarriti: un messaggio ed una alleanza da non lasciarsi sfuggire, anche se risulterà complesso comporre il quadro entro cui superare e sconfiggere l’involuzione nazionalista, populista e xenofoba, che comprime gli scarti e le povertà che dilagano nella società mondiale.

Parlo di alleanza da costruire perché abbiamo a che fare più con una pietra angolare che non con un edificio già strutturato. La diagnosi papale dei mali del mondo è oggettiva ed esplicita, ma la “pars construens”, anche quando luminosa e circostanziata, resta debole. Manca un anello: non è un limite di pensiero o di intenti, è un guasto – forse irreparabile – nell’ordine delle cose: la fraternità e l’amore universale non hanno ancora la forza che ha animato i movimenti politici in nome della libertà e dell’uguaglianza. A meno che, con il capovolgimento che nella Lettera viene concepito come una nuova gerarchia nella triade libertà-uguaglianza-fraternità si riscopra un primato di sorellanza e fratellanza tra gli individui ed un rapporto nuovo tra loro e la natura mediato dal lavoro: un lavoro che, avrebbero detto Marx ed Engels di metà Ottocento , “produce l’accrescimento della natura umanizzata senza provocare la scomparsa della primordiale natura amica”, ovvero, un lavoro che si autolimita a creare valore d’uso in un mondo in cui la sufficienza soppianta l’efficienza e il profitto cessa di essere identificato col fare impresa.

Dopo le sconfitte, rimangono due certezze: rivalutare la memoria come fonte di valori inalienabili e dare titolo di rappresentanza al fondo del barile dell’ingiustizia sociale e ambientale. Non sorprende allora se si dichiara senza mezzi termini che “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati”, con un attacco frontale al principio su cui si regge un sistema capitalistico sempre più raffinato e corroborato dalla tecnocrazia. E non ci si stupisce nemmeno quando viene ribadita “la funzione sociale di qualunque forma di proprietà privata”, riprendendo così, all’interno delle contraddizioni laceranti tra sistema d’impresa, società e natura, il contestatissimo art. 41 di una Costituzione di democrazia sociale come quella della nostra Repubblica. Tanto meno meraviglia il ricorso ad una “consapevole coltivazione della fraternità”, come antidoto alla restrizione della libertà quando questa appaga solo per possedere o godere e come inveramento di una uguaglianza, che, se è definita solo in astratto, viene in realtà minata dall’individualismo competitivo.

Affermazioni non proprio ordinarie e difficili da elaborare sui due piedi dai commentatori di routine, che ne sono usciti spaesati, preferendo parlare di sé, anziché di un contenuto davvero complesso. Ci hanno provato infatti subito da destra, dando al papa del comunista, (Marcello Veneziani), dal centro, citando la triade della Rivoluzione Francese come “ponte” tra Illuminismo e Cattolicesimo e lamentando una tardiva rivalutazione della tecnica (Massimo Cacciari) ed anche da sinistra, richiamando la sproporzione tra ricchezza delle denunce e scarsezza dei rimedi (Pietro Stefani).
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Oggi venerdì 30 ottobre 2020

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————–Opinioni, Commenti e Riflessioni, Appuntamenti——-
416b89ed-3f94-4da3-85bd-fbc1d2b59849De Masi oggi alla “Scuola di cultura politica F. Cocco”. Il valore di una partenza
30 Ottobre 2020
Andrea Pubusa su Democraziaoggi.
La “Scuola di cultura politica Francesco Cocco“ avvia oggi la sua attività con una lezione di uno dei più autorevoli e ascoltati intellettuali italiani, Domenico De Masi, e su un tema centrale del noostro tempo il c.d. lavoro veloce. Due segnali importanti: “docenze” ai massimi livelli e su argomenti incandescenti quanto all’attualità e alle […]
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Col MES il parlamento può decidere sulla sanità
30 Ottobre 2020
Alfiero Grandi su Democraziaoggi.
Sono stato contrario al Mes e al condizionamento esterno usato per mettere in riga gli italiani e costringerli ad accettare scelte altrimenti indigeribili.
L’episodio più grave è stata la modifica dell’articolo 81 della Costituzione che ha introdotto l’obbligo del “pareggio” di bilancio, dal quale ci si può scostare solo con un voto qualificato del parlamento […]
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avvenireIl blasfemo omicida, i giusti credenti. Quell’umile seme di pace
Andrea Riccardi
venerdì 30 ottobre 2020 su Avvenire.
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L’enciclica. Fratelli tutti, la via di Francesco per non cedere all’ingiustizia
Franco Cardini venerdì 30 ottobre 2020 su Avvenire.
L’enciclica è un capolavoro autenticamente tradizionalista, in senso sia cristiano sia universalistico, e profondamente rivoluzionario secondo la legge dell’Amore.
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ECONOMIA E NON SOLO NEL TEMPO DELLA PANDEMIA: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla”.

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ECONOMIA chock da risparmio
di Roberta Carlini, su Rocca.

C’è stato un tempo nel quale si diceva che noi italiani eravamo un popolo di formiche. Che accanto al retorico elenco dell’epoca fascista – un popolo di eroi, di santi, di navigatori eccetera – bisognava aggiungere la parola «risparmiatori». Le famiglie italiane in passato mettevano da parte tanto risparmio, anche le più povere: forse un retaggio della cultura contadina, di certo un effetto del valore dato alla famiglia e all’eredità. In epoca più recente, il detto non è stato più vero. La nostra «propensione al risparmio» – ossia la parte del reddito che non viene spesa in consumi – è scesa molto. In particolare, durante la lunga crisi del 2008-2014, le famiglie hanno intaccato il loro tesoretto per far fronte ai bisogni dopo il calo del reddito causato da quella recessione. All’inizio del 2019, eravamo sotto il 10%, contro una media dell’area dell’euro di 12,7: vale a dire, meno di un euro su dieci guadagnati era messo da parte, nella media. Con il Covid 19, è cambiato tutto, siamo tornati a risparmiare molto. Il secondo trimestre del 2020 il tasso di risparmio delle famiglie italiane era più che doppio di quello osservato solo pochi mesi prima. Quasi un euro su 5. Lo stesso stava succedendo in tutt’Europa: in particolare, l’area dell’euro nel secondo trimestre di quest’anno, ossia nel periodo della prima ondata della pandemia, è stato del 24,6%. Vale a dire che un euro su 4 guadagnati veniva messo da parte, nei Paesi accomunati dall’euro. Mentre durante la scorsa crisi economica la riduzione del reddito è stata più forte di quella dei consumi, con la pandemia è successo il contrario: la riduzione dei consumi è stata molto più forte della riduzione del reddito.

le formichine prudenti
Ovvio, da un certo punto di vista. Chiusi in casa, con i negozi di beni non necessari chiusi, dove volevate che spendessimo il nostro reddito? Così, i consumi sono scesi sia perché c’erano meno soldi, che perché non si potevano materialmente spendere – nonostante gli aumenti degli acquisti online, la componente di costrizione fisica è stata determinante nel ridurre le spese. Viaggi, ristoranti, cinema, teatri, concerti: sono soprattutto i consumi «di svago» ad aver sofferto. Ma non c’è stata solo questa componente. Se fosse dipeso solo da questo, già alla fine del lockdown e nei mesi successivi avremmo visto una ripresa e anche un recupero dell’arretrato dei consumi non fatti. C’è stato e c’è anche, avverte l’Istat, un effetto lungo, dovuto a una doppia precauzione: la riduzione di comportamenti che, per quanto (nell’estate) consentiti, erano tuttavia considerati rischiosi per il contagio; e soprattutto la volontà di mettere da parte soldi in previsione di tempi bui, nell’incertezza sulla fine della pandemia e sulle sorti dell’economia. Anche chi aveva il proprio reddito ancora intatto, come i percettori di stipendio fisso, ha pensato che non ci fosse certezza del domani; e oggi, mentre ci troviamo nel mezzo di una seconda ondata del virus che in economia fa prevedere una seconda scivolata all’ingiù, è difficile dare torto alle formichine prudenti.

crisi dell’attuale modello economico
Il punto è che quel che è virtuoso per il singolo non è necessariamente buono per l’economia. Già la recessione da Covid è inedita e pesante, essendo dovuta a uno choc contemporaneo da domanda – i consumi – e offerta – la produzione. Se poi ci si aggiunge lo choc psicologico che porta all’aumento della propensione al risparmio, la prospettiva di una ripresa governata dalle leggi del mercato si allontana ancora di più. Allo stesso tempo però, anche questo choc «da risparmio», come gli altri, ci induce a ripensare al tipo di consumi, economia, società che vogliamo. Cosa che forse molte famiglie più benestanti hanno fatto. Mentre i più poveri, colpiti dalla perdita del lavoro e del reddi- to, non si trovano certo nella condizione di risparmiare di più, gli altri si stanno forse chiedendo: cosa vale la pena di comprare? Così come siamo stati tutti indotti a ragionare sulle definizioni dei lavori «essenziali», è possibile che la nuova ondata di austerità imposta dalle costrizioni fisiche ci abbia anche insinuato qualche dubbio su quali sono i consumi essenziali, di cosa abbiamo davvero bisogno, di cosa possiamo fare a meno. È un bene? Può esserlo, per chi ha contestato la società dei consumi di massa da un punto di vista etico; ma ancor di più nella prospettiva dei limiti ai consumi e alla loro tipologia che la crisi climatica dovrebbe imporci, della quale paiono essere più consapevoli i più giovani. Ma allo stesso tempo è un male, per un modello economico che senza la ripresa della domanda privata non si «riprende», o almeno non riprende a marciare come prima.

le opportunità
Qui vengono le opportunità che la nuova situazione presenta. C’è l’occasione per ripensare un modello che già non stava funzionando, soprattutto in Paesi come l’Italia. Detta così, è una proposizione teorica, molto vicina a un’utopia. Ma vista dai numeri dell’economia diventa una necessità: canalizzare l’enorme quantità di risparmio che gli italiani e gli europei stanno mettendo da parte verso investimenti utili, capaci di farci stare meglio in futuro. E adesso sappiamo che «stare meglio» – o anche solo: non ammalarsi, non morire – dipende da alcuni vecchi beni pubblici che sono stati sottofinanziati, ai quali non abbiamo più dedicato risorse; e da alcuni nuovi beni pubblici, ossia tutti quelli collegati alla salvaguardia dell’ambiente, ai quali non abbiamo mai dedicato abbastanza risorse. Dunque, non si tratta solo di usare il risparmio per fare investimenti: che già sarebbe tanto, in un Paese come l’Italia nel quale gli investimenti sono crollati durante la scorsa recessione, per poi recuperare troppo poco. Si tratta di fare gli investimenti giusti, sia direttamente attraverso la mano pubblica che indiret- tamente incentivando i privati a scegliere i beni capitali che possono portare lo sviluppo che vogliamo. L’Unione europea, nel suo piano per la ripresa, ha dato due capitoli: digitale e ambiente. Ma né l’uno né l’altro saranno investimenti «giusti» se non saranno inclusivi, cioè se non potranno essere accessibili a tutti e in grado di migliorare la vita di tutti.

una crescita felice e civile
Il primo rischio, per l’Italia, è che per massimizzare il consenso le nuove risorse pubbliche a disposizione siano dilapidate in manovre che danno soldi a pioggia, spese correnti che non portano investimenti e sviluppo; il secondo rischio, non meno grave, è che ci si concentri sul fascino delle parole nuove – come il digitale o il «green deal» – dimenticando quei beni pubblici di base dei quali proprio la pandemia ha dimostrato la necessità. I ritardi di queste settimane, tragici, hanno tutti a che vedere con beni pubblici: gli autobus e i tram; i treni; la scuola; l’università; la cultura; e naturalmente la sanità, soprattutto quella ramificata nel territorio, presente al livello della singola scuola, del singolo condominio della grande metropoli come della sperduta area interna. Allora, digitale e ambiente non sono beni a sé, alternativi, in cui investire; ma devono diventare aggettivi che caratterizzano ogni spesa e ogni investimento, soprattutto quelli appena citati, la cui geniale introduzione, nella seconda metà del Novecento, ha caratterizzato il modello europeo di società e che adesso possono essere rifinanziati e ripensati per il mondo dopo-Covid.
Una pandemia che ha mostrato la necessità di difenderci tutti insieme, pensando prima e soprattutto ai più vulnerabili per poter proteggere davvero tutti; e che dovrebbe portarci a spostare questa filosofia dalle precauzioni puramente sanitarie alle strutture portanti della nostra vita civile. In questo modo, avremmo investimenti – pubblici e privati – che usano il risparmio «in eccesso» per finanziare nuove opere pubbliche utili; e avviano una crescita felice, e civile.

Roberta Carlini
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chock da risparmio
ROCCA 1 NOVEMBRE 2020

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ECONOMIA E NON SOLO NEL TEMPO DELLA PANDEMIA: “peggio di questa crisi c’è solo il dramma di sprecarla” (Papa Francesco).

DIBATTITO sulla “QUESTIONE SARDA”. Fadda: Più risorse dallo Stato e dall’Europa per la Sardegna. Sabattini: Sì, ma bisogna saperle utilizzare per promuovere lo sviluppo endogeno.

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lampada aladin micromicroPaolo Fadda e Gianfranco Sabattini sono due “grandi vecchi” ancora capaci di mettere in campo forti energie intellettuali al servizio della Repubblica e della Nazione Sarda. Nel “quasi deserto culturale” della nostra Regione, animano con passione e competenza un necessario dibattito sulla situazione sarda. Questo li unifica ed è giusto riconoscere loro il merito, prima di segnalare le diverse posizioni rispetto al dibattito in questione, la “Questione Sarda”. Fadda richiede, anzi invoca, che la classe politica sarda abbia un sussulto di orgoglio e si adoperi per ottenere ingenti risorse pubbliche (statali ed europee) al fine di invertire la rotta della disastrosa situazione economica dell’Isola. Sabattini replica che si tratta di una vecchia ricetta, ché, se pur si riesca ad ottenerle in adeguata misura, queste nuove risorse provocano benefici relativi per la Sardegna, a fronte di quelli di gran lunga superiori per i fornitori della penisola o esteri. Occorre invece sostenere e ampliare le capacità dei produttori locali e degli Enti dell’autonomia regionale, gli unici in grado di produrre sviluppo endogeno. Che dire? Il dibattito è aperto. Non si tratta di schierarsi quanto di saperlo approfondire ed estendere. È quanto contribuiamo a fare con le tre testate online: il manifesto sardo, Democraziaoggi, Aladinpensiero. Questo è un invito al resto del mondo!
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La mancata soluzione della “Questione Sarda” secondo Paolo Fadda

gianfranco-sabattini-conv-5-ott18di Gianfranco Sabattini

Paolo Fadda in un suo intervento sull’”Unione Sarda” del 10 Ottobre, dal titolo “La Questione Sarda”, lamenta la scarsa propensione in Sardegna a voler mettere al centro di un possibile dibattito” l’attualità della “Questione”; ciò perché, a suo dire, essa non avrebbe subito sostanziali cambiamenti da quando Giovanni Battista Tuveri e Giovanni Maria Lei Spano l’hanno posta come problema nazionale, cui le discriminazioni dei governi nazionali hanno impedito di dare risposte risolutive; risposte che sarebbero mancate anche dopo la conquista “dell’autonomia regionale come strumento di autogoverno”.
A parere di Fadda non si discuterebbe, né ci si confronterebbe più sull’uso delle risorse autonomistiche, in quanto queste sarebbero state sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centralistiche dei governanti romani, congiuntamente alle debolezze ed alle inerzie delle dirigenze regionali, sino a prefigurare il pericolo che l’Isola diventi vittima di un “dipendentismo” che la renderebbe sempre più subalterna a “interessi e decisioni altrui”. Per queste ragioni, il fallimento delle finalità del progetto autonomistico, quali erano nelle aspirazioni dei sardi all’indomani dell’avvento della Repubblica, ha ridato attualità – afferma Fadda – alla riproposizione della “Questione”, in quanto l’Isola, come i dati statistici consentono di rilevare, persiste ancora in “una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali”, che varrebbero ad allontanarla dalle regioni del Nord-Est del Paese, sempre più favorite dai crescenti investimenti dello Stato.
La maggior disparità rispetto a tali regioni avrebbe concorso, a causa delle “caduta di capacità e di prestigio delle nostre dirigenze, a far sì che la Sardegna ritornasse ad essere esclusa al “gran ballo degli aiuti di Stato”, tanto da “rendere urgente” la riproposizione al Paese di una nuova “Questione Sarda” per porre rimedio ai “troppi torti subiti”.
L’analisi di Fadda di quanto accaduto (o sta accadendo) in Sardegna è fuorviante; essa è fondata sul presupposto che gli “aiuti pubblici” siano di per sé sufficienti a rimuovere il “dipendentismo”, promuovendo l’uscita dallo stato di arretratezza che da sempre affliggono l’Isola, mancando di considerare che tale rimozione non dipende solo dalla disponibilità di risorse, ma anche e soprattutto dalle modalità della loro utilizzazione. Infatti, malgrado le ingenti risorse ricevute a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, l’Isola non è riuscita a decollare, in quanto ha privilegiato l’attuazione di un “modello di industrializzazione senza sviluppo” (senza cioè produzione di ricchezza endogena, né un reale e duraturo miglioramento della qualità delle vita dei sardi).
Tale modello, che Fadda nella sua complessa attività di amministratore e di studioso dell’economia sarda non ha mancato di condividere, è stato alimentato e sorretto da un’ingente canalizzazione di risorse finanziarie per la localizzazione nell’Isola di industrie pubbliche e private; un flusso di risorse utilizzato però solo per promuovere l’aumento del reddito disponibile, ma non anche si quello prodotto all’interno dell’area regionale.
Nel lungo periodo, il modello di sviluppo attuato ha mostrato tutti i suoi limiti, con il risultato di non aver innescato alcun processo di crescita endogena, né di aver eliminato o affievolito il divario economico che continua ancora oggi a separare la Sardegna dalle aree più avanzate del resto del Paese. Quello attuato è stato un modello di crescita fortemente dipendente da condizioni favorevoli esterne che, con la crisi petrolifera degli anni Settanta è crollato, avviando l’economia dell’Isola verso un progressivo declino che è continuato senza sosta fino ai giorni nostri.
La principale conseguenza negativa del modello di crescita sperimentato in Sardegna nei primi decenni successivi agli anni Cinquanta del secolo scorso può essere così sintetizzata: un aumento del reddito disponibile per abitante e, quale conseguenza, un aumento della domanda di beni consumo; ma non essendo tali beni di consumo prodotti in Sardegna, l’aumento del solo reddito disponibile ha causato un consistente incremento delle importazioni.
L’aumento delle importazioni si è quindi tradotto in un vantaggio a favore delle regioni italiane (soprattutto settentrionali) e di altri Paesi produttori. Si è così determinata quella che è poi diventata una costante del sistema produttivo della Sardegna, ovvero un crescente squilibrio della bilancia commerciale per una quota rilevante di beni di consumo e di beni intermedi a favore di attività produttive extraregionali. Lo squilibrio ha riguardato, e riguarda tuttora, soprattutto la bilancia agro-alimentare dell’Isola, con la conseguente perdita dell’autosufficienza alimentare rispetto al fabbisogno interno.
Il miglioramento degli standard di vita dei sardi è stato il parametro in base al quale le élite politiche regionali hanno preteso di valutare il successo della politica di intervento realizzata. In ciò è da rinvenirsi il sintomo più evidente dei limiti della politica di crescita regionale perseguita; infatti, il processo di industrializzazione sperimentato ha portato, non alla crescita della Sardegna, ma alla riproposizione, in altre forme, della “Questione Sarda”, espressa dal fatto che l’Isola, pur avendo accumulato importanti localizzazioni produttive, non è riuscita a liberarsi dalle “secche” sulle quali una politica di intervento casuale ed erratica l’ha inevitabilmente condotta.
Quale prospettiva di crescita si offre oggi alla Sardegna? Per rispondere occorre liberare le energie intrinseche al sistema delle autonomie locali del quale a livello regionale si è sempre mancato di cogliere le implicazioni. Il sistema locale, come la letteratura sull’argomento suggerisce, è che un insieme di insediamenti residenziali e produttivi, le cui relazioni reciproche sono determinate dai comportamenti quotidiani degli operatori in essi presenti, i quali nel tempo hanno delimitato un’area entro cui si è consolidata la maggior parte dei rapporti economici tesi a svilupparsi nel tempo.
In questa prospettiva, con un contesto sociale ed economico, inteso come un continuum di spazi territoriali nei quali sono insediate specifiche comunità locali, la nuova politica di crescita dovrebbe tenere conto della necessità che nella elaborazione delle nuove decisioni concernenti le destinazioni delle risorse pubbliche che l’Isola continua a ricevere siano coinvolte anche le singole comunità; tale coinvolgimento richiede ovviamente la realizzazione delle condizioni operative idonee a consentire alle stesse comunità di partecipare attivamente alla costruzione degli scenari e delle politiche di crescita del loro territorio. Questo nuovo approccio alla crescita ed allo sviluppo dell’Isola si giustifica sulla base del fatto che fino ad oggi tutto ciò che è stato realizzato per il superamento dell’arretratezza dei singoli territori, è stato recepito, a livello locale, come “calato dall’alto”, con conseguente esclusione delle singole comunità territoriali dai relativi processi decisionali.
L’ipotesi che nella formulazione della nuova politica di crescita e di sviluppo regionale non si possa più prescindere dalle comunità locali e dalla loro partecipazione ai processi decisionali impone che la promozione, la progettazione e l’attuazione di una politica di crescita e di sviluppo siano fondate sull’individuazione di “percorsi” strategici supportati da un’“accettazione sociale” la più estesa possibile.
L’insuccesso della politica di sviluppo sinora attuata a livello regionale è stato infatti causato dal fatto che il “modello di industrializzazione forte” privilegiato non ha avuto alcune giustificazione sul piano produttivo, perché gli interventi realizzati sono stati suggeriti dall’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere unicamente dalla disponibilità di capitali da investire in attività produttive che hanno avuto solo effetti diffusivi esogeni rispetto all’area regionale; in altri termini, l’insuccesso si è verificato in quanto è stata condivisa l’idea che la crescita e lo sviluppo dovessero dipendere dalla presenza di attività produttive prive di ogni rapporto con l’ambiente circostante e che le attività tradizionali dovessero essere considerare assieme alla cultura locale (motivazioni psicologiche e comportamnti prevalenti) alla stregua di un limite che occorreva non solo ignorare, ma anche rimuovere.
Quanto sinora detto evidenzia che, per attuare un nuovo modello di sviluppo dell’Isola è necessaria una svolta riformatrice della politica regionale improntata ai più recenti paradigmi dello sviluppo locale. Il successo del nuovo modello di crescita ispirato a tale paradigma consentirebbe di collegare tra loro, in modo sistematico, i tre pilastri (Regione, comunità locali e mercato) sui quali dovrebbe essere fondata l’attuazione del nuovo modello di sviluppo ed il governo partecipato dell’economia regionale.
Chi vive in una regione come la Sardegna, che sinora ha fruito di abbondanti trasferimenti per la promozione di un processo di crescita, non riesce a liberarsi dal convincimento che le politiche di sviluppo regionali sinora attuate siano diventate solo veri e propri canali di selezione della classe dirigente locale. Si viene eletti, non per le capacità amministrative o per la visione politica, ma perché si è in grado di fare affluire risorse sul territorio per distribuirle fra i più disparati “clienti”; risorse svincolate da qualsivoglia visione del futuro del territorio regionale, perché impiegate sulla base di decisioni centralistiche delle istituzioni regionali.
Perdurando questa situazione diventata quindi ragionevole la presunzione che gli obiettivi dell’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici non siano la crescita o l’occupazione, ma, al contrario, la conservazione dell’establishment dominante e della prosperità della pletora di professionisti interessati all’impiego dei nuovi “aiuti pubblici”, nonché la “carriera” delle burocrazie locali.
Se si considera che le politiche d’intervento sinora attuate hanno avuto solo uno scarso (e a volte negativo) impatto sul sistema economico della Sardegna si può concludere osservando che, contrariamente a quanto suggerito da Fadda, la “Nuova Questione Sarda” non possa essere risolta mediante l’ottenimento di nuovi trasferimenti pubblici da utilizzare come si è fatto nel passato; essa può essere risolta solo mediante un approccio alla crescita regionale fondata sulla valorizzazione delle comunità locali, sotto il vincolo che l’impiego dei nuovi trasferimenti conduca, prima o poi, alla “comparsa” di un benché minimo tasso di accumulazione endogena.
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Paolo Fadda 10 Ottobre 2020, su L’Unione Sarda online.

La questione sarda
la-qs-giovanni-lei-spanoIn una Sardegna dove si discute e ci si confronta sempre meno e con evidente malavoglia, il voler mettere al centro di un possibile dibattito l’attualità di una “questione sarda” potrà apparire un po’ velleitario o passatista. Eppure, misurando quanto divida attualmente la nostra regione dal resto del Paese per benessere sociale e per sviluppo economico, il tema appare di chiara attualità. Perché non vi è molta differenza da quando, qualche secolo fa, il Tuveri ed il Lei Spano l’avrebbero posta come problema nazionale, denunciando l’avvilente arretratezza dell’Isola rispetto alle altre regioni di terraferma, per via delle colpevoli ingiustizie e delle discriminazioni subite dai governi nazionali.
Una “questione” che non avrebbe trovato soluzione definitiva neppure con la conquista dell’autonomia regionale, come strumento d’autogoverno, concessa dai Costituenti repubblicani nel 1948 grazie ad una combattiva pattuglia di deputati sardi guidata da Emilio Lussu.
Purtroppo non si discute più, né ci si confronta, sull’utilizzo delle risorse autonomistiche che vengono sempre più depotenziate dalle crescenti protervie centraliste dei governanti romani e, congiuntamente, dalle debolezze e dalle inerzie delle dirigenze regionali. Né pare venga posta molta attenzione al fatto che si vada sempre più aggravando la dipendenza isolana dalle economie continentali e dai loro centri di comando, andando così incontro al pericolo di divenire sempre più sudditi di interessi e di decisioni altrui.
Fatti già accaduti in passato – ricordiamolo – con la perdita della guida e del controllo dell’elettricità, del credito bancario, del trasporto aereo e così via. Tanto da dover ritenere che sia proprio quel “dipendentismo” strisciante il maleficio che è andato depotenziando di fatto il progetto autonomistico, ridando così attualità, e necessità, ad una questione sarda come denuncia di una penalizzante condizione di arretratezza e di insufficienze strutturali.
Sono i dati statistici a confermare la continua crescita della dipendenza. A partire dai beni più elementari come quelli legati all’alimentazione. Basti pensare che a parità di volumi di consumi, se trent’anni fa la percentuale delle importazioni alimentari era sotto al 30 per cento, attualmente sfiorerebbe il 50 per cento! Un aggravamento che trova poi la sua conferma nella bilancia commerciale isolana che vede prevalere sempre più i valori delle merci in entrata su quelle in uscita (con un gap che ora si avvicinerebbe ai due miliardi di euro). [...]

Che fare?

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PER IL DOMANI La risposta è un’ecologia integrale
06 Luglio 2020
Da MEIC
di THIERRY MAGNIN
teologo e fisico, segretario generale della Conferenza episcopale francese
Un piccolissimo virus di qualche millesimo di millimetro e di una quindicina di geni semina il panico in numerosissimi paesi del globo, siano essi ricchi o in via di sviluppo. Esso travolge la vita del mondo intero: le persone colpite dal virus potrebbero essere più di un centinaio di milioni, milioni le persone ricoverate in ospedale e alcune centinaia di migliaia i decessi. Più di tre miliardi di persone sono confinate e le strade delle grandi città sono deserte. Ma il virus non si ferma qui: l’espansione dell’epidemia mette l’economia a riposo o addirittura la ferma completamente in un gran numero di settori, le borse crollano, i disoccupati si contano a milioni. C’è di che spaventarsi! Al tempo delle tecnoscienze noi riscopriamo improvvisamente quanto siamo interdipendenti davanti alla pandemia e più vulnerabili di quanto pensiamo. In alcune settimane il mondo si è immobilizzato nella paura: numerose persone sono colpite nei loro corpi e molto nel loro cuore.
La crisi del covid-19 è venuta bruscamente a ricordarci che la specie umana non ha mai cessato e non cesserà mai di coevolvere con le altre specie, a cominciare dai virus e dai batteri. Certe malattie di questi ultimi tempi (ebola ieri, covid-19 oggi) ci arrivano dalla natura, dal mondo delle bestie selvagge. Esse provocano delle devastazioni perché sono connotate dall’irruzione brutale, nelle società umane, di agenti patogeni che vivevano fino ad ora al di fuori della nostra sfera, e con le quali noi non abbiamo potuto coevolvere. Noi distruggiamo le foreste a un ritmo accelerato e mettiamo così in contatto le popolazioni di questi territori con i nuovi agenti patogeni che erano propri di animali selvaggi.
Noi formiamo degli “ecosistemi” con la natura, compresi questo microorganismi che influenzano direttamente la nostra salute e impariamo a coabitare. “Tutto è legato”, potremmo dire, anche se la complessità degli ecosistemi rende difficile la previsione della loro evoluzione (poiché interagisce con una moltitudine di fattori di natura differente). Forse abbiamo dimenticato che la specie umana è intimamente legata alle altre specie viventi, come le teorie dell’evoluzione evidenziano da tempo, e anche al cosmo intero se si ritiene che le ipotesi del Big Bang o quelle di altri scenari si mantengano valide. Le tecnoscienze che permettono oggi di fabbricare parti di esseri umani artificiali grazie alle biotecnologie e a controllare la materia per meglio progettarla ci hanno dato l’illusione che l’uomo si sia definitivamente affrancato dalla natura. Il covid-19 rimette le cose a posto, anche se sappiamo che i nostri legami con la natura non sono sempre causa di epidemia ma possono regolarsi per una buona coabitazione. C’è un vasto campo di lavoro che l’ecologia scientifica e la medicina esplorano ogni giorno di più.
In questa crisi del covid-19 noi vediamo anche quanto l’influenza della natura e la mondializzazione si coniughino per diffondere l’epidemia. Il trasporto aereo, insieme al commercio e al turismo di massa favoriscono grandemente tale espansione. Il virus del pangolino cinese infettato da un pipistrello ha potuto così percorrere il globo! Anche in questo caso tutto è legato, nel meglio e nel peggio! Queste condizioni permettono ai virus e agli altri patogeni di uscire dai loro ecosistemi naturali e di infettare l’uomo che non li “conosce” e che dovrà coabitare e coevolvere con essi per trovare un nuovo equilibrio di salute!
Un articolo della rivista Nature del 21 febbraio 2008 sottolinea che tra il 1940 e il 2004, 335 malattie infettive sono emerse a causa del nostro modello di sviluppo economico e della spinta demografica che l’accompagna. Il 71,8% di queste malattie proviene dalla fauna selvaggia e il 60,3% sono trasmissibili dall’animale all’essere umano come nel caso del covid-19.
L’iniziativa “One health”, “Un mondo/una sanità” (connettere la salute umana con la salute animale e la salubrità dell’ambiente), prevede giustamente di gestire la salute umana in relazione all’ambiente e alla biodiversità, con tre obiettivi principali: combattere contro le zoonosi (malattie trasmissibili dagli animali agli umani e viceversa), assicurare la sicurezza sanitaria degli alimenti, lottare contro la resistenza agli antibiotici.
Allo stesso modo, si studia sempre più il ruolo determinante di milioni di batteri che noi abbiamo nel nostro intestino (il microbiota intestinale) e il cui comportamento influenza fortemente il nostro “benessere globale”. Si dice che questo microbiota sia “simbiotico” per significare che questo ecosistema all’interno del nostro corpo sia in interazione molto stretta con l’insieme di esso. Queste interazioni giocano un ruolo importante sulla salute e l’eventuale sviluppo di malattie, ma anche, grazie ad una coevoluzione, sulla stabilizzazione se non addirittura sulla guarigione di malattie come il diabete e certe forme di autismo. I nostri stili alimentari e i nostri stili di vita interferiscono su questi equilibri dinamici come oggi evidenziano molti studi scientifici. Per più ragioni noi siamo legati ai batteri! Per più ragioni è importante considerare le relazioni tra “ecosistemi”, tanto a livello personale quanto a livello di genere umano, in particolare per definire diversamente le malattie (e le vie di guarigione) che sono in effetti largamente dipendenti dalle perturbazioni dell’equilibrio dei sistemi.
Questa presa di coscienza determinata dai danni del coronavirus rinvia in maniera veemente all’ultima dichiarazione del Forum di Davos, la quale afferma che è giunto il tempo di riflettere sulle nostre azioni in termini di ecosistemi. Speriamo che la crisi attuale acceleri questo processo.

UNA SITUAZIONE INEDITA, REAZIONI PROFONDAMENTE UMANE?
Impauriti per l’ampiezza dell’epidemia, eccoci invitati a una nuova forma di solidarietà: la mobilitazione si è organizzata, lo Stato “è tornato con forza” per tentare di sostenere la sanità pubblica e le conseguenze sociali di questa crisi. Noi pensiamo al notevole lavoro del personale sanitario, all’intelligenza collettiva degli scienziati e dei tecnici che cercano di trovare spazio (tuttavia non senza discussioni e rivalità) e di tutti quelli che, nelle aziende e nei servizi, permettono alla società di continuare a vivere, rischiando la loro salute e perfino la loro vita. Questa mobilitazione si accompagna sovente a molta creatività e ingegnosità. E’ il tempo della solidarietà e della lotta collettiva contro l’epidemia. La nostra intelligenza collettiva è mobilitata per questo.
La nostra prima reazione di credenti è quella di partecipare, ciascuno per la propria parte, a questa solidarietà nazionale e mondiale: alleviare i più colpiti, accompagnare le famiglie di fronte alla malattia e talvolta alla morte di un congiunto, sostenere le persone sole, le persone che perdono il loro lavoro, senza dimenticare i carcerati, gli stranieri senza documenti e i senzatetto. Solidarietà materiali, morali e spirituali. È la priorità del momento. La mia esperienza personale di membro di una rete “di persone in ascolto tramite un numero verde” mi porta a sottolineare il’importanza del sostegno spirituale. In questo momento, più che mai, molti risentono il bisogno di essere ascoltati nella loro sofferenza, nei loro problemi, nella loro/nostra impotenza comune davanti al numero dei morti, ai lutti difficili da piangere ora che le condizioni della morte e dei funerali sono rese delicate. Il ruolo delle religioni “sul campo” è qui essenziale. Credere che la vita sia più forte della morte, al tempo del coronavirus è un richiamo e una sfida! Anche se non si è direttamente toccati dalla malattia i periodi di segregazione sono propizi non solo alla riflessione, alla lettura, ma anche al raccoglimento, alla meditazione, come pure occasioni per ripensare grandi questioni esistenziali.
IN NOME DELLA SALUTE PUBBLICA
Noi abbiamo il dovere il riflettere su quello che ci capita, senza per questo dimenticare il quotidiano della lotta contro l’epidemia. Senza cercare subito dei capri espiatori che ci sollevino un cambiamento del nostro stile di vita. E se questo sventurato virus fosse per noi anche un “segno” in tal senso? Eminenti personalità come Bruno Latour ci invitano così a pensare che questa crisi sanitaria prepari, induca, inciti a tenerci pronti alla mutazione climatica. La nostra interdipendenza passa attraverso i nostri legami con la natura, compresi i virus e i microbi, i nostri legami di mondializzazione (economici, digitali, turistici, giuridici, ecologici, politici…). Essa tocca “il grido della terra e il grido dei poveri” cari a papa Francesco, le questioni sociali e l’equilibrio degli ecosistemi; in breve essa ci dice qualcosa della sfida dell’”ecologia integrale”.
In questa crisi del coronavirus, si vede ritornare con forza il ruolo degli Stati per garantire un bene comune molto prezioso: la salute delle persone e delle popolazioni. In nome di questa salute si decreta un confinamento generale, con ristrette possibilità di spostamento. Rispettando queste misure ciascun individuo è ritenuto essere responsabile non solamente della sua salute ma di quella degli altri, in particolare per mezzo delle famose misure di protezione. E ciò che appariva impossibile poco tempo fa accade: la messa a riposo dell’economia, fatti salvi i bisogni della vita quotidiana, la messa in cassa integrazione di molti lavoratori, la diminuzione drastica dei trasporti, la fine dei viaggi turistici… Nei nostri paesi industrializzati si scopre l’importanza dei servizi pubblici come quelli riguardanti la salute. Lo Stato sblocca i fondi necessari per sostenere lo sforzo della sanità, come pure un’economia al rallentatore, attraverso misure sociali che garantiscano, in Francia per esempio, il pagamento delle ore non lavorate e la proroga del pagamento di alcune tasse o imposte per le persone e le aziende.
I miliardi di euro e di dollari annunciati dagli Stati come gli Usa e gli Stati europei per garantire la sopravvivenza delle nostre società sviluppate (e noi speriamo, una solidarietà con i Paesi in via di sviluppo) ci sorprendono per la loro ampiezza. Sebbene noi dicessimo che il debito degli Stati era insopportabile, ecco che il suo attuale allargamento si pone in modo differente davanti al bene comune della salute da preservare. E anche se si annuncia una grave crisi economica come conseguenza di questa crisi sanitaria, alcuni aggiungono che la priorità è oggi chiara e l’aggravamento del debito è secondario.
Senza essere ingenui (bisognerà rimborsare questo debito un giorno o l’altro) si vede come la sanità pubblica, che l’epidemia virulenta sta facendo emergere come un bene comune prioritario, prenda oggi ( e per un cento tempo) il sopravvento su ogni altro fattore che noi dicevamo essere indispensabile. Si comprende l’urgenza vitale di assumere, sul campo, tutte le misure necessarie riorientando le priorità. Ne va della sopravvivenza di una parte importante della popolazione e del nostro futuro. Ma l’improvviso verificarsi di una epidemia non deve farci dimenticare quello che minaccia anche la nostra salute tutti i giorni in maniera meno repentina e più nociva, cioè l’inquinamento connesso alla catena ecologica che deriva in particolare da una industrializzazione poco rispettosa dell’ambiente, dal riscaldamento climatico e le sue molteplici conseguenze, da una biodiversità mal trattata e da molti altri elementi ambientali, dai nostri modi di produrre, dai nostri scambi commerciali, dai nostri stili e le nostre scelte di vita.
Alcuni sognano un ritorno a “prima del coronavirus” quando l’urgenza ecologica ci poneva già davanti un muro. Del resto vedendo decrescere l’inquinamento delle nostre città in questi tempi di confinamento noi siamo ulteriormente chiamati a trovare dei nuovi equilibri di vita su scala planetaria perché la mondializzazione dell’economia non conduca a una situazione peggiore di quella dell’epidemia attuale. Ma altri vorrebbero chiudere le frontiere o veder decrescere la popolazione mondiale (a cominciare da quella dei paesi poveri, ovviamente!) la cui crescita accelerata appare loro come la causa numero uno dei problemi odierni.
VERSO UN’ECOLOGIA INTEGRALE
Papa Francesco e il Patriarca Bartolomeo propongono, oggi con molte altre personalità, di pervenire alla salvaguardia della casa comune attraverso un’altra via, quella dell’ecologia integrale. Il grido dei poveri e il grido della terra sono connessi. Più che mai, la prova che noi viviamo attualmente è come un invito a riflettere e ad agire in questo senso, in nome di una sorta di “sanità pubblica” che coinvolge l’uomo globale e tutto il genere umano.
Questi appelli provocanti per “cambiare i nostri stili di vita” non pretendono di rifiutare in blocco i frutti della modernità. Del resto noi sperimentiamo attualmente quanto i mezzi digitali e il telelavoro possano essere dei formidabili strumenti di comunicazione che ci consentono di uscire dall’isolamento e permettono incontri amicali e il proseguimento della necessaria attività lavorativa. Si tratta soprattutto di trovare nuovi modi di vivere e di lavorare su scala planetaria, per una nuova mondializzazione coniugando lungo uno stesso percorso ecologia ambientale ed ecologia umana.
L’impatto sanitario in un contesto di impatto ecologico modifica la tensione tra economia ed ecologia mettendoci di fronte alle nostre scelte sociali, alle nostre priorità e a “ciò che è prezioso ai nostri occhi”! La natura, la materia, le specie viventi, i territori non sono innanzitutto delle risorse da sfruttare da parte di un umano “padrone e possessore della natura”. Alcuni economisti pensano che l’attuale pandemia ci offra l’opportunità di regolare una macchina economica speculativa divenuta folle che indebolisce le risorse umane ed ambientali. Ricordandoci brutalmente la nostra fragilità, la crisi sanitaria ci indica che la scienza e la tecnica non bastano, contrariamente a ciò che ci vorrebbero far credere gli attuali transumanisti, con una visione di “uomo-dio” che sfugge ai suoi determinismi biologici e alla sua contingenza grazie alle tecnoscienze. Questa crisi è l’illustrazione della morte di un paradigma progressista che ha fatto il suo tempo.
In questo contesto, le parole di Papa Francesco nella Laudato sì risuonano più forti che mai: «Non basta conciliare in una via di mezzo, la cura della natura con la rendita finanziaria, o la conservazione dell’ambiente con il progresso… si tratta di ridefinire il progresso. Uno sviluppo tecnologico ed economico che non lascia un mondo migliore ed una qualità di vita integralmente superiore, non può considerarsi progresso» (194). Per il Papa, questo progresso non si confonde con la crescita, con un accrescimento della potenza tecnologica, con l’accumulazione di ricchezze materiali e con l’aumento del pil, senza tuttavia trascurare questi fattori.
Francesco raccomanda e sostiene un nuovo approccio all’ecologia che non si limiti alle relazioni dell’essere umano con il suo ambiente, ma riguardi anche lo sviluppo economico, le relazioni sociali, i valori culturali e, infine, la qualità della sua vita quotidiana sia nello spazio pubblico che nel suo ambiente abitativo. Questo approccio di ecologia integrale considera che il rapporto con Dio, il rapporto con se stessi, il rapporto con gli altri e il rapporto con la natura siano connessi: occorre prendersene cura in una stessa misura per non introdurre del disordine nel mondo (il disordine climatico ne è un aspetto). Lo squilibrio di questi rapporti è l’origine antropologica della crisi ecologica. Francesco ci invita ad assumere i rischi necessari per promuovere, in questi tempi di crisi ecologica, uno “sviluppo umano integrale”.
Cosa ne faremo di questo “appello” uscendo dalla crisi sanitaria, e dovendo quindi vivere senza dubbio una crisi economica e sociale? Oseremo sperimentare dei nuovi stili di vita, di lavoro, di produzione, di consumo, di economia giusta e solidale, di relazione con la terra, con gli esseri viventi, con la natura, con il cosmo, avendo come priorità lo sguardo rivolto verso i più poveri? La trasformazione ecologica qui prospettata si situa a lungo termine e richiede riforme strutturali di portata tale che solo un soffio spirituale profondo può suscitare.

(traduzione a cura di Beppe Elia)
(da “Coscienza” 1-2/2020)
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Ricostruire l’Italia. Con il Sud. E con il Sud la Sardegna.

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Ricostruire l’Italia. Con il Sud
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Sbilanciamoci! 3 Agosto 2020 | Sezione: Apertura, Italie, Lavoro, Politica, Società
Il sociale, l’istruzione, la mobilità, i luoghi, le imprese sono gli assi su cui concentrare l’impegno per la ricostruzione del Mezzogiorno, dopo l’emergenza covid-19. Un documento di 29 esperti su come pensare al futuro del Sud.

lampadadialadmicromicro133Anche noi di Aladinpensiero, concordando pienamente con le scelte di Sbilanciamoci!, diamo spazio al Manifesto “Ricostruire l’Italia. Con il Sud”, con l’impegno di sostenere e diffondere il dibattito.
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[Sbilanciamoci!] Pubblichiamo il documento, promosso da 29 esperti di Mezzogiorno, sul ruolo del Sud nella ricostruzione del Paese dopo la pandemia di Covid-19 e sugli interventi necessari. E’ un contributo al dibattito di Sbilanciamoci! raccolto nell’ebook ‘In salute, giusta, sostenibile. L’Italia che vogliamo’, ancora scaricabile gratuitamente.
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Ricostruire l’Italia. Con il Sud

1. Nei prossimi mesi l’Italia si gioca molto del suo futuro. Non si tratta di tornare al passato, ma di ricostruire un paese migliore; bisognerà andare più veloci, e contemporaneamente ridurre fratture e disuguaglianze che tenderanno ad aumentare. La priorità dovrà essere creare lavoro: impossibile mantenere la coesione con 5 milioni di disoccupati e con sole misure emergenziali.

2. Il Sud deve e può offrire un contributo fondamentale a questa ricostruzione; deve essere messo in grado di poterlo fornire, a vantaggio dell’intero paese.

3. Il Piano di Rilancio è una grande occasione. Per questo serve un disegno. Non liste di progetti e interventi senza una visione comune che li leghi, senza che si rafforzino a vicenda. Anche perché non mancheranno conflitti per la gestione delle risorse, richieste di inserire mille provvedimenti specifici, pressioni degli interessi meglio organizzati.

4. Un disegno che non può restare un programma di sola emergenza: deve aprire la strada ad un’Italia più competitiva e più sostenibile. È cruciale ottenere velocemente risultati ma cominciando a costruire un modello di sviluppo di lungo periodo più sostenibile. Serve una forte coerenza fra obiettivi congiunturali e strutturali, fra le iniziative del Piano di Rilancio e le politiche ordinarie, di spesa in conto capitale e corrente.

5. Un disegno che deve essere unitario. L’Italia non è un treno con improbabili locomotive. È come una squadra di ciclisti: per vincere ognuno deve dare il suo contributo, nessuno deve restare indietro. Come nella logica europea alla base della “Next Generation Initiative”, si cresce se l’avanzamento di ognuno aiuta gli altri, grazie alle interdipendenze economiche.

6. Un disegno unitario e attento a tutti i luoghi: le politiche devono essere le stesse, ma la loro intensità, la loro attuazione deve tenere conto delle diverse realtà. Tutti i territori devono contribuire al rilancio; ma perché questo accada devono essere messi in grado di farlo, investendo sulle loro capacità, creando nuove opportunità.

7. Il Sud deve avere un ruolo molto importante nel Piano di Rilancio, coerentemente con gli scenari del Piano Sud 2030. Non solo per motivi di equità, ma anche perché è la riserva di crescita dell’Italia, perché dispone delle maggiori quantità di risorse inutilizzate, in particolare umane; che oggi non producono valore per la comunità nazionale.

8. Per questo sono necessari prerequisiti finanziari: l’allocazione quantomeno con il rispetto della clausola del 34% di tutti i fondi della “Next Generation”. Ma anche con l’attivazione coerente di risorse già destinate al Sud: una quota significativa dei prossimi fondi strutturali e del Fondo Sviluppo e Coesione deve essere indirizzata a finanziare ulteriormente il Piano di Rilancio, per accrescerne ancor più l’impatto nelle regioni più deboli e per estenderne gli interventi per l’intero decennio.

Ma questo non basta, senza una proposta sul che fare e sul come farlo.

9. Al Sud e all’Italia servono tanti interventi. I programmi per la Digitalizzazione, l’Alta Velocità ferroviaria, il rilancio di Impresa 4.0, sono buoni punti di partenza in diversi ambiti. Ma se si prova a fare tutto subito si ottiene poco. Solo stabilendo priorità si possono produrre presto risultati tangibili, comunicare al paese e ai partner europei obiettivi concreti; mostrare risultati raggiunti; e quindi creare fiducia. Per questo, proponiamo che il Piano di Rilancio si concentri su 5 grandi assi.

1° Asse. Investire nel sociale. Per costruire progressivamente le reti pubbliche dei servizi socio-sanitari territoriali, anche con un ruolo centrale del Terzo settore. Per prevenire futuri rischi sanitari e sociali, specie per i più deboli. Per puntare così ad un’Italia più giusta, nella quale siano riconosciuti a tutti i diritti di cittadinanza. Per creare occasioni per nuove occupazioni qualificate, soprattutto per i giovani e le donne. La coesione sociale è la prima pre-condizione indispensabile per lo sviluppo, soprattutto al Sud.

2° Asse. Investire nell’istruzione pubblica. Per accrescere quantità e qualità degli apprendimenti, lungo tutta la filiera scolastica e in tutti i territori: dai servizi per l’infanzia al recupero dei vuoti didattici e di socialità causato dal Covid e dagli abbandoni. Con investimenti strutturali nelle scuole, e la promozione di “comunità educanti” animate da istituzioni scolastiche e soggetti del privato sociale. Nell’università, per aumentare le immatricolazioni con meno tasse e più diritto allo studio, e dare prospettive a più giovani ricercatori e docenti. Il sapere è l’ingrediente più importante per ricostruire l’Italia, soprattutto al Sud.

3° Asse. Investire sulla mobilità. Servono “grandi opere”, con effetti lontani nel tempo, ma anche e soprattutto un piano di interventi fisici puntuali di ricucitura ed efficientamento delle reti e contemporaneamente l’attivazione di servizi, anche nuovi, di trasporto urbano e di corto e medio-lungo raggio. Per accrescere le “capacità” delle periferie, rivitalizzare il terziario nei centri storici, aumentare l’integrazione fra le economie urbane e i territori circostanti. Riconnettere l’Italia e in particolare il Sud e tutte le aree marginalizzate è una precondizione per lo sviluppo dell’intero paese.

4° Asse. Investire sui luoghi. Dedicare risorse alla valorizzazione della varietà territoriale e ambientale dell’Italia: sostenere le produzioni tipiche, la qualità e biodiversità agricola, i beni culturali, un turismo più sostenibile, la produzione diffusa di energia da fonti rinnovabili, la prevenzione e tutela del suolo, soprattutto sull’Appennino; la rigenerazione dei patrimoni immobiliari anche per accrescere l’offerta di abitazioni per le famiglie a basso reddito¸ le forme di auto-organizzazione sociale locale. La ricostruzione è più forte con il contributo di tutti i luoghi, in tutto il paese.

5° Asse. Investire sulla qualità delle imprese. Rafforzare il tessuto di imprese industriali e terziarie in tutta Italia, favorendone la crescita dimensionale, una forte innovazione anche a matrice digitale, le convenienze a occupare di più (anche riducendo gli oneri contributivi sul lavoro e favorendo stabilmente le assunzioni di personale più qualificato, specie al Sud), investendo sui propri dipendenti. A stabilire legami con altre imprese e con una rete nazionale per la diffusione delle innovazioni. Il lavoro si crea con la qualità e i diritti.

Ma che cosa fare ancora non basta, senza una proposta sul come farlo.

10. Per come l’Italia è organizzata oggi difficilmente può realizzare un Piano di Rilancio presto e bene. L’esperienza dei programmi dei fondi strutturali è chiara: pletoricità degli obiettivi, frammentazione degli interventi, procedure complesse, lentezza nelle realizzazioni, scarso coordinamento fra gli interventi straordinari e ordinari. Non basta distribuire risorse, in particolare alle Regioni, sperando che questa volta le cose vadano meglio.

11. È un problema di governance. Occorrono scelte chiare e precise, sugli obiettivi e sulla “missione” del Piano. Ed è indispensabile rafforzare un governo centrale della sua attuazione: l’interfaccia con l’UE, le Regioni e le autonomie locali, con il Parlamento; anche potenziando le attuali strutture di coordinamento (come le Conferenze), con le rappresentanze delle forze sociali e del privato sociale. Passando dalla logica della mera distribuzione di risorse ai singoli attori e livelli istituzionali ad un processo in cui ciascuno ha obiettivi e tempi chiari.

12. Per attuare il Piano deve esse definito un insieme di modalità di intervento e di tipologie di progetti validi in tutto il paese, chiunque le realizzi; in ciascun territorio si tratterà di definire il loro mix ottimale, e di accompagnarne l’effettiva attuazione: non di ridisegnare ogni volta misure e procedure. Sono cruciali interventi per la semplificazione delle norme e degli iter procedurali, per ottenere sostanziali accorciamenti dei cicli dei progetti, e una velocità di spesa molto maggiore.

13. Le Amministrazioni Comunali dovranno avere un ruolo centrale nella realizzazione di molti degli interventi. Per questo, devono essere rapidamente potenziate le loro dotazioni di personale qualificato e ripensate le loro modalità organizzative, anche con un uso molto più intenso delle tecnologie digitali. Un ruolo centrale dei Comuni, delle unioni di Comuni e dell’Anci nella ricostruzione è fondamentale.

14. Alle imprese a partecipazione pubblica nell’ambito del Piano di Rilancio dovrebbero essere affidate importanti, specifiche “missioni” (per la mobilità, per i servizi digitali, per la transizione energetica), nel rispetto dell’autonomia manageriale e dell’economicità della loro azione.
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Promotori:
Pierfrancesco Asso, Università di Palermo
Laura Azzolina, Università di Palermo
Piero Bevilacqua, storico
Luca Bianchi, economista
Carlo Borgomeo, Fondazione con il Sud
Luciano Brancaccio, Università Federico II Napoli
Luigi Burroni, Università di Firenze
Domenico Cersosimo, Università della Calabria
Leandra D’Antone, storica
Paola De Vivo, Università Federico II Napoli
Carmine Donzelli, editore
Maurizio Franzini, Università La Sapienza Roma
Lidia Greco, Università di Bari
Alessandro Laterza, editore
Giorgio Macciotta, politico
Flavia Martinelli, Università Mediterranea Reggio Calabria
Alfio Mastropaolo, Università di Torino
Vittorio Mete, Università di Firenze
Enrica Morlicchio, Università Federico II Napoli
Rosanna Nisticò, Università della Calabria
Emmanuele Pavolini, Università di Macerata
Guido Pellegrini, Università La Sapienza Roma
Francesco Prota, Università di Bari
Francesco Raniolo, Università della Calabria
Marco Rossi-Doria, maestro
Isaia Sales, Università S. Orsola Benincasa Napoli
Rocco Sciarrone, Università di Torino
Carlo Trigilia, Università di Firenze
Gianfranco Viesti, Università di Bari
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- Anche su Giornalia -

Importante Progetto

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Trasformare il mondo per salvarlo. Il comune campo di impegno per l’umanità tracciato dalla Laudato si’ e dall’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.

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Venerdì 20 dicembre nell’aula del Consiglio comunale di Cagliari è stato presentato il dossier 2019 della Caritas della Diocesi di Cagliari. Presenti con un numeroso pubblico il presidente del Consiglio comunale Edoardo Tocco, il sindaco Paolo Truzzu, il prefetto Bruno Corda e l’arcivescovo Arrigo Miglio. Con la regia di don Marco Lai e di Maria Chiara Cugusi, dopo gli interventi delle autorità, la relazione sui contenuti del dossier è stata tenuta da Franco Manca. Mons. Franco Puddu ha invitato tutti alla Marcia nazionale per la Pace che si terrà a Cagliari martedì 31 dicembre. Ha concluso i lavori don Marco Lai che ha ringraziato tutti, ma, in modo particolare l’arcivescovo Arrigo Miglio, che, come si sa, ha chiuso il suo mandato pastorale di titolare Chiesa di Cagliari per raggiunti limiti di età, rimanendone vescovo emerito. I presenti hanno tributato un lungo e caloroso applauso, un’autentica standing ovation, al Vescovo Miglio.
Torneremo sul rapporto. Intanto anticipiamo il contributo presente nel volume del direttore Franco Meloni.
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Trasformare il mondo per salvarlo. Il comune campo di impegno per l’umanità tracciato dalla Laudato si’ e dall’Agenda Onu 2030 sullo sviluppo sostenibile.
di Franco Meloni
“Anche se voi vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”. Così cantava Fabrizio De André in una delle sue canzoni più “dure” e “politicamente impegnate”(1), con la quale se la prendeva con i benpensanti incuranti delle ragioni del movimento della contestazione studentesca e operaia del 1968. Si tratta di un’invettiva che mi piace condividere con i lettori, separandola arbitrariamente dai fatti del passato a cui si riferisce, perché credo ben si attagli all’atteggiamento odierno di “indifferenza generalizzata” davanti a quanto sta succedendo al nostro Pianeta, attraversato da una crisi climatica ed ecologica, tanto grave e urgente da esserne minacciata la stessa sopravvivenza. Questo atteggiamento negativo riguarda innanzitutto i governanti degli Stati, a tutti i livelli, ma ad essi purtroppo si accompagna quello della stragrande maggioranza degli abitanti del Globo, noi compresi. Non voglio qui sminuire l’importanza delle reazioni alla situazione della Terra, tese a contrastarne la deriva di autodistruzione, sia per quanto attiene ai responsabili politici (e, in generale, alle classi dirigenti), sia ai cittadini, singoli e associati. Per quanto riguarda i primi, possiamo citare gli impegni presi dagli Stati nelle varie Conferenze internazionali sui cambiamenti climatici (2), e con l’Agenda Onu 2030, sulla quale mi soffermerò (3); mentre per i secondi basta rammentare le lotte dei movimenti ecologici in tutto il mondo, come quello encomiabile dei ragazzi di Fridays For Future (4). Queste iniziative vanno valorizzate e anche enfatizzate essendo precisamente nella giusta strada, ma emerge la loro complessiva inadeguatezza, rispetto alla gravità e urgenza dei problemi, così come avvertono gli scienziati competenti per materia e dotati di sensibilità culturale e sociale. 
Laudato si’. L’approccio dell’ecologia integrale.
Su dette problematiche, che costituiscono una costante preoccupazione del suo pontificato fin dal suo insediamento, Papa Francesco ha scritto la “Laudato si’. Lettera enciclica sulla cura della casa comune”, datata 24 maggio 2015, autentica pietra miliare dalla quale il Papa continuamente riparte con piccole e grandi iniziative, tra le quali ultime l’istituzione della «Giornata mondiale di preghiera per la cura del creato» il primo settembre di ogni anno, con le connesse iniziative del «Tempo del Creato» (5), e lo storico Sinodo sull’Amazzonia, celebrato a Roma dal 6 al 27 ottobre 2019. La Laudato si’ è oggetto di studio e approfondimenti in tutto il mondo; costituisce un testo di riferimento che unifica credenti e non credenti (6) nell’impegno per la “Casa comune”. Sono innumerevoli le iniziative in tal senso e anche noi nella nostra come nelle altre Diocesi della Sardegna, abbiamo fatto e facciamo la nostra parte. Tuttavia sentiamo l’insufficienza di tale attività e di conseguenza la necessità di aumentare gli sforzi e il coinvolgimento di più soggetti. E’ anche questo lo scopo del presente articolo, nel quale non mi soffermo tanto sull’Enciclica, che comunque ne costituisce assoluto riferimento, quanto sulle iniziative “laiche” che sono consonanti con l’impostazione complessiva della stessa. Il documento laico più vicino all’Enciclica, che ha analogo “respiro”, è appunto l’Agenda Onu 2030. Vedremo più avanti. Intanto ci piace riportare dalla Laudato si’ l’appello di Papa Francesco, che ne sintetizza lo scopo ultimo, unendo le preoccupazioni alla Speranza sostenuta dal riconoscimento di quanto di positivo già si fa. (Laudato sì’, 13, 14) “13. La sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale, poiché sappiamo che le cose possono cambiare. Il Creatore non ci abbandona (…). L’umanità ha ancora la capacità di collaborare per costruire la nostra casa comune. Desidero esprimere riconoscenza, incoraggiare e ringraziare tutti coloro che, nei più svariati settori dell’attività umana, stanno lavorando per garantire la protezione della casa che condividiamo. Meritano una gratitudine speciale quanti lottano con vigore per risolvere le drammatiche conseguenze del degrado ambientale nella vita dei più poveri del mondo. (…) 14. Rivolgo un invito urgente a rinnovare il dialogo sul modo in cui stiamo costruendo il futuro del pianeta (…) Il movimento ecologico mondiale ha già percorso un lungo e ricco cammino, e ha dato vita a numerose aggregazioni di cittadini che hanno favorito una presa di coscienza. Purtroppo, molti sforzi per cercare soluzioni concrete alla crisi ambientale sono spesso frustrati non solo dal rifiuto dei potenti, ma anche dal disinteresse degli altri. Gli atteggiamenti che ostacolano le vie di soluzione, anche fra i credenti, vanno dalla negazione del problema all’indifferenza, alla rassegnazione comoda, o alla fiducia cieca nelle soluzioni tecniche.(…)”.
Dell’Enciclica voglio rimarcare in modo particolare un concetto chiave, quello dell’ECOLOGIA INTEGRALE. Dice il Papa (Laudato si’, 137):  ”Dal momento che tutto è intimamente relazionato e che gli attuali problemi richiedono uno sguardo che tenga conto di tutti gli aspetti della crisi mondiale, propongo di soffermarci adesso a riflettere sui diversi elementi di una ecologia integrale, che comprenda chiaramente le dimensioni umane e sociali.”. Dunque: l’ECOLOGIA AMBIENTALE, ECONOMICA E SOCIALE, l’ECOLOGIA CULTURALE, l’ECOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA, IL PRINCIPIO DEL BENE COMUNE, LA GIUSTIZIA TRA LE GENERAZIONI, tutti ingredienti compresi nell’accezione “Ecologia integrale”, che come vedremo, vengono puntualmente ripresi nell’Agenda Onu 2030, forse senza un confortevole respiro religioso, ma tale è il valore aggiunto che caratterizza il sentire dei credenti e non solo (6). Vi invito a soffermarvi innanzitutto sul “preambolo” del documento dell’ONU, proprio per evidenziarne la consonanza con la Laudato si’ (che lo ha preceduto), quasi come risposta concreta all’appello del Papa, anzi sembra davvero che lo abbia scritto lui, sicuramente, penso io, ha contribuito ad ispirarlo.
Trasformare il nostro mondo: l’Agenda Onu 2030 per lo Sviluppo Sostenibile approvata il 25 settembre 2015, dall’Assemblea generale dell’Organizzazione delle Nazioni Unite.
“PreamboloQuest’Agenda è un programma d’azione per le persone, il pianeta e la prosperità. Essa persegue inoltre il rafforzamento della pace universale in una maggiore libertà. Riconosciamo che sradicare la povertà in tutte le sue forme e dimensioni, inclusa la povertà estrema, è la più grande sfida globale ed un requisito indispensabile per lo sviluppo sostenibile. Tutti i paesi e tutte le parti in causa, agendo in associazione collaborativa, implementeranno questo programma. Siamo decisi a liberare la razza umana dalla tirannia della povertà e vogliamo curare e salvaguardare il nostro pianeta. Siamo determinati a fare i passi audaci e trasformativi che sono urgentemente necessari per portare il mondo sulla strada della sostenibilità e della resilienza. (…) . PersoneSiamo determinati a porre fine alla povertà e alla fame, in tutte le loro forme e dimensioni, e ad assicurare che tutti gli esseri umani possano realizzare il proprio potenziale con dignità ed uguaglianza in un ambiente sano. PianetaSiamo determinati a proteggere il pianeta dal degradazione, attraverso un consumo ed una produzione consapevoli, gestendo le sue risorse naturali in maniera sostenibile e adottando misure urgenti riguardo il cambiamento climatico, in modo che esso possa soddisfare i bisogni delle generazioni presenti e di quelle future. ProsperitàSiamo determinati ad assicurare che tutti gli esseri umani possano godere di vite prosperose e soddisfacenti e che il progresso economico, sociale e tecnologico avvenga in armonia con la natura. PaceSiamo determinati a promuovere società pacifiche, giuste ed inclusive che siano libere dalla paura e dalla violenza. Non ci può essere sviluppo sostenibile senza pace, né la pace senza sviluppo sostenibile. CollaborazioneSiamo determinati a mobilitare i mezzi necessari per implementare questa Agenda attraverso una Collaborazione Globale per lo sviluppo Sostenibile, basata su uno spirito di rafforzata solidarietà globale, concentrato in particolare sui bisogni dei più poveri e dei più vulnerabili e con la partecipazione di tutti i paesi, di tutte le parti in causa e di tutte le persone.”
Occorre evidenziare il carattere fortemente innovativo dell’Agenda, nella misura in cui si basa su un chiaro giudizio sull’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo (in particolare di quello egemone capitalistico neo liberista), non solo sul piano ambientale, ma anche su quello economico e sociale. Si afferma pertanto una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo. Tutti i Paesi – senza distinzioni tra Paesi sviluppati, emergenti e in via di sviluppo, anche se evidentemente le problematiche possono essere diverse a seconda del posizionamento socio-economico – devono impegnarsi a definire una propria strategia di sviluppo sostenibile che consenta di raggiungere gli SDGs entro il 2030. Rispetto a tali parametri, ciascun Paese viene valutato periodicamente sui risultati conseguiti all’interno di un processo coordinato dall’Onu e dagli Stati nazionali, auspicabilmente sostenuto dalle opinioni pubbliche nazionali e internazionali. L’attuazione dell’Agenda richiede pertanto un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società, dalle imprese alle pubbliche amministrazioni, dalla società civile, al volontariato e alle entità del terzo settore, dalle università e centri di ricerca agli operatori dell’informazione e della cultura. 
In questo intervento non mi occupo dei risultati conseguiti (a oltre quattro anni dal varo dell’Agenda), preferendo rimanere sui dati informativi dell’iniziativa. Dobbiamo constatare peraltro che tuttora permane una scarsa conoscenza dell’Agenda (così pure della Laudato si’) per cui è necessario incrementarne la diffusione e le iniziative di sensibilizzazione a tutti i livelli e in ogni possibile circostanza. Ci saranno sicuramente altre occasioni per effettuare opportune valutazioni, a cui non mancheremo. Per l’Italia i check-up annuali sono curati (a partire dal 2016) dall’ASviS, ultimo relativo al 2019 è stato presentato il 4 ottobre 2019 (8).
Goals e Targets (Obiettivi e Traguardi)
[segue]

Materiali dell’Incontro “Lavorare meno Lavorare meglio Lavorare tutti”. Intervento di Silvano Tagliagambe.

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lampadadialadmicromicro Con il contributo di Silvano Tagliagambe proseguiamo nella pubblicazione degli interventi all’Incontro-dibattito sul Lavoro, che si è tenuto venerdì scorso, con la partecipazione del sociologo del lavoro Domenico De Masi. Abbiamo chiesto a ciascun relatore di inviarci il proprio contributo per iscritto, anche con eventuale rielaborazione rispetto a quello effettivamente svolto, pur rispettando contenuti e sintesi. Procederemo a pubblicare le relazioni nell’ordine in cui ci perverranno. Questa occasione potrà essere colta anche da quanti non abbiano avuto spazio nel convegno e vogliano intervenire nelle pagine della nostra News, che volentieri mettiamo a disposizione.
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Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti
di Silvano Tagliagambe

Il 5 ottobre è stato presentato il volume Lavorare meno, lavorare meglio, lavorare tutti, curato da Fernando Codonesu, a un anno esatto dal Convegno tenutosi a Cagliari, di cui contiene gli Atti.
La discussione, avviata da un corposo intervento di Domenico De Masi, ha affrontato sotto traccia, grazie soprattutto alle stimolanti riflessioni di Antonio Dessì, il tema del destino del lavoro dell’uomo nell’era della crescente (e inarrestabile) digitalizzazione e globalizzazione. Le ragioni delle inquietudini suscitate da questo quadro generale sono ben note: sulla base di una ricognizione analitica, settore per settore, C.B. Frey e M.A. Osborne nel loro documentato articolo “The future of employment: How susceptible are jobs to computerisation?”, comparso l’anno scorso nel numero 114 della rivista Technological Forecasting and Social Change (pp. 254-280) stimano che circa il 47% dei compiti lavorativi in essere siano automatizzabili nel corso dei prossimi dieci o venti anni.
L’Indagine MGI-McKinsey Global Institute, del gennaio dello scorso anno, valuta il tempo-lavoro che le macchine intelligenti si prevede possano sostituire nell’economia degli Stati Uniti in condizioni di fattibilità tecnica “a tecnologie esistenti”. Il tasso medio di sostituzione del tempo-lavoro viene previsto, per l’intera economia, con un valore piuttosto elevato (49%). Ma, soprattutto, emergono forti differenze tra i diversi settori: la sostituzione prevista arriva fino all’81% del tempo lavoro nelle lavorazioni materiali codificate (in pratica nei lavori di fabbrica che si svolgono in modo programmato e in condizioni prevedibili), tra il 60 e il 70% nel campo dell’elaborazione e raccolta dati (una gran parte dei lavori di ufficio regolati da procedure burocratiche e amministrative). Una quota assai minore di sostituzione (26%) si ha invece per il lavoro di fabbrica poco programmato o che si svolge in condizioni poco prevedibili, e una quota ancora minore (intorno al 20%) per i lavori di relazione, creativi o dal forte contenuto decisionale. Minima (9%) è la sostituzione prevista per le attività di gestione delle persone.
In ogni caso il dato che emerge è che il lavoro delle macchine tende a sostituire sempre più il lavoro dell’uomo, con effetti ormai visibili a occhio nudo sulla possibilità di trovare un’occupazione, stabile o occasionale che sia, soprattutto (ma non solo) da parte dei giovani.
Le prospettive che emergono da questa situazione sono diverse a seconda delle lenti con le quali le si valuta. Gli ottimisti ritengono che le innovazioni digital driven, quelle che nascono dal saper cogliere in pieno le potenzialità della rivoluzione digitale in essere, in termini di riduzione dei costi e di aumento delle prestazioni direttamente connesse alla tecnologia applicata, non potranno subentrare in toto alle innovazioni human driven, frutto di proposte e azioni derivanti dalla creatività e dall’intraprendenza umana, che genera valore immaginando nuovi usi (innovazioni d’uso), proponendo esperienze coinvolgenti o realizzando significativi processi di creazione di nuovo significato. A loro giudizio le esperienze riguardanti le relazioni, i legami, le emozioni, la bellezza, il gusto, la contemplazione, il desiderio, l’autenticità, la genuinità, la salubrità, la tradizione, il sogno, la libertà, la fiducia la ricerca della felicità sono di pertinenza esclusiva della creatività umano e disegnano un ampio territorio di produzione di beni materiali e immateriali in cui la macchina non potrà mai sostituirsi all’uomo.
Per questi apologeti della rivoluzione digitale, pertanto, il futuro, prossimo e remoto ci proporrà soluzioni di crescente interazione e collaborazione tra l’innovazione human driven, la quale crea soluzioni di valore unitario più elevato, incorporando nei prodotti e nei servizi elementi intangibili quali design, unicità, emozione ecc., e la tecnologia digital driven, che svolge il suo ruolo di “moltiplicatore”, perché consente la circolazione e il confronto delle buone idee e delle informazioni utili ad alimentare i processi di creazione del nuovo e di sperimentazione del possibile, utilizzando le conoscenze di un vasto circuito sociale ed economico, messo in rete dalla comunicazione digitale. In questa funzione, il digitale rende conveniente la scelta della open innovation, rivolta ad utilizzare al massimo le conoscenze in possesso di altri, riducendo i costi e aumentando il valore della creazione e sperimentazione dei nuovi prodotti e dei nuovi processi. Da questa interazione scaturiranno una fusione di “menti” e “strumenti” e l’incremento di interconnessioni tra intelligenza naturale e intelligenza artificiale destinato non solo a retroagire – tramite un ciclo virtuoso di auto-rinforzo – sulla creazione stessa del valore, ma anche e soprattutto a fungere da amplificatore delle stesse capacità umane, con conseguente aumento (e non decremento) dei processi di innovazione human driven.
Se le cose stessero effettivamente così ciò che si può ragionevolmente ipotizzare è il crescente spostamento del lavoro umano dai mestieri puramente esecutivi, che abbiamo in gran numero ereditato dalla stagione della meccanizzazione rigida, durante la prima modernità, a forme di occupazione sempre più creative, che saranno protagoniste del futuro nel mondo del lavoro e richiederanno nuove forme di apprendimento, che consentano alle persone di usare in modo creativo i linguaggi formali della scienza e delle macchine per generare valore nel mondo reale e siano ancorate ad una visione convinta e condivisa del porto di arrivo verso il quale indirizzare la navigazione. Infatti, come osserva Enzo Rullani nel suo contributo introduttivo a un libro che considero di fondamentale importanza per comprendere i processi in corso e quelli a venire, curato in collaborazione con Alberto F. De Toni (Uomini 4.0: Ritorno al futuro. Creare valore esplorando la complessità), pubblicato quest’anno da Franco Angeli, nel mare della complessità e dell’innovazione, contrariamente a quello che a volte si crede, non si può navigare a vista. Se manca la mappa, per tracciare la rotta serve almeno avere un porto di arrivo ideale, una meta che consenta di distinguere, in ogni momento del presente, i venti favorevoli da quelli contrari, in modo da alzare le vele quando le contingenze ci mettono di fronte ai primi, e da fermarsi e resistere quando, invece, arrivano i secondi. Andando così avanti, passo per passo, e con tutti gli adattamenti tattici del caso, lungo un percorso dotato di senso, che punta verso il porto prescelto. Lo scriveva già Seneca: “Non c’è mai vento a favore per il marinaio che non sa qual è il suo porto”.
De Masi invece, sia nel Convegno dell’anno scorso, rispondendo alle acute domande di Fernando Codonesu, sia nella presentazione degli Atti di quest’anno, è molto meno ottimista riguardo a questa possibile coesistenza di innovazione human driven e digital driven. A suo modo di vedere quest’ultima finirà col subentrare totalmente alla prima, per cui l’umanità è fatalmente destinata ad avviarsi verso una condizione di non-lavoro, che secondo lui va però vista non come una minaccia, bensì come una opportunità che lascia all’uomo uno spazio crescente, da impiegare sia per attività di formazione (che, specialmente in Italia, hanno bisogno di essere accresciute e qualificate), sia per sviluppare condizioni di vita e di cultura sociale che riservino uno spazio sempre maggiore all’«ozio creativo». Come del resto avveniva, a suo giudizio, nella Grecia antica, che ci ha lasciato un patrimonio di cultura sul quale l’umanità sta tuttora prosperando. Un concetto, questo, su cui De Masi insiste da tempo, prefigurando una liberazione (positiva) dallo stato di necessità a cui l’uomo lavoratore è sempre stato vincolato nella storia passata, che va ovviamente accompagnato da misure di equa distribuzione della ricchezza prodotta dall’automazione digitale, nel presente e soprattutto in prospettiva, usando in modo appropriato il surplus che ne deriva.
Ne scaturiscono due opposte valutazioni del lavoro, che per De Masi è un fardello dal quale possiamo liberarci senza troppi rimpianti, anzi con prospettive sicuramente allettanti per il futuro dell’umanità, che ci ricollegano ai momenti più felici della sua storia, come quello dell’antica Grecia appunto, mentre per i fautori della valorizzazione dell’innovazione human driven si tratta di un processo che, a patto di sapersi trasformare in modo da fornire una gestione efficace della maggiore complessità e di trarne positivamente le enormi potenzialità, non va considerato un semplice fattore di costo, da ridurre al minimo, ma diventa al contrario una risorsa trainante, che accresce non solo la quantità, ma soprattutto la qualità delle prestazioni richieste, innalzando il livello dell’intelligenza umana, individuale e collettiva. Il lavoro come valore, quindi, che nel futuro, prossimo e remoto, se ben indirizzato potrà rendere le persone sempre più capaci non solo di rispondere in modo flessibile alle domande e alle sfide che si presentano loro di volta in volta, ma anche di immaginare e identificare nuove soluzioni, di elaborare progetti innovativi, di alimentare significati e relazioni coinvolgenti, di organizzare esperienze emotivamente ricche, di creare identità partecipate e comunità di senso corrispondenti. Il lavoro, dunque, come strumento per creare valore, esplorando livelli di complessità (varietà, variabilità, interdipendenza, indeterminazione) sempre maggiori.
Ciascuno è libero, ovviamente, di optare per l’una o l’altra soluzione. Ci sono però una constatazione e una domanda, quella che appunto affiorava dal citato intervento di Antonio Dessì, che è impossibile evitare di porsi. Un futuro come quello prospettato da De Masi presuppone una rivoluzione che non è solo economica e sociologica, ma antropologica. La domanda che ne consegue è la seguente: l’uomo è predisposto per una vita puramente contemplativa, fatta di ozio creativo e null’altro? Che nel passato si sia effettivamente data una condizione di questo genere è opinabile (l’interpretazione della vita dell’antica Atene, interamente concentrata nell’agorà, il luogo delle adunanze, il centro politico, religioso, amministrativo e commerciale della città, in cui tutti gli uomini liberi si ritrovavano per prendere decisioni politiche importanti e concludere affari, e totalmente assorbita da essa, è suggestiva ma controversa e messa fortemente in discussione). Il problema però è un altro: le neuroscienze ci stanno dicendo, in maniera difficilmente contestabile, che il motore principale del nostro cervello, ciò che è alla base del suo mirabile funzionamento, non è costituito dalla percezione, come si credeva fino a poco tempo fa, né dal semplice movimento, ma dall’azione, caratterizzata dalla presenza di un progetto e di uno scopo. I processi cerebrali non appaiono, pertanto, semplici artefici di sensazioni e controllori di movimenti: alla base della loro organizzazione funzionale c’è la nozione teleologica di scopo.
Questi risultati hanno condotto a una riformulazione della risposta alla domanda: «a cosa serve il sistema motorio?» Per molti anni la risposta è stata: per produrre movimenti. Oggi sappiamo che questa risposta è errata, o quantomeno parziale. Il sistema motorio non produce solo movimenti ma atti motori e azioni, cioè movimenti dotati di uno scopo, come afferrare un oggetto, o sequenze di movimenti atte a conseguire uno scopo più distale, come afferrare un bicchiere e portarlo alla bocca per bere. Un movimento è una semplice dislocazione di parti corporee, come flettere o estendere le dita di una mano. Un atto motorio consiste invece nell’utilizzare quegli stessi movimenti per conseguire uno scopo motorio, per esempio afferrare un oggetto, manipolarlo, romperlo, posizionarlo, tenerlo ecc.
L’uomo, dunque, sembra fatto per progettare e agire. Quale sarà allora il suo destino se lo si costringe esclusivamente a contemplare e a oziare? Non c’è il rischio che l’ozio prolungato e forzato, anziché sfociare in opere creative e formative edificanti, conduca ad agitazioni insensate, che proprio perché non più progettate e indirizzate verso uno scopo, non più controllate razionalmente e frutto invece della prevalenza del puro istinto e delle passioni, rischiano di avere conseguenze opposte rispetto a quelle desiderabili che ci vengono prospettate? Questo sì è già successo e continua purtroppo a succedere nella storia dell’umanità. E non è davvero desiderabile.
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