Istruzione & Formazione

Malessere Università

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allarme università

calo immatricolati

Clab Unica über alles. Prima Yenetics, ma hanno vinto tutti!

Clab Unica über alles. Prima Yenetics, seconda Bxtar, terza Bautifulbox, ma hanno vinto tutti! Tutte le informazioni domani su Unicanews e su TTecnologico. Intanto alcune notazioni a caldo…
clab 19 feb16 seiclab 19 feb16 cinqueContamination Lab di Unica. Pigliaru promette di proseguirne il sostegno con i fondi della programmazione europea 2014-2020. Ammette di non aver avuto alcun merito in questo progetto, ma strada facendo se ne è convinto. Ne siamo felici. Pigliaru si vanta di essere renziano. Poteva risparmiare di ricordarcelo, anche perché Renzi è oggi il principale responsabile del tentativo di annientamento delle Università del Sud isole comprese. Ma, dice Pigliaru, che Renzi non è consapevole dei guai che la sua politica genera. Un po’ come Scaiola per la casa al Colosseo… Non lo sapeva. Pigliaru ha promesso di spiegarglielo!Clab 19feb16 quattroClabUnica, Contamination Lab. Ottima iniziativa dell’Università di Cagliari. Potrebbe avere una nuova vetrina, anche come disseminazione dei buoni risultati alla Fiera Internazionale della Sardegna di aprile-maggio 2016.Clab 19feb16 tre Casi di successo: Nausdream, Intendime, BabaiolaClab 19feb16 dueClab bravi tutti
Bravi tutti e brave Maria del Zompo (Rettore), Annalisa Bonfiglio (Pro Rettore all’innovazione), Chiara Di Guardo (responsabile progetto), Michela Loi (coordinatrice), Anna Rita Etzi (responsabile gestionale) e tutti/e gli/le altri/e che comunque saranno citati/e nei servizi di UnicaNews.Clab 19feb16 Tutti Proseguite in Fiera, perché con il vostro apporto la Fiera Internazionale della Sardegna potrà essere ripensata. L’innovazione potrà essere la salvezza della Fiera al servizio di Cagliari e della Sardegna! Siamo alle battute finali. Chi ha vinto? Yenetics! Tutte le informazioni e molto di più su Unicanews.

Salviamo la nostra Università. Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il Governo? Protesta insieme a noi contro se stesso?

UNIV-SARDEGNA-SISTEMA-LOGOape-innovativaSacrosanta le protesta dell’Università di Cagliari e di quella di Sassari (occorre, non ci stanchiamo di dirlo, una vera federazione, l’Università della Sardegna, che riproponiamo con un logo improvvisato, ma efficace). E’ una protesta che vede unite tutte le Università prese di mira dalle scellerate politiche governative (non solo odierne, che vengono da lontano, e soprattutto dalla pessima legge Gelmini) e che penalizzano in modo odioso particolarmente le Università del Sud, doppiamente, in relazione alla situazione di depressione economica del loro ambiente di primo riferimento e al sistema di finanziamenti/incentivazioni deciso dal governo Renzi. Nel merito rimandiamo ai servizi di informazione (in primis a quello di UnicaNews) e allo studio della Fondazione Res, da noi apprezzato e opportunamente segnalato. Veramente encomiabile l’impegno dei Rettori sardi Maria Del Zompo e Massimo Carpinelli e di tutto il mondo accademico sardo, ma, ci chiediamo: la politica di vessazione nel confronti dell’Università da dove viene? Chi ne è responsabile? Non ha certo provenienze divine! Le responsabilità sono prevalentemente governative, con qualche corresponsabilità dei Rettori e degli apparati accademici, soprattutto di un recente passato (il tempo della Gelmini) e il Governo ha oggi un preciso responsabile: Matteo Renzi. E, allora, parafrasando una celebre pièce teatrale di Dario Fo e Franca Rame: Tutti uniti! Tutti insieme! Ma scusa, quello non è il padrone? Più precisamente diciamo: ma quello non è il Governo? E nel “Governo” mettiamoci pure i nostri politici renziani (Pigliaru e Zedda, per primi). Cari Rettori e cari professori pensate bene nel portare avanti la vertenza a queste “contraddizioni” e non trascurate gli anticorpi che possono evitarne l’insuccesso. Il primo antidoto alla deriva catastrofica è proprio dare la priorità dell’alleanza con il popolo, per noi: con il popolo sardo. Questi consigli non sono rivolti certo agli studenti, i quali soli hanno cercato di difendere l’Università pubblica dalla pessima “riforma” della Gelmini. All’epoca, ricordiamolo, la ministra arrivò perfino a “comprare” i Rettori in carica, garantendo loro un antidemocratico prolungamento “ope legis” del loro mandato! (f.m.).
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seduta Unica 6feb16
studenti di bolognaUNIVERSITA’ DELLA SARDEGNA
MOBILITAZIONE PER UNA VALUTAZIONE BASATA SU PARAMETRI EQUI
Fronte comune con il mondo politico: contestati i criteri di ripartizione dei fondi alle Università. “Non è un problema solo nostro – ha chiarito il Rettore – Presto la mobilitazione coinvolgerà tutti gli Atenei”. Presenti alla seduta comune di Cda e Senato anche il Presidente della Regione, il sindaco di Cagliari, europarlamentari, numerosi parlamentari, assessori regionali e comunali, consiglieri regionali e comunali
- Un esauriente servizio sull’evento e sulla problematica che lo ha generato a cita dell’ufficio stampa dell’Ateneo e di UnicaNews (responsabile Sergio Nuvoli).
“(…) Alla fine della lunga serata di lavori, l’unanimità si è registrata anche sul documento proposto, con cui gli organi collegiali hanno dato mandato al Rettore di porre in essere una serie di azioni. Prima tra tutte, l’attivazione di un gruppo di lavoro per la formulazione di proposte di revisione delle voci di calcolo del costo standard di formazione per studente, definite con Decreto Interministeriale n. 893/2014, e la determinazione di indicatori più equi, che facciano risaltare i progressi dei singoli Atenei nella didattica e nella ricerca e che tengano conto della condizione di insularità e della situazione socio-economica della Regione Sardegna, con la raccomandazione di sostenere le modifiche proposte in sede politica regionale e nazionale.
Quindi la costituzione di un tavolo tecnico per il diritto allo studio, formato da rappresentanti dell’Ateneo e della Regione Sardegna, dal quale emergano proposte atte a modificare i criteri attualmente in uso per la definizione del finanziamento statale e regionale delle borse di studio, da sottoporre all’attenzione degli organi nazionali competenti in materia, affinché tutti gli studenti idonei possano usufruire di una borsa di studio” (Da UnicaNews).
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- Salviamo la nostra Università. Tutti uniti, tutti insieme, ma, scusa, quello non è il Governo? Protesta insieme a noi contro se stesso?
Tuti uniti... Dario Fo
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Intellettuali silenti e declino dell’Università

L’11 febbraio a Napoli un convegno accende i fari sulla crisi dell’università diventata un sistema burocratico dove dominano le cordate e i gruppi di potere
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di Enzo Scandurra, su il manifesto quotidiano

Il declino lento e inarrestabile dell’Università, la sua rinuncia ad essere l’universo, luogo di produzione di sintesi convincenti, ben esprime e rappresenta il collasso narrativo dell’Occidente e lo stato dell’afasia contemporanea.

Il dibattito sul suo ruolo si è, anni fa, incagliato (e lì è rimasto) intorno a questo nodo fondamentale: sapere per il mercato o sapere per essere capaci di scelte consapevoli?

Ha prevalso il primo termine: quello che va bene al mercato, va bene anche all’università e così a partire da Luigi Berlinguer si è sviluppato quel processo di declassamento e di delegittimazione che sembra non conoscere fine.

Se sentiste parlare gli studenti, avreste modo di conoscere quanto essi non vedono l’ora di abbandonarla come un luogo inutile, un castigo necessario, nell’attesa (sempre più disperata) di un posto di lavoro. Forse fa eccezione qualche studente, sopravvissuto al collasso, che tenta di ricomporre una qualche sintesi all’interno dei dottorati di ricerca, poi niente, silenzio.

Avendo smarrito i propri fini, l’Università è diventata un sistema burocratico-amministrativo fallimentare e improduttivo, senza alcuna capacità di scorgere i segnali del cambiamento e tanto meno di possedere la capacità di interpretarlo e incidere sulle trasformazioni che sconvolgono il mondo contemporaneo. E’ capace l’università, tanto per fare solo alcuni esempi tra mille possibili, di fornire una qualche narrazione adeguata dei cambiamenti climatici in atto, della questione ambientale, della crisi economica, della crisi del modello urbano? No, non ne è capace, anzi si limita, nel migliore dei casi, a fornire dei rimedi parziali, delle risposte inadeguate, essendo in tutt’altre faccende affaccendata.

Come affermava Pietro Barcellona, non esiste più una comunità scientifica, ma solo alleanze fra cordate e gruppi di potere, là dove i nostri figli avrebbero disperatamente bisogno di un Paese che si appropri del proprio futuro, che sappia progettare ponti e cattedrali, scoprire i segreti delle stelle e i miracoli delle nanotecnologie, senza perdere di vista, però – aggiungeva Pietro – che il vero problema è sempre il destino dell’uomo nel tempo che ci tocca vivere. E alla scomparsa della comunità scientifica si aggiunge quella drammatica della scomparsa della figura del Maestro.

Anziché una ricomposizione, i saperi vengono continuamente disarticolati, scomposti, separati gli uni dagli altri fino al nozionismo più esasperato (i famosi Cfu, crediti formativi), così da preparare il terreno a quei mitici concorsi universitari in ordine ai raggruppamenti disciplinari (Ssd), vero e propri pilastro culturale intorno al quale si organizzano accordi elettorali, cordate accademiche e produzione di inadeguati e falsi saperi. E che dire delle pubblicazioni scientifiche sulla base delle quali una fantomatica Agenzia (Anvur) è chiamata a giudicare ogni membro della morente comunità accademica? Intorno ad esse – le pubblicazioni scientifiche – sono sorte migliaia di nuove riviste accreditate, fiorisce l’unica attività editoriale ancora produttiva del Paese.

Per anni screditata dagli attacchi dei mass-media (luogo di malaffare, di corruzione, di svendita degli esami, ecc.), l’Università ha finito con l’adeguarsi alla cattiva immagine che di essa ne è stata fatta tra la gente comune, rinunciando perfino a far valere le proprie ragioni, non rintuzzando la concorrenza sleale delle varie libere università sorte come funghi. Del resto, se essa è demandata solo a fornire sterili nozionismi, perché un privato non potrebbe riscuotere maggiori successi?

Conosco sempre più docenti che hanno chiesto di essere messi in pensione prima del tempo. Almeno da questo punto di vista, essi si sono arresi. Il declino dell’università, che pure essi hanno ostacolato, avversato e combattuto con passione, ha finito con lo sfinirli. Asor Rosa ha paragonato questo esodo a quello dei dinosauri in estinzione: «Questo lungo e faticoso cammino – rispetto all’approdo finale, ossia lo stato presente delle cose – fa sentire chi l’ha compiuto nelle condizioni di quegli animali primitivi che a un certo punto uscirono di scena per il totale mutamento delle condizioni generali del pianeta» (“Il Grande silenzio, intervista sugli intellettuali”).

Coloro che sono rimasti, si sono adeguati, così che dopo il Grande silenzio è subentrata anche la Grande tristezza. Sembra una questione archiviata; le cifre e i numeri che circolano sul suo stato di salute (meglio sarebbe dire sulla sua malattia terminale) ne attestano la morte presunta. Forse a metterci sopra la pietra tombale sarà l’annunciato (ennesimo) provvedimento di Renzi sulla “Buona Università”.

Ma in un’affollata assemblea di dottorandi e ricercatori precari, a Roma qualche giorno fa, ho sentito esclamare: «Dobbiamo scatenare una controffensiva culturale di portata equivalente a quella scatenata da Confindustria, verso la metà degli anni Novanta, iniziando a criminalizzare l’università italiana. Dimostriamo loro che non siamo bamboccioni improduttivi; noi produciamo scienza, nuovi saperi, cultura vivente….».

Benvenuta e salutare è allora l’iniziativa per l’Università promossa l’11 febbraio a Napoli da, Arienzo, Bevilacqua, Bonatesta, Carravetta, Catalanotti, Olivieri (Lettera-Appello al mondo dell’Università, su il manifesto del 22 gennaio). Coraggio si ri-parte!

Non dalle aule della Bocconi; questa volta si parte dalle macerie del Sud. E gli intellettuali dove sono? Perché non escono dal Grande Silenzio per scendere in campo a fianco di questi ragazzi, senza i quali il silenzio diventerà tombale?

L’Università della Sardegna si confronta con i rappresentanti del “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”

StampaCON LA CULTURA SI FESTEGGIA LA VITA, NON LA MORTE
(UnicaNews) L’incontro dei rettori dei due atenei sardi con i rappresentanti del “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”, Nobel per la Pace 2015. Grazie all’Università si rafforza la collaborazione con i Paesi del Maghreb. CRONACA, FOTO E VIDEO su UNICA NEWS.

Lotta del popolo sardo per contrastare le scellerate scelte governative (e non solo) che fanno declinare l’Università sarda

lampadadialadmicromicro1Non basta pretendere un maggiore e doveroso impegno dei politici sardi per cambiare leggi penalizzanti e neppure basta suscitare per queste ed altre finalità virtuose la mobilitazione interna degli Atenei, occorre sviluppare un grande movimento di popolo, del popolo sardo, per salvare, valorizzare e rilanciare le Università sarde. E si ragioni finalmente come Università della Sardegna! Pur nel rispetto delle autonomie e della specificità delle sedi storiche, superando ridicoli campanilismi e mettendo davvero l’Università al servizio innanzitutto della comunità sarda. Per questo occorre un’Università rinnovata, che sappia essere protagonista e attrattiva nel Mediterraneo, in Europa, nel Mondo. UNIV SARDEGNA SISTEMA LOGOstudenti-di-bologna4L’Unione Sarda. Cronaca Regionale (Pagina 11 – Edizione CA)
Tagli alle Università sarde. Si mobilitano i deputati. Alla Camera un emendamento al decreto Milleproroghe

Ci provano i parlamentari sardi a salvare le università della Sardegna, che rischiano pesanti tagli di risorse. Alla Camera è stato presentato un emendamento al decreto Milleproroghe, per chiedere di mantenere per il 2016 la quota dei fondi stabilita per il 2015 per gli atenei isolani. I primi firmatari sono i deputati del Partito democratico Caterina Pes e Francesco Sanna, ma la proposta è stata sottoscritta anche da tutti i colleghi sardi del Pd.
«Il diritto allo studio – afferma Pes – va preservato perché è la leva su cui costruire il domani. Dobbiamo evitare sperequazioni e per arrivare a questo obiettivo bisogna dare il giusto peso al gap dell’insularità. Un gap che invece non è tenuto in considerazione nel costo standard dello studente, parametro fondamentale su cui attualmente si basa l’assegnazione dei fondi».
Per questa ragione, prosegue il ragionamento della deputata oristanese, la condizione di insularità e, di conseguenza, gli ostacoli di carattere infrastrutturale, «non possono non essere tenuti in considerazione nel momento in cui vengono assegnati i contributi statali alle università. Gli atenei isolani devono essere messi in condizione di poter fornire gli stessi servizi di quelli della Penisola e quindi di attenuare gli svantaggi dovuti alla propria condizione geografica».
È noto a tutti, conclude Caterina Pes, «quale sia l’alto costo sopportato per far frequentare ai figli l’Università dalle famiglie. Forse è arrivato il momento di rivedere i parametri» su cui si basa la distribuzione in tutto il territorio nazionale, da parte del ministero per l’Università, dei contributi per gli atenei.
Nei giorni scorsi un allarme per il taglio delle risorse alla formazione accademica isolana era stato lanciato dall’assessore regionale all’Istruzione Claudia Firino: «Lo scenario dei finanziamenti statali agli atenei», aveva fatto notare, «è in calo costante dal 2008», eppure mai come quest’anno si è allargato il divario tra quanto viene garantito alle università del centro-nord e quanto arriva a quelle del Sud. Peggio ancora a quelle di Sardegna e Sicilia.
- Analoga preoccupazione è stata espressa dal docente di diritto costituzionale Pietro Ciarlo, prorettore dell’Università di Cagliari.
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L’Unione Sarda. Cronaca di Sassari (Pagina 39 – Edizione CA)
Il sindaco: salviamo l’Università
SASSARI. Nicola Sanna solidale col rettore dell’Ateneo dopo gli ultimi tagli
Università più povere nell’Isola, a dispetto di tutte le eccellenze.
«L’adozione dei nuovi criteri di distribuzione dei fondi statali per le università penalizza le università isolane e del sud Italia, in particolare quelle di media dimensione, quelle della nostra Isola che proprio a causa della insularità non hanno le stesse potenzialità espansive nel numero degli studenti frequentanti».
Parole del sindaco di Sassari, Nicola Sanna, che si schiera accanto ai rettori degli Atenei di Sassari e Cagliari nella richiesta di una rivisitazione dei parametri che consentano una più equa ripartizione delle risorse.
«Abbiamo sempre sostenuto – dice il primo cittadino – e di questo siamo convinti, che Sassari possa e debba essere città della cultura, della scienza e della ricerca e sperimentazione che deve guardare all’Europa e al suo Mediterraneo difendendo e potenziando il ruolo dell’Ateneo turritano. Sassari è una città universitaria, dotata di eccellenze e capacità che si distinguono a tutti i livelli, nazionali e internazionali. Per questo motivo l’università sassarese non può correre il rischio di vedersi ridotti ogni anno i finanziamenti».
«Soltanto attraverso risorse adeguate – prosegue Nicola Sanna – è possibile puntare al miglioramento dell’offerta didattica, sull’alta formazione, a una sempre maggiore internazionalizzazione e all’innovazione tecnologica da trasferire alle nostre imprese e alle nuove generazioni».
«Sono convinto – conclude il sindaco di Sassari – che le azioni comuni poste in essere tra Comune e Università rivestano il fondamentale ruolo di coesione fra le politiche per lo sviluppo e l’occupazione, le strutture di formazione e ricerca e le imprese, fra i saperi e l’occupazione. Ecco allora che un taglio delle risorse nei riguardi dell’università sassarese avrebbe delle sicure ripercussioni negative sulla società sarda, sul mondo del lavoro, sulle comunità della nostra Regione. Mi auguro che il governo regionale si ponga alla testa dell’azione di difesa e potenziamento delle università del Mezzogiorno». L’ultima possibilità di fermare l’emorragia di giovani, costretti a una nuova migrazione.

L’Università in crisi… Cara Università sarda, chiedi al popolo sardo la forza per contrastare le assurde e sbagliate politiche governative!

studenti-di-bologna4logo UnicaL’UNIONE SARDA
Cronaca di Cagliari (Pagina 16 – Edizione CA)
(…) Ma noi non ci arrendiamo. L’Università di Cagliari non si arrende oggi, e non si arrenderà domani. Chiediamo ai politici sardi di intervenire sul Ministero perché adotti criteri più equi nella ripartizione delle risorse. Chiediamo alla politica regionale di tener conto della situazione delle Università nella redazione del bilancio adesso in discussione in Consiglio.
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«Università pubblica da tutelare»
Pietro Ciarlo fto microdi Pietro Ciarlo
Il futuro dell’Università di Cagliari non è roseo perché lo Stato continua tagliare i finanziamenti. La nostra è una Università pubblica, statale. È un bene dello Stato. Lo Stato deve assicurarne la vita. Siamo orgogliosi della nostra università pubblica. Ci sentiamo parte di un grande progetto politico e culturale: consentire a tutti i capaci e meritevoli, anche se sprovvisti di mezzi, di raggiungere i più alti gradi dell’istruzione. Sono le parole dell’articolo 34 della Costituzione. L’istruzione è un grande diritto sociale. Esso deve essere garantito, a meno di non voler tornare a cent’anni fa quando consapevolezze culturali e professioni più qualificate erano appannaggio dei pochi che potevano permetterselo. - segue -

Oggi martedì 12 gennaio 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413. . logo Iscol@
- Oggi:
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Progetto Iscol@, incontro di presentazione
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referendum ottobre 2016 NO

Oggi lunedì 11 gennaio 2016

Logo_Aladin_Pensieroaladin-lampada-di-aladinews312sardegnaeuropa-bomeluzo3-300x211Sardegna-bomeluzo22sedia-van-goghGLI-OCCHIALI-DI-PIERO1-150x1501413. . logo Iscol@
- Domani:
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Progetto Iscol@, incontro di presentazione
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referendum ottobre 2016 NO

Clab – Contamination Lab. Unica Contamination Lab

logo-clabLa nuvola del lavoro
di Corriere – @Corriereit
Università-liaison-office-3E l’impresa contamina (finalmente) l’Università
7 GENNAIO 2016 | di Silvia Pagliuca

di Silvia Pagliuca

Chi l’ha detto che l’Università è lontana dal mondo reale? Che è sempre e solo libri e cattedre? A Cagliari accade qualcosa in più. Si chiama Clab – Contamination Lab – ed è un esperimento para-universitario che parte da un motto inequivocabile: «Forget your limits. Let your ideas fly», «Dimentica limiti. Fa volare le tue idee».

Come? Partecipando a un campus di formazione per veri innovatori, per chi ama l’imprenditoria ma non sa come muovere i primi passi. Per chi dal percorso di laurea desidera qualcosa in più.

Micheloi-e-Chiara IMG_4684-1024x811_2«Trasformiamo le conoscenze in ciò che interessa al mercato, facciamo in modo che i ragazzi mettano in pratica ciò che hanno appreso tra le aule. Perché la nostra è una scuola di vita, un modo nuovo di interpretare la formazione universitaria» – chiarisce la professoressa Chiara Di Guardo (a destra nella foto con Michela Loi), coordinatrice del progetto, che nelle prime due edizioni ha già portato alla nascita di 15 nuove imprese, molte delle quali finanziate da investitori privati.

Tra queste, IntendiMe, startup sociale fondata da Alessandra Farris per migliorare la vita delle persone sorde rendendole indipendenti e sicure, dentro e fuori casa.

«Ho pensato ai miei genitori, entrambi sordi. Con il team del Clab sono riuscita a tirare fuori questa idea dal cassetto e a renderla viva» - racconta lei, studentessa di Lettere Antiche oggi alle prese con la creazione di speciali placche che possono rilevare i suoni dalle abitazioni e avvisare l’utente direttamente sul proprio smartphone, tablet o dispositivo da polso.

Un progetto a cui ha lavorato con i colleghi incontrati al Clab anche quattordici ore al giorno e che adesso inizia a portare i primi frutti: «Abbiamo vinto diversi premi, stiamo crescendo e abbiamo buone speranze di poter rendere IndendiMe la nostra principale attività» – confida.

Un desiderio molto simile a quello di Mario Fanari, CEO di Snuplace, il servizio che aiuta studenti e freelance a trovare un posto comodo in cui lavorare.

«Siamo partiti da un problema nostro e ci siamo accorti che era condiviso da molte altre persone: non avevamo un ufficio, una stanza, neanche un garage in cui portare avanti la nostra attività. Così è nato Snuplace che oggi offre moltissimi spazi a Cagliari e che a breve ne offrirà altrettanti anche a Milano» – assicura Mario, laureato in Economia, che il suo «salto nel buio» in un certo senso l’ha già fatto, abbandonando il vecchio lavoro per dedicarsi interamente a quello che definisce il suo «piccolo bambino» e che ai futuri temerari del Clab ha un consiglio da dare:

«Lavorate sodo, non abbandonate alla prima difficoltà e anche se alla fine la vostra idea non diventerà un’impresa, questa sarà comunque un’esperienza che potrà tornarvi utile in moltissime altre occasioni, anche le più improbabili».
Così è accaduto a Nicola Usala, infatti, ingegnere elettronico nonché partecipante «vittorioso» del Clab, che dall’avventura cagliaritana ha creato Babaiola, un sito dedicato all’organizzazione di viaggi per la comunità LGBT.

«Anche in questo caso siamo partiti da una necessità: ci siamo accorti che mancava un servizio dedicato ai viaggiatori del mondo gay. Al momento ci rivolgiamo al pubblico italiano e abbiamo località principalmente europee, ma l’obiettivo è coprire tutto il mondo» – spiega lo startupper.

Che assicura: «L’aspetto più interessante del Clab? La competizione, certo, ma soprattutto la cooperazione. La possibilità di conoscere persone diverse da me, con idee a forte vocazione imprenditoriale e molto stimolanti. Una vera e propria contaminazione dalla quale è impossibile non trarre il meglio».

E adesso, non resta che attendere le finali della terza edizione che vede in gara 18 idee di imprese. L’appuntamento con i vincitori per febbraio 2016.
twitter@silviapagliuca
- Su UnicaNews – segue –

Come sta l’Università italiana? Male soprattutto al Sud e nelle Isole. Il declino può essere arrestato e invertita la direzione? Non ci resta che provarci, con convinzione!

studenti-di-bologna4ape-innovativaE’ stata pubblicata, come anticipazione rispetto al testo completo, la sintesi di un’importante ricerca sullo stato dell’Università in Italia, a cura della Fondazione RES (Istituto di Ricerca su Economia e Società in Sicilia sostenuto dalla Fondazione Sicilia e da Unicredit S.p.A.). Lo studio mette a confronto gli Atenei del Nord con quelli del Sud, fornendo un quadro della situazione, inquietante e preoccupante soprattutto per quanto riguarda i secondi e, tra questi, per quanto ci coinvolge direttamente, gli Atenei della Sardegna. Abbiamo già dato notizia della ricerca, con l’impegno di divulgarla e farne oggetto di specifico approfondimento e dibattito in Sardegna, a partire dalle nostre realtà accademiche. In questo ambito, per ora prevalentemente di divulgazione, si situa la pubblicazione dell’introduzione alla ricerca, a cura di Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia. La RES ci comunica che il rapporto nella sua interezza è in corso di pubblicazione con la casa editrice Donzelli, Roma e uscirà a fine febbraio. Entro questo spazio di tempo (da oggi fino a febbraio) contiamo di animare un dibattito avanzato fatto di interventi sui blog/siti internet e iniziative in presenza. Ovviamente noi di Aladin ci impegnamo per quanto consentono le nostre risorse, auspicando che molti altri, persone e organizzazioni, partecipino a questo progetto. Abbiamo fiducia che tutto ciò servirà a contrastare una deriva declinante, a nostro parere niente affatto scontata. Anche in questa circostanza facciamo appello al concetto gramsciano del pessimismo della ragione e dell’ottimismo della nostra volontà.
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rapporto RES 2015

    Fondazione RES
    Rapporto 2015
    Nuovi divari Un’indagine sulle Università Del Nord e del Sud
    Introduzione

di Pier Francesco Asso e Carlo Trigilia

Questo settimo Rapporto RES è dedicato all’istruzione universitaria in Italia. Il tema è analizzato mettendo a fuoco i caratteri e il funzionamento delle università nelle diverse aree territoriali del paese. Si tratta di un lavoro che fa seguito a quello presentato lo scorso anno sull’istruzione secondaria. In tal modo la Fondazione ha cercato di dare un contributo su un tema cruciale per lo sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno qual è quello dell’istruzione e della formazione.
Com’è noto, il ruolo delle università è da tempo al centro della riflessione sui processi di sviluppo economico e sociale. Sempre di più, infatti, le possibilità di coniugare una crescita solida con elevati livelli di coesione sociale passano per l’acquisizione di conoscenze, per la formazione di ‘capitale umano’ come risorsa necessaria per attività produttive di beni e servizi legate alla qualità e all’innovazione; e passano anche per la capacità di far dialogare efficacemente il mondo delle imprese e il mondo della ricerca. Sappiamo che questa è una scelta obbligata specie per i paesi avanzati, che in tempi di globalizzazione non possono competere con quelli emergenti solo o prevalentemente sui costi. Ancora di più lo è per l’Italia, per la sua specializzazione manifatturiera che necessita di forti ibridazioni con le nuove tecnologie, e per la presenza di una vasta area come il Mezzogiorno che ha bisogno di far crescere attività solide e innovative e di maturare uno sviluppo più autonomo.
Le funzioni degli atenei non sono peraltro rilevanti e strategiche solo per la crescita economica. L’istruzione universitaria è anche un veicolo essenziale – insieme a quella secondaria – per la crescita culturale, per la formazione di una cittadinanza attiva e consapevole, capace di coniugare gli interessi individuali e familiari con una visione degli interessi collettivi. Essa è uno strumento importante per alimentare maggiore fiducia nelle istituzioni pubbliche, insieme a una migliore capacità di controllo sul loro operato al servizio della collettività. Insomma, scuola e università sono il terreno di coltura non solo del capitale umano ma anche del capitale sociale. E sappiamo quanto questo ingrediente sia importante nei processi di sviluppo, nei quali assume un peso certo non meno rilevante del capitale economico.
Il ruolo dell’università ha dunque una sua rilevanza oggettiva, ampiamente riconosciuta. Tuttavia, la scelta di dedicare a tale tema il rapporto di quest’anno, e il disegno della ricerca che è stato adottato, si legano anche ad alcune caratteristiche dell’approccio che RES ha cercato di seguire sin dalla sua nascita.
Anzitutto, ci siamo proposti di guardare ai problemi di sviluppo della Sicilia e del Mezzogiorno considerando non solo i fattori economici, ma anche quelli culturali e istituzionali:
un approccio che oggi si fa sempre più strada anche tra gli economisti nello studio dello sviluppo aprendo nuovi ponti tra l’economia e le altre scienze sociali, e tra l’economia e la storia. Come si diceva, nella prospettiva istituzionale l’università appare un fattore cruciale per lo sviluppo delle regioni meridionali ed è dunque importante cercare di colmare un vuoto di conoscenze su questo aspetto che fa intravedere l’apertura di nuovi e preoccupanti divari tra le diverse aree del paese.
In secondo luogo, ci siamo sempre sforzati di non vedere il Mezzogiorno come un’area omogenea in cui prevalgono solo le ombre, cioè condizioni economiche, sociali e politiche negative. Abbiamo cercato di segnalare anche le luci, anche quelle meno conosciute ma già accese, e quelle potenziali. Lo abbiamo fatto con le imprese innovative, con la valorizzazione del patrimonio culturale e ambientale, con i processi di internazionalizzazione e con quelli di cooperazione. Ma abbiamo attirato anche l’attenzione sulla debolezza delle attività innovative e sui rischi che prevalgano ‘adattamenti regressivi’: il lavoro nero, l’economia nascosta, le ‘alleanze nell’ombra’ tra imprese e criminalità organizzata, l’inefficienza delle politiche pubbliche. Come si vedrà, questo approccio caratterizza anche lo studio delle università del Sud nel confronto con quelle del Centro-Nord. Ne discende un quadro più ‘mosso’ degli atenei del Mezzogiorno, un quadro fatto di “chiari” oltre che di tanti “scuri”, di risorse importanti e anche di esperienze di eccellenza, accanto a fenomeni problematici e preoccupanti.
Questo porta, infine, a un altro fattore che si pone in continuità con gli studi precedenti. Le responsabilità per le inefficienze delle attività economiche o delle istituzioni nel Mezzogiorno sono spesso attribuite ad un’unica causa. Chi vive e opera nel Sud, ma anche diversi analisti del problema meridionale, sono spesso portati a vedere in tali inefficienze soprattutto il frutto di interventi non adeguati dei governi nazionali per far fronte ai problemi delle regioni meridionali. Dall’altra parte, chi vive e opera in altri contesti – o anche analisti più distanti dal filone meridionalista – insistono sulle responsabilità primarie delle classi dirigenti locali. Nei lavori di RES ci siamo sforzati di evitare queste interpretazioni più unilaterali, semplicemente perché pensiamo che non aiutino a capire efficacemente le realtà del Mezzogiorno, e quindi a intervenire meglio. In verità, responsabilità locali e centrali si intrecciano in spirali perverse da cui non è facile uscire. Ma è su questo terreno che ci si deve misurare, ed è quello che abbiamo cercato di fare anche in questa indagine sulle università. Come si vedrà, da questo studio emerge infatti un quadro variegato di responsabilità in cui si combinano limiti evidenti della governance locale degli atenei e politiche centrali. Quest’ultime, dopo aver a lungo contribuito a peggiorare le cose con la loro permissività, negli ultimi anni rischiano di complicarle ulteriormente con interventi continui e più intrusivi che generano effetti perversi.
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Perché parliamo di ‘nuovi divari’ a proposito dell’università? Fondamentalmente per due motivi. Anzitutto perché negli ultimi anni, segnati dalla grave crisi internazionale, si allarga la distanza nel peso dell’università in Italia rispetto agli altri paesi più avanzati. Questa tendenza è ben evidenziata nelle pagine di questo Rapporto per tutti i principali indicatori: iscritti, laureati, corpo docente, finanziamenti per la ricerca e per il sistema universitario nel suo complesso. E’ bene ricordare subito questo fenomeno perché, da esso, ne discende una conseguenza importante. Il problema dell’università italiana non è limitato al Mezzogiorno; non si tratta di una questione sezionale che riguarda una sola parte del paese, anche se – come vedremo – una serie di fenomeni preoccupanti si concentrano maggiormente al Sud.
E’, infatti, soprattutto su questo nuovo divario tra Nord e Sud che si indirizza lo sforzo di documentazione e di analisi del Rapporto: l’emergenza di differenziazioni crescenti nella partecipazione all’istruzione terziaria, e più in generale nel funzionamento degli atenei, tra Centro- Nord e Sud. Soffermiamoci allora su questo fenomeno al fine di mettere in luce alcuni aspetti che saranno approfonditi nei capitoli successivi.
Anzitutto, in che senso si può parlare di ‘nuovo’ divario tra Nord e Sud? E quando comincia a manifestarsi questo fenomeno? Contrariamente a quanto si potrebbe ipotizzare, non c’è una significativa differenziazione tra le grandi aree territoriali del paese dall’Unità fino agli inizi degli anni ’70, quando si fanno sentire gli effetti del provvedimento che liberalizza gli accessi. Ciò è sicuramente vero per quel che riguarda gli iscritti, i laureati, il corpo docente, il rapporto tra docenti e studenti. Non abbiamo indicatori precisi per quel che riguarda la qualità della didattica e della ricerca, ma sappiamo che non mancavano punte di eccellenza nelle università del Mezzogiorno e della Sicilia. Si tratta di atenei di lunga tradizione con significative presenze specie nei campi di maggiore specializzazione: le discipline giuridiche, umanistiche, mediche.
In altre parole, non c’è un divario significativo tra Nord e Sud fino a quando l’università resta di élite, resta riservata a un ristretto numero di studenti provenienti principalmente dalle classi medio-alte ed è prevalentemente uno strumento di riproduzione delle classi dirigenti. In diversi anni di questa lunga fase che comincia con l’Unità, iscritti e laureati rispetto alla popolazione – o in termini più precisi rispetto alle relative classi di età – sono addirittura lievemente superiori nel Mezzogiorno. L’opposto di quel che si verifica invece per i tassi di alfabetismo che segnano un divario elevatissimo e fanno registrare differenze significative fra le grandi aree del paese ancora nei primi decenni del secondo dopoguerra.
Fino a quando l’università resta di élite, la differenziazione tra Nord e Sud non riguarda dunque i tassi di partecipazione all’istruzione terziaria, ma si manifesta piuttosto nella specializzazione disciplinare, che vede al Sud un più elevato numero di iscritti alle facoltà di giurisprudenza e a quelle legate agli studi umanistici, e invece una minore consistenza di coloro che scelgono gli studi di ingegneria e di architettura o di economia. Questo si può considerare un indicatore significativo della differenziazione delle classi dirigenti nelle due grandi aree territoriali del paese che vede al Sud una più ridotta presenza di attività produttive moderne.
Il quadro cambia, come si diceva, negli anni ’70 dopo la liberalizzazione degli accessi. E’ in quel momento che la partecipazione in termini di iscritti compie un balzo in tutte le aree del paese. Tuttavia, è proprio a partire da questi stessi anni che comincia ad aprirsi un divario maggiore e crescente tra Nord e Sud negli iscritti e nei laureati, mentre si attenua sensibilmente – ma persiste – il modello di specializzazione disciplinare basato sugli studi giuridici e umanistici.
Come spiegare il manifestarsi di questo nuovo divario? L’ipotesi che si può formulare è che con il passaggio dall’università di élite a quella di massa il Mezzogiorno non riesca a tenere il passo con il Centro-Nord, anzitutto per numero di iscritti. In altre parole, possiamo supporre che le nuove opportunità di allargamento della istruzione universitaria per le classi medio-basse siano state colte in misura inferiore nel Sud, soprattutto a causa delle minori risorse economiche su cui le famiglie di questi gruppi sociali potevano contare. Peraltro, questa situazione di svantaggio non veniva – e non è mai stata – corretta da un’efficace intervento pubblico a sostegno del diritto allo studio per gli studenti meno abbienti.
E’ in questo quadro più ampio che dobbiamo dunque inserire le tendenze dell’ultimo quindicennio, dettagliatamente documentate nei capitoli seguenti. Si accentuano infatti le difficoltà delle famiglie appartenenti alle classi più svantaggiate a sostenere l’istruzione universitaria dei figli, anche come conseguenza della crisi economica internazionale che colpisce l’intero paese ma si manifesta in forme più gravi nelle regioni del Sud. Più della metà del calo degli immatricolati nello scorso decennio si concentra nel Sud. Paradossalmente, il fenomeno non è contrastato, come ci si dovrebbe aspettare, dagli interventi per il diritto allo studio e per i servizi agli studenti, che anzi continuano a registrare uno squilibrio significativo dei livelli di sostegno a tutto svantaggio delle regioni meridionali.
Insomma, c’è una grave sottovalutazione – che viene da lontano, con il passaggio all’università di massa – del ruolo strategico che il rafforzamento dell’istruzione terziaria potrebbe avere proprio per lo sviluppo del Sud. Questo fenomeno ha riguardato certamente i governi nazionali e le loro difficoltà a mettere a punto una strategia efficace che tenesse conto dell’importanza del capitale umano e del capitale sociale nei processi di sviluppo; ma ha riguardato anche, in misura non meno grave, le regioni meridionali per la parte di loro competenza. Insomma, non è stato adeguatamente sostenuto il diritto allo studio sia come aspetto cruciale di una moderna politica di sviluppo, sia come diritto di cittadinanza fondamentale sancito dalla Costituzione (art. 34) che avrebbe dovuto attivare politiche di coesione adeguate per garantire agli studenti ‘capaci e meritevoli anche se privi di mezzi’ l’accesso all’istruzione universitaria quale che sia la loro residenza.
Questa situazione vede l’Italia in condizioni di copertura sensibilmente più bassa di quelle dei principali paesi europei e, come si diceva, si è addirittura aggravata nello scorso decennio. Così, mentre per la prima volta scendeva il numero degli immatricolati, specie nel Mezzogiorno, gli interventi per il diritto allo studio finivano per essere ancora più deboli proprio nelle regioni meridionali dove ve ne era più bisogno. Ciò è dovuto al farraginoso e inefficiente meccanismo di finanziamento nell’ambito del quale il fondo integrativo statale premia sostanzialmente le regioni che spendono di più, che non sono quelle del Sud. Il risultato è un’ingiustificabile balcanizzazione regionale di un diritto di cittadinanza e un effetto regressivo del finanziamento per cui sono premiate le regioni con redditi medi più elevati. Considerando solo le borse di studio, si arriva così a una situazione nella quale solo il 38% degli idonei riceve una borsa nelle Isole, il 61% nel Mezzogiorno continentale a fronte di valori intorno al 90% per il Centro-Nord.
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Ci sono dunque evidenti responsabilità dei governi nazionali e regionali nel non aver sostenuto e accompagnato efficacemente il passaggio del nostro sistema dall’università di élite a quella di massa, e questo ha certamente penalizzato di più le regioni del Mezzogiorno. Ha inciso sulle difficoltà di rispondere a una domanda crescente di università. Ma chiediamoci ora che cosa suggerisce la ricerca dal punto di vista dell’offerta, cioè del funzionamento degli atenei con riferimento alle tre principali attività: la didattica, la ricerca e la cosiddetta ‘terza missione’. Su tutti questi aspetti il Rapporto fornisce informazioni e analisi dettagliate e mette in luce l’esistenza di differenze più o meno marcate tra le grandi aree territoriali e anche al loro interno. Le maggiori criticità riscontrate negli atenei meridionali con riferimento a queste tre funzioni fondamentali mettono però anche in luce come il passaggio dall’università di élite a quella di massa non sia spiegabile soltanto con la maggiore debolezza del contesto economico-sociale o con l’inadeguatezza delle politiche regionali e nazionali, ma chiami in causa carenze specifiche della governance degli atenei meridionali.
E’ molto difficile misurare e valutare la qualità della didattica. Tuttavia, alcuni indicatori segnalano delle criticità che contraddistinguono maggiormente gli atenei del Mezzogiorno. Essi riguardano anzitutto l’efficienza dell’attività didattica: tempi di completamento degli studi mediamente più lunghi, specie per i corsi di laurea triennali e per quelli a ciclo unico; minore frequenza delle lezioni; abbandoni dopo il primo anno più numerosi; maggiore presenza di ‘fuori corso’. E’ evidente che su questi fenomeni possono incidere le competenze acquisite in precedenza dagli studenti, e sappiamo che queste sono spesso più lacunose e meno adeguate nelle realtà del Mezzogiorno. Tuttavia, queste tendenze sono anche influenzate da fattori di offerta, come il rapporto più elevato tra docenti e studenti, la carenza di aule e di servizi, la mancanza di efficaci servizi di orientamento e di tutoraggio. Da questo punto di vista, sono dunque da prendere in considerazione anche scelte autonome da parte degli atenei che appaiono meno efficaci nell’organizzazione delle attività didattiche e possono condizionare il rendimento degli studenti. Naturalmente, è difficile stabilire quanto tali scelte siano a loro volta influenzate da problemi di finanziamento e da vincoli esterni al reclutamento e alla programmazione del personale docente, ma si intravede anche uno spazio di autonomia che non sembra sia stata usata sempre al meglio dagli atenei meridionali, pur se il fenomeno non è limitato solo al Mezzogiorno.
Quest’impressione emerge ancor più chiaramente dall’analisi dei recenti cambiamenti dell’offerta didattica, Com’è noto, le università hanno dovuto affrontare negli ultimi anni un percorso complesso di allargamento dei corsi offerti (con l’introduzione delle lauree triennali e di quelle magistrali), al quale si è accompagnata la crescita di sedi decentrate. Dopo pochi anni, si è imposto un percorso inverso che ha portato alla diminuzione dei corsi offerti, in base a una serie di vincoli tra i quali la disponibiltà del personale docente da potere impegnare nei corsi attivati. L’approfondimento dei risultati di questo processo ha messo in luce come sia la fase di allargamento, sia soprattutto quella del ridimensionamento dell’offerta didattica siano stati, in generale, molto condizionati da pressioni interne provenienti dai diversi settori disciplinari, a scapito di valutazioni più legate a una ricognizione non fittizia delle esigenze formative provenienti dal contesto esterno e a una considerazione degli effettivi punti di forza e di debolezza degli atenei in termini di risorse qualificate per la didattica e la ricerca. Secondo i dati raccolti, questa spinta alla riorganizzazione della didattica più guidata dagli equilibri interni tra i diversi settori, pur essendo stata una tendenza di carattere generale, sembra più nettamente presente negli atenei del Mezzogiorno. Si profila dunque una carenza nella governance locale degli atenei che trova riscontri ancor più chiari se si considera la qualità della ricerca e del personale docente reclutato.
Anche la qualità della ricerca non è facile da misurare. I vari indicatori utilizzabili presentano tutti degli aspetti problematici e il loro uso richiede cautela. Tuttavia, alcune indicazioni appaiono sufficientemente solide. L’analisi condotta sulla base della VQR (Valutazione della qualità della ricerca) per il 2004-10 e dei risultati della ASN (Abilitazione scientifica nazionale) offre risultati tra loro coerenti. Ne emerge un quadro della qualità della ricerca e della qualificazione scientifica del personale che vede gli atenei meridionali nelle condizioni di maggiore debolezza. Naturalmente, questo giudizio richiede delle qualificazioni. Anzitutto, appare molto forte la varianza dei settori disciplinari all’interno degli atenei. Vi sono settori, come per esempio quelli legati a alcune specializzazioni di ingegneria, alle scienze fisiche e a quelle mediche, che ottengono buoni risultati negli atenei meridionali, mentre altri si collocano molto in basso, specie nel campo delle scienze economiche e statistiche, di quelle politiche e sociali, della psicologia e delle discipline umanistiche e storiche. All’interno di diversi settori vi sono poi particolari specializzazioni che costituiscono delle vere e proprie punte di eccellenza anche a livello internazionale. Tuttavia, gli atenei meridionali sono caratterizzati, nel complesso, da numerosi settori disciplinari che si collocano al di sotto della media nazionale. Si tenga inoltre presente che relativamente più elevato è al Sud il numero degli ‘inattivi’ dal punto di vista della ricerca. Tra i 10 atenei con il più alto numero di inattivi, 6 sono nel Mezzogiorno. E ancora: soltanto il 10% degli atenei meridionali ottengono più fondi Prin della media nazionale e solo il 15% ottengono più fondi europei.
Quanto alla qualificazione scientifica del personale docente, indicazioni coerenti con il quadro precedente vengono da un’analisi dettagliata dei risultati dell’ASN. Gli atenei meridionali si caratterizzano per un maggior numero di ricercatori e associati che non hanno partecipato alla valutazione per l’abilitazione. Considerando invece coloro che hanno partecipato, solo meno di un quarto degli atenei meridionali hanno una media di abilitati (in tutti i settori) superiore a quella nazionale contro l’80% delle università del Nord e il 37% del Centro.
Nel caso della qualità della ricerca e della qualificazione scientifica del personale docente siamo dunque in presenza di carenze che non possono essere semplicemente spiegate con caratteri e vincoli provenienti dal contesto esterno, o con condizionamenti esercitati dagli interventi regolativi del centro, ma chiamano anche in causa la governance degli atenei: le scelte autonome fatte in materia di reclutamento e di carriere. La rilevanza di questa dimensione trova conferma anche nella accurata analisi della ‘terza missione’ presentata nel Rapporto.
Se si considerano tre indicatori rilevanti per misurare il fenomeno – i brevetti, gli spin-off e le prestazioni in conto terzi – emerge come queste attività, oltre che nei Politecnici, siano più concentrate in atenei prevalentemente localizzati nel Centro-Nord. E’ evidente che ciò risente della diversa dinamicità dei contesti economici locali e quindi della domanda e degli stimoli che vengono dal mondo delle imprese. Da questo punto di vista, le università meridionali sono certo penalizzate. Ma è interessante notare come anche a parità di risorse in termini di specializzazioni disciplinari e di conoscenze attivabili – che riguardano soprattutto le cosiddette hard sciences – i risultati ottenuti dagli atenei del Mezzogiorno siano variabili. Vi sono dei casi in cui le capacità di attivazione delle risorse disponibili raggiungono risultati significativi nel trasferimento tecnologico. Ciò suggerisce che anche da questo punto di vista vi siano spazi di autonomia in termini di scelte e di capacità strategiche degli atenei da non sottovalutare; in positivo come possibilità di impegno maggiore su un terreno che acquista, come si è detto, un peso crescente per lo sviluppo economico, o invece come scarsa sensibilità e minore impegno che non può essere solo giustificato in termini di un contesto economico esterno sfavorevole.
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Nel complesso, le tendenze emerse con riferimento all’attività didattica, alla qualità della ricerca e alla qualificazione scientifica del personale chiamano in causa responsabilità specifiche degli atenei meridionali che non vanno sottovalutate, anche in relazione alle misure da prendere, in prospettiva, per migliorare efficienza e efficacia. Non è facile spiegare le motivazioni di tali scelte, e il tema non era oggetto specifico di questa indagine. Tuttavia, è possibile formulare qualche ipotesi. Con il passaggio dall’università di élite a quella di massa sono aumentate le risorse disponibili, in termini di possibilità di reclutamento, di creazione di nuovi corsi, di crescita delle attività svolte. E’ vero, come abbiamo sottolineato, che l’incremento degli iscritti non è stato adeguatamente sostenuto con politiche per il diritto allo studio e per i servizi agli studenti, ma le risorse disponibili per gli atenei sono comunque cresciute. Per lungo tempo l’uso che ne è stato fatto ha determinato inefficienze nell’offerta, nell’attività didattica e soprattutto nella qualificazione del personale docente e nella qualità di ricerca.
Questi problemi non sono certo limitati agli atenei meridionali, dove non mancano anche aree di eccellenza e esperienze positive, ma nel funzionamento delle università del Sud appaiono sistematicamente più diffusi. Una possibile spiegazione – da approfondire e verificare – potrebbe essere legata a tendenze più generali che si sono manifestate nel Mezzogiorno con la crescita del welfare e dei settori di attività dipendenti dall’intervento pubblico. In una situazione economica e sociale caratterizzata dal più ridotto peso delle attività di mercato, tende a essere più forte la pressione dei soggetti che vogliono difendere o migliorare le loro condizioni di vita per l’accesso a posizioni direttamente o indirettamente dipendenti dall’intervento pubblico. Se il controllo dell’accesso a tali posizioni non è ancorato a incentivi che responsabilizzino chi ha tale potere, premiandolo in caso di scelte basate sul merito e penalizzandolo nel caso di scelte che vanno nella direzione opposta, si creeranno condizioni più favorevoli a una sorta di ‘selezione avversa’. In altre parole, ci saranno più probabilità che vengano reclutati o promossi in termini di carriera soggetti meno meritevoli ma più legati da un rapporto diretto (di gruppo, di ‘scuola’) con chi ha il potere di cooptazione.
Questa condizione di ‘autonomia senza responsabilità’ ha a lungo influito sulle modalità di funzionamento degli atenei al Sud e al Nord. I costi di decisioni meno efficienti si scaricavano infatti sul finanziamento determinato a livello centrale, che veniva erogato senza tenere conto della qualità delle scelte. Ciò disincentivava inoltre il controllo esercitato da altri gruppi disciplinari degli stessi atenei, dato che neanche essi ne pagavano le conseguenze, e avevano dunque solo la preoccupazione di garantirsi condizioni di reciprocità. Si può inoltre ipotizzare che queste condizioni permissive abbiano contribuito a erodere gli standard deontologici delle comunità accademiche, portando ad una maggiore tolleranza verso criteri di reclutamento e di valutazione dell’attività scientifica meno vincolati al merito. Ma se questa condizione di ‘autonomia senza responsabilità’ che ha caratterizzato per molto tempo le scelte di governo delle università non vale solo per il Sud, possiamo però supporre che la pressione per posizioni occupazionali di buon livello sia stata maggiore nel contesto meridionale, con le conseguenze prima ricordate.
A completamento di questa ipotesi, occorre poi considerare che le scelte effettuate nella fase di ampliamento delle risorse e di apertura dei canali di reclutamento, che nel caso del sistema universitario si sono concretizzate specie negli anni ’70, con il passaggio all’università di massa (stabilizzazione dei professori incaricati, giudizi di idoneità per assegnisti e contrattisti), hanno probabilmente avuto conseguenze di lunga durata. Non solo hanno determinato l’occupazione di una quota di posizioni consistente con effetti per gli anni a venire, ma hanno anche potuto influire sulle scelte successive. Una selezione di soggetti con minore qualificazione condiziona, infatti, anche le attività di ricerca e di didattica dei decenni successivi e la formazione di giovani studiosi. Si può inoltre supporre che per un lungo periodo, negli scorsi decenni, un elevato turnover di docenti vincitori di concorso, spesso provenienti da regioni del Centro-Nord, abbia a sua volta influito negativamente. I nuovi docenti di origine esterna, infatti, molto spesso non si trasferivano stabilmente nelle sedi meridionali ma venivano richiamati dopo pochi anni da atenei del Centro-Nord. Di conseguenza, il loro investimento in attività di ricerca impegnative e a lungo termine, o nella formazione di giovani studiosi, tendeva ad essere più limitato. Da questo punto di vista, è da segnalare che anche negli atenei del Mezzogiorno aree scientifiche più istituzionalizzate che si caratterizzano per una migliore qualità della ricerca tendono a reclutare giovani studiosi più qualificati in termini di produzione scientifica.
Come abbiamo detto, queste sono soltanto alcune ipotesi stimolate dai risultati dell’indagine che richiedono specifici approfondimenti. Quali che ne siano le cause, non va però sottovalutato il peso di scelte degli atenei meridionali che si riflettono nelle criticità documentate dal Rapporto. Ma per completare il quadro è necessario aggiungere un ultimo tassello che riguarda i cambiamenti intervenuti negli ultimi anni nei meccanismi di finanziamento.
Abbiamo ricordato come per lungo tempo il modello di governance sia stato caratterizzato da una condizione di ‘autonomia senza responsabilità’. In tale situazione i costi delle scelte fatte dagli atenei venivano finanziati dal centro per così dire a piè di lista. In particolare, con l’introduzione del ‘fondo di finanziamento ordinario’, nel 1993, le quote assegnate alle singole università si basavano largamente sulla ‘spesa storica’. Le cose cambiano nel decennio successivo per effetto dei vincoli crescenti alla spesa pubblica e della crisi economica. Ne deriva una riduzione del fondo di finanziamento ordinario, di circa il 10% tra il 2008 e il 2015, alla quale si accompagna una crescita fino al 20% della ‘quota premiale’, cioè delle risorse assegnate sulla base del soddisfacimento di una serie di condizioni. Si determina così un paradosso, dettagliatamente spiegato nelle pagine seguenti, che contribuisce ad allargare il divario nel funzionamento dell’università tra Centro-Nord e Sud.
In che cosa consiste il paradosso? Nel fatto che dopo aver a lungo finanziato gli atenei senza porre vincoli e esercitare controlli efficaci sulla allocazione delle risorse, il centro lega ora una quota crescente del finanziamento a determinati standard della didattica e della ricerca, mettendo così in ulteriore difficoltà le università del Sud che hanno maggiori criticità. Peraltro, i criteri utilizzati non solo sono cambiati più volte nel tempo, ma spesso alcuni di essi presentano evidenti incongruenze: come quelli relativi alla didattica che premiano, per esempio, una rapida conclusione degli studi senza tener conto delle assai diverse condizioni degli studenti e dei contesti territoriali. C’è da aggiungere che si tratta dunque di criteri molto discutibili, fissati ex post, che non permettono di valutare comportamenti dopo aver prima stabilito chiaramente le regole del gioco. In ogni caso, in questo modo si innesca una sorta di circolo vizioso per cui chi è in condizioni peggiori di performance, invece di essere stimolato e sostenuto a migliorare, viene di fatto messo in una condizione di carenza di risorse che ne aggrava le condizioni di partenza.
Come si esce da questa pericolosa spirale che rischia di privare il Mezzogiorno di una risorsa essenziale per il suo sviluppo e i giovani meridionali ‘capaci e meritevoli’ ma senza mezzi di un loro diritto costituzionalmente sancito? Il Rapporto chiarisce che sarebbe sbagliato continuare a percorrere la strada intrapresa negli ultimi anni, che genera effetti perversi, ma lo sarebbe altrettanto rinunciare a legare il finanziamento degli atenei a criteri – certo meglio costruiti di quelli attuali – di maggiore efficienza della didattica, di una migliore qualità della ricerca e di un rafforzamento della terza missione. La richiesta che a volte proviene dagli atenei meridionali di compensare i criteri premiali con parametri che tengano semplicemente conto di una generica condizione di penalizzazione legata alla debolezza del contesto economico e sociale non va dunque nella direzione giusta e non va incoraggiata. Si tratterebbe infatti di una sorta di protezione statica che non stimola a miglioramenti di efficienza.
Come si chiarisce nel capitolo sul finanziamento, la via di uscita dalla spirale perversa va cercata piuttosto in interventi che separino i meccanismi di finanziamento ordinari degli atenei dai problemi di recupero delle condizioni di efficienza, che possono essere invece considerati come un obiettivo di specifiche politiche di sviluppo e coesione, e come tali possono quindi attingere alle risorse nazionali ed europee destinate a questi interventi. Si pensi al miglioramento delle competenze degli studenti in entrata, alle borse di studio e ai servizi, ma anche al rafforzamento delle attrezzature e delle risorse per la ricerca scientifica. Ma naturalmente affinché questi interventi possano essere efficaci, è necessario collegarli a condizionalità ben disegnate e a strumenti di valutazione adeguati dei risultati raggiunti, ed è soprattutto necessario che cresca la consapevolezza di chi opera nelle università e di chi ha compiti di direzione, che l’autonomia senza responsabilità non ha futuro.

Il (non più) lento e inesorabile (ma non è scontato se lo contrastiamo insieme) declino delle Università del Sud, isole comprese…

rapporto RES 2015Un’indagine della Fondazione RES sulle università del Nord e del Sud. Nuovi divari. Molto interessante. Ecco la sintesi*: http://www.resricerche.it/media/allegati/sintesi%20della%20ricerca_2015.pdf

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disperazione AladinTORNEREMO PRESTO SULL’ARGOMENTO. INTANTO UN BREVISSIMO COMMENTO
ape-innovativaRiflettiamo sui dati della Sardegna, dove al governo regionale c’è una Giunta che per presidenza e composizione somiglia a un Senato Accademico. Dal RAPPORTO della FONDAZIONE RES (…) Dei tanti indicatori disponibili, che saranno richiamati anche di seguito, basta ricordarne in apertura uno; di estrema importanza; sia, intuitivamente, perché riguarda il futuro del nostro paese; sia perché è uno degli indicatori di Europa 2020: la percentuali di giovani (30-34 anni) in possesso di laurea rispetto al totale. L’Europa si è data l’obiettivo, al 2020, di avere il 40% di giovani laureati. L’Italia è nel 2014, al 23,9%: questo la colloca all’ultimo posto fra i 28 stati membri; contemporaneamente l’Italia si è data un obiettivo al 2020 – che è dubbio raggiungerà – pari al 26-27%, che continuerebbe a collocarla all’ultimo posto: alla luce delle dinamiche in corso potrebbe essere superata anche dalla Turchia. La regione con la percentuale maggiore di laurea (30-34 anni), il Lazio (31,6%), si colloca su livelli pari al Portogallo. Quattro regioni italiane, tutte del Mezzogiorno, sono fra le ultime dieci nella graduatorie delle 272 europee; la Sardegna (17,4%) è penultima (…) La sua percentuale di giovani laureati è superiore solo alla regione dello Severozàpad (Repubblica Ceca).
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- La situazione della Sardegna non è recente, vedasi al riguardo anche il rapporto Crenos del 2007.
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* anche su AladinpensieroBlog.

Il declino delle Università del Sud, isole comprese

A proposito di Università
- La crisi delle Università del Sud.
ape-innovativa Problemi dell’Università sarda.
Un commento del direttore sul blog di Vito Biolchini, risalente ai primi mesi del 2014, ma tuttora valido.
Per quanto riguarda l’Università, in particolare quella di Cagliari, faccio alcune sintetiche considerazioni: - segue -

La scuola non si sposta. La scuola al primo posto

Il Martini nei 900?

democraziaoggi loghettoGianna Lai – Rita Sanna, su Democraziaoggi (19 Dicembre 2015)

“La scuola non si sposta. La scuola al primo posto”, con questo slogan, inventato dagli studenti dell’Alberti, si è tenuta un’Assemblea pubblica il 2 dicembre 2015 con la partecipazione di docenti, studenti, genitori e amministratori. Si è fatto il punto sulla situazione. Ecco com’è andata.

- segue