Istruzione & Formazione
La Scuola Popolare di Is Mirrionis a La Collina
Mercoledì 14 dicembre il libro sulla Scuola Popolare di Is Mirrionis “Lo studio restituito agli esclusi” sarà presentato a La Collina di Serdiana. Nel volume è inserita un’intervista a don Ettore Cannavera, a cura di Ottavio Olita, che per gentile concessione dell’Editore del libro, pubblichiamo di seguito.
Cosa può insegnare quell’esperienza?
(Ottavio Olita a colloquio con don Ettore Cannnavera)
La tempesta di piombo che sconvolse l’Italia nel secolo scorso, da metà degli anni ’70 in poi, tra i vari risultati conseguiti ne ebbe anche uno non del tutto secondario: cancellare dalla storia di quel decennio quel che di buono era stato costruito. E quando parlo di piombo non mi riferisco solo a quello dei proiettili dei terroristi rossi e neri.
Penso anche al piombo usato per la stampa di tanti quotidiani che vollero a tutti i costi far derivare quella terribile stagione di violenza e di morte dalle grandi mobilitazioni di lavoratori e studenti che spingevano perché il Paese diventasse più democratico e attento ai diritti: quello progettato dai Padri Costituenti, non certo quello sporco del sangue di vittime innocenti usato come alibi nelle loro ‘risoluzioni’ da quanti si erano appena trasformati in brutali assassini.
Diritto allo studio e diritto al lavoro non rimasero solo slogan scanditi a gran voce nei cortei. In molti casi divennero occasione di forte impegno sociale che pose le basi per favorire l’aggregazione di tanti giovani provenienti dalla più diverse esperienze.
Così avvenne a Cagliari, come è stato raccontato con passione, ma anche con un pizzico di autoironia, in questo libro.
Cosa spinse ragazzi formatisi nelle parrocchie, sui libri di storia, filosofia e sociologia, o sulle pagine di Marx ed Engels, o anche esaltati dai pensieri del libretto rosso di Mao e dalle imprese eroiche e mitizzate di Ernesto Che Guevara a trovare una strada comune, una voglia di collaborazione disinteressata finalizzata a far conseguire un titolo di studio, a quell’epoca ancora indispensabile, a tanti uomini e donne che da ragazzi erano stati esclusi dalla scuola?
Le assemblee, gli incontri, i dibattiti interminabili che si ripetevano a ritmo incalzante nelle aule universitarie e nelle scuole superiori non erano vissuti come esercizi retorici. Molti di quanti vi partecipavano lo facevano con la voglia di trovare un percorso che traducesse nella pratica le lunghe elaborazioni relative soprattutto all’uguaglianza tra i cittadini.
Il primo terreno pratico per un lavoro comune venne individuato con sorprendente, entusiastica spontaneità in un’iniziativa, quella che ben presto venne individuata come la Scuola Popolare di Is Mirrionis. Essa pose a quei giovani seri problemi organizzativi e di didattica, oltre che, in particolare alle ragazze, la definizione di un nuovo rapporto all’interno della famiglia, soprattutto con i genitori.
E poi procurarsi i materiali, la sede, le attrezzature, in un quadro di partecipazione sempre più complessa. Oltre alla gestione delle relazioni interpersonali.
Giovani universitari o appena laureati, quindi ventenni o poco più, a contatto con operai, commessi e commesse, casalinghe, molto più grandi d’età e con problemi quotidiani complessi ai quali proporre testi di studio su cui prepararsi per poi affrontare un esame in una scuola pubblica. E le discussioni su temi di attualità collocati in un corretto contesto storico-culturale.
Tante le ore dedicate alla preparazione delle ‘lezioni’, alla scelta dei testi e dei metodi di lavoro comune, con un confronto costante con i lavoratori per cercare di rendere interessanti materie che da ragazzi li avevano spaventati tanto da farli allontanare dalle aule. Facendo ricorso ad un punto di riferimento solidissimo: don Lorenzo Milani e la sua scuola di Barbiana, insieme con l’insostituibile “Lettera ad una professoressa”.
Come affrontare lo studio della Storia? E quello della Matematica? E che fare con le nozioni di Lingua Straniera? Rispettare i programmi ministeriali per le prove d’esame, oppure avere il coraggio di aprire un contenzioso con i presidi su come dovessero svolgersi quelle stesse prove?
L’analisi politica doveva fare per forza i conti con la realtà pratica e questa fu la lezione più importante che quei giovani appresero.
Cosa rimane, oggi, a quarant’anni dalla fine di quell’esperienza? C’è oggi, nella nostra società sempre più egoistica e chiusa nel proprio privato qualcosa di paragonabile a quella partecipazione, a quella voglia di solidarietà, a quel mettere al servizio della collettività le proprie conoscenze? E soprattutto: perché i giovani non sono più protagonisti attivi della vita sociale; perché accettano senza reagire il ruolo passivo che la società dei consumi assegna loro? Perché sono sempre meno cittadini e sempre più privati consumatori?
Domande senza risposta? Ecco cosa ne pensa don Ettore Cannavera, instancabile animatore della Comunità di Recupero ‘La Collina’ di Serdiana.
«L’esperienza avuta, e che continuo ad avere, è che la persona bombardata da bisogni materiali e dalla negazione di sé, va a finire in situazioni che io definisco devianti: non realizza ciò che c’è di più profondo nell’essere umano. ‘Io sono in quanto sono con gli altri e per gli altri’. L’esperienza di quegli anni rispondeva ad un’esigenza profonda dell’essere umano che voi, giovani di allora, avevate colto perfettamente: nel mettersi a disposizione per far crescere culturalmente gli altri, si otteneva in contemporanea un beneficio per se stessi perché si creava una solidarietà concreta con chi aveva fatto un percorso meno ricco culturalmente del proprio. Venivano messi nelle condizioni, attraverso la cultura, attraverso la consapevolezza del senso profondo della vita – che avviene solo per mezzo della cultura –, di potersi sentire realizzati in questo mondo.
Io questa cosa l’ho capita molto bene da un libro che mi sta molto a cuore, per me rivoluzionario. E’ di Paulo Freire, pedagogista brasiliano morto quindici anni fa, dal titolo ‘Pedagogia degli oppressi’.
Freire sosteneva l’importanza del rapporto scolarizzazione-coscientizzazione-politicizzazione. In buona sostanza: se io riesco attraverso la scuola a sviluppare tutte le mie capacità intellettive, di pensiero, di riflessione, che mi fanno consapevole del senso della vita, devo per forza approdare alla politicizzazione, in un impegno di solidarietà nei confronti degli altri. Questo vuol dire che voi – giovani come te e gli altri – avete avuto allora la sensibilità di capire che il fare, il dare il vostro tempo e le vostre competenze serviva a rendere gli altri consapevoli, come voi eravate, della realizzazione del senso della vita e dell’umanità di ciascuno di noi».
Come giudichi il rapporto che si creò, allora, tra una schiera di giovani studenti o neolaureati, provenienti dalle più diverse formazioni religiose, politiche, ideologiche e gli adulti estromessi dalla scuola? E come valuti quel che accade oggi nelle relazioni sociali?
«Quella scuola di quarant’anni fa rispondeva a un bisogno personale di chi si metteva a disposizione e corrispondeva ai bisogni di chi non aveva fatto quel percorso culturale, scolastico, di consapevolezza, di coscientizzazione. Era arrivato ad una certa età – adulto – senza avere un titolo di studio e soprattutto senza quegli strumenti culturali assolutamente necessari per rendersi nel mondo persone capaci, competenti, persone coscienti.
Cosa sta avvenendo, oggi, a distanza di quarant’anni? Lo sviluppo economico ha generato una sorta di individualismo che porta a pensare che la realizzazione di se stessi sia soltanto nella contrapposizione agli altri, nell’essere al di sopra degli altri, nell’essere più benestanti degli altri, nell’avere un ruolo sociale migliore degli altri. Ha fomentato sempre di più l’egocentrismo, l’individualismo, l’egoismo, uccidendo quello che è il bisogno fondamentale: la relazione con gli altri. E voglio sottolineare che ne parlo a livello antropologico, non religioso. La mia convinzione, che mi deriva dai miei studi, è che la realizzazione di sé avviene solo se sono capace di entrare in relazione con gli altri, perché degli altri io ho bisogno, per poter essere qualcuno.
L’esperienza di allora, quindi, è servita sia a chi si è messo a disposizione, sia agli adulti che non avevano avuto prima la possibilità di ‘rendersi capaci di…’. Ecco perché solo la scuola, la cultura consente questo.
Don Milani – visto che anche voi avete fatto riferimento a quell’esperienza utilizzando ‘Lettera ad una professoressa’ – aveva capito che quei ragazzi che avevano solo la zappa in mano, dovevano invece impossessarsi della penna. Bisognava dar loro gli strumenti per entrare nel mondo della cultura. Solo lo sviluppo delle capacità intellettive realizza pienamente l’umanità. Don Milani ci ha insegnato questo».
Come valuti quel che accade oggi nei campi della socializzazione, della politica, della solidarietà?
«Oggi viviamo una grave situazione di crisi, in cui ognuno si sta chiudendo nel proprio mondo. Non c’è più partecipazione politica, la gente non va più nemmeno a votare. Ci stanno rendendo un mondo sempre più egoistico; anzi, forse la definizione più corretta è sempre più ego centrato, perché forse non è un egoismo consapevole. Si sta pensando che richiudersi in se stessi, nei propri interessi, anche solo familiari, serva a realizzarsi. Mentre invece l’esperienza vostra ha insegnato a voi e agli adulti che vi hanno seguito che solo aprendosi agli altri, che solo con la conoscenza, con la consapevolezza, con la coscientizzazione, si è poi in grado di sfociare nella politica. Il mancato impegno politico è la negazione della nostra umanità. E’ per questo che quell’esperienza può e deve dare tanti insegnamenti all’oggi, tempo nel quale c’è un allontanamento, un’astensione dall’impegno politico. Impegno politico che non è solo andare a votare – cosa che comunque sarebbe già un passo – ma che deve essere inteso come la possibilità di aiutare gli altri, a diventare consapevoli dei bisogni più profondi che ci vengono soffocati da tutto il mercato, da tutti gli interessi delle multinazionali, da chi ha i soldi, in cui l’uomo viene utilizzato come strumento di arricchimento per altri. Rispondendo a quel bisogno dell’ ‘avere’, senza capire che prima ancora c’è il bisogno dell’ ‘essere’: Erich Fromm ‘Avere o Essere?’.
L’essere viene soffocato perché non c’è quel cammino culturale, scolastico necessario. La società è incentrata sull’ ‘avere’. Siamo convinti che la nostra realizzazione dipenda da quante più cose possediamo o possiamo avere. E alla fine restiamo soffocati da queste cose. In fondo la mia visione antropologica si realizza con lo strumento delle cose, con lo strumento della ricchezza, ma questa non deve diventare la finalità dell’esistenza».
L’ossessione della realizzazione di sé, dei consumi – dell’ ‘Avere’ – è massicciamente veicolata dai mezzi di comunicazione di massa, in particolare dalla televisione. Soprattutto per i più giovani diventa problematico, difficile, se non impossibile, rendersi conto di questa realtà per valutarla, criticarla, eventualmente contrastarla. Luoghi di aggregazione, come questo da te guidato consentono importanti momenti di riflessione collettiva. Ma il resto della società è abbandonato a se stesso. Grave è anche la responsabilità del mondo politico. Secondo te perché non se ne occupa, perché non interviene per operare quella coscientizzazione di cui tu hai parlato in modo ampio e approfondito? Non se ne rende conto, o ci sguazza perché, in fin dei conti, gli conviene?
«Quanti hanno il potere non hanno interesse, anzi ostacolano la consapevolezza, la politicizzazione. Fanno in modo che la gente si concentri su altri interessi e li lascino decidere e governare da soli. Questo processo come si origina? Evitando che i ragazzi, i giovani – fin da bambini – si rendano conto del sistema sociale, di come funziona la comunità. La stessa scuola si è limitata, e io ne ho avuto esperienza come docente, a parlare dei problemi passati: degli egiziani, della storia romana, ma non si arriva mai a parlare della storia di oggi. Anche la scuola ha questo grosso limite; altro che la vostra scuola in cui si parlava dei problemi della quotidianità, degli ultimi! Dalla problematizzazione dell’oggi si deve partire – proprio come sosteneva Paulo Freire – per arrivare allo studio del passato. Occuparsi di lavoro, partecipazione, democrazia oggi, per poter poi poter attingere e fare un confronto con la storia del passato.
Quello che oggi il potere fa, consapevolmente, è di realizzare un tipo di scuola nel quale l’insegnante viene valutato su quello che sa della storia del passato, o della filosofia, ad esempio, ma non dà la possibilità di andare ad analizzare le problematiche odierne. Al potere non interessa che la gente si renda conto di quali sono i meccanismi che regolano la sua vita. Non parla di problemi concreti, parla di temi astratti. La gente viene tenuta fuori, quel che conta è la delega: ‘Ci penso io, dai a me il voto, che poi risolvo io i problemi’.
Bisogna quindi tornare ad un tipo di scuola come quello vostro. E se non si può più fare la Scuola Popolare, bisogna comunque dare consapevolezza agli insegnanti, fin dalle elementari e medie, o creare momenti di doposcuola, proprio per poter dare ai ragazzi strumenti di analisi, di conoscenza di quanto sta avvenendo, oggi, nella società, dalle disparità, alla disoccupazione, alle conflittualità, alle guerre.
Cosa sanno i nostri giovani del terribile scenario nel quale viviamo quotidianamente che ci fa temere una possibile terza guerra mondiale? Perché non vengono resi coscienti dei meccanismi di sfruttamento che ci sono dietro? Perché i rifugiati vengono qui? Perché stanno scappando dai loro Paesi? Cosa sanno dei problemi che il mondo occidentale ha creato per decenni, se non per secoli, nelle loro terre, sfruttandole e producendo così la causa principale della loro fuga? Di questo nella scuola non si parla. Anche per questo i ragazzi non possono essere partecipativi, collaborativi, consapevolizzati».
Alla luce di questa tua analisi si capisce meglio il problema della dispersione scolastica, così grave in Sardegna. Quel ‘titolo di studio’ che una volta serviva a trovar lavoro, oggi è carta straccia. Se a questo si aggiunge che i giovani non trovano interesse in quel che studiano, per quale ragione dovrebbero continuare a frequentare?
«Io contesto la parola ‘dispersione’, perché in pratica si dà ai ragazzi la colpa di essersene andati dai banchi. Eh no. Io devo capire perché lo hanno fatto. Non sono loro che hanno deciso di andarsene, ma quella scelta è una conseguenza del fatto che la scuola non risponde ai loro bisogni di fondo. Se io sto in un posto in cui i miei bisogni hanno spazio, certo che ci rimango. Se me ne sono andato sto condannando quel tipo di scuola che non mi dice e non mi dà niente. E’ la scuola che si deve interrogare su quell’altissima percentuale del 25 per cento di abbandono. E si deve interrogare sul fatto che ha una metodologia didattica che non risponde al bisogno fondamentale dell’essere umano: la conoscenza dei problemi, la consapevolezza delle situazioni culturali, sociali, politiche. Non mi serve un’istruzione che poi non potrò utilizzare perché tanto so che fuori non c’è lavoro.
La scuola deve provvedere innanzi tutto alla formazione umana della persona, a dare ai ragazzi il senso della vita, a capire che il lavoro è il luogo in cui mi realizzo, ma la cosa più importante che la scuola mi deve dare è aiutarmi nella conoscenza di me stesso e del mondo. Insomma, è inutile che tu mi parli del Tigri o dell’Eufrate. Se proprio vuoi parlare di quei territori, illustrami i problemi che si vivono in quella regione che un tempo era denominata Mesopotamia e delle responsabilità che io, come occidentale, ho avuto nell’esplosione dei conflitti in quel territorio. Devi creare una coscienza di presenza nel mondo, per esserci e dare un contributo proprio in modo da poter incidere.
Io, paradossalmente, sostengo che i ragazzi che in questa situazione abbandonano gli studi sono i più sani perché fuggono da un luogo nel quale non trovano più interesse, non si sentono appagati. Devono capire le ragioni dello studio, a cosa serve. Se studiare serve soltanto ad ottenere un voto o una promozione, non so proprio che farmene. Vanno via e sfruttano meccanismi formativi esterni alla scuola, come gli strumenti informatici.
Bisogna quindi rivedere come si fa scuola. E qui ritorna, importante, l’esperienza della Scuola Popolare. Perché quegli adulti la frequentavano? Non erano obbligati a farlo. Avevano però capito che oltre a poter conseguire un titolo di studio, era un’occasione importante per diventare consapevoli della propria storia. C’erano le ragioni per studiare. E dava loro una diversa prospettiva di relazione con gli altri, oltre che di un nuovo inserimento nella società».
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- La pagina fb dell’evento.
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Domani. Festival L.E.I. – lettura, emozione, intelligenza.
Vivi Internet al Sicuro
All’Università di Cagliari, oggi lunedì 24 ottobre dalle 15 alle 18 (nell’Aula magna della Facoltà di Ingegneria e Architettura, in piazza d’Armi) e martedì dalle 10 alle 13 e dalle 14.30 alle 17.30 (nell’Aula magna Capitini del Polo di Sa Duchessa) si svolgerà una delle cinque tappe nazionali del progetto “Vivi Internet al Sicuro”, promosso da Google, dalla Polizia di Stato, da Altroconsumo e dall’Accademia Italiana del Codice di Internet (IAIC).
(notizia completa e programma qui: http://unica.it/pub/7/show.jsp?id=33949&iso=-2&is=7)
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Università della Sardegna – Università di Cagliari. “SCEGLIERE A VENT’ANNI: LA GUERRA DI LIBERAZIONE DELL’ITALIA DAL NAZIFASCISMO”, lezione magistrale del partigiano ANTONIO GARAU
“SCEGLIERE A VENT’ANNI: LA GUERRA DI LIBERAZIONE DELL’ITALIA DAL NAZIFASCISMO”, LEZIONE MAGISTRALE INAUGURALE DI ANTONIO GARAU.
Giovedì 20 ottobre 2016 alle ore 10.30 in Aula Teatro avrà luogo la lezione inaugurale 2016/2017 del DISSI e dei corsi di laurea afferenti: Amministrazione e Organizzazione, Scienze politiche, Scienze dell’amministrazione, Relazioni internazionali, Politiche, società e territorio.
Innovazione. Veranu premiata
Veranu vince il contest
“90 secondi per spiccare il volo”
La startup sarda vince il contest per la migliore startup del territorio.
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Ecco il video del contest “90 secondi per spiccare il volo”
https://www.youtube.com/watch?v=nR3D2t7kv9E
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Un po’ di amarcord…
DIRINNOVA. Quando Unica cominciò a impegnarsi seriamente per la Terza Missione.
- La foto è del 2007.
Università della Sardegna. Oggi l’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Sassari
Oggi venerdì 23 settembre, a partire dalle ore 11,00, avrà luogo la cerimonia inaugurale del 455° anno accademico 2016-2017 dell’Università di Sassari, presieduta dal Rettore Massimo Carpinelli.
Il prof. Tito Boeri, Presidente dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale, terrà una prolusione dal titolo “Il lavoro futuro”.
L’evento si svolgerà secondo il programma diramato dall’Ateneo e sarà trasmesso in diretta streaming sul portale istituzionale (www.uniss.it).
La Scuola al primo posto
TUTTA UN’ALTRA SCUOLA
cosa non va nella scuola italiana?
Fiorella Farinelli su Rocca
Fine settimana di metà settembre a Vaiano, qualche chilometro da Prato. Una «Festa-convegno della scuola che cambia», ospitata nell’istituto comprensivo della cittadina. Una giovane preside che parla di Barbiana e Don Milani come fossero ancora tra noi a denunciare quella scuola di tanti anni fa (ma per certi versi non è ancora così?) troppo simile a un ospedale che accoglie i sani e respinge i malati. Tanti gli insegnanti e tantissimi i genitori, bambini e passeggini a rallegrare ogni angolo. Le attività sono anche outdoor e si espandono in cerchi concentrici, due piazze, una sopravvissuta Casa del Popolo, una Badia, un giardino pubblico, spazi all’aperto e al chiuso dedicati a una miriade di laboratori, gruppi di lavoro, seminari, giochi per adulti e per bambini, atelier di teatro e manualità varie. Si capisce subito che l’evento è speciale anche perché coinvolge l’intera comunità locale, e il suo sindaco. Ma la cifra più interessante è che non si tratta solo di idee ma anche di azioni. Non solo di progetti ma anche di esperienze. Non solo di denunce ma anche di proposte. A tenerle insieme il gomitolo multicolore di un ambientalismo giovane, positivo e produttivo – dovunque in vendita prdotti locali rigorosamente bio – cui si intrecciano innamoramenti e mode culturali che guardano a orizzonti più vasti. Le filosofie orientali e l’India, yoga e animalismo, meditazione e buddhismo. A promuovere il tutto, attraendo esperienze e pensieri da Padova a Scampia, è l’associazione toscana TerraNuova-Pensa e Vivi Ecologico, forte di numerosi rapporti con associazioni culturali e sociali di mezza Italia, e con i più diversi progetti di sviluppo civico e per la qualità ambientale. Ma tra i tanti laboratori per il risparmio energetico, il riciclo degli scarti, l’olio di oliva che diventa sapone, la cardatura della lana, come costruirsi un pannellino solare per ricaricare i cellulari, spiccano anche temi e protagonisti di un mondo educativo, non solo scolastico, che costruisce e ricostruisce instancabilmente quello che nel nostro sistema di istruzione sembra oggi più a rischio. L’originalità didattica, la passione pedagogica, la centralità delle persone e delle libertà individuali, i metodi e i percorsi di una scuola orientata alla cooperazione più che alla competitività, l’apprendimento che scalda i cuori dissolvendo conformismi e vincoli burocratici, un crescere insieme – e reciprocamente – tra scuole e comunità. Cultura, identità, locale e globale.
paradigmi educativi altri
Perché il titolo dell’evento è in verità «Tutta un’altra scuola», la ricerca dunque di altri o alternativi paradigmi educativi. C’è la Rete Senza Zaino degli studenti impegnati in progetti di scuole liberate da oneri e vincoli impropri, ma anche le storiche esperienze del riformismo fiorentino di Scuola-Città Pestalozzi. C’è l’Alice Project che non ha mai attecchito nella scuola pubblica italiana trovando invece il suo habitat in una lontana regione dell’India, ma portano contributi anche le sempre-verdi scuole montessoriane e le sempre più apprezzate steineriane. Non mancano le suggestioni anglosassoni dell’homeschooling, gli «asili nei boschi» d’ispirazione tedesca, il consueto e irrisolto dibattito su digitale sì-digitale no, cui si alternano le riflessioni da una università di Milano sulla «contro educazione», gli stimoli delle edizioni Erickson dedicate alle nuove tecnologie didattiche, e persino qualche progetto d’avanguardia firmato Confindustria. A discuterne in modi formali e informali, un singolare mix di educatori di strada arrivati da Napoli e di operatori della formazione professionale che lavorano invece a Bologna, esperti di cose scolastiche coi capelli grigi e giovani insegnanti alle prese con i minori stranieri non accompagnati approdati in Sicilia, pedagogisti libertari e studenti con domande spesso più difficili delle risposte.
pensiero e azione
Un menù così denso e variegato da far dubitare che se ne possa venire a capo. Ma un punto fermo c’è, nel «Tutta un’altra scuola» di Vaiano. È evidente che i temi dell’educazione non possono essere sequestrati dai soli addetti ai lavori, politici o operatori che siano, e che l’esigenza di metterli a fuoco per individuare e pratica- re le soluzioni è tanto più pressante dove – come, appunto, nel mondo ambientalista che analizza i guasti di un modello di sviluppo insano – ci si misura con il cosa e il come fare per uscirne. Una sfida che, nel caso dell’ambientalismo ma non solo, richiede politiche pubbliche bene orientate ma anche stili diversi di vita e diversi comportamenti individuali. Quindi informazione, formazione, apprendimenti cognitivi e valoriali. Partecipazione democratica, certo, ma anche interiorizzazione di una nuova etica fatta di responsabilità civile. Sta qui, e non altrove, la centralità dell’educazione, non solo scolastica. Una strategia intelligente, una promettente combinazione di pensiero e azione. Che siano soprattutto qui – nell’ormai diffusa rinuncia ad avere e costruire collettivamente una qualche idea di trasformazione del mondo, e quindi di trasformazione delle mentalità – le ragioni più profonde della straordinaria povertà culturale e politica che ormai da tempo caratterizza il dibattito italiano sui temi dell’educazione? C’è da chiederselo perché è evidente che non è possibile discutere di contenuti culturali, di altri metodi di insegnamento/ apprendimento, di nuovi obiettivi dell’istruzione e della formazione senza porsi il problema di ridefinire mete e modelli di società, e direzioni di marcia per realizzarli. E perché non si può sapere che fare della scuola e nella scuola senza ridiscutere i profili auspicabili di una cittadinanza attiva e responsabile – e misurarsi su cosa serve per formarli. Saranno le tante «Tutta un’altra scuola» del nostro paese a rimettere prima o poi le cose con i piedi per terra?
Risulta chiaro, intanto, che per farlo occorre una buona dose di coraggio e di laicità culturale. E un buon senso capace di sfidare il conformismo del senso comune. Che in effetti si profila in modo netto nella conferenza dedicata a un tema tra i più classici della discussione scolastico-educativa. La dispersione, e i tanti perché degli abbandoni scolastici precoci. Una patologia in calo nel nostro paese ma ancora troppo consistente con il suo 19-20 per cento di ragazzi che escono dai circuiti formativi senza diplomi e neppure qualifiche, e dalle connotazioni inquietanti. Da un lato uno svantaggio dei ragazzi rispetto alle ragazze di quasi 7 punti, decisamente superiore alle medie europee; dall’altro una correlazione evidente con le aree territoriali e le condizioni socio-familiari più sfavorite; e poi l’impressionante sequela di insuccessi – bocciature, ripetenze, ritardi, abbandoni – degli studenti di origine straniera, anche nati da noi, e di gravità maggiore, anche qui, rispetto a ciò che succede in altri paesi meta di flussi migratori.
come si spiega?
Come si spiega? Cos’è che non va nella scuola italiana? E quali sono le responsabilità esterne alla scuola? I dati statistici non bastano a capire. Ma basterebbero, in altre occasioni di confronto – istituzionali, politiche, accademiche – per replicare il solito refrain di una scuola, quella italiana, che per molte ragioni storiche e strutturali non ha ancora gli strumenti per misurarsi con successo con le disgrazie del mondo, le disparità socioculturali della popolazione, le note diseguaglianze del Sud, i deficit linguistici degli stranieri, le difficoltà identitarie di un genere maschile sempre più disorientato dalle dinamiche emancipatorie della componente femminile e quant’altro. In sintesi, per riproporre la consueta pratica autogiustificatoria per cui gli insuccessi del sistema scolastico si spiegherebbero con ritardi e deficit che gli impediscono, non per sua colpa, di affrontare le tante novità sociali e culturali dei nostri tempi. C’è del vero, intendiamoci, in questo modello interpretativo. Ma serve ripeterselo ancora una volta? E, soprattutto, un approccio di questo tipo basta a rappresentare le diverse facce della crisi attuale della scuola italiana?
l’approccio dei Maestri di Strada napoletani
L’approccio dei «Maestri di Strada» di Napoli che danno avvio alla discussione è un altro. Sebbene la loro esperienza educativa sia nata dentro i contesti socioculturali più disagiati della città, gli educatori napoletani non ci stanno a relegare il disagio scolastico nei confini relativamente ristretti del disagio sociale più acuto. Il problema allora viene rovesciato mostrando come gli abbandoni siano solo la punta più visibile ed estrema di un malessere e di un’insoddisfazione per l’esperienza scolastica in verità molto più larghi e interclassisti. Che riguarda anche figli dei ceti non sfavoriti, che non si concentra solo nel Sud o nelle periferie metropolitane, che non si manifesta solo negli istituti professionali e tecnici, che riguarda anche i nativi e non solo gli stranieri. Che c’è, è riconoscibile, e va curato anche quando non si presenta con la faccia drammatica delle bocciature e degli abbandoni, ma piuttosto con l’aspetto, in verità non meno inquietante, della demotivazione, del disinteresse, di un apprezzamento dell’esperienza scolastica solo per quel che offre in termini di socialità tra pari. E poi sotto forma di apprendimenti scarsi, superficiali, effimeri.
Oggi il pericolo più grande, si sostiene, è il diffuso disinvestimento individuale nell’istruzione, è lo spreco di opportunità di uno sviluppo culturale fondamentale per il futuro dei giovani. Non solo il futuro lavorativo e professionale, ma anche e soprattutto quello civile che riguarda la consapevolezza del mondo in cui siamo e la passione per un suo possibile cambiamento. Il possesso degli strumenti per autorientarsi, e anche per vivere al meglio un futuro sia di occupazione che di disoccupazione. La domanda di fondo, allora, quella che tutti dovrebbero porsi, diventa provocatoriamente un’altra. Da esaminare non sono solo le cause per cui un settore ampio di giovani esce dai circuiti formativi prematuramente, c’è piuttosto da chiedersi perché, nelle condizioni date, i ragazzi di oggi dovrebbero apprezzare la scuola e l’apprendimento che gli viene imposto. Perché dovrebbero farlo se quella stessa scuola e quegli stessi apprendimenti sono con tutta evidenza poco apprezzati dai loro stessi insegnanti. Perché dovrebbero appassionarsi a contenuti culturali proposti spesso in modi ripetitivi, freddi, senza inventiva e fantasia didattica, senza un rapporto con la loro esperienza, le loro domande, le loro inquietudini. Perché dovrebbero credere in una scuola che promette un ascensore sociale che la società e il mondo del lavoro non sono più in grado di assicurare. E poi, come utilizzare l’esperienza scolastica per crescere in autonomia e responsabilità quando la scuola attuale non permette scelte o percorsi individualizzati e non assicura nessuna flessibilità di funzionamento?
«cura» parola chiave
Queste domande non esauriscono l’intero catalogo delle questioni aperte ma hanno il pregio di svelare la nudità del re, e perciò di andare più a fondo dei numerosi fattori di crisi del nostro come di altri sistemi scolastici. E delle responsabilità che si annidano in una educazione familiare orientata spesso più alla tutela dei giovani che alla loro responsabilizzazione, in una non-educazione o malaeducazione che viene dalla società, dai media, da un consumismo che dà valore più all’avere che all’essere, da un modello economico e sociale impostato sulla dissipazione delle risorse, dei beni comuni, delle energie e dei talenti delle giovani generazioni.
C’è spazio, ovviamente, anche per una critica di fondo delle politiche scolastiche di questi anni. Ma non è questo il registro essenziale della discussione di Vaiano. Che segue piuttosto, come per i temi ambientali, la via dell’individuazione delle contraddizioni più acute, e di ciò che si può fare, e che in molti casi si sta già facendo per curarle. È «cura» la parola chiave, non successo, non competitività, non occupabilità. Ed è il come si può fare, e dove e con chi. Nelle scuole e nei territori, con gli insegnanti e con il privato sociale, con il mondo produttivo e con l’associazionismo. Con la musica, il teatro, le università, la ricerca scientifica, le botteghe artigiane, il lavoro, il volontariato, la cooperazione, la solidarietà. Ci vuole intelligenza, certo. E anche professionalità. Ma la risorsa più importante, forse, è la passione educativa, la convinzione che è su questo terreno più che su altri che si giocano le partite decisive. Per i ragazzi di oggi e anche per il destino del paese. Vale la pena di provarci.
Fiorella Farinelli
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- La foto in testa all’articolo è tratta dal sito del progetto Alice (Alice Project).
La scuola al primo posto? Non in Italia e tanto meno in Sardegna
Contro lo scasso difendiamo la scuola
Fino all’ultimo momento senza sede gli insegnanti, senza aule gli studenti: inizia bene l’anno scolastico in città e in Sardegna. Per i docenti trasferiti fuori dall’Isola ma in attesa qui di assegnazione provvisoria, (per il sostegno), i presidi devono leggere i curricoli sul sito ministeriale e fare la chiamata diretta, (la guerra tra poveri) ma poi ci sono quelli delle graduatorie ad esaurimento, e poi ci sono gli insegnanti abilitati, gli abilitati al sostegno, ma precari, e i non abilitati, e quelli di ruolo assegnati a province diverse, è il caos, pardon, è l’innovazione della buona scuola renziana! A Goni chiuse elementari e medie, i genitori si sostituscono ai docenti, la scuola, l’ultima cosa rimasta in questi paesi, ormai in via di abbandono se la scuola stessa li abbandona. - segue -
Quindici anni a massacrare scuola e ricerca: ecco perché siamo il malato d’Europa
Francesco Cancellato su LinKiesta
Goni difende il diritto alla scuola per i propri bambini
- Su L’Unione Sarda, martedì 13 settembre 2016.
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GONI. Una sessantina di genitori ha occupato questa mattina la scuola elementare di Goni, finita al centro delle polemiche scoppiate per la chiusura dell’istituto ed il conseguente trasferimento degli alunni a Silius. Una decisione che i genitori non hanno mandato giù, tanto che oggi hanno deciso di non far salire i propri figli sul pullman che li avrebbe portati nella scuola di Silius, occupando pacificamente lo stabile. Sul posto sono intervenuti i carabinieri. La protesta è destinata a durare alcuni giorni. (La Nuova Sardegna online).
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- Notizie su Goni.
- Su Casteddu online.
universidade de sa Sardigna – university of Sardigna – università della Sardegna
Cosa si aspetta a costituire l’Università della Sardegna? Atenei sardi osate! E la Regione non stia a guardare!
di Franco Meloni su Nuovo Cammino (n. 16 dell’11 settembre 2016)
Tra i punti deboli più rilevanti delle Università sarde vi è la mancanza di attrattività di studenti stranieri, che le penalizzano nelle classifiche nazionali e internazionali e nella ripartizione delle risorse del fondo unico statale. Difficile colmare questa carenza, ma qualcosa si deve pur escogitare, per esempio mettendo insieme le forze dei due Atenei sardi attraverso una loro federazione. Lo sosteniamo da tempo, anche confortati dal parere degli esperti di marketing che avvertono come Cagliari e Sassari all’estero siano del tutto sconosciute e che l’unico “brand” attrattivo è appunto “Sardegna”. L’Università della Sardegna come The University of California: questa è una soluzione giusta. Non basta certo, ma questa scelta aiuterebbe eccome, anche al di là degli aspetti di attrattività.
Però la federazione deve essere vera, come prescrive il competente Ministero, che nel documento di programmazione 2013-2015 del sistema universitario italiano delinea le caratteristiche dei “modelli federativi di università su base regionale o macroregionale… ferme restando l’autonomia scientifica e gestionale dei federati nel quadro delle risorse attribuite”. Precisamente devono prevedersi: “a) unico Consiglio di amministrazione con unico presidente; b) unificazione e condivisione di servizi amministrativi, informatici, bibliotecari e tecnici di supporto alla didattica e alla ricerca”. Il patto federativo firmato dai due Atenei alcuni anni fa è ben lontano da tale impostazione, prevalendo una concezione sostanzialmente conservatrice. - segue -
Università nel mondo e Università della Sardegna / DIBATTITO
La controclassifica dove l’Italia supera Harvard e Stanford. Un interessante esercizio di Giuseppe De Nicolao su Roars.
Il sito Roars aggiunge un parametro alla classifica di Shangai e i risultati sono a sorpresa con le italiane in testa
di Gianna Fregonara, sul Corriere della Sera on line.
Harvard prima. Poi Stanford e il Mit e Berkeley, Cambridge e Princeton. Sedici americane, tre inglesi e una svizzera (l’Istituto di tecnologia di Zurigo) sono le migliori venti università del mondo, secondo la classifica pubblicata a Ferragosto dalla Shanghai Jiao Tong University (Arwu). Le italiane, come negli scorsi anni, sono ancorate dopo il 150esimo posto su 500. Cinque quest’anno – erano sei nel 2014 – tra il 150 e il 200esimo gradino: la Sapienza, l’Università di Milano, e poi Padova, Pisa e Torino. Venti in tutto entro l’ultima posizione.
Difficile, messe così le cose, poter esultare per il nostro sistema universitario, nonostante il rettore della Sapienza Eugenio Gaudio abbia subito rimarcato la riconferma del risultato dello scorso anno per il suo ateneo. Impossibile per le nostre università scalare oltre le classifiche – tutt’al più può succedere che da un anno all’altro «rosicchino» qualche posizione – se si usano i criteri dell’istituto cinese: il numero di ex studenti che hanno preso il Nobel, il numero di premi Nobel che fanno parte del corpo insegnante, il numero di ricercatori con maggiori citazioni scientifiche e di studi pubblicati nelle riviste specializzate.
La vittoria degli Atenei italiani
Ma Giuseppe De Nicolao, professore di Ingegneria a Pavia e collaboratore della rivista online Roars, ha provato ad aggiungere un altro indicatore ai dati raccolti a Shanghai, per stilare una classifica «dell’efficienza delle università che mettesse a confronto i risultati con la spesa», dividendo cioè i costi di gestione di ogni università per il numero di punti raggiunti. E a sorpresa – mettendo a confronto i primi venti atenei della classifica Arwu e i venti atenei italiani che vi sono classificati – a guidare questa «gara» sono quattro università italiane: la Scuola Normale di Pisa, l’Università di Ferrara, Trieste e Milano Bicocca, e nei primi dieci posti otto sono gli atenei italiani mentre a reggere il confronto dell’efficienza tra le grandi università ci sono solo Princeton e Oxford. – segue -