Chiesa
«Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico»
MESSAGGIO
DI SUA SANTITÀ
FRANCESCO
PER LA LVII
GIORNATA MONDIALE DELLA PACE
1° GENNAIO 2024
Intelligenza artificiale e pace
All’inizio del nuovo anno, tempo di grazia che il Signore dona a ciascuno di noi, vorrei rivolgermi al Popolo di Dio, alle nazioni, ai Capi di Stato e di Governo, ai Rappresentanti delle diverse religioni e della società civile, a tutti gli uomini e le donne del nostro tempo per porgere i miei auguri di pace.
1. Il progresso della scienza e della tecnologia come via verso la pace
La Sacra Scrittura attesta che Dio ha donato agli uomini il suo Spirito affinché abbiano «saggezza, intelligenza e scienza in ogni genere di lavoro» (Es 35,31). L’intelligenza è espressione della dignità donataci dal Creatore, che ci ha fatti a sua immagine e somiglianza (cfr Gen 1,26) e ci ha messo in grado di rispondere al suo amore attraverso la libertà e la conoscenza. La scienza e la tecnologia manifestano in modo particolare tale qualità fondamentalmente relazionale dell’intelligenza umana: sono prodotti straordinari del suo potenziale creativo.
Nella Costituzione Pastorale Gaudium et spes, il Concilio Vaticano II ha ribadito questa verità, dichiarando che «col suo lavoro e col suo ingegno l’uomo ha cercato sempre di sviluppare la propria vita» [1]. Quando gli esseri umani, «con l’aiuto della tecnica», si sforzano affinchè la terra «diventi una dimora degna di tutta la famiglia umana» [2], agiscono secondo il disegno di Dio e cooperano con la sua volontà di portare a compimento la creazione e di diffondere la pace tra i popoli. Anche il progresso della scienza e della tecnica, nella misura in cui contribuisce a un migliore ordine della società umana, ad accrescere la libertà e la comunione fraterna, porta dunque al miglioramento dell’uomo e alla trasformazione del mondo.
Giustamente ci rallegriamo e siamo riconoscenti per le straordinarie conquiste della scienza e della tecnologia, grazie alle quali si è posto rimedio a innumerevoli mali che affliggevano la vita umana e causavano grandi sofferenze. Allo stesso tempo, i progressi tecnico-scientifici, rendendo possibile l’esercizio di un controllo finora inedito sulla realtà, stanno mettendo nelle mani dell’uomo una vasta gamma di possibilità, alcune delle quali possono rappresentare un rischio per la sopravvivenza e un pericolo per la casa comune [3].
I notevoli progressi delle nuove tecnologie dell’informazione, specialmente nella sfera digitale, presentano dunque entusiasmanti opportunità e gravi rischi, con serie implicazioni per il perseguimento della giustizia e dell’armonia tra i popoli. È pertanto necessario porsi alcune domande urgenti. Quali saranno le conseguenze, a medio e a lungo termine, delle nuove tecnologie digitali? E quale impatto avranno sulla vita degli individui e della società, sulla stabilità internazionale e sulla pace?
2. Il futuro dell’intelligenza artificiale tra promesse e rischi
I progressi dell’informatica e lo sviluppo delle tecnologie digitali negli ultimi decenni hanno già iniziato a produrre profonde trasformazioni nella società globale e nelle sue dinamiche. I nuovi strumenti digitali stanno cambiando il volto delle comunicazioni, della pubblica amministrazione, dell’istruzione, dei consumi, delle interazioni personali e di innumerevoli altri aspetti della vita quotidiana.
Inoltre, le tecnologie che impiegano una molteplicità di algoritmi possono estrarre, dalle tracce digitali lasciate su internet, dati che consentono di controllare le abitudini mentali e relazionali delle persone a fini commerciali o politici, spesso a loro insaputa, limitandone il consapevole esercizio della libertà di scelta. Infatti, in uno spazio come il web, caratterizzato da un sovraccarico di informazioni, possono strutturare il flusso di dati secondo criteri di selezione non sempre percepiti dall’utente.
Dobbiamo ricordare che la ricerca scientifica e le innovazioni tecnologiche non sono disincarnate dalla realtà e «neutrali» [4], ma soggette alle influenze culturali. In quanto attività pienamente umane, le direzioni che prendono riflettono scelte condizionate dai valori personali, sociali e culturali di ogni epoca. Dicasi lo stesso per i risultati che conseguono: essi, proprio in quanto frutto di approcci specificamente umani al mondo circostante, hanno sempre una dimensione etica, strettamente legata alle decisioni di chi progetta la sperimentazione e indirizza la produzione verso particolari obiettivi.
Questo vale anche per le forme di intelligenza artificiale. Di essa, ad oggi, non esiste una definizione univoca nel mondo della scienza e della tecnologia. Il termine stesso, ormai entrato nel linguaggio comune, abbraccia una varietà di scienze, teorie e tecniche volte a far sì che le macchine riproducano o imitino, nel loro funzionamento, le capacità cognitive degli esseri umani. Parlare al plurale di “forme di intelligenza” può aiutare a sottolineare soprattutto il divario incolmabile che esiste tra questi sistemi, per quanto sorprendenti e potenti, e la persona umana: essi sono, in ultima analisi, “frammentari”, nel senso che possono solo imitare o riprodurre alcune funzioni dell’intelligenza umana. L’uso del plurale evidenzia inoltre che questi dispositivi, molto diversi tra loro, vanno sempre considerati come “sistemi socio-tecnici”. Infatti il loro impatto, al di là della tecnologia di base, dipende non solo dalla progettazione, ma anche dagli obiettivi e dagli interessi di chi li possiede e di chi li sviluppa, nonché dalle situazioni in cui vengono impiegati.
L’intelligenza artificiale, quindi, deve essere intesa come una galassia di realtà diverse e non possiamo presumere a priori che il suo sviluppo apporti un contributo benefico al futuro dell’umanità e alla pace tra i popoli. Tale risultato positivo sarà possibile solo se ci dimostreremo capaci di agire in modo responsabile e di rispettare valori umani fondamentali come «l’inclusione, la trasparenza, la sicurezza, l’equità, la riservatezza e l’affidabilità» [5].
Non è sufficiente nemmeno presumere, da parte di chi progetta algoritmi e tecnologie digitali, un impegno ad agire in modo etico e responsabile. Occorre rafforzare o, se necessario, istituire organismi incaricati di esaminare le questioni etiche emergenti e di tutelare i diritti di quanti utilizzano forme di intelligenza artificiale o ne sono influenzati [6].
L’immensa espansione della tecnologia deve quindi essere accompagnata da un’adeguata formazione alla responsabilità per il suo sviluppo. La libertà e la convivenza pacifica sono minacciate quando gli esseri umani cedono alla tentazione dell’egoismo, dell’interesse personale, della brama di profitto e della sete di potere. Abbiamo perciò il dovere di allargare lo sguardo e di orientare la ricerca tecnico-scientifica al perseguimento della pace e del bene comune, al servizio dello sviluppo integrale dell’uomo e della comunità [7].
La dignità intrinseca di ogni persona e la fraternità che ci lega come membri dell’unica famiglia umana devono stare alla base dello sviluppo di nuove tecnologie e servire come criteri indiscutibili per valutarle prima del loro impiego, in modo che il progresso digitale possa avvenire nel rispetto della giustizia e contribuire alla causa della pace. Gli sviluppi tecnologici che non portano a un miglioramento della qualità di vita di tutta l’umanità, ma al contrario aggravano le disuguaglianze e i conflitti, non potranno mai essere considerati vero progresso [8].
L’intelligenza artificiale diventerà sempre più importante. Le sfide che pone sono tecniche, ma anche antropologiche, educative, sociali e politiche. Promette, ad esempio, un risparmio di fatiche, una produzione più efficiente, trasporti più agevoli e mercati più dinamici, oltre a una rivoluzione nei processi di raccolta, organizzazione e verifica dei dati. Occorre essere consapevoli delle rapide trasformazioni in atto e gestirle in modo da salvaguardare i diritti umani fondamentali, rispettando le istituzioni e le leggi che promuovono lo sviluppo umano integrale. L’intelligenza artificiale dovrebbe essere al servizio del migliore potenziale umano e delle nostre più alte aspirazioni, non in competizione con essi.
3. La tecnologia del futuro: macchine che imparano da sole
Nelle sue molteplici forme l’intelligenza artificiale, basata su tecniche di apprendimento automatico (machine learning), pur essendo ancora in fase pionieristica, sta già introducendo notevoli cambiamenti nel tessuto delle società, esercitando una profonda influenza sulle culture, sui comportamenti sociali e sulla costruzione della pace.
Sviluppi come il machine learning o come l’apprendimento profondo (deep learning) sollevano questioni che trascendono gli ambiti della tecnologia e dell’ingegneria e hanno a che fare con una comprensione strettamente connessa al significato della vita umana, ai processi basilari della conoscenza e alla capacità della mente di raggiungere la verità.
L’abilità di alcuni dispositivi nel produrre testi sintatticamente e semanticamente coerenti, ad esempio, non è garanzia di affidabilità. Si dice che possano “allucinare”, cioè generare affermazioni che a prima vista sembrano plausibili, ma che in realtà sono infondate o tradiscono pregiudizi. Questo pone un serio problema quando l’intelligenza artificiale viene impiegata in campagne di disinformazione che diffondono notizie false e portano a una crescente sfiducia nei confronti dei mezzi di comunicazione. La riservatezza, il possesso dei dati e la proprietà intellettuale sono altri ambiti in cui le tecnologie in questione comportano gravi rischi, a cui si aggiungono ulteriori conseguenze negative legate a un loro uso improprio, come la discriminazione, l’interferenza nei processi elettorali, il prendere piede di una società che sorveglia e controlla le persone, l’esclusione digitale e l’inasprimento di un individualismo sempre più scollegato dalla collettività. Tutti questi fattori rischiano di alimentare i conflitti e di ostacolare la pace.
4. Il senso del limite nel paradigma tecnocratico
Il nostro mondo è troppo vasto, vario e complesso per essere completamente conosciuto e classificato. La mente umana non potrà mai esaurirne la ricchezza, nemmeno con l’aiuto degli algoritmi più avanzati. Questi, infatti, non offrono previsioni garantite del futuro, ma solo approssimazioni statistiche. Non tutto può essere pronosticato, non tutto può essere calcolato; alla fine «la realtà è superiore all’idea» [9]e, per quanto prodigiosa possa essere la nostra capacità di calcolo, ci sarà sempre un residuo inaccessibile che sfugge a qualsiasi tentativo di misurazione.
Inoltre, la grande quantità di dati analizzati dalle intelligenze artificiali non è di per sé garanzia di imparzialità. Quando gli algoritmi estrapolano informazioni, corrono sempre il rischio di distorcerle, replicando le ingiustizie e i pregiudizi degli ambienti in cui esse hanno origine. Più diventano veloci e complessi, più è difficile comprendere perché abbiano prodotto un determinato risultato.
Le macchine “intelligenti” possono svolgere i compiti loro assegnati con sempre maggiore efficienza, ma lo scopo e il significato delle loro operazioni continueranno a essere determinati o abilitati da esseri umani in possesso di un proprio universo di valori. Il rischio è che i criteri alla base di certe scelte diventino meno chiari, che la responsabilità decisionale venga nascosta e che i produttori possano sottrarsi all’obbligo di agire per il bene della comunità. In un certo senso, ciò è favorito dal sistema tecnocratico, che allea l’economia con la tecnologia e privilegia il criterio dell’efficienza, tendendo a ignorare tutto ciò che non è legato ai suoi interessi immediati [10].
Questo deve farci riflettere su un aspetto tanto spesso trascurato nella mentalità attuale, tecnocratica ed efficientista, quanto decisivo per lo sviluppo personale e sociale: il “senso del limite”. L’essere umano, infatti, mortale per definizione, pensando di travalicare ogni limite in virtù della tecnica, rischia, nell’ossessione di voler controllare tutto, di perdere il controllo su sé stesso; nella ricerca di una libertà assoluta, di cadere nella spirale di una dittatura tecnologica. Riconoscere e accettare il proprio limite di creatura è per l’uomo condizione indispensabile per conseguire, o meglio, accogliere in dono la pienezza. Invece, nel contesto ideologico di un paradigma tecnocratico, animato da una prometeica presunzione di autosufficienza, le disuguaglianze potrebbero crescere a dismisura, e la conoscenza e la ricchezza accumularsi nelle mani di pochi, con gravi rischi per le società democratiche e la coesistenza pacifica [11].
5. Temi scottanti per l’etica
In futuro, l’affidabilità di chi richiede un mutuo, l’idoneità di un individuo ad un lavoro, la possibilità di recidiva di un condannato o il diritto a ricevere asilo politico o assistenza sociale potrebbero essere determinati da sistemi di intelligenza artificiale. La mancanza di diversificati livelli di mediazione che questi sistemi introducono è particolarmente esposta a forme di pregiudizio e discriminazione: gli errori sistemici possono facilmente moltiplicarsi, producendo non solo ingiustizie in singoli casi ma anche, per effetto domino, vere e proprie forme di disuguaglianza sociale.
Talvolta, inoltre, le forme di intelligenza artificiale sembrano in grado di influenzare le decisioni degli individui attraverso opzioni predeterminate associate a stimoli e dissuasioni, oppure mediante sistemi di regolazione delle scelte personali basati sull’organizzazione delle informazioni. Queste forme di manipolazione o di controllo sociale richiedono un’attenzione e una supervisione accurate, e implicano una chiara responsabilità legale da parte dei produttori, di chi le impiega e delle autorità governative.
L’affidamento a processi automatici che categorizzano gli individui, ad esempio attraverso l’uso pervasivo della vigilanza o l’adozione di sistemi di credito sociale, potrebbe avere ripercussioni profonde anche sul tessuto civile, stabilendo improprie graduatorie tra i cittadini. E questi processi artificiali di classificazione potrebbero portare anche a conflitti di potere, non riguardando solo destinatari virtuali, ma persone in carne ed ossa. Il rispetto fondamentale per la dignità umana postula di rifiutare che l’unicità della persona venga identificata con un insieme di dati. Non si deve permettere agli algoritmi di determinare il modo in cui intendiamo i diritti umani, di mettere da parte i valori essenziali della compassione, della misericordia e del perdono o di eliminare la possibilità che un individuo cambi e si lasci alle spalle il passato.
In questo contesto non possiamo fare a meno di considerare l’impatto delle nuove tecnologie in ambito lavorativo: mansioni che un tempo erano appannaggio esclusivo della manodopera umana vengono rapidamente assorbite dalle applicazioni industriali dell’intelligenza artificiale. Anche in questo caso, c’è il rischio sostanziale di un vantaggio sproporzionato per pochi a scapito dell’impoverimento di molti. Il rispetto della dignità dei lavoratori e l’importanza dell’occupazione per il benessere economico delle persone, delle famiglie e delle società, la sicurezza degli impieghi e l’equità dei salari dovrebbero costituire un’alta priorità per la Comunità internazionale, mentre queste forme di tecnologia penetrano sempre più profondamente nei luoghi di lavoro.
6. Trasformeremo le spade in vomeri?
In questi giorni, guardando il mondo che ci circonda, non si può sfuggire alle gravi questioni etiche legate al settore degli armamenti. La possibilità di condurre operazioni militari attraverso sistemi di controllo remoto ha portato a una minore percezione della devastazione da essi causata e della responsabilità del loro utilizzo, contribuendo a un approccio ancora più freddo e distaccato all’immensa tragedia della guerra. La ricerca sulle tecnologie emergenti nel settore dei cosiddetti “sistemi d’arma autonomi letali”, incluso l’utilizzo bellico dell’intelligenza artificiale, è un grave motivo di preoccupazione etica. I sistemi d’arma autonomi non potranno mai essere soggetti moralmente responsabili: l’esclusiva capacità umana di giudizio morale e di decisione etica è più di un complesso insieme di algoritmi, e tale capacità non può essere ridotta alla programmazione di una macchina che, per quanto “intelligente”, rimane pur sempre una macchina. Per questo motivo, è imperativo garantire una supervisione umana adeguata, significativa e coerente dei sistemi d’arma.
Non possiamo nemmeno ignorare la possibilità che armi sofisticate finiscano nelle mani sbagliate, facilitando, ad esempio, attacchi terroristici o interventi volti a destabilizzare istituzioni di governo legittime. Il mondo, insomma, non ha proprio bisogno che le nuove tecnologie contribuiscano all’iniquo sviluppo del mercato e del commercio delle armi, promuovendo la follia della guerra. Così facendo, non solo l’intelligenza, ma il cuore stesso dell’uomo, correrà il rischio di diventare sempre più “artificiale”. Le più avanzate applicazioni tecniche non vanno impiegate per agevolare la risoluzione violenta dei conflitti, ma per pavimentare le vie della pace.
In un’ottica più positiva, se l’intelligenza artificiale fosse utilizzata per promuovere lo sviluppo umano integrale, potrebbe introdurre importanti innovazioni nell’agricoltura, nell’istruzione e nella cultura, un miglioramento del livello di vita di intere nazioni e popoli, la crescita della fraternità umana e dell’amicizia sociale. In definitiva, il modo in cui la utilizziamo per includere gli ultimi, cioè i fratelli e le sorelle più deboli e bisognosi, è la misura rivelatrice della nostra umanità.
Uno sguardo umano e il desiderio di un futuro migliore per il nostro mondo portano alla necessità di un dialogo interdisciplinare finalizzato a uno sviluppo etico degli algoritmi – l’algor-etica –, in cui siano i valori a orientare i percorsi delle nuove tecnologie [12]. Le questioni etiche dovrebbero essere tenute in considerazione fin dall’inizio della ricerca, così come nelle fasi di sperimentazione, progettazione, produzione, distribuzione e commercializzazione. Questo è l’approccio dell’etica della progettazione, in cui le istituzioni educative e i responsabili del processo decisionale hanno un ruolo essenziale da svolgere.
7. Sfide per l’educazione
Lo sviluppo di una tecnologia che rispetti e serva la dignità umana ha chiare implicazioni per le istituzioni educative e per il mondo della cultura. Moltiplicando le possibilità di comunicazione, le tecnologie digitali hanno permesso di incontrarsi in modi nuovi. Tuttavia, rimane la necessità di una riflessione continua sul tipo di relazioni a cui ci stanno indirizzando. I giovani stanno crescendo in ambienti culturali pervasi dalla tecnologia e questo non può non mettere in discussione i metodi di insegnamento e formazione.
L’educazione all’uso di forme di intelligenza artificiale dovrebbe mirare soprattutto a promuovere il pensiero critico. È necessario che gli utenti di ogni età, ma soprattutto i giovani, sviluppino una capacità di discernimento nell’uso di dati e contenuti raccolti sul web o prodotti da sistemi di intelligenza artificiale. Le scuole, le università e le società scientifiche sono chiamate ad aiutare gli studenti e i professionisti a fare propri gli aspetti sociali ed etici dello sviluppo e dell’utilizzo della tecnologia.
La formazione all’uso dei nuovi strumenti di comunicazione dovrebbe tenere conto non solo della disinformazione, delle fake news, ma anche dell’inquietante recrudescenza di «paure ancestrali [...] che hanno saputo nascondersi e potenziarsi dietro nuove tecnologie» [13]. Purtroppo, ancora una volta ci troviamo a dover combattere “la tentazione di fare una cultura dei muri, di alzare muri per impedire l’incontro con altre culture, con altra gente” [14]e lo sviluppo di una coesistenza pacifica e fraterna.
8. Sfide per lo sviluppo del diritto internazionale
La portata globale dell’intelligenza artificiale rende evidente che, accanto alla responsabilità degli Stati sovrani di disciplinarne l’uso al proprio interno, le Organizzazioni internazionali possono svolgere un ruolo decisivo nel raggiungere accordi multilaterali e nel coordinarne l’applicazione e l’attuazione [15]. A tale proposito, esorto la Comunità delle nazioni a lavorare unita al fine di adottare un trattato internazionale vincolante, che regoli lo sviluppo e l’uso dell’intelligenza artificiale nelle sue molteplici forme. L’obiettivo della regolamentazione, naturalmente, non dovrebbe essere solo la prevenzione delle cattive pratiche, ma anche l’incoraggiamento delle buone pratiche, stimolando approcci nuovi e creativi e facilitando iniziative personali e collettive [16].
In definitiva, nella ricerca di modelli normativi che possano fornire una guida etica agli sviluppatori di tecnologie digitali, è indispensabile identificare i valori umani che dovrebbero essere alla base dell’impegno delle società per formulare, adottare e applicare necessari quadri legislativi. Il lavoro di redazione di linee guida etiche per la produzione di forme di intelligenza artificiale non può prescindere dalla considerazione di questioni più profonde riguardanti il significato dell’esistenza umana, la tutela dei diritti umani fondamentali, il perseguimento della giustizia e della pace. Questo processo di discernimento etico e giuridico può rivelarsi un’occasione preziosa per una riflessione condivisa sul ruolo che la tecnologia dovrebbe avere nella nostra vita individuale e comunitaria e su come il suo utilizzo possa contribuire alla creazione di un mondo più equo e umano. Per questo motivo, nei dibattiti sulla regolamentazione dell’intelligenza artificiale, si dovrebbe tenere conto della voce di tutte le parti interessate, compresi i poveri, gli emarginati e altri che spesso rimangono inascoltati nei processi decisionali globali.
* * *
Spero che questa riflessione incoraggi a far sì che i progressi nello sviluppo di forme di intelligenza artificiale servano, in ultima analisi, la causa della fraternità umana e della pace. Non è responsabilità di pochi, ma dell’intera famiglia umana. La pace, infatti, è il frutto di relazioni che riconoscono e accolgono l’altro nella sua inalienabile dignità, e di cooperazione e impegno nella ricerca dello sviluppo integrale di tutte le persone e di tutti i popoli.
La mia preghiera all’inizio del nuovo anno è che il rapido sviluppo di forme di intelligenza artificiale non accresca le troppe disuguaglianze e ingiustizie già presenti nel mondo, ma contribuisca a porre fine a guerre e conflitti, e ad alleviare molte forme di sofferenza che affliggono la famiglia umana. Possano i fedeli cristiani, i credenti di varie religioni e gli uomini e le donne di buona volontà collaborare in armonia per cogliere le opportunità e affrontare le sfide poste dalla rivoluzione digitale, e consegnare alle generazioni future un mondo più solidale, giusto e pacifico.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2023
FRANCESCO
[1] N. 33.
[2] Ibid., 57.
[3] Cfr Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 104.
[4] Cfr ibid., 114.
[5] Udienza ai partecipanti all’Incontro “Minerva Dialogues” (27 marzo 2023).
[6] Cfr ibid.
[7] Cfr Messaggio al Presidente Esecutivo del “World Economic Forum” a Davos-Klosters (12 gennaio 2018).
[8] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 194; Discorso ai partecipanti al Seminario “Il bene comune nell’era digitale” (27 settembre 2019).
[9] Esort. ap. Evangelii gaudium (24 novembre 2013), 233.
[10] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 54.
[11] Cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia per la Vita (28 febbraio 2020).
[12] Cfr ibid.
[13] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 27.
[14] Cfr ibid.
[15] Cfr ibid., 170-175.
[16] Cfr Lett. enc. Laudato si’, 177.
Copyright © Dicastero per la Comunicazione – Libreria Editrice Vaticana
—————————————-
E’ Natale!
Natale: «La parola avvenne nella carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (Giovanni 1,14)
22-12-2023 – di: Andrea Bigalli su Volerelaluna*.
Una lettura storica sulle prospettive della chiesa cattolica non appare certo consolante. L’erosione del patrimonio culturale e sociale che portava a sentirsi parte di essa è evidente. Da un lato c’è la mancata trasmissione generazionale di un’identità sempre meno compresa; dall’altro il peso di vari scandali (in primis quello degli abusi del clero) ha creato una frattura di fiducia nei confronti di una istituzione che faceva proprio della formazione fiduciaria delle giovani generazioni uno dei suoi punti di forza. Neanche un pontificato ricco di aperture e intuizioni straordinarie sembra invertire una tendenza che non appare transitoria. È un’analisi sommaria che potrebbe elencare altro: in ultima analisi comprendendo l’ipotesi che il cristianesimo – il teismo in genere – abbia esaurito la sua spinta propulsiva nel rispondere alle esigenze dell’antropologia contemporanea. Se fino a qualche anno fa si poteva pensare che fosse il positivismo scientifico a minare i presupposti della fede, quanto constatato nella stretta contemporaneità (le contestazioni arbitrarie al pensiero medico scientifico in pandemia, per esempio) fa supporre che il pensiero religioso non sia stato sostituito da una costruzione del tutto logica delle convinzioni esistenziali. Ma ne occorrono davvero? Magari no. Non mi sembra però che rimuovere la questione della metafisica abbia prodotto serenità diffusa, fiducia nel futuro, gratificazione dalla buona qualità di vita. Se si pensa alla trascendenza solo su un piano religioso, si perde la prospettiva di un’evoluzione consapevole, che per gli esseri umani può passare solo per la dimensione della domanda difficile, della provocazione, della consapevolezza della finitudine, ma, al contempo, del valore dell’esperienza umana in quanto tale. Su tutto questo c’è molta poca analisi, la società in cui viviamo ci educa alle prospettive unidirezionali. Herbert Marcuse aveva ragione. Un altro Natale. Ancora più spoglio di significati che non siano quelli del mercato, della convenzione artificiosa riguardo alle relazioni affettive, di modelli di vita sicuramente usurati ed inadeguati. Prevale un crescente disagio, venato dalla preoccupazione riguardo al futuro e dal senso di colpa che ci portiamo dentro. Stiamo assistendo a conflitti sempre più pervasivi, da cui niente sembra poterci esentare: inclusi quelli rappresentati dalla violenza di genere e dalla guerra suicida all’ecosistema. In colpa perché la nostra impotenza diventa rassegnazione. Atterriti nel constatare che le vie di progresso si fanno involute. Lettrici e lettori penseranno che mi sto mettendo nei guai da solo. Da un lato enuncio una crisi, quella del cattolicesimo, dall’altro ne inserisco i termini in quella generale della contemporaneità. Quindi? Ciò che dovrebbe sostenere le Chiese cristiane, la Bibbia, scaturisce per lo più da contesti di crisi, personale e delle società, fino al punto di farmi sostenere che il concetto stesso di crisi ne sia una chiave di lettura basilare. I cattolici arrivano a celebrare Natale guidati da un profeta, Isaia, il cui libro è ossatura fondamentale delle liturgie di Avvento: questo testo, con almeno tre diversi livelli storici e composto a più mani, ruota intorno alla memoria storica e teologica dell’evento più devastante vissuto dal Regno di Israele. Annientati dall’impero babilonese, gli ebrei sono destinati alla deportazione e alla cattività. Nel prima, durante e dopo l’esilio, Isaia ammonisce, contesta, prospetta, consola, sostiene, illumina. Soprattutto presenta una visione: letto il presente con gli occhi di Dio, se ne possono proiettare gli elementi verso il futuro. Non troverete in ciò traccia alcuna di un ottimismo fine a sé stesso, un’ingenuità sul tempo vissuto, la prospettiva artificiosa del fideismo. La Scrittura è scabra, aspra, brutale nel dichiarare ciò che avviene e mettere ognuno davanti alle proprie responsabilità. Ma proprio per questo è veritiera anche quando ti espone il dato dell’imprevedibile, che non può essere solo foriero di negatività. Il Dio che si presenta così educa alla speranza: chiede l’onestà sugli errori, sostiene il cambiamento, condurrà ogni popolo al proprio Esodo, ad una pedagogia di liberazione. I Vangeli sono scritti con lo stile letterario profetico, Cristo è il compimento della profezia stessa: è un codice di comprensione importante, talvolta poco seguito dagli esegeti. Gesù di Nazareth nasce in un tempo difficilissimo: un tempo di dominazione imperiale, di difficile resistenza alle sue istanze culturali di idolatria della forza e del potere, di minorità e marginalità di popoli interi. La società era governata da un potere teocratico che aveva perso ogni autorità, ripetendo stancamente a favore del fariseismo la lettura di un Dio giudicante, divisivo, escludente. Il dio classista dei potenti e dei garantiti: sempre invocato per stroncare le dissidenze, spegnere le profezie, annichilire le speranze. Dio avviene nella carne in questo quadro. E avviene riducendosi a niente, nascendo povero, mite, coraggioso e veritiero in un tempo – quando mai no, però? – della menzogna eletta a sistema di comunicazione. Giovanni, nel primo capitolo, ci dice che il Logos, il senso più alto dell’intelletto, il genio comunicativo e intessuto di razionalità pienamente umana – quindi affettiva, generativa, fantasiosa – avviene nella fragilità e nella contraddittorietà della carne. La prospettiva della condizione effimera, sia pur meravigliosa, della corporeità umana, deve far sintesi con il presupposto intellettivo mai così definito in positivo come nell’idea del Logos/Parola. Il Divino si immerge totalmente nella contraddizione, la crudeltà, la fatica, la sofferenza, la dignità e la bellezza di ciò che è nella dimensione concreta dell’esistere delle donne e degli uomini. Se il Natale lo leggo in questa prospettiva trovo la necessità di incarnarsi nel proprio vivere, nella stagione storica a cui siamo stati consegnati. La verità dei nostri limiti si definisce attraverso le fragilità del relazionarsi: il desiderio, il bisogno, la transitorietà di tutto. Al contempo possiamo capire che ciò che stiamo vivendo si iscrive nella potenzialità dell’altrove, di ciò che procede più in là da quanto definito e conosciuto. La crisi si può abitare in una dimensione profetica: imparando a decifrare i segni di quella che attanaglia l’istituzione che la produce, la governa, gode e profitta del suo essere. Certo, qui una componente fideista c’è e passa per pensare che le vittime e i violentati vedranno la crisi volgersi in crescita perché è l’Impero, racconta l’Apocalisse, il libro che è la summa delle intuizioni profetiche di tutta la Scrittura, che dovrà rassegnarsi al proprio crollo. L’Impero è il simbolo di tutto quel male che ha preteso di governare la storia umana: è stato fondato sul disumanesimo, sussiste in virtù di esso, non può che sprofondare nelle sue stesse logiche di morte. Chi ha conservato una logica di vita, di tenerezza e di solidarietà, sopravviverà. Quando parlo di fede ne intendo una vasta, non necessariamente teista, anzi: sostenuta da quell’umanesimo distillato dalle grandezze e dai fallimenti delle prassi storiche, è la fiducia che gli esseri umani – come sosteneva il mio maestro Ernesto Balducci – hanno in sé potenzialità inedite ancora nascoste, in lento travaglio verso la piena espressione. L’umano della pace non si è del tutto svelato, ma è già presente. Talvolta soccombe, ma la sua piena e feconda espressione è irriducibile, avverrà comunque. Nel 2024 celebreremo i cento anni dalla nascita di Franco Basaglia, la cui azione ha espresso un umanesimo totale e radicale, che si genera e si comprende a partire dalla ragione dei sofferenti, dei malati, di quelli e quelle ascritte alle varie categorie dell’esclusione. Per capire che siamo comunque ai margini, dato che tutti chiediamo salvezza, soffriamo il male di vivere. Essere consapevoli del nostro male, per questo solidali e dediti alla cura, è l’unico modo per acquisire lucidità riguardo alla propria crisi, la comprensione di come essa si tramuti nella pace. Può sembrare mera retorica ma bisogna assumere tutto il peso dello scandalo folle del Vangelo che dichiara beati i poveri, chiedendoci di ragionare secondo la logica della vera povertà, liberi dal troppo, gioiosi nell’essenziale. Un conto è la tutela del necessario e di quel di più che garantisce autentica contentezza, un conto è farsi soffocare dal bisogno indotto, che snatura il senso bello dell’avere senza possedere, di esistere per l’abbondanza del condiviso. «Para todos, todo. Para nosotros, nada» affermano gli zapatisti dell’Ezln (continuano a resistere all’Impero, anche se non si parla di loro). Il senso di questa povertà è pienezza dell’avere, perché è avere insieme. Il Vangelo non esalta la povertà in sé, avversa semmai radicalmente la miseria, perché sa che l’avere non è male: dominare senza condividere, quello è il peccato alla radice della condizione umana. Avere senza cuore, pensiero, fantasia, com/passione. È un bambino, nasce ai margini, non nei luoghi garantiti, privilegiati e sicuri. Accolto tra i primi dai pastori. I membri della mia comunità sono rimasti molto colpiti quando abbiamo studiato insieme che erano parte di una categoria disprezzata, guardata con sospetto per la promiscuità con il mondo animale, randagia, nomade, talora irregolare e violenta, per reazione al disamore. Eppure sono i primi ad ascoltare, andare, vedere, gioire. Cosa? Il tempo nuovo di un umanesimo che non si fa dominare, spengere, addomesticare, irregimentare. Libero, intelligente, felice. Spinto da una creatività invincibile. Impastato con le sante essenze della sororità e della fraternità. In transito, eppure nella stabilità in equilibrio non definitivo di chi ha una tenda e non la prigionia dei palazzi.
——————————————
* Andrea Bigalli, fiorentino, è stato ordinato sacerdote nel 1990. Dal 1999 è parroco a Sant’Andrea in Percussina (San Casciano Val di Pesa). Vice direttore della “Caritas” toscana dal 1998 al 2005 è attualmente referente di Libera per la Toscana e membro del direttivo della rivista “Testimonianze”. Insegna religione nelle scuole superiori di Firenze.
——————————
——————————
Gli Auguri del nostro Editore
——————————-
Illustrazione in testa
Stupendo! La Natività è un dipinto, olio su tavola (124,4×122,6 cm), dell’ultima fase artistica di Piero della Francesca, databile al 1470-1475 (o secondo alcuni fino al 1485) e oggi conservato nella National Gallery di Londra (oggetto di un restauro molto discusso nel 2022) Da wikipedia.
————————————
Su Dossier Caritas 2023. COP28: Dubai e oltre Dubai
Lunedì 18 dicembre la Caritas di Cagliari ha presentato il XIII Dossier Caritas 2023. Il volume è ricco di informazioni sulla vasta attività dell’istituzione durante il corrente anno, nonché di riflessioni su quanto accade nel nostro tempo. Avremo occasioni per riproporre almeno una parte di tali contenuti nella nostra news, dando ad essi adeguato spazio e rilievo. Nel presente spazio-editoriale riportiamo l’articolo del direttore sull’esortazione apostolica Laudate Deum di Papa Francesco, pubblicata il 4 ottobre u.s., dedicata alle questioni ambientali, un vero e proprio aggiornamento dell’enciclica Laudato si’, in previsione della COP28 tenutasi come previsto a Dubai dal 30 novembre al 12 dicembre (prolungatasi per alcuni giorni). Lo stesso pontefice avrebbe dovuto parteciparvi nei gg. 1-3 dicembre, ma ha dovuto rinunciare per ragioni di salute. L’articolo è andato in stampa ben prima dell’evento di Dubai, riporta pertanto previsioni e auspici, da confrontare oggi con quanto effettivamente accaduto e deciso nei documenti finali. Per completezza di informazione, aggiornata ad oggi, riportiamo di seguito all’articolo del direttore, tre pezzi di valutazione a conclusione della COP28 di Dubai, che crediamo ne mostrino luci ed ombre, obbiettivi raggiunti (pochi), obbiettivi parzialmente soddisfacenti, obbiettivi totalmente mancati (tanto che alcuni parlano di fallimento). Ai lettori un giudizio motivato, sulla base della documentazione fornita o comunque di altra disponibile in rete.
Aspettando Dubai, oltre Dubai
L’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum
di Franco Meloni
Premessa: con Papa Francesco, Giovanni XXIII, Paolo VI
Papa Francesco tiene molto nelle sue encicliche ed esortazioni e, in generale, nelle sue dichiarazioni a ricollegarsi ai suoi predecessori, soprattutto a quelli più vicini, nella linea della “continuità nel rinnovamento” del magistero della Chiesa. Ma sono specialmente due i Pontefici a cui fa riferimento, quelli più legati al Concilio Vaticano II: Giovanni XXIII, che lo ha indetto e iniziato; Paolo VI, che lo ha ripreso e portato a compimento [1]. E sappiamo quanto Papa Francesco ami e consideri il Concilio: «evento di grazia per la Chiesa e per il mondo», «i cui frutti non si sono esauriti» e che «non è stato ancora interamente compreso, vissuto e applicato (…) Dal Concilio Ecumenico Vaticano II abbiamo ricevuto molto. Abbiamo approfondito, ad esempio, l’importanza del popolo di Dio, categoria centrale nei testi conciliari, richiamata ben centottantaquattro volte, che ci aiuta a comprendere il fatto che la Chiesa non è un’élite di sacerdoti e consacrati e che ciascun battezzato è un soggetto attivo di evangelizzazione”. E continua: “dobbiamo riscoprire l’ispirazione del Concilio e come passo dopo passo questo evento abbia trasformato la vita della Chiesa, è l’occasione per affrontare meglio il percorso sinodale, che è fatto innanzitutto di ascolto, di coinvolgimento, di capacità di far spazio al soffio dello Spirito, lasciando a Lui la possibilità di guidarci”.[2]
Anch’io in premessa delle mie considerazioni sull’Esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum (LD) [3] faccio riferimento ai medesimi due Pontefici.
- A Giovanni XXIII, laddove mi soffermo sui destinatari del messaggio pontificio che appare nel titolo stesso della LD: “…a tutte le persone di buona volontà”.
Si tratta di un’ulteriore innovazione che va oltre quanto Papa Francesco già sottolineava nella Laudato sì’ sotto l’intitolazione “Niente di questo mondo ci risulta indifferente”, Papa Francesco ricordava: “Più di cinquant’anni fa, mentre il mondo vacillava sull’orlo di una crisi nucleare, il santo Papa Giovanni XXIII scrisse un’Enciclica con la quale non si limitò solamente a respingere la guerra, bensì volle trasmettere una proposta di pace. Diresse il suo messaggio Pacem in terris a tutto il “mondo cattolico”, ma aggiungeva «nonché a tutti gli uomini di buona volontà». Adesso, di fronte al deterioramento globale dell’ambiente, voglio rivolgermi a ogni persona che abita questo pianeta (…)”. E ribadisce: “In questa Enciclica (LS), mi propongo specialmente di entrare in dialogo con tutti riguardo alla nostra casa comune” (LS 3). La novità della Laudate Deum consiste, nel rivolgersi “a primo acchito” all’intera umanità, almeno a quella pensante, di buona volontà, (formata da “persone”, non “uomini”, al fine di superare la tradizionale prevalenza del maschile), prima ancora che ai “fedeli cattolici”, a cui dedica gli ultimi paragrafi dell’Esortazione (LD 61-73).
- A Paolo VI [4], precisamente alla sua prima Enciclica, Ecclesiam Suam (ES) [4bis], laddove individua “le posizioni concrete, in cui l’umanità si trova rispetto alla Chiesa cattolica (…) a guisa di tre cerchi concentrici” che la circondano [5] In questa trattazione ci interessa il primo.
Dall’Enciclica di Paolo VI Ecclesiam suam alla Costituzione conciliare Gaudium et Spes
Paolo VI lo descrive come “(…) un immenso cerchio, di cui non riusciamo a vedere i confini; essi si confondono con l’orizzonte; cioè riguardano l’umanità in quanto tale, il mondo. Noi misuriamo la distanza che da noi lo tiene lontano; ma non lo sentiamo estraneo. Tutto ciò ch’è umano ci riguarda. Noi abbiamo in comune con tutta l’umanità la natura, cioè la vita, con tutti i suoi doni, con tutti i suoi problemi. Siamo pronti a condividere questa prima universalità; ad accogliere le istanze profonde dei suoi fondamentali bisogni, ad applaudire alle affermazioni nuove e talora sublimi del suo genio. E abbiamo verità morali, vitali, da mettere in evidenza e da corroborare nella coscienza umana, per tutti benefiche. Dovunque è l’uomo in cerca di comprendere se stesso e il mondo, noi possiamo comunicare con lui; dovunque i consessi dei popoli si riuniscono per stabilire i diritti e i doveri dell’uomo, noi siamo onorati, quando ce lo consentono, di assiderci fra loro. Se esiste nell’uomo un’anima naturalmente cristiana, noi vogliamo onorarla della nostra stima e del nostro colloquio”. E prosegue: “Noi potremmo ricordare a noi stessi e a tutti gli altri come il nostro atteggiamento sia, da un lato, totalmente disinteressato; non abbiamo alcuna mira politica o temporale; dall’altro, sia rivolto ad assumere, cioè ad elevare a livello soprannaturale e cristiano, ogni onesto valore umano e terreno; non siamo la civiltà, ma fautori di essa. (…)” (ES 101-102).
È un’anticipazione della costituzione conciliare “Gaudium et Spes” [6] di cui cito lo splendido incipit: “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore. La loro comunità, infatti, è composta di uomini i quali, riuniti insieme nel Cristo, sono guidati dallo Spirito Santo nel loro pellegrinaggio verso il regno del Padre, ed hanno ricevuto un messaggio di salvezza da proporre a tutti”.
Dall’Enciclica Laudato sì’ all’Esortazione Laudate Deum
Nell’intervista fattagli di recente dalla Rai [7], Papa Francesco ricorda un suo viaggio a Strasburgo: “Non dimentico quando il 25 novembre 2014, invitato dal Parlamento europeo, incontrai la ministra francese dell’Ambiente, Ségolène Royal, con cui parlai di quello che stavo scrivendo sull’ambiente e del progetto di un lavoro comune con scienziati e teologi. «Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza sul clima di Parigi [8]»: furono queste le parole della ministra. Ed in effetti il 24 maggio 2015 fu emanata l’enciclica Laudato si’” (LS). Il Papa dunque giocò d’anticipo, riuscendo in certa misura a far pesare, con l’autorevolezza di un’Enciclica, le sue argomentazioni, che non sono dogma, ma rappresentano l’aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa cattolica in materia di ambiente, cambiamento climatico, ecologia integrale… in sostanza quanto si compendia nella “cura del Creato”. La capacità di Papa Francesco di “cogliere i segni dei tempi” [9] fino ad anticipare gli eventi è un suo carisma che si è appalesato non solo rispetto alla COP21 di Parigi, ma, come rilevo sul Dossier Caritas 2019 [10], anche rispetto alla risoluzione dell’Onu con cui il 25 settembre 2015 fu approvata l’Agenda Onu 2030 [11], anticipata di quattro mesi dalla Laudato sì’. Ma su questo argomento rinvio ad altri approfondimenti.
Con l’Esortazione Laudate Deum, ad oltre otto anni dalla LS, il Papa si comporta in modo analogo rispetto alla imminente scadenza della COP28 a Dubai [12], non certo per il gusto dell’arrivare primo, quanto piuttosto per enfatizzarne l’importanza, dando la sveglia a tutti… .
Dice il Papa in una delle sue esternazioni “Dopo Parigi purtroppo le cose non sono andate come speravo, e questo continua a preoccuparmi”. Il perché lo spiega nell’Esortazione: “(…) con il passare del tempo, mi rendo conto che non reagiamo abbastanza, poiché il mondo che ci accoglie si sta sgretolando e forse si sta avvicinando a un punto di rottura. Al di là di questa possibilità, non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie. Ne sentiremo gli effetti in termini di salute, lavoro, accesso alle risorse, abitazioni, migrazioni forzate e in altri ambiti” (LD 2) . Le conseguenze della crisi climatica globale sono sotto gli occhi di tutti: “Negli ultimi anni abbiamo assistito a fenomeni estremi, frequenti periodi di caldo anomalo, siccità e altri lamenti della terra che sono solo alcune espressioni tangibili di una malattia silenziosa che colpisce tutti noi (…) È verificabile che alcuni cambiamenti climatici indotti dall’uomo aumentano in modo significativo la probabilità di eventi estremi più frequenti e più intensi. Sappiamo quindi che ogni volta che la temperatura globale aumenta di 0,5 gradi centigradi, aumenta anche l’intensità e la frequenza di forti piogge e inondazioni in alcune aree, di grave siccità in altre, di caldo estremo in alcune regioni e di forti nevicate in altre ancora. Se fino a ora potevamo avere ondate di calore alcune volte all’anno, cosa accadrebbe con un aumento della temperatura globale di 1,5 gradi centigradi, a cui siamo vicini? Tali onde di calore saranno molto più frequenti e più intense. Se si superano i 2 gradi, le calotte glaciali della Groenlandia e di gran parte dell’Antartide si scioglieranno completamente, con conseguenze enormi e molto gravi per tutti” (LD 5).
Dalla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992 alla COP 28 di Dubai
Dopo aver passato in rassegna le COP che hanno preceduto e seguito quella di Parigi e che dopo quest’ultima hanno prodotto risultati deludenti [13], il Papa s’interroga: “Cosa ci si aspetta dalla COP28 di Dubai?” [13] Si mostra speranzoso: “Se abbiamo fiducia nella capacità dell’essere umano di trascendere i suoi piccoli interessi e di pensare in grande, non possiamo rinunciare a sognare che la COP28 porti a una decisa accelerazione della transizione energetica, con impegni efficaci che possano essere monitorati in modo permanente. Questa Conferenza può essere un punto di svolta, comprovando che tutto quanto si è fatto dal 1992 [14] era serio e opportuno, altrimenti sarà una grande delusione e metterà a rischio quanto di buono si è potuto fin qui raggiungere”. E ancora: “Nonostante i numerosi negoziati e accordi, le emissioni globali hanno continuato a crescere. È vero che si può sostenere che senza questi accordi sarebbero cresciute ancora di più. Ma su altre questioni ambientali, dove c’è stata la volontà, sono stati raggiunti risultati molto significativi, come nel caso della protezione dello strato di ozono. Invece la necessaria transizione verso energie pulite, come quella eolica, quella solare, abbandonando i combustibili fossili, non sta procedendo abbastanza velocemente. Di conseguenza, ciò che si sta facendo rischia di essere interpretato solo come un gioco per distrarre (…) Se c’è un sincero interesse a far sì che la COP28 diventi storica, che ci onori e ci nobiliti come esseri umani, allora possiamo solo aspettarci delle forme vincolanti di transizione energetica che abbiano tre caratteristiche: che siano efficienti, che siano vincolanti e facilmente monitorabili. Questo al fine di avviare un nuovo processo che sia drastico, intenso e possa contare sull’impegno di tutti. Ciò non è accaduto nel cammino percorso finora, ma solo con un tale processo si potrebbe ripristinare la credibilità della politica internazionale, perché solo in questo modo concreto sarà possibile ridurre notevolmente l’anidride carbonica ed evitare in tempo i mali peggiori. (…) Speriamo che quanti interverranno siano strateghi capaci di pensare al bene comune e al futuro dei loro figli, piuttosto che agli interessi di circostanza di qualche Paese o azienda. Possano così mostrare la nobiltà della politica e non la sua vergogna. Ai potenti oso ripetere questa domanda: «Perché si vuole mantenere oggi un potere che sarà ricordato per la sua incapacità di intervenire quando era urgente e necessario farlo?». [15] (…) Sappiamo che, di questo passo, in pochi anni supereremo il limite massimo auspicabile di 1,5 gradi centigradi e a breve potremmo arrivare a 3 gradi, con un alto rischio di raggiungere un punto critico. Anche se questo punto di non ritorno non venisse raggiunto, gli effetti sarebbero disastrosi e bisognerebbe prendere misure in maniera precipitosa, con costi enormi e con conseguenze economiche e sociali estremamente gravi e intollerabili. Se le misure che adotteremo ora hanno dei costi, essi saranno tanto più pesanti quanto più aspetteremo.
Il paradigma tecnocratico
Papa Francesco non manca l’occasione di rammentare, come già affermato nella Laudato si’, che alla base della degradazione dell’ambiente, vi è quello che lui chiama il paradigma tecnocratico [15] , «un modo di comprendere la vita e l’azione umana che è deviato e che contraddice la realtà fino al punto di rovinarla; come se la realtà, il bene e la verità sbocciassero spontaneamente dal potere stesso della tecnologia e dell’economia. Da qui si passa facilmente all’idea di una crescita infinita o illimitata, che ha tanto entusiasmato gli economisti, i teorici della finanza e della tecnologia» (LD 20; LS 101-106).
Ricorda che «un ambiente sano è anche il prodotto dell’interazione dell’uomo con l’ambiente, come avviene nelle culture indigene e come è avvenuto per secoli in diverse regioni della Terra. I gruppi umani hanno spesso “creato” l’ambiente, rimodellandolo in qualche modo senza distruggerlo o metterlo in pericolo. Il grande problema di oggi è che il paradigma tecnocratico ha distrutto questo rapporto sano e armonioso» (LD 28). E’ dunque un imperativo fermare il degrado del nostro ecosistema, invertire la rotta e promuovere azioni concrete, forti e senza perdere tempo prezioso, per mitigare il più possibile il cambiamento climatico e, nello stesso tempo, per adattarci alle condizioni climatiche che si vanno determinando. Al riguardo sono importanti sia gli accordi tra i governi delle nazioni in un’ottica di un nuovo multilateralismo che nasce dal basso, sia la condotta individuale e collettiva delle persone, adottando stili di vita sostenibili con l’ambiente e solidali con la gran parte dell’umanità che soffre drammaticamente le violenze esercitate dall’uomo sulla terra. (LD 37-38). Giova rammentare che il Papa a sostegno delle sue posizioni sul clima si appoggia alla stragrande maggioranza degli studiosi in materia [16] e non ha alcuna timidezza nel condannare i negazionismi e a richiamare alla ragione quanti se ne fanno portatori, anche all’interno della Chiesa cattolica (LD 14). Certo è che non bisogna illudersi che l’attuale economia che egemonizza il mondo, basata sulla “logica del massimo profitto al minimo costo, mascherata da razionalità, progresso e promesse illusorie” possa avere la priorità del bene comune, della difesa della casa comune, della “promozione degli scartati della società” (LD 31). Occorre la ricerca e la pratica di una diversa economia che non sia disgiunta dall’etica e che pertanto metta al centro la persona e il suo benessere. Dice il Papa che “dobbiamo tutti ripensare alla questione del potere umano”, per difendere “la nostra stessa sopravvivenza”. E’ efficace al riguardo la citazione ironica di Solov’ëv: “Un secolo così progredito che perfino gli era toccato in sorte essere l’ultimo” (LD 28) [17]. Il Papa coglie l’occasione per richiamare la necessità di quello che chiama “il pungiglione etico”, richiamando il valore dell’impegno, della crescita delle capacità, del lodevole spirito di iniziativa, della ricerca e pratica della reale uguaglianza di opportunità, contro le “idee sbagliate sulla cosiddetta ‘meritocrazia’” (LD 29-33).
———————–
Armato di queste convinzioni, come detto, Papa Francesco si recherà a Dubai nei gg. 1, 2 e 3 dicembre 2023 per implorare tutti i governanti del mondo affinché facciano qualcosa di molto preciso per salvare la Terra, la nostra casa comune. E’ una “chiamata a responsabilità” che si aggiunge ai numerosi altri appelli che il Papa fa quotidianamente per la Pace del mondo, sconvolto da innumerevoli guerre e conflitti, portatori di morte e distruzioni e anch’essi gravemente colpevoli dei disastri ambientali. Ci consola che Papa Francesco non sia solo tra i grandi leader religiosi. Non sappiamo quanti altri fisicamente parteciperanno alla Conferenza, ma è di buon auspicio il documento firmato da 28 leader religiosi il 6 novembre 2023 ad Abu Dhabi, con il quale i religiosi chiedono ai delegati mondiali un’azione decisiva per frenare il cambiamento climatico [18].
Aspettando Dubai, oltre Dubai
Altrimenti? Quanto potrà ancora accadere non è forse attendibilmente prevedibile, come continuamente afferma la stragrande maggioranza degli studiosi? Lo confermano una serie di simulazioni che sono oggi già in grado di farci vedere drammaticamente come sarà la Terra se non si interverrà con la massima urgenza, subito. Gli artisti con la loro capacità immaginifica sono in grado di farci vedere anticipatamente tutto quello che potrà accadere. Tra i tanti, il cantautore-poeta Francesco Guccini ce lo mostra in una sua bellissima e struggente canzone [19].
————————————————
Il vecchio e il bambino, di Francesco Guccini.
Un vecchio e un bambino si preser per mano
E andarono insieme incontro alla sera
La polvere rossa si alzava lontano
Il sole brillava di luce non vera
Immensa pianura sembrava arrivare
Fin dove l’occhio di un uomo poteva guardare
E tutto di intorno, non c’era nessuno
Solo il tetro contorno di torri di fumo
I due camminavano e il giorno cadeva
Il vecchio parlava, e piano piangeva
Con l’anima assente, con gli occhi bagnati
Seguiva il ricordo di miti passati
I vecchi subiscon le ingiuria degli anni
Non sanno distinguere il vero dai sogni
I vecchi non sanno nel loro pensiero
Distinguer nei sogni il falso dal vero
Il vecchio diceva guardando lontano
“Immagina questo coperto di grano
Immagina i frutti, immagina i fiori
E pensa alle voci e pensa ai colori”
E in questa pianura, fin dove si perde
Crescevano gli alberi e tutto era verde
Cadeva la pioggia, segnavano i soli
Il ritmo dell’uomo e delle stagioni
Il bimbo ristette, lo sguardo era triste
Gli occhi guardavano cose mai viste
E poi disse al vecchio con voce sognante
“Mi piaccion le fiabe, raccontane altre” [19]
————————————
Note
(Segue)
SA NOVENA de PASCH’E NADALE in CASTEDDU
A partire dal 16 dicembre, alle ore 18, la Confraternita di S. Efisio riproporrà nella chiesa dedicata al Santo, la Novena di Natale in Gregoriano, con una novità: la liturgia avverrà integralmente in lingua sarda.
Si tratta, allo stesso tempo, di un ritorno alla tradizione e di una prospettiva per il futuro. La Novena di Natale era particolarmente sentita nel quartiere di Stampace, introdotta dal solenne canto del Regem Venturum Dominum eseguito all’organo. A partire da quest’anno, l’organo accompagnerà i canti dei fedeli assieme alle launeddas, il più antico strumento musicale della Sardegna.
E’ una proiezione verso il futuro, perché, con la celebrazione della novena in lingua sarda, si vuol favorire il compimento delle novità del Concilio Vaticano II che, guardando ai segni dei tempi, ha aperto la liturgia all’uso delle lingue nazionali. La Sardegna vive proprio l’attesa – l’avvento – del riconoscimento della sua lingua anche per la celebrazione della Santa Messa. Il rapido diffondersi, in diverse località dell’Isola, della celebrazione della Novena di Natale in lingua sarda – avvenuta proprio a Cagliari nel 2008 nella Chiesa del Santo Sepolcro – spinge in tale direzione.
Nella chiesa di Sant’Efiso, assieme alla Novena, sarà inoltre possibile visitare anche lo storico presepio della Gioc, che la Confraternita di S. Efisio, negli ultimi anni, ha recuperato e riproposto.
Ogni ulteriore informazione sarà fornita il 16 dicembre, a partire dalle ore 17,30, prima dell’inizio della Novena.
Il presidente Andrea Loi
Si allega una breve introduzione all’iniziativa.
———————
PRESENTAZIONE
Quando si arrivava alla metà del mese di dicembre, la sera – nelle vie del quartiere – cominciava ad essere accompagnata dalle esplosioni di una miscela di zolfo e clorato di potassio, innescata dalle scintille prodotta dallo sfregamento di una piccola pietra levigata che, molti di noi, in quelle settimane, custodivano nella tasca di calzoni corti attillati.
La pietra veniva poggiata sul mucchietto di polvere esplosiva; poi un colpo secco con il tallone, a strisciare, provocava lo scoppio. Quegli scoppi annunciavano che era giunto il tempo delle lunghe feste di fine anno e avrebbero fatto compagnia alle nostre serate sino ai botti trionfali con i quali si salutava l’anno nuovo.
E poi c’era la Novena, in Chiesa, solennemente introdotta dal “Regem venturum Dominum”, accompagnato dall’organo in tonalità maggiore, e l’odore intenso di incenso che ci penetrava nell’anima.
I canti gregoriani si susseguivano, l’uno dopo l’altro, con l’inno “En clara vox”, gregoriano di tempi uguali che la maggior parte di noi trasformava in marcetta: e il “Tantum ergo” …
Cosa volessero dire quelle parole, naturalmente, lo sapevano solo i preti e pochi laici eruditi; ché le nostre madri, e le nostre nonne, per poter rispondere all’invocazione del celebrante, erano state costrette ad elaborare un versario, in puro vernacolo dialettale, ricco di assonanze con quella lingua sconosciuta. Così, “procedenti ab utroque”, diventava facilmente “proceddeddus a ogus trottus”. Il celebrante, di solito, non percepiva la storpiatura del testo latino, ma anche nel caso se ne avvedesse, preferiva tacere. Al Padre eterno, poi, che aveva ben altre rogne a cui badare, al più scappava un sorrisetto.
Così, tra botti, canti, luminarie, e le immancabili bancarelle, la festa prendeva vigore. L’intero quartiere di Stampace vi partecipava.
Il fatto di esordire con un richiamo all’ambiente di una Novena di Natale – che siamo in pochi, oramai, ad aver vissuto in prima persona – potrebbe suggerire l’idea che il lavoro che presentiamo sia espressione della vena nostalgica che spesso accompagna l’età avanzata. Niente di più errato.
Rispettiamo ogni nostalgia, ovviamente, a patto che non riveli incapacità di vivere il presente, ma l’intendimento di questo lavoro, che ricostruisce e traduce in lingua sarda le liturgie e i canti che hanno accompagnato l’età della nostra fanciullezza, è ben altro.
La stagione di una liturgia, spesso solenne e pomposa, per di più celebrata in una lingua incomprensibile ai più, è terminata. Anzi, a dirla tutta, è durata anche troppo.
Il Concilio Vaticano II, oltre mezzo secolo fa, ha invitato la Chiesa a saper leggere i segni dei tempi, ci ha ricordato che i laici non sono “fedeli” ma parte integrante e indispensabile delle Chiese; ci ha ricordato l’importanza della comunità ecclesiale …
E poi, finalmente, ha posto fine al tabù della lingua latina per la celebrazione, aprendo all’uso del volgare, che ha consentito una più intensa partecipazione del popolo. Grazie a quel segno di uguaglianza il celebrante ha anche smesso di dare le spalle ai “fedeli”, ha incominciato a rivolgersi ad essi “faccia a faccia” durante le celebrazioni. Tante Comunità hanno potuto tornare a nuova vita, e prosperare.
Tuttavia, il declino del latino ha lasciato il posto a volgari nobili, quelli “legittimamente approvati” e quelli che invece, come la lingua sarda, ancora attendono una “autorizzazione” che, per la verità, è stata avanzata soltanto nel 2023, nonostante le insistenti richieste di laici e sacerdoti sardi che risalgono almeno dall’ultimo decennio del secolo scorso.
Più recentemente, l’allora Arcivescovo di Cagliari mons. Arrigo Miglio ha incoraggiato con convinzione l’avvio di un percorso finalizzato al riconoscimento della piena dignità della lingua sarda nella vita della chiesa locale. Un riconoscimento che, ha affermato, “non solo è un percorso che si può compiere, ma assolutamente utile dal punto di vista pastorale e culturale”.
Ci troviamo, in questo, in perfetta sintonia con l’ammonimento di Papa Francesco che, più volte, in occasione del rito del battesimo nella Cappella Sistina, nel gennaio del 2018, ha ribadito con forza che “la trasmissione della fede soltanto può farsi in dialetto, nella lingua intima delle coppie, nel dialetto della famiglia, nel dialetto di papà e mamma, di nonno e nonna”. Di Papa Francesco che ha ricordato che Gesù parlava in aramaico, perché era naturale che un bambino cresciuto in una modesta famiglia della Galilea parlasse la lingua del popolo, e che nella sua lingua materna, quella appresa da Giuseppe e da Maria abbia spezzato il pane e versato il vino.
Vorremo, in definitiva, contribuire, al compiersi del programma del Concilio Vaticano II, sostenere gli sforzi di quanti, negli ultimi anni, si sono adoperati in questa direzione, contribuire al movimento che reclama un pieno riconoscimento della lingua sarda in ambito liturgico e per questo la Confraternita di Sant’Efisio ripropone la liturgia della novena in lingua sarda.
Alcuni cenni storici della Novena gregoriana.
La novena in gregoriano è stata eseguita, per la prima volta, a Torino, nella chiesa dell’Immacolata, affidata ai preti della Missione, nel Natale del 1720.
Su sollecitazione della Marchesa Gabriella Marolles delle Lanze, il padre Antonio Vacchetta compose una nuova Novena cantata, contenente testi delle Profezie e dei Salmi.
Dopo la prima celebrazione del 1720, la Marchesa, apprezzando la composizione, dispose un lascito di cinquemila lire per consentire che la Novena si continuasse a celebrare ogni anno.
I missionari e i preti che frequentavano la Casa della Missione, hanno poi diffuso questa Novena nelle Diocesi del Piemonte, della Lombardia e della Liguria e, successivamente, si è estesa ad altre regioni dell’Italia e del Mondo.
L’origine della Novena di Natale in lingua sarda.
La Novena in lingua sarda, ispirata al modello gregoriano, è stata celebrata per la prima volta a Cagliari, nel 2008, nella chiesa del Santo Sepolcro per iniziativa di Don Mario Cugusi, allora parroco della parrocchia di S. Eulalia, con la partecipazione del gruppo di laici che frequentava la parrocchia e con il sostegno della Fondazione Sardinia e del suo direttore Salvatore Cubeddu.
Il Concilio plenario sardo, promulgato il 1° luglio del 2001, ha rappresentato un significativo momento di svolta della Chiesa Sarda per quanto riguarda l’utilizzazione della lingua sarda nella liturgia. Mentre il Concilio Plenario del 1924, “inibiva l’uso della lingua sarda e la guardava con diffidenza”. Il Concilio del 2001, invertendo radicalmente tale orientamento, definisce la lingua sarda “un singolare strumento comunicativo della fede” e ne auspica la valorizzazione nella liturgia.
——————————
——————————
http://www.fondazionesardinia.eu/ita/?s=Sa+novena+de++nadale
———————————–——
—————————
Ma si può sperare ancora?
—————————————-
La pelle dura della speranza
L’Editoriale di Mariano Borgognoni*
Ma si può sperare ancora? Se lo chiedono in un piccolo Monastero umbro, avviandosi a vivere il tempo di Avvento e di Natale. Che cosa possiamo sperare? Si domandava Immanuel Kant a ridosso del secolo lungo, quello della scienza e del progresso. Ma il filosofo dell’Illuminismo che vedeva bene anche i limiti del lume, si poneva questa domanda in riferimento all’amara constatazione che in questa terra chi compie il bene è spesso sconfitto, deriso, umiliato. E a giusta ragione ci è quindi lecito sperare nell’esistenza di Dio che, alla fine, rimetta insieme rettitudine e felicità.
È stato un anno difficile in cui si è venuta accrescendo una rinnovata logica di potenza. L’idea che solo la forza possa regolare la vita collettiva e quella individuale. La guerra e il grande rilancio delle spese militari (fonte diretta e indiretta di morte e di povertà); la disattenzione o anche il negazionismo sulle sempre più evidenti ferite all’ecosistema e l’irresponsabilità verso i diritti delle generazioni future; l’insopportabile bollettino dei femminicidi da parte di chi non riesce a tollerare la libertà delle donne. Tutto questo ci parla del tentativo di un ritorno a una logica di dominio pericolosa e miope e ci ricorda che umani non si nasce ma si diventa e che sempre incombe il rischio di un ritorno all’homo homini lupus.
O a un suo superamento che cerchi la sicurezza nella negazione o nella riduzione della libertà, affidandosi a uomini o sistemi provvidenziali. Questo è il brodo di coltura di tutti i populismi senza popolo, i sovranismi senza sovranità, i maschilismi senza dignità.
Noi di Rocca speriamo di aver dato su questi argomenti tante chiavi di lettura e di riflessione critica. Questo è comunque sempre il nostro obiettivo e la nostra passione. Anche nel Natale di quest’anno, dentro lo sferragliare di armi vecchie e nuove, noi cristiani, ormai «piccolo resto», ricordiamo la venuta del Signore, il disarmato per eccellenza, il bambino che si affida alle nostre mani, l’uomo che si lascia inchiodare per essere per sempre vicino ai sofferenti. Il testimone di un amore più forte della morte. Su questo Messia sconfitto si fonda la speranza di quei monaci e di ogni cristiano. Un capovolgimento della «logica del mondo» tanto da essere presente nel malato, nel carcerato, nel povero, nelle vite spezzate, solo servendo le quali lo si incontra anche non riconoscendolo (Mt 25,31-46). Partire dall’autorità di coloro che soffrono per costruire percorsi di giustizia e attendere il ritorno del Signore, mettendo la speranza nella sua promessa. Una tenue, tenace e necessaria lanterna, per alludere alla splendida poesia che ci ha donato don Angelo Casati e che è il nostro augurio per le lettrici e i lettori di Rocca.
In un lontano editoriale parlammo dell’ultima rivoluzione. Si alludeva a quella gigantesca, molecolare, nonviolenta (in questo radicalmente diversa da tutte quelle che l’hanno preceduta) rivoluzione costituita dall’emancipazione e dalla libertà femminile.
Il crudele assassinio di Giulia ci ha ridetto due cose: la resistenza ormai disperata ma ancora letale del maschilismo, in alcuni casi il suo rinculo belluino, ma anche l’inarrestabilità di un processo di liberazione che può aiutare tutti a diventare più umani, a far emergere il lato femminile del mondo come una ricchezza universale. E questo chiama alla responsabilità ognuno. Tutti veniamo, abbiamo vissuto e viviamo nell’ombra lunga di un millenario paradigma patriarcale che peraltro, in molte parti del mondo, è ancora esplicito e legittimato.
Anche all’orecchio della Chiesa dovrebbe arrivare il suono di un campanello: anche de te fabula narratur. Certo Maria la madre, Maria l’amica del Signore, le forti figure di comunità che compaiono negli Atti e poi scompaiono, Chiara, le tre grandi Teresa, Caterina, Angela, Magdaline e tante, tante altre hanno trovato nella Chiesa uno spazio di libertà, hanno alzato la voce, opportune et importune. Ma come rimuovere una lunga storia di marginalità, di esaltazione del femminile subalterno e appendicolare. Resta più che mai aperta, davvero sinodale, anzi sinodante, l’esigenza di dare una spallata all’impalcatura patriarcale del clericalismo e aprire nei ministeri, nei servizi (poteri!), nella teologia, nella rilettura biblica con altri occhi, ad una primavera femminile che rompa la separatezza dei cosiddetti principi petrino e mariano e li metta in una feconda relazione. Non sarebbe solo un servizio alla Chiesa ma un formidabile segno di portata catholica.
————————————
* Su Rocca n.24 dicembre 2023 online
———————————–
Ad Assisi
———————————————————-
————————————————————-
Cattolici in Politica
Pubblichiamo il testo dell’intervento di Paolo Matta al Convegno promosso da Demos e altre formazioni politiche di ispirazione cristiana, il 6 dicembre 2023 a La Collina, Serdiana. Presente la candidata della coalizione di centro-sinistra a presidente della Sardegna, Alessandra Todde
di Paolo Matta
A tutti noi, in presenza o attraverso il mezzo televisivo, sarà capitato di sicuro di assistere a un concerto.
E di certo, al termine dell’esecuzione, fissare la nostra attenzione al direttore, specie se di fama, al primo violino o al solista, fosse l’oboe o un flauto.
A me, per un’inclinazione naturale, ha sempre suscitato curiosità e simpatia, l’intervento (magari per il tempo di una sola battuta) di strumenti forse anche insignificanti per l’armonia complessiva del brano (penso al minuscolo triangolo) ma che, invece, mantengono intatta tutta la loro dignità e importanza.
Nulla di più vuole essere questo mio intervento nello spartito dell’incontro di oggi: una piccola battuta, spero non stonata o fuori tempo.
***
A sessant’anni dal Concilio Vaticano II, moderno spartiacque della teologia e della pastorale ancora, in gran parte, inattuato forse perché mal digerito e non ancora metabolizzato, ci ritroviamo ancora a parlare (e confrontarci) di cattolici e politica, di pensiero e valori cristiani e di azione nella polis.
Parliamo, proprio alla luce del Vaticano II, di un qualcosa – la politica, appunto – definita dal Magistero pontificio (una di quelle definizioni raramente citate e ricordate) «la forma più alta di carità», sola cifra e metro di giudizio – personale e universale – una volta uscite, dalla scena di questo mondo, la fede e la speranza.
Per un credente, allora, quella alla vita politica resta “vocazione alta” assimilabile in toto a quella al sacerdozio o al matrimonio, alla vita claustrale, alla consacrazione verginale.
Un profeta dei giorni nostri, scomodo e ingombrante come tutti i profeti, don Tonino Bello, (scomparso neanche sessantenne nel 1993, consumato da una devastante forma tumorale) ebbe a scrivere: «Se uno mi chiedesse a bruciapelo di dargli una definizione di politico, non avrei esitazioni e direi: “un operatore di pace”».
Pace intesa come shalòm, non semplice assenza di conflitti, personali o tribali, ma sommatoria e sintesi di giustizia, libertà, dialogo, crescita, uguaglianza, ma soprattutto solidarietà, l’unico imperativo morale che noi credenti chiamiamo anche comunione. Pace come frutto dell’etica del volto, il vivere radicalmente il faccia a faccia con l’altro.
Pace come saper deporre l’io dalla sovranità per far posto all’altro, una deposizione che – più che fatto politico – è prima ancora un fatto di giustizia e alta moralità.
***
Se la vocazione è quella di essere operatori di pace, una delle condizioni è quella della protesta, della sana indignazione, è quella della contestazione permanente dell’ideologia, se non se ne vuole fare un idolo, il bisogno di usare del partito ma sapendo andare oltre le indicazioni e le logiche del partito, quando corre il rischio di diventare anch’esso un idolo. Quelle che, sempre il vescovo prossimo beato Tonino Bello chiamava le “sporgenze dell’utopia”.
Un’altra condizione è quella della contempl-attività, scusando il bisticcio dei termini.
Contemplativi in azione.
Donne e uomini che non si lasciano distruggere la vita dalla dimensione faccendiera, non si sperperino nella dissolvenza delle manovre di contenimento o di conquista.
***
Viviamo, ne siamo tutti consapevoli, tempi di aridità e di stanchezza.
Prendo lo spunto da alcuni versi di Pierpaolo Pasolini.
«Vi siete assuefatti voi,
servi della giustizia, leve della speranza
al voluto tacere, al calcolato parlare,
al denigrare senza odio,
all’assaltare senza amore,
alla brutalità della prudenza
e all’ipocrisia dell’amore.
Avete, accecati dal fare, servito il popolo
non nel suo cuore ma nella sua bandiera.
Dimentichi che deve, in ogni istituzione, sanguinare perché non torni mito,
e continuo il dolore della creazione».
Mai come oggi occorre riandare, con coraggio e radicalità,
alle fonti della vocazione politica, quella evangelica del sale e del lievito. Entrambi, sale e lievito, ben poca cosa, tutti prodotti che si trovano a buon mercato, a straccu barattu senza i quali, però, i cibi non avrebbero sapore, la pasta sarebbe inutilizzabile.
Un tempo ambita e protetta “riserva di caccia” (quando tutti andavano alla ricerca del voto cattolico, da destra e da sinistra) oggi viviamo invece l’epoca
del senza:
una scuola senza studenti,
una sanità senza medici,
una politica senza cittadini,
che rinunciano persino al diritto di voto.
E possiamo tranquillamente aggiungere anche:
una chiesa senza cristiani,
una famiglia senza figli.
***
Non sembri facile e accidioso catastrofismo: è, al contrario, il quadro di riferimento del documento preparatorio della prossima Settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema – altamente significativo e quanto mai pertinente – “Al cuore della democrazia” in programma a Trieste dal 3 al 7 luglio 2024, proprio a un mese esatto dall’appuntamento elettorale europeo del 6-9 giugno, decisivo per confermare o meno lo spostamento a destra dell’asse politico continentale.
Sarà, ancora una volta, dopo Cagliari e Taranto (per citare le ultime due edizioni), un grande laboratorio di partecipazione reale che, seppure parta da questi chiari segnali di riflusso al privato, da «una stanchezza che non lascia spazio alla vita comunitaria», da una «rinuncia alla fatica delle relazioni» chiede, pur tuttavia e con forza, «occhi nuovi» per scorgere la novità delle nuove forme di aggregazione e per leggere nel cuore della democrazia.
***
Scriveva Giorgio La Pira: «L’alba del terzo millennio sarà, così come fu l’alba del secondo, il tempo dei mistici e degli artisti».
“L’immaginazione al potere”, scrivevano sui muri della Sorbona gli studenti del ’68. Qualche anno dopo, Paolo VI, oggi santo della Chiesa cattolica, nell’enciclica Octogesima Adveniens affermava: «In nessun’altra epoca l’appello all’immaginazione sociale è così esplicito come nella nostra. Occorre dedicarvi sforzi di inventiva e capitali altrettanto ingenti come quelli impiegati negli armamenti o nelle imprese tecnologiche».
Mi piacerebbe concludere, allora, questa mia testimonianza con due brevissimi riferimenti ad altrettanti macro-temi che, mi pare in posizione mediaticamente marginale, stanno caratterizzando questa stagione pre-elettorale.
Insularità e difesa del creato, temi che si prestano a letture e approfondimenti non solo sociologici e politici ma anche in chiave cristiana.
***
Ho seguito, devo ammettere, con tiepido entusiasmo, via via sempre più raffreddatosi, la battaglia per l’inserimento della insularità in Costituzione.
Perché, alla fine, mi è parsa, sempre di più, manovra elitaria, bandiera di pochi (al di là di una farisaica, comoda convergenza dalle larghe intese) dalle scarse o, ancora oggi, nulle ricadute istituzionali e, men che meno, sociali ed economiche.
La Sardegna, terra nobile e antica, può configurarsi oggi – nel cuore del Mediterraneo –come un’autentica “Galilea delle genti”, crocevia di lingue, culture, commerci e scambi proprio come lo era, al tempo di Gesù, la regione fra Cesarea e il lago di Genezareth.
L’insularità può diventare allora – più che leva per sempre più stanche rivendicazioni – un autentico valore aggiunto, sale e lievito evangelici di cui si parlava, nella misura in cui sapremo declinare la disponibilità di territorio e di risorse con un’oculata accoglienza, che sappia mettere insieme emergenze e criticità con il sapere, le nuove economie e le nuove frontiere dell’intelligenza.
Ruolo fondamentale può giocarlo l’Università e tutto il sistema accademico per affermarsi come Ateneo autenticamente mediterraneo, (pensate, un auspicio contenute nelle dichiarazioni programmatiche del sindaco De Magistris risalenti appena al 1985, giusto 40 anni fa), faro sodale e solidale per tutte le terre che si affacciano sul mare nostrum per affrancarlo definitivamente, si spera, da un destino di maresanto, di liquido sarcofago per decine di migliaia di disperati e sfollati.
Questa, mi sembra, possa essere una vera battaglia di valorizzazione della nostra insularità e, forse, una delle chiavi per superare l’attuale spopolamento.
***
Altro tema che vede la Chiesa tutta, comunità in cammino dietro il suo pastore, è quello della difesa del creato, contenuta nella trilogia di Papa Francesco, “Laudato Sì’”, “Fratelli tutti” e, ultima, in ordine di tempo, “Laudate Deum”.
Parliamo di una sfida che non è solo dei credenti, ma di tutti gli uomini “di buona volontà”, sfida lanciata all’umanità intera, oramai da otto anni, da un uomo, Papa Francesco, icona vivente di cosa sia la politica per e dei cristiani.
Con buona pace di chi, presbiteri o laici, continua a essere più preoccupato delle forme e del culto, rinchiusi come sono nella loro torre d’avorio di devozioni e consuetudini in cui pensano, sperano, si illudono di circoscrivere la fede nel Risorto.
C’è una limpida correlazione tra san Francesco e Papa Francesco. Ai tempi del poverello d’Assisi la Chiesa era smarrita, diabolicamente invaghita della ricchezza e del potere.
Francesco e Chiara emersero come figure capaci di riportare tutti all’essenza del messaggio cristiano: compassione e comunione con l’uomo e con il creato.
Anche Papa Francesco ha sentito la chiamata a riparare la sua casa. Che, se per Francesco era la chiesetta di San Damiano, per Papa Francesco è una casa decisamente più grande, il globo intero.
E se c’è chi, come il segretario generale dell’ONU António Guterres, parla di “ebollizione globale” e non più di “riscaldamento globale”, anche la Laudate Deum riconosce che «forse, ci stiamo avvicinando a un punto di rottura, di non-ritorno».
Fa persino tenerezza questo papa nonno, la sua caparbietà a non arrendersi, che osa rompere gli schemi e venire in soccorso alla politica che non ha il coraggio di raccontare tutta la storia. Che continua a esortare: riproviamoci, aprite gli occhi!, non c’è più tempo, convertiamoci.
Perché il nostro futuro, il nostro solo futuro, è una questione di conversione, laica o religiosa poco importa, e non di pannelli solari.
Una conversione in cui fede e intelligenza (ma, forse, basterebbe anche il più basilare buon senso) finalmente si incontrano.
Grazie per la vostra pazienza.
—————————————————-
—————————————————-
E’ online Rocca n. 24/2023
Costituente Terra – Chiesa di tutti Chiesa dei Poveri
Costituente Terra Newsletter n. 137 del 2 novembre 2023 – Chiesadituttichiesadeipoveri Newsletter n.318 del 2 novembre 2023
QUANTI NAUFRAGI
Cari amici,
non c’è una gerarchia delle tragedie. Ma nemmeno per mettercene sul cuore una, possiamo dimenticare o tacere le altre. Perciò, mentre assistiamo attoniti alla strage di Gaza, e nel vederne svelate le finalità nel progetto dello Stato di Israele di “dislocare l’intera popolazione palestinese nel deserto del Sinai” (nonostante la memoria storica della deportazione degli ebrei a Babilonia) dedichiamo questa newsletter alle ultime notizie sui naufragi nel Mediterraneo che ci trasmette dalla ONG “Mediterranea” Mattia Ferrari: da un naufragio all’altro!
The day after. Riflessioni (e proposte) personali del “dopo Convegno”
di Franco Meloni
Il convegno su “Adriano Olivetti e la Sardegna. Attualità di una prospettiva umanistica” che si è concluso sabato 28 mattina ha sollecitato una grande quantità di approfondimenti su tematiche che si possono riproporre e su altre ulteriori, che richiedono una serie di nuove auspicabili iniziative.
Io provo ad avanzare qualche riflessione, si tratta per ora solo di suggestioni.
Innanzitutto una premessa che traggo dalla relazione del cardinale Arrigo Miglio: ci ha detto che Adriano Olivetti nella sua incessante e innovativa attività imprenditoriale, sociale e politica incontrò molti ostacoli e decisi oppositori, tra questi anche la Chiesa di Ivrea, che mal sopportava il suo intervento nel campo sociale (similmente i Sindacati, specie la Cisl, che lo vedevano invadere il proprio ambito, per non dire dei grandi partiti). Ma mons. Miglio, originario del Canavese e, in tempi più recenti del periodo di A. Olivetti, Vescovo di Ivrea, ha parlato soprattutto del rapporto con la Chiesa eporediese. Ebbene, nel tempo, i rapporti di ostilità si convertirono in collaborazione, sia con Adriano Olivetti in vita (che si convertì al cattolicesimo, non certo per convenienza, rimanendo profondamente laico), sia dopo la sua morte (1960), quando, sei anni dopo, divenne Vescovo di Ivrea mons. Luigi Bettazzi e, successivamente, mons. Arrigo Miglio. Una evoluzione analoga ha avuto in generale, in Italia, il mondo della Cultura laica, da una parte, e della Chiesa conciliare dall’altra, e non solo, dove da una contrapposizione tra laici e cattolici si è passati a un fecondo rapporto di dialogo. Ovviamente sono consapevole che il discorso è complesso e che sto ragionando per semplificazioni, che comunque mi consentono di affermare che il nostro convegno ne è una prova. Infatti, semplificando, in questo convegno si sono incontrati sostanzialmente due mondi, quello laico e quello cattolico. Gli intellettuali che hanno partecipato e animato il Convegno (relatori e no) appartengono a uno dei due mondi o a entrambi, ma, in questo ragionamento mi piace così schematizzare: Il mondo laico rappresentato dai diversi apporti dell’Università di Cagliari e di Sassari, il mondo cattolico rappresentato dagli esponenti della Facoltà teologica della Sardegna, presente sia nel comitato scientifico sia attraverso padre gesuita Giuseppe Riggio, che ha proposto – seppur costretto dalla tirannia del tempo – significative conclusioni. Lo ha fatto in una forma davvero intelligente, in quanto è riuscito a coinvolgere tutte le (poche) coraggiose persone che hanno resistito, sabato, fino alla fine del convegno, in tutto una ventina. Nel breve dibattito finale si sono registrati dieci interventi, che hanno proposto interessanti riflessioni. Io ne ho avanzate due: la prima riguarda la tematica del lavoro, molto spinosa, anzi drammatica, pensando soprattutto ai giovani e agli espulsi di ogni età dal mondo del lavoro. Il Mondo, e, in Italia, il Sud e la Sardegna in modo particolare, è afflitto dalla mancanza di lavoro, dal precariato, da compensi ai lavoratori non dignitosi, in presenza di vergognose discriminazioni e ingiustificate ineguaglianze. E, giustamente, al contrario, il Papa e la Chiesa sostengono il «lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale» (cfr Papa Francesco, Esort. apost. Evangelii gaudium, 192), concetto riproposto come titolo della 48ª Settimana Sociale dei Cattolici Italiani, tenutasi a Cagliari nei gg. 26-29 ottobre 2017, che non si discosta, anzi completa, uno dei motti programmatici, laici, del mondo del lavoro: “lavorare tutti, lavorare meno, lavorare meglio“. Adriano Olivetti praticava questi concetti, come abbiamo sentito in diverse relazioni del convegno, in modo anticipatorio rispetto alle normative attuali sul lavoro che attengono alla responsabilità sociale dell’impresa e al welfare aziendale.
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
La seconda suggestione riguarda il concetto di sussidiarietà, anche esso praticato – sebbene non chiamato nello stesso modo da Adriano Olivetti. Ricordo che il principio di sussidiarietà fu per primo introdotto dalla chiesa cattolica, precisamente nella Rerum Novarum di Leone XIII (1891). Il principio è stato “costituzionalizzato” dalla riforma costituzionale del 2001, articolo 118, laddove si parla sia di sussidiarietà verticale, che riguarda i vari livelli istituzionali: Stato, Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni e di sussidiarietà orizzontale che attiene alla partecipazione dei cittadini alla vita sociale per il raggiungimento degli interessi di carattere generale (*) Proprio basandoci su questo principio, su cui si fonda l’attività del Terzo Settore, possiamo pensare di riformare la politica, oggi tanto estranea al comune cittadino. Oggi la “Teoria di Comunità” elaborata e in certa parte sperimentata da Adriano Olivetti e dai suoi collaboratori, anche scontando dolorosi insuccessi, come il deludente risultato dell’avventura elettorale nelle Politiche del 1958, nella quale fu coinvolto il Psdaz. Proprio da quella sconfitta, superandone il trauma, poteva nascere un robusto movimento popolare sardo (ce n’è da dire e da fare!). Purtroppo la morte di Adriano Olivetti chiuse ogni possibilità per una prospettiva virtuosamente percorribile. Che il nostro Convegno ha l’ardire di rilanciare!
Ne vogliamo riparlare e costruire qualche iniziativa?
Lancio infine una proposta, che mi sembra abbiamo praticato in questa “due giorni convegnistica”, cioè una chiamata all’impegno di tutti noi (gli organizzatori), con il coinvolgimento di altri che vogliano aggiungersi, per l’istituzione anche nella nostra città di una “cattedra dei non credenti“ sul modello che tanto avuto successo e utilità, pensato e realizzato anni fa dal cardinale Carlo Maria Martini, nel suo mandato di arcivescovo di Milano. Evidentemente, mutando ciò che c’è da mutare, tenendo conto delle persone e delle risorse di cui disponiamo. L’iniziativa si iscriverebbe nei percorsi sinodali della Chiesa universale e di quella italiana e sarda.
Voglio concludere con una celebre frase, a me tanto cara, del credente cardinale Martini, in totale sintonia con il non credente filosofo Norberto Bobbio: «La differenza più importante non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa ai grandi interrogativi dell’esistenza»
————————-
(*) Cost., art.118 ult. comma (…) Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà.
————————————————————————-
Articolo pubblicato in contemporanea su Aladinpensiero e su il manifesto sardo: media partner del Convegno.
Su il manifesto sardo:
https://www.manifestosardo.org/riflessioni-del-dopo-convegno-su-adriano-olivetti-e-la-sardegna/
———————————-
Per rilanciare i contenuti del Convegno
[pagina in costruzione] Dopo i saluti istituzionali,
ha introdotto i lavori Francesca Crasta, proponendo una prospettiva filosofica alla base del pensiero olivettiano,
mentre Beniamino de’Liguori Carino, Segretario generale della Fondazione Olivetti ha parlato dell’eredità culturale di Adriano Olivetti .
PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA
PONTIFICIA FACOLTÀ TEOLOGICA – Lunedì 23 ottobre 2023 si terrà l’inaugurazione del nuovo Anno Accademico 2023-2024 della Pontificia Facoltà Teologica della Sardegna e degli Istituti Superiori di Scienze Religiose di Cagliari e di Sassari/Tempio Ampurias Euromediterraneo a essa collegati. Dopo la Concelebrazione Eucaristica, che sarà presieduta alle ore 17 nella chiesa “Cristo Re”, a Cagliari, da S.E. Mons. Giuseppe Baturi, Arcivescovo di Cagliari, con i Vescovi della Sardegna, ci sarà la consueta cerimonia nell’Aula Magna della Facoltà con la prolusione del Preside, don Mario Farci, e la proclamazione dell’apertura del nuovo Anno Accademico alla presenza dei docenti, personale e studenti della Facoltà, e di diverse autorità accademiche,
civili e militari.
- Di seguito la locandina dell’Inaugurazione dell’Anno
Accademico
Laudate Deum
ESORTAZIONE APOSTOLICA
LAUDATE DEUM
DEL SANTO PADRE FRANCESCO
A TUTTE LE PERSONE DI BUONA VOLONTÀ
SULLA CRISI CLIMATICA
——————
Il testo integrale sulla Sala stampa della Santa Sede: https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2023/10/04/0692/01509.html#ita
————————————
Quando finisce la notte?
Quando finisce la notte?
settimananews.it/ecumenismo-dialogo/quando-finisce-la-notte/
17 settembre 2023
di Tomas Halík
Il 14 settembre Tomas Halík ha tenuto una relazione in occasione della XIII Assemblea generale della Federazione luterana mondiale.
Sorelle e fratelli!
Il cristianesimo è alle soglie di una nuova riforma. Non sarà la prima, né la seconda, né l’ultima. La Chiesa è, secondo le parole di sant’Agostino, “semper reformanda“. Ma, soprattutto in momenti di grandi cambiamenti e crisi nel nostro mondo, è compito profetico della Chiesa riconoscere e rispondere alla chiamata di Dio in relazione a questi segni dei tempi.
Da Lutero, grande maestro della paradossale saggezza della croce e discepolo dei grandi mistici tedeschi, dobbiamo imparare in questi tempi a essere sensibili a come la potenza di Dio si manifesta: “sub contrario” – nelle nostre crisi e debolezze. “La mia grazia ti basta“: queste parole di Cristo all’apostolo Paolo valgono anche per noi, ogni volta che siamo tentati di perdere la speranza nelle notti buie della storia.
La riforma, la trasformazione della forma, è necessaria quando la forma ostacola il contenuto, quando inibisce il dinamismo del nucleo vivo. Il nucleo del cristianesimo è il Cristo risorto e vivente, che vive nella fede, nella speranza e nell’amore degli uomini e delle donne nella Chiesa e oltre i suoi confini visibili. Questi confini devono essere ampliati e tutte le nostre espressioni esteriori di fede devono essere trasformate se ostacolano il nostro desiderio di ascoltare e comprendere la parola di Dio.
Fratelli e sorelle
Lezione domenicale
di Gianni Loy
Sarà perché ho frequentato a lungo la Chiesa, ma ricordo che fin da giovane ho maturato anticorpi, così non mi sono mai lasciato suggestionare, e tantomeno convincere, da chi mi parla con il rosario in mano.
Sarà perché le chiese sono sempre meno frequentate che i missionari di oggi hanno ripreso ad andare per le strade, ad esibire croci, rosario e medagliette della madonna. Cercano di risvegliare il nostro sentimento di pietà, il nostro buon cuore, la nostra solidarietà.
In materia di emigrazione, per esempio. Si presentano – uno in particolar modo – in barba e camicia, per dirci che gli esuli africani e asiatici starebbero meglio a casa loro. Forse per risvegliare, in un sol colpo, pietà e solidarietà. Ma se sul congiuntivo ci ho già fatto la croce, anche il condizionale non mi convince più tanto: stanno meglio o potrebbero star meglio? Se “potrebbero star meglio” significa che a casa loro stanno male, nel senso che soffrono e muoiono, imbarcarli per riportarli indietro non mi pare la soluzione migliore.
Sempre nel nome del Signore, come ai tempi delle vecchie crociate verso il medio-oriente, agitano la guerra santa contro gli scafisti, i nuovi untori che incitano quanti starebbero meglio a casa loro a venirsene in Europa, nel paese di Bengodi. Come a dire che, se non fosse per questi mascalzoni, questi milioni di persone se ne sarebbero rimasti tranquilli a casa loro …